Il padre (con la sua squadra, naturalmente) del vaccino che salverà molte vite, è Ugur Sahin, arrivato in Germania dalla Turchia a 4 anni, per ricongiungimento familiare; il padre era già lì che lo aspettava, era un operaio migrante. Per sapere come i poveri turchi venivano trattati dai civili tedeschi provate a leggere Faccia da turco, di Günter Wallraff.
L’altro giorno è morto, ucciso dal mare e non solo, Joseph, un bambino di
sei mesi, che sarebbe stato italiano, e forse, come Ugur, avrebbe potuto
studiare medicina, e magari salvare molti di noi.
Diceva qualcuno che ogni bambino che muore, in qualsiasi parte del mondo,
avrebbe potuto essere un musicista come Mozart, o magari solo un operaio in una
fabbrica, ma non lo sapremo mai.
Ugur
Sahin arriva con la madre in Germania quando è ancora
bambino. Mentre suo padre si spacca la schiena nella fabbrica della Ford, un
destino da "Gastarbeiter" condiviso con miriadi di italiani o greci,
lui passa ore e ore a leggere libri divulgativi sulla scienza che prende in
prestito dalla biblioteca della chiesa…
A sei mesi da te - Alessandro Ghebreigziabiher
Mi chiamo Joseph, vengo
dalla Guinea, vengo soltanto ma non arrivo, non accadrà mai, e anche questo era
scritto. Ma non da me, mai da me. Sono morto, eppure sono qui, a sei mesi. A sei mesi dalla riva che ho
lasciato e da quella che ho solo immaginato. Il mio ultimo respiro, quale unica
consolazione, mi ha abbandonato mentre riposavo tra le braccia di qualcuno che
mi ha cercato e
trovato, a dispetto di coloro che mi hanno invano dimenticato e cancellato.
Tra braccia aperte è tutto finito, figurativamente nell’inglese
accezione, e assai di più nell’unica interpretazione che davvero conti, quando le
luci si spengono e rimani solo dentro di te: umanamente, già avverbio ormai desueto nel virtuale vocabolario
dove la parola più cliccata è indifferenza.
Ciò nonostante, le frasi non dette al momento che contava, ovvero prima, e
le azioni necessarie e mai compiute allorché avrebbero davvero salvato il resto
del racconto, trovano corpo lo stesso, a sei mesi da un sogno chiamato vita che è tale per tutti. O
almeno così dovrebbe essere. Sai? È preoccupante se non capisci questo semplice
concetto, che è premessa di ogni azzardo vivente. Questo vorremmo essere tutti,
a sei mesi o a
qualsiasi altra distanza dall’inizio come dalla fine: felici o anche solo
talvolta sorridenti, sazi e realizzati, ovvero di tanto in tanto sollevati. È
ciò che vorremmo tutti nelle prime pagine del rispettivo viaggio. E poi vada
come vada, ma che possa andare al di là di un pugno di istanti.
Sei mesi, sto parlando di questo, mi comprendi?
Mi vedi? E se non mi vedi e tanto meno mi comprendi, mi senti? No, non servono
orecchie e occhi, intelletto sopraffino e anni di studi. Chiunque abbia cuore
che ancora rintocchi nel silenzio del petto, vibrante del respiro più consueto
al mondo, dovrebbe essere in grado di percepire cosa si provi a sei mesi dalla possibilità di
superare tale inaccettabile confine. Ebbene, nel qual caso dovessi dimostrarti
inaspettatamente cieco e sordo innanzi a tale essenzialità del vivere, sappi
che di norma alla fine di una vita, come narrano nei romanzi o nei film che non
leggerò e mai vedrò, capita che ti scorra davanti agli occhi l’intera
esistenza.
Ecco, a sei mesi da
ogni cosa, perfino dalla mera capacità di pronunciare il meritato discorso di
commiato al mondo, quel tempo dura un secondo, ma in quell’istante è come
l’esplosione della bomba più micidiale che si possa immaginare. L’indicibile
collera di almeno metà di un intero pianeta deflagra contemporaneamente. No,
non sei il solo a urlare in quel maledetto momento.
L’incalcolabile pena di miliardi di famiglie il cui futuro viene ridotto in
cenere con una chirurgica sistematicità, che attribuire al destino dovrebbe
essere punibile con l’ergastolo, si fonde in un solo inaudito lamento. No, non
sei il solo a piangere in quel dannato giorno. E il cocente rimpianto per ogni
singolo secondo mancato per ogni vita mancata, la cui moltiplicazione batte di
gran lunga l’infinito che finora avete conosciuto, si concentra in un
assordante pugno sull’altare della moralità al quale sostieni di
inginocchiarti. No, non sei il solo a protestare neanche in quell’attimo
disgraziato.
