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martedì 31 ottobre 2023

Slam poetry, sul palco un rito collettivo di guarigione - Antonella Sinopoli

 

Si può guarire dal dolore parlando di dolore? Si possono percorrere traumi, depressioni, perdite e sentirsi comunque sollevati da una voce che te li racconta? L’esperienza di Parole in folle dimostra che questo è possibile.

Lo abbiamo sperimentato che la parola ha un ruolo terapeutico. Che pur ispirata alle ferite dell’anima diventa un balsamo proprio grazie a quel suo farsene carico.

Il progetto One Global Voice si caratterizza per lo spazio che abbiamo voluto dare non solo al concetto, ma alla pratica della parola come cura, come terapia nel disagio mentale.

Il nostro focus è stato il malessere mentale (che nella maggior parte dei casi genera da questioni di carattere sociale) raccontato dalle giovani generazioni di artisti africani dell’Africa sub-sahariana. Dove la poesia diventa atto di denuncia.

Parliamo di slam poetry e spoken word molto diffuse tra chi usa il linguaggio poetico per raccontare storie, situazioni, vite. Lo slam poetry dà a questi artisti la possibilità di esprimersi attraverso varie forme di linguaggio. Che sono appunto la parola, spesso ritmata e rimata, ma anche il movimento del corpo, lo sguardo e, naturalmente la modulazione della voce.

Tutto questo è stato pienamente vissuto dal pubblico che ha preso parte ai nostri eventi, parte conclusiva di un progetto triennale. Scorrendo le pagine di questo sito avrete il quadro completo di quello che abbiamo realizzato in questo periodo.

Il titolo, emblematico e suggestivo, della parte artistica del progetto è – appunto – Parole in folle. Il momento clou è stato lo spettacolo all’auditorium del Centro Culturale Altinate San Gaetano a Padova, il 15 ottobre. Qualche giorno prima, il 10 ottobre – in occasione della Giornata mondiale della salute mentale – si era svolta una conferenza che abbiamo organizzato in collaborazione con l’Università di Padova (Dipartimento Disll) sul tema: Parole in folle. Poesia come terapia.

Sul palco del San Gaetano, Placide Konan (Costa d’Avorio), Xabiso Vili (Sudafrica), Poetra Asantewa (Ghana), Le Duo Zeinixx & Sall Ngaary (Senegal), Gloria Riggio (Italia). I brani presentati – uno dei quali inedito per ciascun artista – erano legati e ispirati al disagio mentale.

Brani, dunque, difficili da “digerire”, spesso drammatici, disperati.

Eppure… eppure l’energia che scaturiva da ogni interpretazione, da ogni artista, ha fatto l’effetto contrario. O, meglio, quello che speravamo e andavamo dicendo nel corso degli incontri e delle conferenze che hanno preceduto lo spettacolo: ovvero, che la parola poetica può avere – ha – una funzione curativa.

Che la parola può ferire sì, ed esprimere o riportare a galla cose dolorose, ma può anche guarire. Essere mezzo di riscatto, sedare l’angoscia e trasformarla in pace. All’evento, che ha fatto il tutto esaurito, tutti – stando ai commenti che da ogni parte ci sono arrivati – hanno vissuto questa esperienza di catarsi.

E lo stesso è accaduto il giorno dopo allo spettacolo di Bologna presso lo Spazio Met di Cantieri Meticci. Ambiente diverso, nel numero dei partecipanti consentiti e nella natura del luogo. Ma l’atmosfera, appena gli artisti hanno cominciato a salire sul palco e a performare, era la stessa: silenzio, coinvolgimento, stupore. Stupore per quelle sensazioni che venivano a galla in chi stava partecipando a questa sorta di rito collettivo di guarigione.

Aver portato – per la prima volta in Italia – questi artisti ben conosciuti all’estero (e, naturalmente nei loro Paesi d’origine), ma assai meno da noi, è motivo di grande orgoglio.

Siamo convinti che questa intuizione debba proseguire. E che sia necessario trovare modi e situazioni di scambio, confronto. conoscenza reciproca. Noi ce la metteremo tutta perché questo progetto non finisca qui. Le idee sono tante e la voglia di realizzarle non manca.

Grazie, intanto, alla Fondazione Cariparo per aver creduto in un progetto ambizioso e un po’… folle.

Dopo tutto, come scriveva Alda Merini: Anche la follia merita i suoi applausi.

da qui

 


venerdì 4 agosto 2023

Oltre i confini, poesia che rivendica diritto a viaggiare degli africani - Antonella Sinopoli

 


Il diritto al movimento – e a migrare – è un diritto a senso unico. Che può e viene esercitato dai cittadini del mondo occidentale e che viene invece precluso, negato, ai cittadini di molte altre parti del mondo. In virtù di decisioni contestabili e arbitrarie, come il diniego dei visti o la classificazione dei passaporti – quelli “forti”, che permettono di viaggiare praticamente in ogni parte del mondo e quelli che valgono poco – come quelli, guarda caso di chi cerca una strada verso la salvezza utilizzando i barconi.

Chi critica i migranti lo fa, spesso, senza conoscere i motivi che li spingono a partire sfidando la sorte. Per cercare di sensibilizzare sulla “questione passaporti” Voci Globali ha aperto una raccolta firme e continua a cercare, con i suoi mezzi, quelli dell’informazione, di stimolare riflessioni e dibattiti su questa grossa iniquità che a cascata ne provoca tante altre.

Oggi lo facciamo pubblicando, su concessione dell’autrice, un toccante testo di Ruddy Morfaw – giurista camerunense e spoken word artist – che ha recitato il suo lavoro, Across Borders, in occasione della 75esima sessione ordinaria della African Commission on Human and Peoples’ Rights (ACHPR)] 

 

Com’è possibile

che devo impiegare tanti mesi, compilare un migliaio di moduli, affrontare un paio di rigetti

Solo per viaggiare per alcuni chilometri sulla stessa faccia di questo pianeta.

 

È incredibile quanto le nostre vite siano definite dai passaporti.

