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giovedì 29 settembre 2022

Disabilità in costante aumento? - Daniele Novara

  

Era ora che una rivista di grande prestigio e diffusione come Tuttoscuola affrontasse uno dei nodi più critici e sconvolgenti del panorama scolastico italiano degli ultimi vent’anni: l’aumento delle neurodiagnosi di disabilità. Siamo su numeri davvero imbarazzanti: 277.840 nell’anno in corso (2021) su una popolazione di 7.407.312, ossia circa il 3,8 per cento degli alunni ha o avrebbe disabilità, finendo sotto il cappello della Legge 104 e pertanto necessita dell’insegnante di sostegno e dell’assistente educativo. Si tratta della legge generale sulla disabilità che si usa anche per gli anziani, una legge che, in caso di basso reddito, dà diritto a un assegno e, nel caso di lavoro dipendente, a tre giorni di assenza dal posto di lavoro.

Chi sono questi alunni con disabilità? Questi 280 mila alunni/e che vivono sotto l’ombrello scolastico della disabilità? L’immaginario va alla carrozzina, l’immaginario va al bambino o ragazzo con grave deficit cognitivo; l’immaginario va – infine – al bambino Down. Dimentichiamocene. Sono in stragrande maggioranza disabilità su neurodiagnosi riguardanti stati emotivi o psicoemotivi e stati comportamentali. Si tratta di sigle che cominciano a entrare nell’immaginario collettivo: ADHD che la vulgata traduce in ipercinetismo; DOP per il disturbo oppositivo provocatorio; specialmente, negli ultimissimi anni, il boom dell’ASD, il cosiddetto spettro autistico, anch’esso su base emotiva e comportamentale. In altre parole, sono bambini, ragazzi, alunni che non si presentano in maniera molto dissimile da tutti gli altri, non hanno subito traumi alla nascita, ma si comportano “male”. Le loro emozioni sono eccessive, hanno reazioni parossistiche, il grado di adesione alla vita scolastica è basso, a volte molto basso. Nel giro di un tempo abbastanza rapido (dieci-quindici anni), nella scuola italiana è scomparso l’alunno cosiddetto “difficile”. Tutti gli insegnanti che hanno lavorato negli anni Settanta-Novanta ne avevano uno in classe: complicato da gestire, che provocava, che non seguiva alla lettera le attività proposte, che disturbava i compagni e che interveniva mentre l’insegnante stava spiegando, o tentava di farlo. Insomma, un soggetto un po’ terribile, una specie di Lucignolo. A un certo punto, questi monelli non sono più stati tollerati, non tanto sotto il profilo disciplinare, ma sotto un altro profilo: il loro comportamento “trasgressivo” non è più stato considerato un disturbo all’attività scolastica, ma un disturbo in quanto tale, ossia una malattia, altrimenti detta “disturbo neuropsichiatrico”. Ribaltando quindi la percezione del bambino da “alunno che disturba” ad “alunno che ha un disturbo”.

Ed ecco che tanti genitori si sentono raggiungere dalla frase “Fatelo vedere…”. E non si tratta di farlo vedere dal pediatra, bensì dal neuropsichiatra infantile, ovvero da colui che studia, cerca e cura le malattie mentali.

Ritengo che sarebbe molto più utile indagare quale educazione ricevono questi alunni. I genitori devono prendere in continuazione decisioni educative: andrebbero preparati, andrebbero date loro informazioni al riguardo, meglio se appena escono dai reparti di maternità. La mancanza di informazioni pedagogiche attendibili sta compromettendo l’educazione dei nostri figli e la situazione viene risolta stabilendo che sono malati.

 

Vediamo un caso in cui il problema psichiatrico e il problema educativo vengono confusi: Filippo è un bambino di sei anni, ha iniziato la prima elementare da un mese circa, i genitori ricevono dalle insegnanti un avviso sul diario per un colloquio urgente. Filippo fa fatica, non ascolta, si muove in continuazione, corre per la classe, fa dispetti ai compagni. Le maestre non ce la fanno da sole e invitano i genitori a recarsi all’Asl di riferimento per una visita neuropsichiatrica. Inizia così un iter che porterà Filippo sulla strada della neurodiagnosi e dell’insegnante di sostegno. Nessuno si preoccupa del tipo di educazione che Filippo sta ricevendo in casa.