Ora lasciami finire, finché ho ancora tempo nel tuo tempo. Sarò conciso,
perché la brevità è la sola condizione che conosco. Lo spazio concesso tra un
compagno di viaggio e l’altro in un vascello di sfortuna, più che il contrario.
La quantità di aspettative sull’arrivo e anche oltre. Ecco, perfino oltre è
una parola ardita e pericolosa, perché non ti puoi illudere quando sai che
perfino a sei mesi dalla
vita più normale corri il rischio di fermarti.
Mi chiamo Joseph, sono nato in Africa nella nazione chiamata Guinea. Ma ora
è come se tutto ciò non fosse mai accaduto. Per poco. Per un pelo. A una
manciata di chilometri dalla terra promessa a tutti, com’era nei patti mai
rispettati da un’unica sopravvalutata specie. A un soffio da qualsiasi
possibilità, giorno, ora, perfino il più insignificante e banalissimo frangente
trascurabile a ogni latitudine. A sei
mesi da tutto e tutti. Nessuno si senta sufficientemente lontano da
me, a sei mesi da te.
Aveva 6 mesi, avete dormito? –
Giulio Cavalli
Aveva sei mesi. A sei mesi hai una vita davanti, dopo il mare e a sei mesi
sei anche ghiotto per farci un articolo di giornale. Ma il naufragio avvenuto
l’altro ieri a circa 30 miglia a nord delle coste libiche di Sabratha ha fatto
“poca” notizia. Sono subito diventati numeri. Accade così: se non ci sono corpi
da fotografare e cadaveri tra i bagnanti la notizia scuote poco poco, interessa
agli addetti del settore, dicono così. A proposito che sanno “gli addetti del
settore” di 6 persone morte tra cui un bambino di sei mesi? Chi sono gli
“addetti del settore”? Le persone, mica solo quelle di buone volontà, la morte
di un bambino annegato è un peso anche per le persone di cattiva volontà, gli
auguro di sentirlo, gli auguro di non riuscire a disfarsene appena farà
capolino.
Si chiamava Joseph e veniva dalla Guinea. Una volta scriverne il nome
almeno faceva un certo effetto. Ora nemmeno quello. Scivolano anche i nomi,
scivolano le storie, scivola tutto in fondo al mare. Joseph era con più di 100
persone su un gommone stracarico, talmente stracarico, che ha ceduto il
pianale. Un abisso che si apre sotto il pavimento. Visto da un aereo di Frontex
sono stati salvati dalla nave di Open Arms, le Ong cattive, quelle che l’altro
ieri ne hanno salvati 111 che stavano aggrappati ai galleggianti come ci si
aggrappa al ciglio di un burrone, con quella paura che è talmente densa da
diventare puzza. Voi le avete mai sentite le persone quando puzzano per la
paura? È un odore rancido che non si riesce a staccare di dosso.
Articoli su articoli, editoriali su editoriali sui processi (giusti) a un
ex ministro che ha lasciato persone a bordo di una nave militare italiana e chi
processa chi per un bambino di 6 mesi rinsecchito dal mare? Chi è il colpevole?
Chi sono i colpevoli? Dov’è la giusta indignazione? Perché si continua a morire
ma non si continua più a raccontare con la stessa virulenza di prima? È una
cosa che non mi fa dormire la notte.
A proposito: voi che avete responsabilità sul Mediterraneo e che lasciate
intoccabile l’inferno libico avete dormito in queste ultime due notti? Vi siete
riposati tra i guanciali del virus che ammorba anche tutto il resto rendendo
soffici le tragedie? Siete soddisfatti che sia passato il cattivismo solo
perché è cambiata l’aria? Perché il mare continua a uccidere. Annega e se li
mangia. E uccide.
Siate maledetti.
“PERCHÉ C’È
GENTE CHE NON VUOLE APRIRE GLI OCCHI?” – Luca (dal
ponte della Open Arms)
“Non so da dove partire.
Martedì il primo
salvataggio, circa 85 persone. A salvataggio concluso, c’era gioia sul ponte, cori,
canti, ringraziamenti.
Poi ieri la seconda operazione: una volta raggiunta la zona del soccorso, ho
capito che non sarebbe stato facile.
Il gommone che avevo davanti ai miei occhi era l’imbarcazione più fatiscente
che avessi mai visto. D’improvviso uno squarcio: il gommone apre in due e 100
persone finiscono in acqua.
Naufragio. Panico
generale.
