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martedì 31 dicembre 2024

Il lavoro e la vita - Giorgio Agamben

 

Si sente spesso elogiare la Costituzione italiana perché ha posto a suo fondamento il lavoro. Eppure non soltanto l’etimologia del termine (labor designa in latino una pena angosciosa e una sofferenza), ma anche la sua assunzione a insegna dei campi di concentramento («Il lavoro rende liberi» era scritto sul cancello di Auschwitz) avrebbero dovuto mettere in guardia contro una sua accezione così incautamente positiva. Dalle pagine della Genesi, che presentano il lavoro come una punizione per il peccato di Adamo, al brano tanto spesso citato dell’Ideologia tedesca in cui Marx annunciava che nella società comunista sarebbe stato possibile, invece di lavorare, «fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come ne viene voglia», una sana diffidenza verso il lavoro è parte integrante della nostra tradizione culturale.
C’è, però, una ragione più seria e profonda, che dovrebbe sconsigliare di mettere il lavoro a fondamento di una società. Essa proviene dalla scienza, e in particolare dalla fisica, che definisce il lavoro attraverso la forza che occorre applicare a un corpo per spostarlo. Al lavoro così definito si applica necessariamente il secondo principio della termodinamica. Secondo questo principio, che è forse l’espressione suprema del sublime pessimismo cui giunge la vera scienza, l’energia tende fatalmente a degradarsi e l’entropia, che esprime il disordine di un sistema energetico, altrettanto fatalmente a aumentare. Quanto più produciamo lavoro, tanto più disordine e entropia cresceranno irreversibilmente nell’universo.
Fondare una società sul lavoro, significa pertanto votarla in ultima istanza non all’ordine e alla vita, ma al disordine e alla morte. Una società sana dovrebbe piuttosto riflettere non solo sui modi in cui gli uomini lavorano e producono entropia, ma anche su quello in cui essi sono inoperosi e contemplano, producendo quella negentropia, senza la quale la vita non sarebbe possibile.

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sabato 7 dicembre 2024

Gli scioperi anomali dei rider - Stefano Poggi

Lo sciopero padovano dei ciclofattorini dello scorso settembre è un esempio di come alcune pratiche di lotta possono diventare efficaci anche tra le categorie in cui l'iniziativa sindacale ha più difficoltà a radicarsi

Il 30 settembre 2024 ai padovani di passaggio per piazza Mazzini doveva apparire una scena piuttosto inusuale. Ai piedi dell’imponente statua del patriota ottocentesco, in mezzo a uno spiazzo solitamente di passaggio (senza panchine, su insistenza di alcuni residenti, per evitare presenze «sgradite»), i passanti potevano osservare decine di biciclette elettriche allineate a chiudere una piazza insolitamente gremita. In mezzo, decine di rider – tutti uomini, tutti razzializzati – con le loro divise gialle e azzurre erano disposti a semicerchio fronteggiando quattro trentenni, tutti bianchi e dall’inconfondibile allure hipster tipica della «classe creativa». Uno di questi armeggiava con un piccolo MacBook coperto di adesivi, modificando in diretta i parametri delle misere condizioni retributive della app, mentre i lavoratori verificavano sui loro cellulari che i miglioramenti promessi stessero effettivamente concretizzandosi. Nel tardo pomeriggio di quel lunedì si stava per concludere uno sciopero spontaneo che aveva bloccato per tutto il fine settimana precedente Glovo e in parte Deliveroo a Padova. I lavoratori avevano vinto. Poco, ma avevano vinto.

Il sangue e la rabbia 

Per capire l’origine di una scena così inusuale è necessario fare un passo indietro. Una ventina di giorni prima, a Limena – un Comune della periferia padovana – il trentunenne Alì Jamat era stato investito in bici mentre stava consegnando ordini per Glovo. Nelle stesse ore, in Pakistan, sua moglie stava dando alla luce il loro secondo figlio. Alì Jamat era uno dei centinaia di pakistani impiegati nel food delivery a Padova e dintorni. A partire dal boom del Covid, la manodopera di questo settore è infatti radicalmente cambiata. Alla «tradizionale» componente di studenti di origine italiana impiegati per mantenersi agli studi si sono sostituiti in larga parte lavoratori di ogni età prevalentemente provenienti dal subcontinente indiano, integrati da universitari stranieri di varia nazionalità.