Dorme regolarmente nel lettone con i genitori, la mamma lo veste il mattino prima di andare a scuola perché il bambino ci mette troppo tempo e spesso gli prepara un biberon di latte e biscotti che finisce di bere sulla macchina. Lo pulisce anche in bagno perché lui non lo sa fare bene. Quando torna da scuola passa almeno due ore (e nel weekend molto di più) davanti al tablet, che possiede dall’età di tre anni. Usa liberamente il cellulare dei genitori per cercare giochi o vedere video divertenti. In tutto dorme otto ore perché prima delle 22,30 non vuole mai andare a dormire (perdendo in questo modo almeno un’ora di sonno ogni notte). La mamma lo chiama «amore» e lo bacia spesso sulle labbra. Al parco non ci vanno quasi mai perché il bambino si lamenta che gli altri lo prendono in giro.[1]

Sono passati oltre quarant’anni da quando, nel 1977, l’Italia decise di chiudere le classi differenziali per alunni con lievi ritardi o con problemi di condotta o in situazioni di disagio sociale e famigliare e svuotare le scuole speciali per sordi, ciechi e anormali psichici. Con questa legge, la 517/77 – che arrivò ancora prima della chiusura dei manicomi – furono abolite quelle classi in cui venivano concentrati i bambini con disabilità, in genere con ritardo cognitivo, e venne introdotto l’insegnante di sostegno nella gestione della didattica. Nel frattempo, è cresciuto di anno in anno il processo di medicalizzazione delle nuove generazioni.

Scambiare l’immaturià infantile, che è fisiologica e imprescindibile, con un disturbo neuropsichiatrico è quanto mai un azzardo.

Se il bambino non è più un bambino in quanto tale, ma un paziente, la sua natura e la sua energia infantile si spengono per adeguarsi a un eccesso di definizione diagnostica.

Un intervento di rafforzamento pedagogico dedicato ai genitori e alla famiglia sarebbe più efficace rispetto al porre una specie di marchio sui bambini che finiscono per essere reputati “diversi” dai genitori stessi.

Va inoltre segnalato che tanti sistemi diagnostici non sono completamente affidabili e andrebbero applicati con maggiore prudenza. Il rischio è che l’alunno, invece di attingere alle proprie potenzialità, resti sempre in attesa di un aiuto esterno che possa sostituirsi a lui, finendo addirittura per indentificarsi non tanto con le risorse che ha in sé quanto con la loro mancanza, riconoscendosi in uno status precario.

Come spiega Michele Zappella, tra i primi in Italia ad affrontare i disturbi dell’autismo:

“In poco più di due decenni, l’epidemia di autismo ha moltiplicato le diagnosi fino a quasi settanta volte, il tutto senza tenere presente che nei primi anni di vita ci sono variazioni della norma, difficoltà transitorie nel comportamento e vari disturbi del neuro-sviluppo. I disturbi specifici del linguaggio e i disturbi d’ansia sociale vengono spesso scambiati per disturbi autistici. Ci sono bambini normali che possono essere chiamati in causa da implacabili cacciatori di autismo. È necessario avere ben chiari quali sono gli aspetti centrali di ognuna di queste condizioni e situazioni, comprese in primo luogo quelle in cui c’è un comportamento autistico”.[2]

La rinuncia educativa sembra essere una sorta di profonda combinazione fra la paura dei genitori rispetto alle proprie responsabilità e la stanchezza della scuola nel momento in cui si dovrebbe impegnare in favore di quegli alunni che più di altri hanno bisogno di aiuto. Invece di aumentare le certificazioni neurodiagnostiche, è il caso di sostenere i genitori nelle loro funzioni educative, dando informazioni adeguate, chiarendo dubbi e favorendo il gioco di squadra, evitando così di trasformare l’ambiente scolastico da comunità di apprendimento a luogo di terapia. Occorre sostenere gli insegnanti e le scuole che sanno lavorare sul versante educativo piuttosto che su quello diagnostico.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1. Novara, I bambini non sono malati, sono bambini. recuperare il ruolo educativo adulto per evitare la patologizzazione dell’infanzia, in “Minori e giustizia. Rivista interdisciplinare di studi giuridici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia”, n. 3/2019
2. Novara, L’immaturità infantile non può diventare una diagnosi, in “Psicologia clinica dello sviluppo”, a. XXIV, n. 1 aprile 2020, pag. 91-96
3. Novara, Non è colpa dei bambini. Perché la scuola sta rinunciando a educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare. Subito., BUR-Rizzoli, Milano 2017
4. Zappella, Bambini con l’etichetta. Dislessici, autistici e iperattivi: cattive diagnosi ed esclusione, Feltrinelli, Milano 2021
[1] D. Novara, I bambini sono sempre gli ultimi. Come le istituzioni si stanno dimenticando del nostro futuro, BUR-Rizzoli, Milano 2020
[2] M. Zappella, Quando l’autismo è una falsa diagnosi, in «Conflitti. Rivista italiana di ricerca e formazione psicopedagogica», n. 4, 2018, pp. 48-50.