Cominciamo a
recuperare i migranti, uno ad uno. Poi arrivano a bordo loro, i due neonati.
Una bambina di 3 mesi che si riprenderà poco dopo e lui, Joseph…
Sembrava quasi un bambolotto, ma aveva schiuma bianca che usciva da naso e
bocca. Era freddissimo.
Insieme ad Ari, la dottoressa a bordo, abbiamo fatto di tutto perché si riprendesse.
Fuori, i primi cadaveri ripescati.
Poi, finalmente, i primi gemiti di Joseph.
Lo staff viene ad avvisarmi: “Luca, terzo recupero in corso”. E Joseph che
torna a stare male. Così riprendiamo a rianimarlo. Mezz’ora. Joseph non ce l’ha fatta. Solo
sei mesi di vita.
Non sono mai stato
in Afghanistan, eppure mi sembrava una guerra.
Ho trent’anni, faccio l’infermiere da dieci. Sono sempre stato molto calmo nel
mio lavoro. Ma quelle appena passate sono state le giornate più intense,
pesanti, odiose di tutta la mia vita.
Perché c’è gente
che non vuole aprire gli occhi? Qui, in mezzo al mare, le persone muoiono.
MUOIONO.”
Questa è la
testimonianza del nostro infermiere Luca dal ponte della Open Arms.
La nave, dopo tre salvataggi
avvenuti tra il 10 e l’11 novembre, sta ospitando a bordo oltre 250 persone,
comprese 12 donne e 80 minori (76 di loro non accompagnati).
Provengono principalmente da Eritrea, Togo, Sudan, Guinea, Burkina Faso, Somalia,
Burundi, Ghana, Etiopia e Costa d’Avorio.
11 persone in
gravi condizioni di salute sono già state evacuate in
seguito all’intervento della Guardia Costiera. Trasferito sulla terraferma
anche il corpo del piccolo Joseph, di sei mesi. Mentre altri 5 corpi ripescati
esanimi dalle acque continuano il loro viaggio insieme ai vivi.
Se non fossimo stati lì ad
aiutarli, cosa ne sarebbe stato dei sopravvissuti?
Morire a sei mesi nel Mediterraneo
- Annalisa Camilli
Si chiamava Joseph, aveva sei mesi, è morto dopo essere
stato soccorso nel Mediterraneo centrale insieme a sua madre, una donna
originaria della Guinea. L’imbarcazione sulla quale viaggiavano insieme a un
altro centinaio di persone era partita dalla Libia ed è collassata, poco prima
che arrivassero i soccorsi. La sua morte solleva più di un interrogativo ancora
senza risposte sulle politiche migratorie dell’Unione europea e sull’assenza di
un sistema comune europeo di soccorso. Alcuni si chiedono inoltre perché non
siano intervenuti i mezzi militari della missione Mare sicuro, in attività in
quell’area.
Dopo ore in mare, 88 persone sono state messe in salvo
dalla nave spagnola Open Arms, l’unico mezzo di soccorso presente sul posto,
mentre altre sei non ce l’hanno fatta. Molte persone tra quelle cadute in acqua
erano in arresto cardiaco quando sono state portate a bordo della nave. La
segnalazione dell’imbarcazione in difficoltà è arrivata per la prima volta da
un aereo di Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne
dell’Unione europea. La nave Open Arms dell’ong spagnola Proactiva Open Arms ha
chiesto un’evacuazione medica, ma non c’erano altri mezzi di soccorso né
governativi né non governativi nell’area. Il network di volontari Alarmphone,
il giorno precedente, aveva allertato sulla presenza di circa duecento persone
in pericolo di vita al largo della Libia.
“Purtroppo nel 2020 c’è ancora bisogno di noi perché
l’Europa intera non ha finora messo a punto un sistema davvero efficace di
ricerca e di soccorso, c’è l’urgenza di sbloccare le barche delle
organizzazioni che oggi sono impossibilitate a operare”, afferma l’operatrice
legale di Open Arms Valentina Brinis. “Chi si trova in difficoltà, va salvato.
Questo orienta l’azione dei medici, degli infermieri e di tutti quelli che a
terra, in questi mesi, stanno affrontando una sfida epocale”, continua
l’operatrice, che aggiunge: “La guardia costiera italiana in queste ore si è
mostrata molto vicina al nostro equipaggio e alle richieste avanzate: sembrava
quasi di essere tornati allo spirito di collaborazione che aveva
contraddistinto la modalità operativa fino al 2017”.