Che viaggiare faccia ancora scattare tanta paura e desideri

anticipatori

E che qualsiasi sia lo scopo così esoticamente definito,

sia tuttavia etichettato mentalmente come uno schema sospetto per strappare delle opportunità

intese e riservate ai fratelli dall’altro lato dei nostri confini.

Confini tracciati non da noi, ma da conquistadores fantasiosamente divinizzati

che hanno scelto e affettato in pezzi piccoli, grandi, storti

ciò che sentivano di meritare della ricchezza

di una razza,

una razza barbara nata per essere sottomessa e addomesticata.

 

Cos’è questo pezzo di carta

Pieno di timbri con emblemi e nomi di Stati esageratamente riveriti

con un viso bloccato nell’angolo della pagina che urla non sono di qui, sono un outsider

è meglio che mi controlli.

Cos’è questo pezzo di carta

Che abbiamo conosciuto soltanto qualche ora fa,

che deve definire dove andiamo e le famiglie che conosciamo,

Quando negli occhi degli sconosciuti siamo soltanto un mucchio di “persone di razza nera”

 

Cos’è questo pezzo di carta

Che conosce soltanto le divisioni eppure finge di sollecitarci a collaborare

Facendoci dimenticare che quando la prossima pandemia arriverà, non ci chiederà di metterci in fila ordinati per tribù o per nomina.

Ecco perché voi ed io dovremmo essere in collera:

1.      Sono trascorsi più di cinquant’anni, e ci stiamo ancora domandando se vada bene stringersi la mano e abbracciarsi quando abbiamo approvato legami più stretti e relazioni non indispensabili con gli stessi contro i quali stiamo lottando per dimostrare la nostra tesi

2.      Abbiamo adorato l’integrità territoriale troppo a lungo, massacrato la speranza all’interno delle sue mura, e siamo riusciti a rimanere isolati al punto da aver perso la capacità di mischiarci e commerciare per il nostro bene.

E perché:

3.      Mentre a volte ci dichiariamo tutti panafricani, scegliamo ancora in silenzio la nostra nazionalità egoista e i pregiudizi di Stato per scacciare altri come noi, consolando il nostro ego con narrazioni poco credibili secondo le quali loro non meritano i nostri Stati “migliori” e “più sviluppati”.

 

Ma si spera, accadde solo un tempo che fummo egoisti,

Perché le dichiarazioni sull’unità e la collaborazione con la diaspora vanno avanti ormai da tempo.

Ma sebbene non siamo ingenui sul significato di tutto questo

Poiché, come la storia ci ha insegnato, anche i regni più potenti vanno incontro al loro destino e hanno i loro problemi,

Sappiamo che non dobbiamo giocare in piccoli gruppi e squadre da prima divisione quando potremmo essere nella Premier League,

Che non abbiamo bisogno di celebrare la bandiera dell’indipendenza con un forte scotch

per poi rimanere sommersi, decennio dopo decennio, dal sudiciume della nostra stessa ubriachezza,

che dimentichiamo com’era essere sottomessi e insultati,

Che non dobbiamo definire la forza e l’autorità con l’individualità delle nostre piccole entità

e guardare con disgusto l’Unione che abbiamo creato da tempo come alla quintessenza dell’unica grande Africa la cui infanzia è finita.

 

Tuttavia potremo ottenere tutto ciò soltanto in uno spazio continentale che riconosca

Che industrie, ospedali, mercati, ferrovie e scuole

Non sono semplicemente luoghi e cose che i pigri cittadini usano per chiedere più libertà e diritti

O che scegliere la pace, la sicurezza e il cibo

Sia un favore sacrificale offerto come elemosina ai poveri e ai bisognosi.

 

Abbiamo bisogno di uno spazio che riconosca pienamente

Che la ratifica di convenzioni e l’implementazione delle politiche non sono affari diplomatici decorativi

Ma l’opportunità per un’Africa migliore per le nostre speranze e per quelle dei nostri figli.

Solo le nostre speranze, oggi, possono davvero creare il più grande movimento e libero commercio continentale

Perché attingere senza sosta alle nostre paure e ai nostri pregiudizi a ogni tavolo di negoziati

Non sarà mai una promessa sufficiente a far continuare le celebrazioni.

Per questo oso dirvi

 

nelle nostre lotte, se c’è una cosa che voi ed io meritiamo

È certamente il coraggio di vivere questo sogno africano.

 ******

Traduzione di Gaia Resta

da qui

 


mercoledì 22 dicembre 2021

Parlano le donne migranti, quei viaggi segnati da violenze e abusi - Katie Kuschminder

  

[Traduzione a cura di Valentina Gruarin dell’articolo originale di Katie Kuschminder pubblicato su The Conversation]

 

C’erano sette donne e tre bambini tra le 27 persone che hanno tragicamente perso la vita nella Manica questa settimana [l’articolo è stato pubblicato il 26 novembre, NdT].

Moltissime donne, con i loro bambini, cercano una nuova vita in Europa: al 21 novembre di quest’anno, il 27,1% dei migranti giunti via mare nel Mediterraneo sono donne o bambini.

Il canale della Manica rappresenta un’ultima pericolosa traversata dopo viaggi che spesso sono lunghi, insidiosi e violenti.

La recente notizia di queste tragiche morti è arrivata alla vigilia del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La triste ironia è che la violenza è una delle principali ragioni per cui le donne scelgono di intraprendere pericolosi viaggi di migrazione, incontrando però spesso violenze anche durante il percorso e a destinazione.

In molti casi, questa violenza non viene denunciata per paura di rappresaglie o stigma. Questo non solo impedisce loro di ricevere il sostegno di cui hanno bisogno, ma ostacola anche la raccolta di dati accurati a riguardo.

È il motivo per cui con altre sette esperte (nel team è presente anche un ricercatore) del World Universities Network ci siamo riunite per lavorare a un progetto che riguarda le donne, la migrazione e le loro storie di resilienza; abbiamo intervistato circa 150 donne e stiamo pubblicando i loro racconti in un progetto di storytelling collaborativo.

