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lunedì 16 novembre 2020

Joseph Mozart

Il padre (con la sua squadra, naturalmente) del vaccino che salverà molte vite, è Ugur Sahin, arrivato in Germania dalla Turchia a 4 anni, per ricongiungimento familiare; il padre era già lì che lo aspettava, era un operaio migrante. Per sapere come i poveri turchi venivano trattati dai civili tedeschi provate a leggere Faccia da turco, di Günter Wallraff.

L’altro giorno è morto, ucciso dal mare e non solo, Joseph, un bambino di sei mesi, che sarebbe stato italiano, e forse, come Ugur, avrebbe potuto studiare medicina, e magari salvare molti di noi.

Diceva qualcuno che ogni bambino che muore, in qualsiasi parte del mondo, avrebbe potuto essere un musicista come Mozart, o magari solo un operaio in una fabbrica, ma non lo sapremo mai.

 

 

 

Ugur Sahin arriva con la madre in Germania quando è ancora bambino. Mentre suo padre si spacca la schiena nella fabbrica della Ford, un destino da "Gastarbeiter" condiviso con miriadi di italiani o greci, lui passa ore e ore a leggere libri divulgativi sulla scienza che prende in prestito dalla biblioteca della chiesa…

da qui

 

 

A sei mesi da te - Alessandro Ghebreigziabiher

Mi chiamo Joseph, vengo dalla Guinea, vengo soltanto ma non arrivo, non accadrà mai, e anche questo era scritto. Ma non da me, mai da me. Sono morto, eppure sono qui, a sei mesi. A sei mesi dalla riva che ho lasciato e da quella che ho solo immaginato. Il mio ultimo respiro, quale unica consolazione, mi ha abbandonato mentre riposavo tra le braccia di qualcuno che mi ha cercato e trovato, a dispetto di coloro che mi hanno invano dimenticato e cancellato. Tra braccia aperte è tutto finito, figurativamente nell’inglese accezione, e assai di più nell’unica interpretazione che davvero conti, quando le luci si spengono e rimani solo dentro di te: umanamente, già avverbio ormai desueto nel virtuale vocabolario dove la parola più cliccata è indifferenza.

Ciò nonostante, le frasi non dette al momento che contava, ovvero prima, e le azioni necessarie e mai compiute allorché avrebbero davvero salvato il resto del racconto, trovano corpo lo stesso, a sei mesi da un sogno chiamato vita che è tale per tutti. O almeno così dovrebbe essere. Sai? È preoccupante se non capisci questo semplice concetto, che è premessa di ogni azzardo vivente. Questo vorremmo essere tutti, a sei mesi o a qualsiasi altra distanza dall’inizio come dalla fine: felici o anche solo talvolta sorridenti, sazi e realizzati, ovvero di tanto in tanto sollevati. È ciò che vorremmo tutti nelle prime pagine del rispettivo viaggio. E poi vada come vada, ma che possa andare al di là di un pugno di istanti.

 

Sei mesi, sto parlando di questo, mi comprendi? Mi vedi? E se non mi vedi e tanto meno mi comprendi, mi senti? No, non servono orecchie e occhi, intelletto sopraffino e anni di studi. Chiunque abbia cuore che ancora rintocchi nel silenzio del petto, vibrante del respiro più consueto al mondo, dovrebbe essere in grado di percepire cosa si provi a sei mesi dalla possibilità di superare tale inaccettabile confine. Ebbene, nel qual caso dovessi dimostrarti inaspettatamente cieco e sordo innanzi a tale essenzialità del vivere, sappi che di norma alla fine di una vita, come narrano nei romanzi o nei film che non leggerò e mai vedrò, capita che ti scorra davanti agli occhi l’intera esistenza.

Ecco, a sei mesi da ogni cosa, perfino dalla mera capacità di pronunciare il meritato discorso di commiato al mondo, quel tempo dura un secondo, ma in quell’istante è come l’esplosione della bomba più micidiale che si possa immaginare. L’indicibile collera di almeno metà di un intero pianeta deflagra contemporaneamente. No, non sei il solo a urlare in quel maledetto momento.

L’incalcolabile pena di miliardi di famiglie il cui futuro viene ridotto in cenere con una chirurgica sistematicità, che attribuire al destino dovrebbe essere punibile con l’ergastolo, si fonde in un solo inaudito lamento. No, non sei il solo a piangere in quel dannato giorno. E il cocente rimpianto per ogni singolo secondo mancato per ogni vita mancata, la cui moltiplicazione batte di gran lunga l’infinito che finora avete conosciuto, si concentra in un assordante pugno sull’altare della moralità al quale sostieni di inginocchiarti. No, non sei il solo a protestare neanche in quell’attimo disgraziato.