Il 10 novembre sulla stessa rotta altre tredici persone
sono annegate al largo della costa libica, secondo quanto riportato
dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Il portavoce Flavio
Di Giacomo ha detto che le undici persone sopravvissute al naufragio sono state
tutte riportate in Libia, aggiungendo che nel 2020 “oltre 10.300 migranti sono
stati intercettati in mare e rimandati in Libia”, nonostante il paese sia
considerato non sicuro perché non riconosce la convenzione di Ginevra sui
rifugiati del 1951 e permette la detenzione arbitraria degli stranieri.
L’agenzia di stampa Associated Press ha detto che si è trattato del “quarto
naufragio di migranti al largo delle coste libiche dall’inizio di ottobre”.
Il portavoce dell’Oim in Libia Safa Msehli ha specificato
che l’imbarcazione aveva lasciato la città occidentale di Zuara lunedì sera.
Gli undici sopravvissuti al naufragio del 10 novembre hanno detto al personale
dell’Oim che “l’acqua aveva iniziato a entrare nel gommone dopo cinque ore di
navigazione”. Secondo i dati dell’Oim, il bilancio complessivo dei morti nel
Mediterraneo centrale dall’inizio del 2020 è di 575 persone, ma si teme che il
dato sia fortemente sottostimato perché al momento non ci sono testimoni
governativi e non governativi lungo la rotta.
Molte imbarcazioni di soccorso tra cui Sea-Watch 4, Alan
Kurdi, Louise Michel e la Ocean Viking sono state bloccate nel corso degli
ultimi mesi dalle autorità italiane per presunte irregolarità amministrative.
Nonostante la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen abbia
sostenuto la necessità di ripristinare un sistema europeo di soccorso in mare,
lungo la rotta più pericolosa del mondo la situazione è sempre più drammatica.
Intanto in ventiquattro ore la Open Arms ha tratto in salvo
263 persone – tra donne, uomini e bambini – e sei sono state trasferite a causa
di problemi medici. L’imbarcazione di soccorso al momento si trova a largo di
Lampedusa e chiede urgentemente un porto di sbarco.
scrive Alessandra Ziniti (su Repubblica)
…alle 7.58 di mercoledi 11 novembre la Open Arms
riceve un messaggio radio da un aereo di Frontex con le coordinate di un
gommone in difficoltà e risponde di essere in grado di intervenire.
Alle 9.14 Open Arms trova il gommone
Alle 9.18 da bordo parte la segnalazione
alle autorità libiche, italiane, maltesi e spagnole dell'evento Sar.
Alle 11 nuova segnalazione alle autorità
marittime. Open Arms comunica che "si tratta di un gommone nero sgonfio
con un centinaio di persone tra cui 7 donne, 3 bambini e un neonato. Il gommone
è parzialmente affondato e sta entrando acqua. Le persone sono molto
stanche, disidratate e con un principio di assideramento. Stiamo distribuendo
giubbotti di salvataggio per l'evacuazione".
Subito dopo il fondo dell'imbarcazione cede e i
migranti finiscono in acqua. Iniziano le concitate operazioni di recupero con
le due lance di Open Arms in mare e sei soccorritori che forsennatamente tirano
su le persone.
Alle 15.26 Open Arms comunica alle autorità
italiane di avere tratto in salvo dalle 100 alle 150 persone tra cui 7 donne, 4
bambini due dei quali neonati, 1 donna incinta di sette mesi e 2 persone in
condizioni molto critiche, una di queste è un bambino ( è Joseph).
Alle 16.02 Open Arms chiede l'evacuazione per motivi
sanitari di due bambini con la madre e di una donna incinta di 7 mesi. E chiede
anche l'assegnazione di un porto di sbarco.
Alle 19.43 Open Arms effettua una terza
operazione di salvataggio, dopo la prima di martedi, e salva altre 64 persone.
I soccorsi per l'evacuazione medica chiesti alle
16 non arrivano e alle 20.15 dalla nave parte una mail che comunica alla
Guardia costiera di Roma che il bambino, "nonostante le necessarie manovre
respiratorie e di supporto" è andato in arresto respiratorio ed è morto.
Alle 21.50, dunque quasi sei ore dopo la
richiesta, arrivano i soccorsi. In aereo vengono portati d'urgenza a Malta una
neonata di tre mesi, la madre e un ragazzo.
Alle 1.50 con una motovedetta arrivata da
Lampedusa vengono portati sull'isola il corpicino del piccolo Joseph, la mamma
e un'altra ragazza di 18 anni incinta.
La Open Arms con quasi 250 persone a bordo e con
i cinque corpi dei migranti morti nel naufragio è ancora in mare in attesa
dell'assegnazione di un porto sicuro.