da qui

mercoledì 16 dicembre 2020

Tetrabondi, di Valentina Perniciaro

 

Diamo un senso a questa giornata mondiale della disabilità?

Il 3 dicembre è la giornata internazionale delle persone con disabilità e tutti sembrano ossessionati dal voler raccontare una storia di disperazione, di speranza, di tenacia. Mai qualcuno che ci chiede di vita, desideri, progetti, gioie o battaglie. Come se la vita di un disabile fosse solo una richiesta di cura ed assistenza, invece che la richiesta e la necessità di godere di una piena cittadinanza, della fruizione di diritti tutti, di costruzione di percorsi di libertà, di autonomia, di conquista dei propri desideri. E’ come quando fai una foto, ma è fuori fuoco.

Ripensare, riscrivere il concetto di disabilità comporta una vera e propria rivoluzione culturale.

Un sovvertimento necessario di prospettiva in cui dobbiamo abbandonare il pensiero che la disabilità sia solo fragilità, assistenza e cura; far uscire il mondo dei disabili da un’aurea innaturale dove sembra dover esistere solo protezione, silenzio e protezione.
Per chi incontra la disabilità dalla nascita o da poco dopo, vuol dire crescere e diventare adulti senza mai una prospettiva di poterlo essere, continuamente assoggettati ad una continua infantilizzazione, in cui mai si diventa protagonisti. Quel che vogliamo non è solo esser accarezzati, compatiti, protetti: vogliamo essere persone a pari livello, vogliamo godere dei nostri diritti, accedere ai nostri bisogni, vogliamo diventare adulti e quindi, come tutti gli altri, mutare prospettive, lavoro quotidiano, aspirazioni, affetti, vogliamo divertirci, vogliamo il vento in faccia.
Una società accessibile non è quella che ci monta una rampa per accedere in un luogo dove nulla ci è permesso, dove non possiamo interagire, dove non ci vengono forniti gli strumenti necessari per comprendere, per fruirne e farne parte anche attivamente; una società accessibile è quella dove anche noi possiamo scegliere chi essere e diventare.
Cambiare il paradigma con cui affrontiamo la disabilità, modellare il mondo secondo i propri bisogni specifici: permettere di aspirare alla libertà, alla felicità, alla vita adulta, all’autodeterminazione.
E allora è inutile riempirsi la bocca con queste giornate mondiali se non si capisce che grande rivoluzione c’è da fare, se non si esce dalla retorica pietosa.

Per questo ci serve l’aiuto di ognuno di voi, per questo serve cambiare prospettiva con cui si guarda al disabile, alla riabilitazione, al “dopo di noi” di cui tanto ci si riempie la bocca. Costruire comunità, costruire collettività, alleggerire le famiglie che affrontano questa vita : solo quella è l’inclusione possibile che possa permettere pieno godimento dei propri diritti. Che son di tutti sapete, anche di chi non ha facilità ad esprimerlo, o lo fa a modo suo, o proprio non lo fa.

da qui

 


7 anni e una tetraparesi spastica: non sono io, ma un piccolo detenuto. Lo liberiamo?

 E’ incredibile l’attenzione che i media mi rivolgono,

e che mi hanno rivolto soprattutto in occasione, due giorni fa, 3 dicembre, della Giornata Internazionale delle persone con disabilità. Solamente il giorno dopo, ieri sera, ho scoperto una storia che mi ha fatto passare una notte burrascosa.