Ora lasciami finire, finché ho ancora tempo nel tuo tempo. Sarò conciso, perché la brevità è la sola condizione che conosco. Lo spazio concesso tra un compagno di viaggio e l’altro in un vascello di sfortuna, più che il contrario. La quantità di aspettative sull’arrivo e anche oltre. Ecco, perfino oltre è una parola ardita e pericolosa, perché non ti puoi illudere quando sai che perfino a sei mesi dalla vita più normale corri il rischio di fermarti.

Mi chiamo Joseph, sono nato in Africa nella nazione chiamata Guinea. Ma ora è come se tutto ciò non fosse mai accaduto. Per poco. Per un pelo. A una manciata di chilometri dalla terra promessa a tutti, com’era nei patti mai rispettati da un’unica sopravvalutata specie. A un soffio da qualsiasi possibilità, giorno, ora, perfino il più insignificante e banalissimo frangente trascurabile a ogni latitudine. A sei mesi da tutto e tutti. Nessuno si senta sufficientemente lontano da me, a sei mesi da te.

da qui

 

 

Aveva 6 mesi, avete dormito? – Giulio Cavalli

Aveva sei mesi. A sei mesi hai una vita davanti, dopo il mare e a sei mesi sei anche ghiotto per farci un articolo di giornale. Ma il naufragio avvenuto l’altro ieri a circa 30 miglia a nord delle coste libiche di Sabratha ha fatto “poca” notizia. Sono subito diventati numeri. Accade così: se non ci sono corpi da fotografare e cadaveri tra i bagnanti la notizia scuote poco poco, interessa agli addetti del settore, dicono così. A proposito che sanno “gli addetti del settore” di 6 persone morte tra cui un bambino di sei mesi? Chi sono gli “addetti del settore”? Le persone, mica solo quelle di buone volontà, la morte di un bambino annegato è un peso anche per le persone di cattiva volontà, gli auguro di sentirlo, gli auguro di non riuscire a disfarsene appena farà capolino.

Si chiamava Joseph e veniva dalla Guinea. Una volta scriverne il nome almeno faceva un certo effetto. Ora nemmeno quello. Scivolano anche i nomi, scivolano le storie, scivola tutto in fondo al mare. Joseph era con più di 100 persone su un gommone stracarico, talmente stracarico, che ha ceduto il pianale. Un abisso che si apre sotto il pavimento. Visto da un aereo di Frontex sono stati salvati dalla nave di Open Arms, le Ong cattive, quelle che l’altro ieri ne hanno salvati 111 che stavano aggrappati ai galleggianti come ci si aggrappa al ciglio di un burrone, con quella paura che è talmente densa da diventare puzza. Voi le avete mai sentite le persone quando puzzano per la paura? È un odore rancido che non si riesce a staccare di dosso.

Articoli su articoli, editoriali su editoriali sui processi (giusti) a un ex ministro che ha lasciato persone a bordo di una nave militare italiana e chi processa chi per un bambino di 6 mesi rinsecchito dal mare? Chi è il colpevole? Chi sono i colpevoli? Dov’è la giusta indignazione? Perché si continua a morire ma non si continua più a raccontare con la stessa virulenza di prima? È una cosa che non mi fa dormire la notte.

A proposito: voi che avete responsabilità sul Mediterraneo e che lasciate intoccabile l’inferno libico avete dormito in queste ultime due notti? Vi siete riposati tra i guanciali del virus che ammorba anche tutto il resto rendendo soffici le tragedie? Siete soddisfatti che sia passato il cattivismo solo perché è cambiata l’aria? Perché il mare continua a uccidere. Annega e se li mangia. E uccide.