Violenza a casa

Una delle mie colleghe, Marina de Regt, ha condotto uno studio sulle giovani ragazze in Etiopia che decidono di emigrare lontano da casa. Principalmente, queste donne si allontanano dal Paese di origine per sfuggire alla violenza di genere per mano dei loro patrigni, zie o zii, o per evitare i matrimoni forzati. Più del 40% delle donne etiopi sono sposate, o hanno una relazione, prima dei 18 anni.

All’età di 13 anni, a Selam è stata data una scelta: “Lasciare la scuola, sposarsi o andare con sua zia a Khartoum“. La giovane donna ha spiegato:

“Le ragazze che avevano 15 anni e non erano sposate, erano considerate vecchie. Inoltre, c’erano molte ragazze che venivano violentate a scuola e rimanevano incinte. Molto probabilmente i miei nonni volevano proteggermi: avevano paura che rimanessi incinta e che nessuno poi volesse sposarmi.”

Selam ha scelto di emigrare per sfuggire al matrimonio infantile. Nonostante fosse un’eccellente studentessa, la famiglia di Selam vedeva la scuola come un rischio per la sua castità. In Etiopia, le ragazze sono vulnerabili alla violenza sessuale anche a scuola; se fosse stata violentata, Selam avrebbe perso ogni prospettiva di matrimonio.

In Etiopia, i matrimoni combinati sono ancora comuni, soprattutto nelle zone rurali dove le ragazze spesso non prendono autonomamente la decisione di convolare a nozze e sono obbligate a sposare uomini molto più grandi.

Così lei si è trovata di fronte a ben poche opzioni: essere una sposa bambina o correre il rischio di emigrare in Sudan.

Violenza in viaggio

La mia ricerca, condotta con la collega Talitha Dubow, esamina i viaggi dei rifugiati che arrivano in Europa tramite la rotta del Mediterraneo centrale, percorrendo la Libia, o la rotta del Mediterraneo orientale, attraversando la Turchia e i Balcani occidentali. Le donne ci hanno raccontato che, in diverse fasi del viaggio, sono state soggette a violenti abusi da parte di guardie di frontiera, trafficanti o rapitori, trovandosi faccia a faccia con la morte per annegamento, subendo maltrattamenti e soffrendo la fame.

Bahar, una giovane afghana intervistata in Turchia, ha spiegato che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) le aveva recentemente offerto il reinsediamento negli Stati Uniti. Il processo avrebbe richiesto dai quattro ai cinque anni e, in quel momento, Bahar stava ricevendo minacce dal suo ex-marito violento che aveva già aggredito lei e la sua famiglia in Afghanistan.

Bahar stava quindi pianificando un viaggio irregolare verso l’UE perché, anche se avrebbe preferito scegliere l’opzione statunitense, aveva paura di quello che il suo ex-marito avrebbe fatto a lei e a suo figlio se fossero rimasti ancora in Turchia.

Sapeva che il suo viaggio verso l’UE avrebbe potuto essere fatale ma, ha affermato: “Devo davvero correre questo rischio. Non ho altra scelta“.

Violenza a destinazione

Anche una volta arrivate a destinazione, le donne migranti non sono necessariamente libere. La marriage migration – migrazione a scopo di matrimonio –  è aumentata negli ultimi anni. Questo aumento ha avuto luogo soprattutto in Asia. Per le donne vietnamite in condizioni di  povertà, ad esempio, la migrazione per matrimonio a Taiwan rappresenta la possibilità di una vita migliore.

La mia collega Su-Lin Yu ha condotto un’ampia ricerca sulle vietnamite che emigrano a Taiwan per sposare uomini taiwanesi. Dal 1997, più di 520.000 donne si sono recate a Taiwan per sposarsi, un numero significativo per una popolazione di circa 24 milioni di persone.

Su-Lin Yu ha scoperto che le donne vietnamite sono vulnerabili a molteplici forme di violenza, compresi gli abusi psico-fisici da parte dei loro mariti e, in alcuni casi, anche le molestie sessuali da parte di altri membri maschili della famiglia. Un’intervistata ha dichiarato:

“A volte tornava a casa verso le due o le tre del mattino e litigava con me. Ha iniziato a picchiarmi verso il terzo mese di gravidanza. Mi picchiava quando ero incinta. I miei suoceri lo sapevano, ma non mi hanno aiutato.”

Le donne migranti dipendono dai loro mariti. Si è scoperto che i mariti violenti trattengono i passaporti delle loro mogli come mezzo di controllo per impedire loro di richiedere la cittadinanza taiwanese e per trattenerle all’interno di un ciclo di abusi. Queste donne sono spesso isolate, con pochi mezzi per cercare aiuto.

A livello globale, esse hanno molte più probabilità, rispetto agli uomini, di essere uccise dai partner: costituiscono circa l’82% delle vittime per violenza di genere.

Porre fine alla violenza

La morte di 27 persone nella Manica, tra cui una donna incinta e diversi bambini, è tragica. Dobbiamo riconoscere che le donne migrano ogni giorno per sfuggire alla violenza e a una probabile morte, rischiando consapevolmente la loro vita per trovare luoghi sicuri e la possibilità di vivere una vita libera. Troppo spesso si tratta di sforzi vani, poiché finiscono in situazioni di ulteriore violenza o perdono la vita nel tragitto o a destinazione.

Noi tutti possiamo aiutare sostenendo le donne migranti. Dobbiamo creare insieme spazi sicuri per loro, luoghi che possano fornire servizi di supporto incentrati sulla sopravvivenza e dove si sentano protette e libere di condividere le loro storie.

Ci si augura che, condividendo alcuni dei racconti delle donne con cui abbiamo parlato, la consapevolezza di questa crisi – e il desiderio di fare qualcosa al riguardo – aumenti, ponendo i presupposti per azioni concrete di prevenzione, supporto e protezione.

da qui

venerdì 12 novembre 2021

Passaporti, basta privilegi

Rivedere politica dei visti e garantire libertà di movimento a tutti i cittadini del mondo.