Perché mentre i giornali parlano di disabilità, del tanto carino guerriero Sirio che grazie ad un percorso di vita, assistenza e neuroriabilitazione domiciliare è riuscito a conquistare cose impensabili, c’e un bimbo, della mia stessa età e con la mia stessa diagnosi, che giace abbandonato da 30 giorni senza alcuna assistenza, nell’hotspot di Pozzallo, dove vengono detenuti i migranti sbarcati a Lampedusa.
E allora mi innervosisco che tutti amate il mio hashtag #inculoallostatovegetativo se c’è una sola persona al mondo che non ha diritto di provare a conquistare la vita, e di vivere quella che ha con dignità.
Parliamo di un bambino nato sano come me, che sano ha vissuto i suoi primi due mesi di vita, fino al momento che una meningite gli ha mangiato molte delle sue capacità: ora ha una tetraparesi spastica (come me), è epilettico e ha bisogno di assistenza specializzata.
E’ il motivo per cui suo padre ha deciso di mettersi in mare,
di mettere se stesso e suo figlio malato su un barcone in cerca di cure, in cerca di una possibilità per suo figlio.

Ci riempiamo la bocca di retorica, sulle mamme coraggio, sulle famiglie che affrontano tempeste per proteggere i loro figli disabili e garantirgli diritti e poi non guardiamo, non accogliamo, non abbracciamo chi la tempesta la affronta sul serio, chi rischia di morire affogato insieme a suo figlio per dargli una possibilità.
Quello che faremmo tutti noi.
Beh allora dobbiamo mobilitarci, ognuno come può, con tutte le energie possibili, per liberare questo bambino da uno stato di detenzione in un luogo per soli adulti, un luogo di detenzione dove non ci sono condizioni igienico sanitarie umane, dove non si ha proprio idea di cosa siano.
Serve sbloccare questa situazione immediatamente : la registrazione delle persone in arrivo da Lampedusa viene effettuata a blocchi di 10/20/30 persone e basta un solo positivo tra loro per mettere tutti in isolamento fino alla negativizzazione di tutti i componenti del blocco. Questo delirio burocratico causa l’isolamento di questo bambino da 30 giorni: non possiamo accettarlo.

Si deve assolutamente fornire un permesso di soggiorno per questo padre, che possa assistere suo figlio per tutto il tempo necessario e con tutte le garanzie del caso, e che questo bambino sia valutato, preso in carico, e possa iniziare un percorso di riabilitazione che gli permetta di conquistare tutto quello che può e di vivere dignitosamente. E qui chiamiamo in carico direttamente gli ospedali pediatrici più importanti del paese come il Bambin Gesù, il Meyer, o il Gaslini.

Diamo dignità a questo bambino. IMMEDIATAMENTE

Sono sbarcati a Lampedusa il 9 novembre,
da quel giorno c’è un bambino gravemente disabile abbandonato in un luogo che ha tutte le caratteristiche di un lager, e dove oltretutto non è consentita la permanenza di minori,
7 anni, tetraparesi spastica da meningite, quadro epilettico: portatore di un busto di gesso che avvolge anche la zona genitale, il bambino ha avuto diversi problemi per giorni ad urinare ed è stato lasciato bagnato, senza cambio vestiti (né latte).

Non è il mondo dove voglio vivere,
non è il mondo dove venite a chiedermi cos’è la disabilità e cosa pretendiamo dal mondo, perché sempre e solo questo vi risponderò: che non c’è essere umano che non deve aver diritto alla vita, alla possibilità di provarci, alla dignità.

AGGIORNAMENTI:

Lunedì 7 dicembre, dopo tampone negativo, il bambino dovrebbe arrivare al Bambin Gesù insieme a suo padre.

da qui

 


“Vi racconto il mio Sirio, la star storta dei social”

di Luigi Gaetani,
La Repubblica, 3 dicembre 2020

Nella giornata della disabilità parla Valentina Perniciaro, la mamma del bimbo di 7 anni, tetraplegico, che oggi ha migliaia di amici e follower. “Una mattina è finito in coma, ora sta imparando a leggere e scrivere. Su internet parla a modo suo, io lo interpreto. Ho chiesto aiuto, da sola non ce l’avrei mai fatta”“Non chiamatemi mamma coraggio, perché non lo sono, né voglio esserlo. Sono esattamente il contrario, semmai: una che ammette che da sola non ce l’avrebbe mai fatta. Il mio coraggio, se c’è, sta nel fatto che ho combattuto per essere aiutata”.