Siate maledetti.

da qui

 

 

“PERCHÉ C’È GENTE CHE NON VUOLE APRIRE GLI OCCHI?” – Luca (dal ponte della Open Arms)

Non so da dove partire.
Martedì il primo salvataggio, circa 85 persone. A salvataggio concluso, c’era gioia sul ponte, cori, canti, ringraziamenti.
Poi ieri la seconda operazione: una volta raggiunta la zona del soccorso, ho capito che non sarebbe stato facile.
Il gommone che avevo davanti ai miei occhi era l’imbarcazione più fatiscente che avessi mai visto. D’improvviso uno squarcio: il gommone apre in due e 100 persone finiscono in acqua.
Naufragio. Panico generale.
Cominciamo a recuperare i migranti, uno ad uno. Poi arrivano a bordo loro, i due neonati. Una bambina di 3 mesi che si riprenderà poco dopo e lui, Joseph…
Sembrava quasi un bambolotto, ma aveva schiuma bianca che usciva da naso e bocca. Era freddissimo.
Insieme ad Ari, la dottoressa a bordo, abbiamo fatto di tutto perché si riprendesse. Fuori, i primi cadaveri ripescati.
Poi, finalmente, i primi gemiti di Joseph.
Lo staff viene ad avvisarmi: “Luca, terzo recupero in corso”. E Joseph che torna a stare male. Così riprendiamo a rianimarlo. Mezz’ora. Joseph non ce l’ha fatta. Solo sei mesi di vita.
Non sono mai stato in Afghanistan, eppure mi sembrava una guerra.
Ho trent’anni, faccio l’infermiere da dieci. Sono sempre stato molto calmo nel mio lavoro. Ma quelle appena passate sono state le giornate più intense, pesanti, odiose di tutta la mia vita.
Perché c’è gente che non vuole aprire gli occhi? Qui, in mezzo al mare, le persone muoiono. MUOIONO.”

Questa è la testimonianza del nostro infermiere Luca dal ponte della Open Arms.

La nave, dopo tre salvataggi avvenuti tra il 10 e l’11 novembre, sta ospitando a bordo oltre 250 persone, comprese 12 donne e 80 minori (76 di loro non accompagnati).
Provengono principalmente da Eritrea, Togo, Sudan, Guinea, Burkina Faso, Somalia, Burundi, Ghana, Etiopia e Costa d’Avorio.

11 persone in gravi condizioni di salute sono già state evacuate in seguito all’intervento della Guardia Costiera. Trasferito sulla terraferma anche il corpo del piccolo Joseph, di sei mesi. Mentre altri 5 corpi ripescati esanimi dalle acque continuano il loro viaggio insieme ai vivi.

Se non fossimo stati lì ad aiutarli, cosa ne sarebbe stato dei sopravvissuti?

da qui

 

 

Morire a sei mesi nel Mediterraneo - Annalisa Camilli

Si chiamava Joseph, aveva sei mesi, è morto dopo essere stato soccorso nel Mediterraneo centrale insieme a sua madre, una donna originaria della Guinea. L’imbarcazione sulla quale viaggiavano insieme a un altro centinaio di persone era partita dalla Libia ed è collassata, poco prima che arrivassero i soccorsi. La sua morte solleva più di un interrogativo ancora senza risposte sulle politiche migratorie dell’Unione europea e sull’assenza di un sistema comune europeo di soccorso. Alcuni si chiedono inoltre perché non siano intervenuti i mezzi militari della missione Mare sicuro, in attività in quell’area.

Dopo ore in mare, 88 persone sono state messe in salvo dalla nave spagnola Open Arms, l’unico mezzo di soccorso presente sul posto, mentre altre sei non ce l’hanno fatta. Molte persone tra quelle cadute in acqua erano in arresto cardiaco quando sono state portate a bordo della nave. La segnalazione dell’imbarcazione in difficoltà è arrivata per la prima volta da un aereo di Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Unione europea. La nave Open Arms dell’ong spagnola Proactiva Open Arms ha chiesto un’evacuazione medica, ma non c’erano altri mezzi di soccorso né governativi né non governativi nell’area. Il network di volontari Alarmphone, il giorno precedente, aveva allertato sulla presenza di circa duecento persone in pericolo di vita al largo della Libia.

“Purtroppo nel 2020 c’è ancora bisogno di noi perché l’Europa intera non ha finora messo a punto un sistema davvero efficace di ricerca e di soccorso, c’è l’urgenza di sbloccare le barche delle organizzazioni che oggi sono impossibilitate a operare”, afferma l’operatrice legale di Open Arms Valentina Brinis. “Chi si trova in difficoltà, va salvato. Questo orienta l’azione dei medici, degli infermieri e di tutti quelli che a terra, in questi mesi, stanno affrontando una sfida epocale”, continua l’operatrice, che aggiunge: “La guardia costiera italiana in queste ore si è mostrata molto vicina al nostro equipaggio e alle richieste avanzate: sembrava quasi di essere tornati allo spirito di collaborazione che aveva contraddistinto la modalità operativa fino al 2017”.