Dopo qualche giorno di agonia, Alì è morto all’ospedale di Padova. Il funerale si è svolto però qualche settimana dopo, il 26 settembre, al centro islamico del quartiere popolare dell’Arcella. Attorno a questa data, i lavoratori di Glovo hanno iniziato a pensare a bloccare l’app. Dopo essersi mobilitati all’interno delle strutture comunitarie per raccogliere alcune migliaia di euro da destinare alle spese funebri, i lavoratori hanno condiviso il loro crescente malcontento dovuto al calo dei compensi e degli ordini verificatosi negli ultimi mesi. Attraverso una chat di gruppo attiva da tempo, i rider si sono quindi convocati per sabato 28 settembre in piazza Mazzini, uno dei tanti luoghi in cui sono soliti trovarsi fra una consegna e l’altra. È iniziato così un anomalo sciopero, spontaneo e a oltranza, inatteso tanto dalla app quanto dalla società padovana.

Cinque anni di lotte

Il capoluogo veneto non è nuovo a mobilitazioni dei rider. Dalla nascita dei primi gruppi organizzati nel 2017 in alcuni centri del Nord Italia, diverse iniziative sono state prese in questo senso. Nel febbraio 2019, una quindicina di rider padovani di Just Eat organizzati dalla Filt-Cgil sono scesi in sciopero per un intero fine settimana per lottare contro il mancato rinnovo del loro contratto a tempo determinato, in un complesso gioco di forniture e subappalti. Nel novembre 2019 una legge del governo giallorosso Conte ha esteso alcune garanzie e tutele per i rider, creando le premesse per la sottoscrizione nel settembre 2020 di un primo contratto collettivo nazionale di categoria firmato dall’associazione datoriale Assodelivery e dall’Ugl, un sindacato di destra con scarsa, se non nulla, rappresentanza nel settore. 

Nei primi mesi del 2021, in pieno boom del settore, l’Adl Cobas ha promosso alcune partecipate mobilitazioni dei rider per protestare contro un contratto da molti considerato «pirata» per le sue condizioni svantaggiose. Anche in seguito alla mobilitazione dei lavoratori, nel marzo dello stesso anno Just Eat era uscita da Assodelivery, sottoscrivendo il contratto collettivo della Logistica con i sindacati confederali. Per la prima volta, a una parte dei rider italiani era riconosciuta la natura subordinata del proprio lavoro, regolamentando festività, lavoro straordinario, ferie, malattia, maternità/paternità. 

All’interno del settore si creava così una divaricazione di condizioni fra i rider dipendenti da Just Eat e quelli, più svantaggiati per condizioni e tutele, inquadrati ancora come lavoratori autonomi dalle altre app, fra cui Glovo. In questo contesto si è sviluppata un’altra mobilitazione nel capoluogo veneto, dove nel marzo 2022 si è verificato uno sciopero di due ore proclamato dall’Adl Padova nei confronti di Mymenù, che proprio pochi mesi dopo ha seguito l’esempio di Just Eat sottoscrivendo il contratto nazionale della Logistica. I sindacati padovani hanno però stentato a trovare un radicamento stabile fra i rider della città. Nel dicembre del 2023 l’Adl Cobas dichiarava solo una decina di iscritti nel capoluogo, mentre il tentativo della Cgil di aprire uno sportello nel polo studentesco del Portello non ha avuto successo in termini sindacali. 

Il food delivery stava d’altro canto velocemente cambiando. Dopo il boom portato dal lockdown, il settore si è fatto più competitivo e meno profittevole per le aziende. Al calo degli ordini hanno corrisposto la chiusura prima di Uber Eats nell’estate 2023 e qualche mese dopo di Mymenù – assorbito di fatto da Just Eat nel novembre 2023. A Padova si trovano così a operare solo tre aziende (Just Eat, Deliveroo e Glovo) in una concorrenza che – come denunciato dai lavoratori durante lo sciopero – sta andando a scaricarsi sulle condizioni lavorative e le retribuzioni.