 

Valentina Perniciaro, 38 anni, è la mamma di Sirio, il bimbo di sette anni, affetto da tetraparesi, che è diventato una star dei social, con migliaia di amici e follower su Facebook (“Sirio e i tetrabondi”), Twitter (@Tetrabondi) e Instagram. E che con i suoi video divertenti e ironici ha avviato una piccola rivoluzione nell’approccio alla disabilità.

Tutto è iniziato una mattina di sette anni fa.
“Sirio nasce sano, sanissimo, con quasi due mesi di anticipo. Sta talmente bene – nonostante sia prematuro – che la Neonatologia del Bambin Gesù di Roma lo dimette un mese prima del previsto. Torniamo a casa, ma dopo qualche giorno in cui sembra tutto a posto, una mattina, lo troviamo praticamente morto nel letto. Così inizia questo delirio. In ospedale lo mettono in coma farmacologico e in ipotermia, lui non si risveglia per giorni. E arriva la sentenza: rimarrà in stato vegetativo per sempre, attaccato a una macchina per tutta la vita”.


Poi, però, qualcosa cambia.
“A un certo punto ha aperto gli occhi. Ha dimostrato di essere presente, anche se immobile, senza possibilità di deglutire. Nel corso della neuro-riabilitazione, abbiamo iniziato a capire che con lo sguardo agganciava gli oggetti che gli venivano messi davanti e li seguiva con gli occhi. Da lì è iniziato un lungo percorso, non solo motorio, ma anche e soprattutto cognitivo, in cui, giorno dopo giorno, abbiamo strappato presenza, capacità di scegliere, rispondere. E siamo ancora in ballo. All’inizio non credevamo di arrivare così lontano, con un bambino che riesce a stare in piedi e che sta imparando a leggere e a scrivere. Che sa raccontarsi e farsi capire, anche se a modo suo. Ha fatto un salto di qualità immenso, anche se ci sono cose che ad oggi sappiamo che non potrà mai fare, come mangiare, parlare o sorridere. Era una storia che comunque andava raccontata”.

Come nasce l’idea di sbarcare sui social?
“Quando vivi una cosa del genere vai in rete a cercarti delle nuove piazze dove incontrare famiglie come la tua, per capire la nuova vita che affronterai. Ne ho trovate tante di piazze virtuali, ma tutte omologate su un concetto che rifiuto: quello della ‘croce’ che qualcuno ti ha mandato e del bimbo ‘angelo’ e ‘speciale’, la cui vita ruota intorno all’amore immenso e salvifico della mamma. È un atteggiamento che rispetto alla disabilità spesso è molto passivo, si vive aspettando il miracolo. Io non passo il tempo a pregare. Il nostro hashtag è #inculoallostatovegetativo. Ci abbiamo provato in tutti i modi e alla fine, almeno in parte, Sirio c’è riuscito”.

Un atteggiamento rivoluzionario. 
“Siamo in rete a raccontare che esistiamo e non siamo carini – o meglio, lo siamo a modo nostro –, siamo storti, bavosetti, emettiamo strani suoni, non c’è niente al posto giusto. La nostra è una vita normale, ma con delle differenze, una vita che prima o poi dovrà crescere. Un disabile non è un eterno bimbo da accarezzare. Questi ragazzini diventeranno degli adulti e dobbiamo dare loro degli strumenti per sopravvivere in un mondo che prima o poi non li accarezzerà più, perché non saranno più angioletti come adesso. È ovvio che serve una legge per il “dopo di noi”, ma non basta. Sirio non vuole solo essere curato e assistito, vuole divertirsi, vuole correre, cadere”.

Oggi è la giornata della disabilità, e il vostro esempio può dare un segnale politico importante.
“È proprio quello che cerco di fare. Una questione così intima e devastante come la disabilità di un figlio vorrei trasformarla in qualcosa che abbia un valore collettivo, politico. Sì, l’amore della famiglia è bellissimo, ma se fossimo stati soli, io e il papà di Sirio – che ora si occupa di lui a tempo pieno –, non ce l’avremmo mai fatta. Non saremmo mai riusciti a farlo integrare, a mandarlo a scuola, a staccare, a respirare. Basta con la retorica, una famiglia da sola non ce la fa ad affrontare la disabilità, è un problema che si deve pendere in carico tutta la società”.