I cittadini dei Paesi del Sud del mondo, quelli aggrovigliati in conflitti che sembrano non aver fine, quelli dove povertà, effetti della crisi climatica, autoritarismi e guerre intestine stanno incidendo sull’aumento costante di sfollati e rifugiati interni.

Tutti questi cittadini sono anche le principali vittime del deterioramento di un diritto fondamentale, quello alla mobilità.

Un diritto che trova riconoscimento nelle Carte Costituzionali dei Paesi occidentali, nella Carta dei Diritti dell’Unione Europea e nella stessa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Diritto che però, di fatto, consente solo ai cittadini dei Paesi ricchi, per lo più nell’emisfero occidentale del pianeta, di viaggiare, prendere aerei, decidere qualsiasi meta. Qualsiasi meta il suo passaporto gli garantisca.

Periodicamente i Passport Index, strumenti che classificano i passaporti e identificano quelli most powerful e quelli least powerful, mostrano in tutta la loro evidenza il gap del diritto al movimento tra i Paesi ricchi e quelli cosiddetti in via di sviluppo – divario che in periodo di pandemia non ha fatto che allargarsi. In sostanza ci sono milioni di esseri umani per i quali non solo è molto difficile e costoso ottenere un passaporto ma, una volta ottenuto, è difficile avere un visto per viaggiare in altri Paesi del mondo.

Non si tratta semplicemente di cittadini di serie A e cittadini di serie B. Il discrimine, piuttosto, è tra cittadini/individui liberi e cittadini/individui tenuti “in catene”. E per i quali, spesso, l’unico modo per liberarsi dal giogo è tentare la sorte, tirando a dadi lungo la strada del deserto, quella del Mediterraneo, quella dei confini armati, murati, spinati.

“Disattenti” (potremmo dire) sul deterioramento sostanziale del diritto alla mobilità, sono gli Stati – rappresentati dalle Ambasciate –  che negli anni hanno operato sempre più restrizioni nel rilascio dei visti. Nella politica dei passaporti – e dei visti – dunque, non sembra valere il meccanismo della reciprocità tra gli Stati.

E così a fronte di passaporti “potenti” come quelli, per esempio, degli Emirati Arabi Uniti, giapponese, tedesco, italiano per i quali è consentito viaggiare nella maggior parte dei Paesi del mondo senza richiedere un visto, ce ne sono altri che non valgono quasi nulla e sono quelli rilasciati in Paesi da tempo in confitto: Siria, Yemen, Afghanistan, Sudan e molti delle cosiddette aree in via di Sviluppo, primo fra tutti il continente africano, da cui, non a caso parte ogni giorno un numero imprecisato di migranti in cerca di asilo o di fortuna. Migranti definiti clandestini, illegali, ma che non hanno modo di muoversi in altro modo.

Viviamo in un’epoca che tende ad agevolare la ricchezza e il potere, alzare barriere di ogni tipo, operare divisioni, e poi trascurare gli effetti di queste politiche: disuguaglianza, povertà, disturbi mentali, disagio sociale, conflitti. Così aumentano le migrazioni forzate e pericolose.

Riteniamo ingiusto che milioni di persone siano prigioniere nei loro Paesi, che non abbiano diritto a viaggiare, cambiare la propria vita, cercare altre strade. Proprio così come fanno tutti quegli altri a cui questo diritto è concesso.

Se non si porrà fine alla disuguaglianza del diritto alla mobilità tutte le altre disparità tra esseri umani non diminuiranno. E non sarà l’esternalizzazione delle frontiere a fermare il movimento migratorio. Riflettiamo su quanto la migrazione cosiddetta irregolare avvenga, prima di tutto, a causa delle ingiustizie sociali. E sia resa “irregolare” dall’impossibilità di godere di un diritto universale.

Ci appelliamo alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, al presidente Parlamento Europeo, David-Maria Sassoli, al presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana, Mario Draghi e ai leader dei Governi europei affinché si apra un dibattito serio per rivedere la politica dei visti, consentendo ai cittadini africani e del resto del mondo che oggi non hanno la possibilità di viaggiare legalmente lo stesso diritto e libertà di movimento che hanno gli europei.

 

Oggi è più urgente che mai una mobilitazione seria – e altrettanti interventi legislativi – che tocchino alla radice una disuguaglianza il cui risultato è la perdita di vite umane ogni anno e continue tensioni sociali.

All’iniziativa – promossa da Antonella Sinopoli e da Voci Globali APS insieme ad Articolo 21  – aderiscono come primi firmatari:
Paola Barretta, Laura Silvia Battaglia, Mauro Biani, Andrea Billau, Valerio Cataldi, Francesco Cavalli, Tiziana Ciavardini, Fiorella Civardi, Gherardo Colombo, Stefano Corradino, Danilo De Biasio, Davide Demichelis, Claudio Geymonat, Sabrina Giannini, Gian Mario Gillio, Giuseppe Giulietti, Mariangela Gritta Grainer, Elisa Marincola, Anna Meli, Mara Filippi Morrione, Antonella Napoli, Alessandro Rocca, Luciano Scalettari, Claudia Segre, Cecilia Strada, Mussie Zerai

e le seguenti associazioni / testate: Carta di Roma, Circolo Articolo21 Piemonte, Festival dei Diritti umani (FDU), Focus On Africa, Hic SuntLeones: Dalla parte di Nice, Nigrizia, Radio Voce nel Deserto (Rovigo), ResQSaving People, Spazi Circolari…

https://vociglobali.it/passaporti-basta-privilegi-appello/


lunedì 5 luglio 2021

Hostage of Europe, la trappola fatale del sistema di asilo europeo - Camilla Donzelli

 

 

L’appuntamento con Anwar è nella piazza principale del quartiere di Atene in cui abito. Dopo qualche giorno di contrattazione via mail, ha accettato di incontrarmi per rilasciare un’intervista. Lo riconosco subito: ha in spalla un grosso zaino e una custodia cilindrica contenente il banner che accompagna tutti i suoi sit-in, e indossa una maglietta a righe che ho già visto molte volte nelle foto pubblicate sui suoi canali social.