Lo sciopero di piazza Mazzini

La morte di Alì Jamat ha agito da detonatore per una situazione di latente malcontento fra i rider padovani. Il profilo di questi ultimi è difficile da tracciare e sfugge in parte agli stessi sindacati. Oltre alla quasi esclusività maschile e alla prevalenza di rider razzializzati, la forza lavoro del food delivery appare talmente frammentata da rendere difficile alcuna generalizzazione. Non solo il profilo dei lavoratori non è del tutto omogeneo fra le diverse app, ma persino all’interno della stessa si possono trovare lavoratori impiegati a tempo pieno o solo per poche ore a settimana. È per questo degna di nota la compattezza con cui i rider di Glovo hanno iniziato il loro sciopero sabato 28 mattina. Una compattezza che si spiega almeno parzialmente con la natura comunitaria dei coinvolti, in gran parte di origine pakistana, che ha certo facilitato la creazione di legami di solidarietà fra lavoratori. 

Da subito la mobilitazione si è contraddistinta per due caratteristiche: uno sciopero a oltranza e spontaneo. Nessuna organizzazione sindacale ha infatti assistito i rider nelle prime fasi della mobilitazione. Questi si sono mossi autonomamente, sfruttando la chat Whatsapp dove si scambiano abitualmente informazioni in inglese. L’intervento del Nidil-Cgil, che si è poi rivelato fondamentale nella chiusura dell’accordo, è avvenuto infatti solo durante la seconda giornata di sciopero. Se infatti alcuni lavoratori avevano contattato il sindacato confederale già nel corso della precedente settimana, gli stessi hanno deciso di muoversi non aspettando una copertura sindacale formale. Trattandosi di lavoratori autonomi, hanno fatto della loro posizione di debolezza strutturale una forza: avendo ben pochi diritti, i rider di Glovo hanno anche ben pochi doveri. Lo sciopero a oltranza, strumento di difficile applicazione in settori del lavoro più tutelati, è quindi sembrato un mezzo adeguato e sostenibile ai rider.

Lunedì 30 settembre, il terzo giorno di sciopero, sono arrivati da Milano i rappresentanti della multinazionale spagnola, che avevano fatto un primo passaggio al presidio il giorno prima per capire cosa stesse succedendo nella città veneta. Il lunedì mattina, quindi, gli inviati di Glovo si sono incontrati con quattro rider espressione del presidio in un vicino spazio di coworking. Di fronte a un primo nulla di fatto, si è svolto un secondo round di trattative, questa volta alla presenza del segretario generale del Nidil-Cgil Padova Mirko Romanato e del membro di origine pakistana della consulta comunale degli stranieri Khan Raja Iftikhar Ahmed. Dopo alcune ore di serrate e non facili trattative, le delegazioni hanno trovato un accordo sull’aumento del 10% della paga base per ogni consegna (da 3€ a 3,30€), l’aumento dei moltiplicatori per alcune fasce orarie e l’impegno a concretizzare l’indennità in caso di pioggia. Non è stata invece accolta la richiesta dei lavoratori di mettere una nuova mora sui ristoranti che consegnano con ritardo, facendo perdere minuti preziosi ai rider, ma l’azienda si è impegnata a fare pressione sugli stessi per evitare il riproporsi di queste situazioni. 

Tanto gli inviati di Glovo quanto la rappresentanza dei lavoratori sono quindi ritornati in piazza Mazzini, dove li attendevano decine di rider in attesa di notizie. I termini dell’accordo sono stati esposti ai lavoratori, mentre uno dei rappresentanti di Glovo modificava in diretta le condizioni sulla app – provocando anche qualche momento di tensione con i rider, attenti a verificare che tutte le promesse si materializzassero sui loro cellulari. Dopo qualche decina di minuti, i lavoratori sono esplosi in un festoso applauso, ringraziando calorosamente i rappresentanti di Glovo per l’accordo raggiunto. Uno di questi, allontanandosi trafelato verso la stazione ferroviaria, ha rivolto ai rider il suo saluto: «Now you go back to work, eh?». 

In pochi minuti, i lavoratori di Glovo erano sulle loro bici a consegnare ordini, mentre la piazza tornava al suo placido, ordinario, via vai.

Un’anomalia?