Quel è il segreto del successo di Sirio?
“Di solito sono sempre i normodotati a raccontare i disabili. Il fatto di farlo parlare – anche se virtualmente, perché sono io che parlo e rispondo – ha una grande potenza, le persone creano un legame con lui. Però io Sirio non me lo invento, semmai lo interpreto. E lui ha grandi capacità comunicative, è divertente, è un buffone. Sfreccia sulla sua macchina elettrica. È perfettamente consapevole dei suoi limiti e se ne frega. E la sua voce è diventata la voce di tanti altri come lui”.

Qualcuno vi ha mai accusato di “mettere in mostra” vostro figlio?
“Di attacchi non ne abbiamo ricevuti, a parte un paio, ma la rete è piena di matti, quindi non ci ho fatto molto caso. Anche perché è nato tutto come un gioco, con Sirio e con il mio figlio maggiore, Nilo, e loro sono molto partecipi. Quello che mi interessa è avviare un percorso di conoscenza della disabilità. Mi hanno scritto migliaia di famiglie come la mia, ma anche migliaia di persone che non sapevano nemmeno cosa significa vivere con una tracheostomia. Il giorno in cui anche la disabilità sarà vista come una delle tante differenze, con cui si può e si deve convivere, avrò raggiunto il mio obiettivo. Accusarci di voler speculare sarebbe folle”.

Nei vostri video, insieme a Sirio, c’è spesso, appunto, il fratello Nilo. 
“Ha dieci anni, è quello che in gergo tecnico si chiama sibling, il fratello di un disabile. La sua vita, come la nostra, è stata sconvolta dall’arrivo di Sirio. Nilo è la nostra forza, è il grimaldello che ci ha aperto le porte del mondo. È iniziata con lui l’idea di mettersi in rete e raccontarsi. Ed è grazie a lui se abbiamo iniziato a uscire di casa con Sirio. Molti genitori che hanno un figlio con una grave disabilità non si infilerebbero mai in un parco giochi, a farsi guardare senza sapere cosa rispondere, a sentirsi genitori a metà. Lui ci ha insegnato tantissimo: ascoltare la naturalezza con cui, a quattro anni, spiegava una tracheostomia o un arresto cardiaco ai compagni. Cose che anche tu, adulto, avresti difficoltà a dire. A quel punto pensi: ‘Se ce la fa lui, ce la posso fare anche io’. Ora si trascina orgoglioso suo fratello per mano, e se ne frega degli altri. È sempre lui che mi ha ispirato per il nome da dare al nostro blog e ai nostri profili social. Nella mia vita precedente ho sempre viaggiato tantissimo, per anni ho vissuto in Siria, anche per questo Sirio si chiama così. A Nilo dicevo sempre che avremmo girato il mondo con un food truck, visto che cucino bene. Poi è nato Sirio e la nostra prospettiva è cambiata. Da vagabondi siamo diventati Tetrabondi. È rimasta l’idea del vagabondaggio. Solo un po’ più storto”.

da qui

 

 

“Irene sta carina”: la disabilità gravissima e il vento nei capelli

TITOLO: IRENE STA CARINA Una vita a metà
AUTORE: Anna Claudia Cartoni
CASA EDITRICE : HARPO
DATA DI PUBBLICAZIONE: Ottobre 2020

Oggi voglio raccontarvi una storia,
una storia che in molte cose si può sovrapporre la mia: il racconto di una vita non certo fortunata, iniziata con una scalata ghiacciata, senza molti appigli da afferrare per mettersi in salvo. Voglio raccontarvi le emozioni travolgenti che il libro “Irene sta carina, una vita a metà” ha portato dentro di noi: righe di una madre mai arresa e lucida, righe di una madre che parla come la mia, che come la mia viene dilaniata dal dolore di una figlia che non avrà mai una vita “normale”, una figlia che mai assaporerà la stupefacenza della libertà.