Hostage of Europe. Questo il nome della pagina Facebook di Anwar Nillufary, 34 anni, esule forzato da 15. Tre parole che riassumono perfettamente il suo percorso travagliato da richiedente asilo prima e da rifugiato poi. Tre parole che potrebbero essere probabilmente utilizzate per descrivere l’esperienza di moltissime altre persone in movimento, loro malgrado rimaste impigliate nella tela di ragno del sistema di asilo europeo.

È proprio tramite Facebook che sono venuta a conoscenza della storia di Anwar. La pagina che gestisce è lo strumento principale con cui documenta le sue proteste quotidiane. Ogni giorno – ormai da diversi anni – carica video e fotografie che lo ritraggono sotto alla sede degli uffici di qualche organizzazione internazionale, istituzione greca o ambasciata straniera. Nei suoi post descrive dettagliatamente le dinamiche che è costretto a fronteggiare, cercando di tenere viva l’attenzione sul suo caso e cercando, soprattutto, di ottenere delle risposte.

Anwar è ora seduto davanti a me, palesemente provato dall’ennesima giornata inconcludente. Gli chiedo se voglia dell’acqua; mi risponde di no. Ho la sensazione che abbia una grande urgenza di raccontare. La mia impressione si rivela corretta: Anwar parla per oltre due ore, senza sosta, senza tralasciare nemmeno il più piccolo dettaglio.

Mi racconta di aver lasciato il suo Paese di origine, l’Iran, all’età di 18 anni. Vittima di persecuzioni a sfondo politico e impossibilitato ad ottenere un passaporto iraniano, raggiunge il Nord dell’Iraq illegalmente, rischiando la vita durante l’attraversamento del confine. Lì si laurea da ingegnere civile e trova lavoro in una società di costruzioni. La paga è buona, e Anwar comincia a pregustare la possibilità di stabilizzarsi.

Ma ben presto le pressioni politiche si fanno sentire anche in Iraq. Anwar comincia a ricevere minacce, e alla società per cui lavora viene intimato di licenziarlo. L’unica via percorribile è ancora una volta la fuga. Anwar vorrebbe raggiungere gli Stati Uniti o il Canada con un visto, ma senza un passaporto è impossibile. Essendo residente in Iraq da diversi anni prova ad ottenere un documento iracheno, ma la procedura non va a buon fine.

Determinato ad evitare a tutti i costi quella fuga nell’illegalità di cui ha già suo malgrado fatto esperienza e che lo ha quasi portato alla morte, si rivolge allora agli uffici di UNHCR a Baghdad. Spiega loro la sua situazione, chiedendo un aiuto per essere ricollocato legalmente in un Paese in cui la sua vita non sia a rischio. Anche qui, nessuna risposta.

A quel punto ho dovuto fare una scelta, dice Anwar. Nessun documento, nessun lavoro, no soldi. Avevo bisogno di una vita stabile. Tutti hanno diritto a stabilità e sicurezza, e sia in Iran che in Iraq questo diritto mi era stato negato. Quindi sono dovuto scappare, ancora una volta illegalmente. Fino a quel momento non avevo nemmeno lontanamente preso in considerazione l’ipotesi Europa. Non era assolutamente nei miei piani, ma ho dovuto.

Anwar raggiunge la Grecia nel settembre del 2014, percorrendo quel sentiero ad imbuto che ad oggi è l’unica via per penetrare la Fortezza Europa.

Mettendomi in contatto con dei trafficanti ho raggiunto la Turchia, e da Izmir mi sono imbarcato verso le coste greche con un gruppo di altre persone. Una volta sbarcati sull’isola di Kos, mi sono separato dal gruppo e ho raggiunto la cima della montagna vicina per far asciugare i vestiti – completamente bagnati dopo la traversata. In qualche modo è stata la mia fortuna, perché in quel frangente il gruppo si è incamminato verso il villaggio vicino e lungo la strada sono stati tutti catturati dalla polizia.

Dopo aver passato due notti nei boschi dell’isola mi sono messo in contatto con il trafficante ad Atene, il quale mi ha a sua volta dato il contatto di una donna greca residente a Kos pagata per comprare biglietti a nome suo e permettere così ai richiedenti asilo di lasciare l’isola. Così, con in mano un biglietto a nome greco e senza bisogno di mostrare i miei documenti, ho preso il traghetto e sono arrivato ad Atene.

Ciò di cui Anwar parla altro non è che il risultato del cosiddetto “approccio hotspot”, introdotto a livello europeo nel 2015. Tale sistema consiste nella creazione di strutture di primissima accoglienza – gli hotspot, per l’appunto – in prossimità di zone di frontiera, con l’intento di rinforzare e velocizzare le procedure di identificazione, registrazione e smistamento dei richiedenti asilo.

Il sistema hotspot è al momento operativo in Italia e Grecia e, stando a quanto si legge nel documento esplicativo pubblicato dal Parlamento Europeo, sarebbe funzionale a supportare quei Paesi europei che si trovano a fronteggiare ingenti flussi migratori, snellendo l’iter e offrendo l’assistenza di agenzie europee specializzate quali Frontex, Europol ed EASO.

Nella realtà, il sistema hotspot rappresenta l’ennesimo dispositivo di controllo che comprime enormemente i diritti delle persone in movimento. Basti pensare al ruolo di Frontex: secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’organizzazione Mare Liberum, nel solo anno 2020 l’agenzia europea incaricata del controllo delle frontiere ha preso parte attiva al respingimento di oltre 9.000 persone in transito dalle coste turche a quelle greche.

Ma non solo. Nel quadro legislativo nazionale greco il sistema hotspot si è tradotto in una sorta di riserva geografica, in base alla quale i richiedenti asilo entrati in Grecia tramite le isole sono vincolati alla permanenza nel luogo di sbarco. Ciò significa che chi  fa domanda di protezione internazionale su un’isola greca lì dovrà rimanere fino alla definizione della procedura – che ha mediamente una durata molto lunga. E le condizioni di vita nei campi collocati sulle isole egee sono tristemente note.