Lo sciopero di piazza Mazzini può apparire, e per certi versi  è, un’anomalia nel campo delle mobilitazioni dei rider. La causa scatenante – la morte di Alì Jamat – non è un caso isolato in questo settore dove gli incidenti stradali sono purtroppo frequenti. La mobilitazione dei suoi colleghi padovani si è poi rivolta non tanto verso la questione sicurezza, quanto sulle sempre più degradate condizioni economiche in cui si trovano a lavorare. Più che nelle cause o nelle rivendicazioni, la vera anomalia di questo sciopero sembra stare nel carattere spontaneo della mobilitazione che, in questo caso, ha preceduto un’iniziativa sindacale che strutturalmente stenta a radicarsi in un settore estremamente frammentato. 

Anche il tardivo coinvolgimento del Nidil-Cgil, però, non è frutto del caso. Come spiega infatti Mirko Romanato, questo è stato il risultato di un lavoro di contatto con i rider che va avanti da mesi. I sindacalisti della categoria, infatti, si recano periodicamente nei luoghi di ritrovo dei rider padovani prima che inizi il rush delle consegne serali. In queste occasioni, offrono loro assistenza e raccolgono informazioni su un settore di difficile decifrazione. Pur avendo iscritto una trentina di rider in occasione dello sciopero, il Nidil-Cgil prevede di continuare questo tipo di attività piuttosto che provare a convocare assemblee sindacali che, inevitabilmente, rischierebbero di andare deserte. Allo stesso tempo, nei prossimi mesi si aprirà la vertenza per il rinnovo del contratto nazionale firmato da Assodelivery che potrebbe portare alcuni miglioramenti anche ai rider di Glovo e Deliveroo – anche se non sembra in discussione la natura di lavoratori autonomi degli questi ultimi.

L’organizzazione dei rider passa così per un lavoro di cura e di assistenza costante, senza concrete prospettive di capitalizzazione politica o organizzativa sul lungo periodo. Al tempo stesso, i rider si trovano sempre più pressati dall’abbassamento del costo del lavoro imposto dalla concorrenza fra app in un settore in veloce ristrutturazione. Al principio di novembre 2024, per esempio, Just Eat ha annunciato il licenziamento dei cinquanta dipendenti dei suoi call center al fine di delocalizzare il servizio in Albania. 

Se il vittorioso sciopero di piazza Mazzini è stato un’anomalia nelle lotte dei rider italiani, è da vedere come questa categoria di lavoratori, spesso marginalizzati e impegnati in un’attività rischiosa e a basso reddito, reagiranno al tentativo delle app di scaricare sulle loro spalle e sui loro salari la ristrutturazione del settore.


*Stefano Poggi è post-doc presso l’Accademia Austriaca delle Scienze (Oaw) di Vienna.

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venerdì 4 ottobre 2024

Il caporalato esiste a Bologna? Sì. E il padrone si chiama Poste Italiane

 

Il Movimento Lottiamo Insieme diffonde la lettera a cuore aperto di un rider della posta.

 Roma, 2 ottobre 2024

Il servizio postale costituisce un servizio pubblico e, in quanto tale, ogni anno viene finanziato pubblicamente con 262,4 milioni di euro. Non è accettabile che il denaro dei cittadini venga utilizzato per generare precarietà lavorativa e incertezze nel vissuto di migliaia di lavoratrici e lavoratori. Soprattutto giovani. Per non parlare dei disagi all’utenza causati dal continuo ricambio dei portalettere. Con l’obiettivo di informare e sensibilizzare la cittadinanza su quanto accade sistematicamente nella filiera del recapito di Poste Italiane, il Movimento Lottiamo Insieme intende dare visibilità alla lettera di Gabriele, uno dei tantissimi rider della posta, a cui va la nostra più sincera solidarietà.

 

 

Lettera di un postino precario a Bologna

 

Il caporalato esiste a Bologna? Sì. E il padrone si chiama Poste Italiane. Già! Il primo datore di lavoro in Italia, certificato “Top Employer” per il quinto anno consecutivo «grazie alle sue politiche di risorse umane e, in particolar modo, all’impegno rivolto al benessere dei dipendenti e delle loro famiglie», si legge in un comunicato aziendale. La realtà però è ben diversa, almeno per la parte più debole dei lavoratori. Quegli oltre 10 mila precari assunti ogni anno con contratti di pochi mesi, sottoposti a condizioni “extra-contrattuali” vergognose. Ma andiamo con ordine.