Anna Claudia Cartoni, insieme al suo compagno Fernando, ci raccontano due anni interi dentro una rianimazione, interrotti solamente da una breve illusione di felicità, proprio come noi.

Anche Irene, come me, ha il suo giorno maledetto,
in cui il sole si è spento e tutto è mutato per sempre, un giorno in cui il sole si è allontanato cambiando per sempre la temperatura del cosmo; in cui le mura di casa, conquistate da poco e a fatica, dopo mesi di ricovero iniziale per una serie di interventi e successive complicazioni, diventano ancora una volta un miraggio sfocato,
Per un tempo sconosciuto.

Due anni.
Due anni di vita dentro una rianimazione non sono facili da raccontare, ma Anna Claudia ha la capacità di farci sentire suoni e odori di quei mesi in un limbo devastante, in un non luogo dove il tempo sembra fermo e invece scorre lo stesso, ignaro delle fatiche di chi aspetta davanti quelle porte. Vite di attesa per poter assistere i propri figli, vite di genitori e metà che non possono abbracciare, non possono addormentare, non possono cullare, non possono condividere. Vite di genitori che assistono alla sofferenza silenziosa dei loro figli. Vite sospese tra continui alti e bassi, di tubi e ventilazioni meccaniche, di crolli e risalite, di incontri.
La rianimazione, le sue sale d’attesa, gli occhi degli altri genitori, i passi contati verso il bar, o verso una terrazza che osservi la città scorrere regolarmente: questo libro ci racconta anche quel senso di protezione che quei luoghi regalano a questi genitori a metà, quel senso di protezione che è l’ennesima cosa che si sbriciola quando poi si torna a casa sul serio, con una vita tutta nuova da comprendere.

Ci racconta l’importanza degli incontri, della condivisione con le altre famiglie, l’importanza della conoscenza che permette a questi genitori di imparare ad essere tante cose: essere un po’ chirurghi, un po’ neuropsichiatri, un po’ rianimatori, fisioterapisti, logopedisti. Vite mutate per sempre che non si possono arrendere,
Vite per sempre diverse che non hanno la possibilità di crollare, che devono mantenere la forza della propria presenza sorridente accanto ai loro figli in trincea, che lottano per afferrare la vita in qualche modo.
Anna Claudia non si affida al miracolo,
proprio come noi. Anna Claudia affida il corpo e il sorriso e gli occhi di sua figlia, alla tenacia e alla lotta, alla capacità di saper chiedere aiuto senza sentirsi sconfitti, all’umiltà coraggiosa di capire che l’amore di una famiglia non può bastare per riuscire ad afferrare dignitosamente la vita.
Irene torna a casa con un’ambulanza ed una grande equipe, che ancora è lì, accanto a lei, dopo quasi 15 anni: questo libro ci racconta chiaramente l’importanza dell’assistenza infermieristica domiciliare, ci racconta come dovrebbe essere la gestione di un paziente simile, per anni, tra le mura della sua casa e non solo, cosa vuol dire prendersi in carico una vita come Irene, e a chi compete.
Un libro che ci racconta le battaglie quotidiane per ottenere diritti che permettano non solo ad Irene, ma anche a tutta la sua famiglia, di resistere, di non annullarsi come essere umani, di essere parte di una comunità. Un libro che ha il coraggio di raccontare l’importanza di evadere, di trovare i propri spazi, di saper ricaricare le proprie energie, necessarie per la vita d’eterno genitore che si percorre. La mamma di Irene definisce “il mondo degli altri” quello che scorre normale, a velocità supersonica, senza necessitare d’aiuto per i gesti più semplici, come è stato anche respirare: un mondo degli altri che rimarrà sempre tale ormai, che non potrà più essere completamente compreso e che sicuro non è in grado di comprendere,
Ma che sia Irene che la sua famiglia hanno diritto di vivere e respirare a pieni polmoni,
Anche se per farlo si passa per una tracheostomia.

Irene, Anna Claudia e Fernando sono anche degli atleti straordinari,
e con la Joelette hanno partecipato anche ai mondiali in Francia,
oltre ad essere cuore pulsante della 
Corsa di Miguel, a cui abbiamo partecipato anche noi lo scorso anno e che speriamo di ricorrere presto insieme.

La pagina Fb di Irene: QUI

da qui