D’altra parte, basta dare un’occhiata alla distribuzione geografica dei centri hotspot per capirne la logica: marginalizzare il più possibile – nel senso più letterale e fisico del termine – chi giunge in Europa in cerca di rifugio, circoscrivendone all’estremo la possibilità di movimento per poter agevolmente operare eventuali respingimenti o deportazioni.

Per questo Anwar può definirsi relativamente fortunato. La mancata cattura da parte della polizia gli ha risparmiato la registrazione forzata sull’isola di Kos, permettendogli così di trovare uno stratagemma per raggiungere la capitale greca e provare a raggiungere la destinazione realmente desiderata.

Ad Atene ho raggiunto la casa del trafficante. Lo avevo già pagato, ma a quel punto ha cominciato a chiedermi altri soldi. L’accordo iniziale era di 2.500 euro – il prezzo stabilito per attraversare il confine fra Grecia e Turchia. Alla fine ho speso 7.000 euro, con la promessa di poter raggiungere il Canada. Sempre per vie illegali, ovviamente. 

In quel momento non avevo idea di come funzionasse il sistema in Europa. Non avevo altra scelta che fidarmi dei trafficanti. 

Ma una volta vista la situazione ad Atene ho capito che non sarebbe finita bene quindi, di nuovo, mi sono dato da fare per cercare una soluzione alternativa. Ho cercato di mettermi in contatto con UNHCR, con l’Ambasciata americana e con l’Ambasciata australiana tramite email, spiegando loro che ero sopravvissuto ad un viaggio in mare e che in quel momento mi trovavo nelle mani di un trafficante. Nessuna risposta.

Dopo essermi recato personalmente presso gli uffici di UNHCR ed essere stato mandato via malamente dagli agenti della sicurezza privata, sono riuscito a recuperare un numero di telefono e a parlare con qualcuno. Ricordo di aver specificato chiaramente che non volevo rimanere in Grecia, perché la mia breve permanenza prima a Kos e poi ad Atene mi aveva già dato un assaggio di ciò che mi aspettava. In più, nella casa del trafficante avevo sentito molte brutte storie che avevano confermato il mio presentimento. 

Mi dissero di non preoccuparmi, spiegandomi che l’unica via legale per me era fare richiesta di asilo in Grecia, attendere la fine della procedura e, una volta ottenuti i documenti, trasferirmi nel Paese di mia scelta. Ho poi scoperto che non era vero: il sistema non funziona affatto così. 

Anwar ha ragione. Il sistema d’asilo europeo è fondamentalmente una trappola. E se lo volessimo pensare come una trappola composta da più marchingegni, il Regolamento Dublino sarebbe di sicuro la tagliola che azzoppa il malcapitato, impedendogli di muoversi.

Il Trattato di Dublino – entrato in vigore nel 1997 e successivamente modificato nel 2003 e nel 2013, ma sempre rimasto invariato nella sostanza – è quel documento che stabilisce le regole e i meccanismi atti a determinare lo Stato competente all’esame di una domanda di asilo presentata in uno dei Paesi membri dell’Unione Europea.

Specificamente pensato per prevenire il fenomeno del cosiddetto asylum shopping (ovvero la pratica di fare richiesta di asilo in più Paesi diversi), il Trattato prevede il principio del Paese di primo approdo: la presa in carico della richiesta di asilo ricade sullo stato europeo in cui il richiedente ha effettuato il primo ingresso. Ciò si traduce in una fisiologica congestione dei Paesi sud-europei – in primis Grecia e Italia -, Paesi i cui scarsi strumenti di welfare rappresentano un grosso ostacolo per l’accoglienza e il successivo percorso di stabilizzazione di chi giunge in cerca di rifugio.

La chiave per l’applicazione concreta del Trattato è il sistema Eurodac, una banca dati condivisa a livello europeo in cui ciascuno Stato può accedere alle informazioni rilevanti (dati personali, impronte digitali, frontiera di ingresso) per verificare se un richiedente abbia già fatto domanda da un’altra parte o meno. In caso positivo, il Regolamento prevede che la persona in questione venga rispedita nel Paese risultato responsabile della presa in carico della procedura.

Ma non finisce qua. Anche quando la procedura si conclude con il riconoscimento dello status di rifugiato – e quindi con il rilascio di un permesso di soggiorno e di un titolo di viaggio equipollente ad un passaporto – spostarsi in un Paese che non sia quello in cui l’iter è stato espletato è molto difficile.

Il quadro legislativo europeo stabilisce infatti che i titolari di protezione internazionale possano soggiornare in Stati esteri per un massimo di tre mesi e solo per ragioni di turismo. Nel caso in cui l’intenzione sia quella di trasferirsi in maniera stabile e svolgere attività lavorativa, il percorso da seguire è lungo e insidioso: occorre rinunciare alla protezione ottenuta – e quindi ai documenti rilasciati – e aprire una procedura ex novo nel Paese prescelto, procedura che ovviamente varia per meccanismi e tempistiche in base alla cornice legislativa nazionale.

Anwar è venuto a conoscenza di tutti questi cavilli a proprie spese.

Decisi di fare richiesta in Grecia, con l’idea di partire non appena avessi ottenuto i documenti. Dopo 10 mesi di attesa mi venne riconosciuto lo status di rifugiato. In quell’arco di tempo avevo continuato a tenermi in contatto con UNHCR e le ambasciate di Canada e USA per chiedere loro di aiutarmi non appena i miei documenti fossero stati pronti. L’Ambasciata canadese mi disse che la sede di Atene non si occupava della lavorazione di questo tipo di richieste, e che mi sarei dovuto rivolgere agli uffici di Roma.

Così feci. Il giorno stesso in cui ritirai il mio permesso di soggiorno e il mio titolo di viaggio partii per l’Italia. Raggiunsi immediatamente l’ufficio immigrazione dell’Ambasciata canadese, e lì mi dissero che avevo bisogno di un referral scritto e firmato da UNHCR. Così mi recai agli uffici UNHCR di Roma, dove mi dissero che per il referral avevano a loro volta bisogno di una richiesta scritta da parte dell’Ambasciata. Andò avanti così per giorni, con un rimpallo continuo di responsabilità da una parte all’altra.