 

Dal primo febbraio 2024 sono stato assunto da Poste Italiane per tre mesi. Ho firmato un contratto di 36 ore settimanali, per 1.300 euro circa più buoni pasto. Non male, penserete voi. Ho lavorato un mese a Bologna, poi mi sono visto costretto a dare le dimissioni. E come me altre centinaia di lavoratrici e lavoratori in tutta Italia. In 35 anni non ho mai sperimentato una condizione lavorativa così vergognosa.

 

È giusto che si sappia: il postino precario lavora sotto ricatto, costretto a fare ore e ore di straordinari non pagati, a subire mobbing e pressioni psicologiche, a mettere a rischio la sicurezza propria e degli altri. Dopo soli tre giorni di affiancamento viene chiesto ai neoassunti di lavorare come se fossero postini esperti. Il che è ovviamente impossibile, perché le procedure da ricordare sono tante, la posta va lavorata prima e dopo la consegna (in gergo “gita”), la posta ordinaria va sommata a quella prioritaria e a quella a firma per cui si esce carichi come muli.

 

Le zone di consegna sono nuove, perciò, serve tempo per imparare i percorsi, inoltre spesso si viene assegnati dopo pochi giorni a zone diverse perché i precari fanno anche da tappabuchi per colmare esigenze di organico. I colleghi a tempo indeterminato, sottoposti a ben altri ritmi e condizioni lavorative, scommettono su chi “molla prima”. I capisquadra e i responsabili esercitano sui precari una certa pressione con minacce più o meno velate, del tipo «qua se non si migliora con le consegne non ti rinnovano», oppure «non guardare l’orario, vai avanti», o ancora «non vi posso autorizzare gli straordinari, la posta è quella e va consegnata. È normale rientrare più tardi all’inizio».

 

Tutto ciò significa lavorare almeno dieci ore al giorno in media, ma si arriva anche a dodici, sapendo che te ne verranno pagate solo sette. Significa essere sempre sotto pressione, di corsa, rischiare di farsi e fare male per consegnare di più e più in fretta. Significa essere costretti a compiere infrazioni e gesti poco sicuri. Significa saltare la pausa pranzo (che sarebbe di 15 minuti ma risulta impossibile farla). Significa offrire anche un servizio più scadente, perché ogni cosa diventa potenzialmente una perdita di tempo, un ostacolo. In pratica, non c’è alcuna corrispondenza tra quello che ci viene spiegato nei tre giorni iniziali di formazione sulla sicurezza e quanto, di fatto, ci viene poi richiesto. Un vero paradosso!

 

Nel solo mese di febbraio cinque neoassunti, me compreso, hanno dato le dimissioni dopo poche settimane. Il turnover è pazzesco, i ritmi sempre altissimi, le condizioni assurde. La cosa più inquietante di tutte è la normalizzazione di questa condizione indecente di sfruttamento e umiliazione continua.

 

Tutti nel centro promuovevano la narrazione del lavoro come sacrificio, veicolando una morale iper-lavorista funzionale alla perpetuazione del modello di sfruttamento stesso. «È normale all’inizio, poi ti abitui», una delle frasi motivazionali più ricorrenti nell’ambiente. Intanto «tieni botta, mi raccomando» e «resisti, poi andrà peggio perché andrà peggio, ma tu resisti», mi dicevano alcuni colleghi per confortarmi. E chi legittimamente si sottrae a queste dinamiche è un debole, uno che molla, un mantenuto.

 

I postini precari non hanno ovviamente alcun potere a disposizione, c’è un esercito di riserva pronto a sostituire chi non si adegua. Chi resta qui spera di lavorare almeno sei mesi per accedere alla graduatoria per una futura possibile assunzione a tempo indeterminato. Ma Poste può prorogare fino a dodici mesi, poi la stabilizzazione è tutt’altro che scontata.

 

In effetti, le opzioni per i precari sono due: ci si dimette ritenendo le condizioni inaccettabili, o si continua a testa bassa ingoiando tutto, nella speranza di essere riconfermati e un giorno assunti a tempo indeterminato. Così la macchina va avanti, nel silenzio generale, e nell’ignoranza dell’opinione pubblica che non sa cosa si cela dietro una cartolina pubblicitaria, un pacco o un quotidiano messo in buchetta.