Il 10 novembre sulla stessa rotta altre tredici persone sono annegate al largo della costa libica, secondo quanto riportato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Il portavoce Flavio Di Giacomo ha detto che le undici persone sopravvissute al naufragio sono state tutte riportate in Libia, aggiungendo che nel 2020 “oltre 10.300 migranti sono stati intercettati in mare e rimandati in Libia”, nonostante il paese sia considerato non sicuro perché non riconosce la convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e permette la detenzione arbitraria degli stranieri. L’agenzia di stampa Associated Press ha detto che si è trattato del “quarto naufragio di migranti al largo delle coste libiche dall’inizio di ottobre”.

Il portavoce dell’Oim in Libia Safa Msehli ha specificato che l’imbarcazione aveva lasciato la città occidentale di Zuara lunedì sera. Gli undici sopravvissuti al naufragio del 10 novembre hanno detto al personale dell’Oim che “l’acqua aveva iniziato a entrare nel gommone dopo cinque ore di navigazione”. Secondo i dati dell’Oim, il bilancio complessivo dei morti nel Mediterraneo centrale dall’inizio del 2020 è di 575 persone, ma si teme che il dato sia fortemente sottostimato perché al momento non ci sono testimoni governativi e non governativi lungo la rotta.

Molte imbarcazioni di soccorso tra cui Sea-Watch 4, Alan Kurdi, Louise Michel e la Ocean Viking sono state bloccate nel corso degli ultimi mesi dalle autorità italiane per presunte irregolarità amministrative. Nonostante la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen abbia sostenuto la necessità di ripristinare un sistema europeo di soccorso in mare, lungo la rotta più pericolosa del mondo la situazione è sempre più drammatica.

Intanto in ventiquattro ore la Open Arms ha tratto in salvo 263 persone – tra donne, uomini e bambini – e sei sono state trasferite a causa di problemi medici. L’imbarcazione di soccorso al momento si trova a largo di Lampedusa e chiede urgentemente un porto di sbarco.

da qui

 

 

scrive Alessandra Ziniti (su Repubblica)

…alle 7.58 di mercoledi 11 novembre la Open Arms riceve un messaggio radio da un aereo di Frontex con le coordinate di un gommone in difficoltà e risponde di essere in grado di intervenire.

Alle 9.14 Open Arms trova il gommone

Alle 9.18  da bordo parte la segnalazione alle autorità libiche, italiane, maltesi e spagnole dell'evento Sar.

Alle 11 nuova segnalazione alle autorità marittime. Open Arms comunica che "si tratta di un gommone nero sgonfio con un centinaio di persone tra cui 7 donne, 3 bambini e un neonato. Il gommone è parzialmente affondato e sta entrando acqua. Le persone sono  molto stanche, disidratate e con un principio di assideramento. Stiamo distribuendo giubbotti di salvataggio per l'evacuazione".

Subito dopo il fondo dell'imbarcazione cede e i migranti finiscono in acqua. Iniziano le concitate operazioni di recupero con le due lance di Open Arms in mare e sei soccorritori che forsennatamente tirano su le persone.

Alle 15.26 Open Arms comunica alle autorità italiane di avere tratto in salvo dalle 100 alle 150 persone tra cui 7 donne, 4 bambini due dei quali neonati, 1 donna incinta di sette mesi e 2 persone in condizioni molto critiche, una di queste è un bambino ( è Joseph).

Alle 16.02 Open Arms chiede l'evacuazione per motivi sanitari di due bambini con la madre e di una donna incinta di 7 mesi. E chiede anche l'assegnazione di un porto di sbarco.

Alle 19.43 Open Arms effettua una terza operazione di salvataggio, dopo la prima di martedi, e salva altre 64 persone.

I soccorsi per l'evacuazione medica chiesti alle 16 non arrivano e alle 20.15 dalla nave parte una mail che comunica alla Guardia costiera di Roma che il bambino, "nonostante le necessarie manovre respiratorie e di supporto" è andato in arresto respiratorio ed è morto.
Alle 21.50, dunque quasi sei ore dopo la richiesta, arrivano i soccorsi. In aereo vengono portati d'urgenza a Malta una neonata di tre mesi, la madre e un ragazzo.

Alle 1.50 con una motovedetta arrivata da Lampedusa vengono portati sull'isola il corpicino del piccolo Joseph, la mamma e un'altra ragazza di 18 anni incinta.

La Open Arms con quasi 250 persone a bordo e con i cinque corpi dei migranti morti nel naufragio è ancora in mare in attesa dell'assegnazione di un porto sicuro.

da qui