Il soggiorno a Roma mi stava costando troppo, e data la situazione di stallo mi sembrava uno spreco di risorse economiche. Non vedevo soluzioni all’orizzonte. Pensai così di raggiungere il Regno Unito e fare richiesta di asilo lì.

Mi diressi verso la Francia e raggiunsi Calais, dove passai una notte con l’intento di attraversare il canale della Manica. Quella notte fu sufficiente per farmi cambiare idea: vidi la situazione nell’accampamento [“la giungla”, al tempo il più grande accampamento informale d’Europa, ndr] e parlai con molte persone che mi raccontarono storie orribili. Capii che non era il caso di fare quel tentativo.

La mattina successiva presi il primo treno e mi diressi verso Nord. Dopo due giorni di viaggio mi ritrovai in Svezia. Senza averlo pianificato, senza alcun tipo di contatto, senza conoscere la lingua e senza un posto dove stare. Mi sentivo completamente spaesato. Stavo solo seguendo il fluire disordinato delle cose, senza avere la possibilità di programmare niente. Non ero preparato per nulla di tutto quello che stava accadendo. 

A Stoccolma mi rivolsi all’ufficio immigrazione. Mi portarono in un centro di accoglienza, e dopo due giorni venni convocato per la prima intervista. Le domande furono solo due: mi chiesero se avessi mai fatto richiesta di asilo in un altro Paese europeo e se fossi in possesso di qualche documento rilasciato dal suddetto eventuale Paese. La mia risposta ad entrambe le domande fu ovviamente sì. Mi dissero immediatamente che il mio caso in Svezia era chiuso e che rientravo nel Regolamento di Dublino. 

Mi portarono in un villaggio vicino a Uppsala, in un centro di detenzione, dove rimasi per due mesi in attesa di essere rispedito in Grecia. Mi misi in contatto con varie organizzazioni – Caritas, No one is illegal, ecc. – per ottenere del supporto legale ed evitare la deportazione, ma non ottenni alcuna risposta. 

Trovandomi in un vicolo cieco, cominciai uno sciopero della fame. Ma anche questo non servì a nulla. Il giorno della deportazione mi misero su un aereo, consegnarono tutta la mia documentazione al pilota e mi dissero: le autorità greche ti stanno aspettando. 

Per farsi un’idea dell’impatto concreto del Trattato di Dublino, basta dare uno sguardo alle statistiche pubblicate da Eurostat. I dati disponibili più recenti sono relativi all’anno 2019, e riguardano le richieste di trasferimento da un Paese europeo all’altro ai sensi del Regolamento.

L’Italia è lo Stato membro che ha ricevuto più richieste di ripresa in carico: ben 34.921. Un numero davvero notevole, se si considera che l’ammontare totale delle persone approdate sulle coste italiane nel biennio 2018-2019 è inferiore: 34.842.

Seguono la Germania, con 23.710 richieste; la Grecia, con 13.382 richieste; e la Francia, con 10.668 richieste. Numeri considerevoli, a cui corrispondono altrettante deportazioni e, soprattutto, altrettanti progetti migratori puntualmente frustrati.

Come il piano di Anwar, che dopo tanta fatica si ritrova nuovamente al punto di partenza.

Non appena atterrato ad Atene la polizia mi prelevò al gate dell’aeroporto e mi portò alla vicina centrale, dove venni trattenuto per svariate ore. Una volta libero mi misi immediatamente, nuovamente in contatto con UNHCR. E di nuovo, nessuna riposta.

O meglio: l’unica risposta che ottenevo era la polizia, che puntualmente veniva a prelevarmi sotto gli uffici di UNHCR – dove io chiedevo soltanto di poter parlare con qualcuno! – mi portava alla centrale, mi perquisiva e mi tratteneva per ore in uno stanzino sporco. Tutto questo accadeva abitualmente, senza che nessuno alzasse un dito o semplicemente desse un cenno di riposta alle mie richieste.

Nel frattempo stavo cercando aiuto presso altre organizzazioni non governative greche facendo telefonate, mandando mail e recandomi personalmente presso le loro sedi. Avevo bisogno di supporto legale: nulla. Avevo bisogno di un posto dove stare: nulla. Avevo bisogno di supporto economico: nulla. Tutto questo andò avanti per un anno e mezzo, fino a che non arrivai a pensare che tutto quello che stavo passando era pura follia. 

Nel marzo del 2017 mi procurai una tenda e delle coperte e mi piantai davanti alla sede di UNHCR. Cominciai il mio primo sciopero della fame, durato 64 giorni. Anche in quei due mesi, benché fossi allo stremo delle forze, qualcuno da dentro gli uffici si ostinava a chiamare la polizia. E tutti i giorni, almeno tre volte al giorno, venivo prelevato e trattenuto per ore nella cella della centrale. In quel periodo persi anche la mia prima tenda – il mio unico riparo. Distrutta dalla polizia, il primo giorno di sciopero della fame. 

Al termine dello sciopero, grazie anche al supporto di un gruppo di rifugiati, Anwar riesce ad ottenere un colloquio con dei funzionari di UNHCR.

Mi dissero che non avevano uno specifico programma di ricollocamento, ma che avevano la possibilità di fare una richiesta speciale in circostanze particolari. Tuttavia, non avevano intenzione di applicare questa opzione al mio caso perché altrimenti troppe altre persone si sarebbero rivolte a loro chiedendo la stessa cosa. In sostanza mi stavano dicendo: sappiamo bene che le condizioni di vita qui in Grecia sono dure, ma abbiamo deliberatamente deciso di non soddisfare la tua richiesta per non creare un precedente.

Alla fine del colloquio mi dissero che, nonostante quanto specificato, c’era una piccolissima, remota possibilità di lavorazione del mio caso. Ma avrebbero avuto bisogno di tempo. Due anni, mi dissero. E aggiunsero che non mi sarei dovuto aspettare alcun tipo di assistenza in quest’arco di tempo.