 

Io stesso, determinato a non restare silente, sono rimasto senza energie e senza speranze in fretta. Il sindacato è poco presente e in molti casi connivente, attivare un percorso legale è lungo e costoso, dimettersi prima del tempo o fare meno lavoro fa ricadere le conseguenze su altri postini precari, quasi nessuno si lamenta o protesta per cui diventa molto difficile sottrarsi al meccanismo.

 

Ma la domanda di fondo è: per quale motivo un’azienda pubblica che dovrebbe svolgere un servizio pubblico opera come una multinazionale?

 

 

Il processo di privatizzazione va avanti da diversi anni e si presta ad un’accelerata. Con l’attuale governo il controllo pubblico si ridurrà al 51 per cento. Poste Italiane è una S.p.A. quotata in borsa, deve remunerare il capitale e spremere i dipendenti mica rispettare il diritto del lavoro e fornire servizi di qualità alla cittadinanza.

 

D’altra parte, i colossi di e-commerce e logistica dettano il modello in quanto clienti di Poste. In questo scenario sconcertante, è una vera fortuna che la scorsa primavera sia nato a Roma il Movimento Lottiamo Insieme delle lavoratrici e dei lavoratori precari di Poste Italiane, per dare voce e speranza a chi vive o subisce tali situazioni.

Carmine Pascale 

Movimento Lottiamo Insieme – [email protected]

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giovedì 15 agosto 2024

Si prega di non disturbare l’imprenditore – Alessandro Villari

Quaranta giorni sono trascorsi dall’atroce assassinio di Satnam Singh da parte del suo padrone.

Quaranta giorni in cui altre novanta persone sono morte in incidenti sul lavoro, a tragica dimostrazione del fatto che quello in cui viviamo è un sistema che, contrariamente a quanto ripetono le istituzioni che in questi giorni sono ipocritamente listate a lutto, non ha al suo interno gli anticorpi per impedire la barbarie perché serve precisamente a perpetuare la barbarie.

Quarantacinque giorni saranno passati il prossimo 2 agosto, quando entrerà in vigore il decreto legislativo n. 103/2024 intitolato “Semplificazione dei controlli sulle attività economiche” ed emanato in attuazione della “legge annuale per il mercato e la concorrenza” approvata dal governo Draghi nell’agosto del 2022.

Già l’idea che per favorire la concorrenza e il mercato si debbano “semplificare” – cioè “ridurre” ulteriormente – controlli già evidentemente insufficienti non promette nulla di buono. Il contenuto del provvedimento conferma pienamente la prima impressione.

Il decreto riguarda tutti i controlli amministrativi, di qualunque tipo, “per la verifica del rispetto di regole poste a tutela di un interesse pubblico da parte di operatori che svolgono un’attività economica“, esclusi quelli in materia fiscale, ma inclusi quelli relativi alla sicurezza sul lavoro e alla regolarità dei contratti di lavoro.

Una prima novità è l’introduzione di un “sistema di identificazione e valutazione di rischio basso”, al quale le imprese potranno aderire su base volontaria. Le imprese che otterranno la certificazione di “rischio basso” avranno meno controlli in materia di protezione ambientale, igiene e salute pubblica, sicurezza pubblica, tutela della fede pubblica e sicurezza dei lavoratori.

Concentrare i controlli nelle imprese in cui il rischio di violazioni è teoricamente più alto non è di per sé un’idea sbagliata. Ma è difficile credere che queste certificazioni di rischio basso saranno davvero rilasciate soltanto alle aziende più virtuose o meno esposte a possibili violazioni.

Basta scoprire, al netto di criteri ancora molto fumosi, che a rilasciare queste attestazioni saranno “organismi di certificazione, ispezione, validazione o verifica, accreditati presso l’Organismo nazionale di accreditamento“. Dunque l’ente pubblico si limiterà a elaborare i parametri, ma a rilasciare i certificati saranno organismi privati, verosimilmente a pagamento. Che cosa può andare storto?

Del resto, in generale, tutti gli ispettori dovranno agire “secondo il criterio del minimo sacrificio organizzativo per il soggetto controllato“: si prega di non disturbare l’imprenditore.

È per questo motivo che le amministrazioni controllanti di regola dovranno avvisare i destinatari del controllo “almeno dieci giorni prima del previsto accesso presso i locali dell’attività economica“, salvo che ci siano motivi di urgenza o che l’ispezione avvenga su richiesta dell’Autorità giudiziaria o per “circostanziate segnalazioni”.