Fu a quel punto che cominciai a farmi pubblicità da solo, aprendo i miei canali social per raccontare quello che mi stava succedendo. Continuai la mia protesta quotidiana sotto la sede di UNHCR. Continuarono gli arresti da parte della polizia, le perquisizioni, il sequestro e la distruzione dei miei effetti personali. Mi venne recapitata anche una diffida emanata del Tribunale, in cui si stabiliva che dovevo mantenermi ad almeno tre metri di distanza dalla porta d’ingresso dell’ufficio.

Tutto questo andò avanti per parecchio tempo, fino a che non passammo al livello successivo: le denunce e i conseguenti processi in Tribunale. Ad oggi sono stato costretto a comparire davanti ad un giudice 24 volte e incarcerato 5 volte. 

Nel 2018 sono stato rinchiuso in un centro di deportazione. Lo scorso anno ho perso la mia quinta tenda, distrutta insieme a tutti i miei effetti personali (coperte, telefono, cibo) mentre mi trovavo di nuovo in detenzione. Tutto questo solo per aver condotto una protesta pacifica sotto gli uffici di UNHCR. Protesta che, se si fosse conclusa con l’ascolto delle mie legittime richieste, non si sarebbe di certo prolungata così tanto.

Nell’estate del 2020 Anwar annuncia un nuovo sciopero della fame, interrotto dopo 73 giorni perché un gruppo di persone residenti in Canada gli offre aiuto per il ricollocamento tramite il sistema di sponsorship. Nel frattempo riesce anche ad ottenere un po’ di visibilità su alcuni media mediorientali, e avvia una campagna di raccolta fondi per coprire le spese di sopravvivenza.

Al termine dello sciopero Anwar subisce due ospedalizzazioni. La sua salute è in condizioni veramente precarie, rischia quasi la vita. I medici gli comunicano che la prolungata astinenza dal cibo ha causato delle serissime ripercussioni sul suo organismo, e che da questo momento in poi dovrà fare molta attenzione e seguire una dieta specifica.

Nel frattempo l’emergenza Covid è scoppiata nuovamente, e la Grecia piomba in un lockdown completo. Anwar necessita di riposo, e in più la situazione generale gli impedisce di proseguire con le sue proteste. Trova riparo a casa di una donna greca che gli aveva dato una mano durante l’ospedalizzazione, e utilizza buona parte dei soldi ricevuti con le donazioni per pagare l’affitto e procurarsi nuovamente i dispositivi elettronici che gli servono.

Contestualmente la già debole attenzione mediatica sul suo caso si spegne del tutto, e quelle persone che dal Canada gli avevano promesso aiuto ritrattano.

Dopo la fine del lockdown, all’inizio del 2021, Anwar si ritrova di nuovo per strada. Ancora una volta, completamente solo. E ancora una volta, determinato a farsi ascoltare.

Continuerò a fare quello che sto facendo fino a che non avrò prosciugato l’ultimo centesimo dei soldi che ho, dopodiché sarò probabilmente costretto ad annunciare un nuovo sciopero della fame. Non so precisamente quando, ma sono certo che accadrà. Non ho altra scelta.

Ogni giorno vado a protestare sotto qualche ufficio e cerco di raccogliere qualche firma per la mia petizione. La sera mi reco alla Libreria Nazionale Greca, l’unico posto dove posso utilizzare l’elettricità per ricaricare i miei dispositivi elettronici e il wifi per aggiornare i miei canali social con foto e video. Quando finisco, solitamente a tarda notte, piazzo il mio sacco a pelo nei cespugli vicino all’edificio e dormo lì. La mattina successiva tutto ricomincia. Questa è la mia vita ora. L’hanno resa una beffa.

Cosa succederà? Non lo so. Risolveranno il mio problema? Non lo so. Qualcuno sarà disposto ad ascoltare quello che ho da dire? Non lo so. Tutto quello che so è che sto chiedendo riposte ovunque, a tutti. Ho scritto email, fatto telefonate, parlato con così tante persone. Sono un beneficiario di protezione internazionale e sto solamente chiedendo di poter avere una vita stabile e dignitosa in un posto che sia in grado di offrirmi delle possibilità in questo senso. Voglio lavorare, studiare. Voglio avere una vita normale. 

L’esperienza di Anwar è rappresentativa. Svela tutte le falle e i paradossi del sistema di asilo europeo, un meccanismo nominalmente legale, ma sostanzialmente generatore primario di situazioni di illegalità: Anwar costretto ad affidarsi a dei trafficanti per raggiungere l’Europa, data la totale assenza di altri canali; Anwar costretto a lasciare l’isola di Kos con uno stratagemma; Anwar che vaga per l’Europa e si ritrova in Svezia, dove la sua permanenza è inammissibile ai sensi del Regolamento di Dublino; Anwar che mi confessa di aver smesso di rinnovare i suoi documenti greci perché non ne vede l’utilità.

Sorgono anche delle domande sul ruolo di organizzazioni internazionali come UNHCR (già messo in discussione a seguito di quanto emerso circa il loro operato in zone come la Libia, o nel processo di esternalizzazione delle frontiere europee), il cui mandato è teoricamente quello di garantire protezione a richiedenti asilo e rifugiati, lavorando nel loro esclusivo interesse.

La storia di Anwar getta delle ombre sui principi fondanti di tali organismi, e viene da chiedersi se il loro operato non sia in qualche modo double face: da una parte, soddisfare la naturale necessità di un agire etico di fronte alle richieste di aiuto di esseri umani in difficoltà; dall’altra, mantenere quello status quo che agli Stati-nazione tanto sta a cuore.

Per chiudere con le parole di Anwar:

Non sto chiedendo nulla di impossibile. Sto chiedendo qualcosa che è un mio diritto. Non capisco tutta questa ostinazione. Non siete in grado di offrirmi ciò di cui ho bisogno? Bene, lasciatemi libero di andare da un’altra parte. Perché trattenermi qui e costringermi ad affrontare tutto questo?

 

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