Ora, non c’è bisogno di avere una laurea o un ministero per comprendere che in questo modo si vanifica in larga misura il senso stesso dei controlli: dieci giorni sono più che sufficienti per nascondere sotto il tappeto la maggior parte degli illeciti (ad esempio per quanto riguarda lavoro nero o contratti irregolari).

Infine, a completare il quadro, per tutte le violazioni per le quali è prevista una sanzione fino a 5.000 euro (escluse fortunatamente quelle in materia di sicurezza sul lavoro), la sanzione rimane sospesa ed è annullata se l’irregolarità è sanata entro i venti giorni successivi.

Tutto questo avviene in un paese in cui sono irregolari tre su quattro aziende controllate; in un paese in cui dall’inizio dell’anno sono morte 610 persone sul posto di lavoro; in un paese in cui sono le procure della Repubblica a fornire una tutela minima contro lo sfruttamento del lavoro – Amazon l’ultimo caso.

In questo contesto, consentire alle imprese di comprare una certificazione di basso rischio per evitare i controlli, obbligare gli ispettori ad annunciarsi con dieci giorni di anticipo e sospendere le sanzioni per le violazioni che saranno comunque accertate, significa davvero proteggere e perpetuare la barbarie.

Ricordiamocene la prossima volta che i rappresentanti delle istituzioni verseranno lacrime di coccodrillo dopo l’ennesima “tragedia”. Ma soprattutto, organizziamoci per spazzare via questo sistema marcio fino al midollo.

* * * * *

Ripreso da: Avvocato Laser Diritto & diritti – 29 Luglio 2024

 

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lunedì 5 agosto 2024

IL DECRETO SEMPLIFICAZIONI? MI INDIGNA – Danilo Tosarelli

  

Ditemi che non è vero... Nessuno ne ha parlato, ma davvero adesso si dovrà fare così?

L'Ispettorato del Lavoro (INL), dovrà avvisare prima le aziende interessate ad un controllo.

Che valore può avere, un'ispezione "telefonata" 10 giorni prima? Quale il messaggio che arriva?

Giuro che non è il caldo di questi giorni, che mi ha portato al delirio. Scrivo perchè sono indignato. 

 

Sto parlando del DL 103/2024 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 18 luglio 2024. Già in vigore.

E' il DECRETO SEMPLIFICAZIONI. Riguarda il sistema dei controlli sulle attività economiche.

No ai controlli in materia fiscale, ma sono inclusi quelli relativi a sicurezza sul lavoro e contratti di lavoro.

Giova precisare che il decreto prevede sanzioni possibili fino a 5 mila euro. Esclude l'oltre e il penale.

 

L'art. 5 comma 8 prevede proprio l'avviso di 10 giorni prima, all'azienda che sarà sottoposta a controllo.

Questo periodo di preavviso non è previsto, se la richiesta di un controllo arriva dall'Autorità Giudiziaria.  

Oppure se arrivano segnalazioni circostanziate di soggetti privati o pubblici che segnalano possibili rischi.

Questa precisazione è dovuta, per chi volesse puntualizzare. Stiamo parlando di casi limiti. Ci mancherebbe..

 

Il Ministro della Pubblica Amministrazione Zangrillo è in grado di fornire le spiegazioni del caso. Eccole.

Sono sempre molti i documenti richiesti alle aziende durante i controlli. Il preavviso ha un suo perché.

Per consentire alle aziende di preparare il necessario e rendere più semplice il lavoro degli Ispettori. Sigh.

 

Zangrillo ha dichiarato che con questo decreto si passerebbe " dalla logica sanzionatoria, alla prevenzione 

degli illeciti sulla base di una fiducia reciproca, che incentiva i comportamenti virtuosi in un'ottica di premialità."

Proprio nel momento in cui servirebbero ispezioni più severe, il Governo consente mille scappatoie alle aziende.

Le mie perplessità sono fortemente condivise, proprio da chi deve svolgere questo tipo di accertamenti.

 

Bruno Giordano è un magistrato, ex Direttore dell'INL. Ha partecipato il 24 luglio 2024 ad un convegno.

" Una Repubblica fondata sul lavoro sicuro". Organizzato dal Movimento 5 stelle. Giordano ci interroga.

" Chi è quell'imprenditore, che dopo 10 giorni si fa trovare dagli Ispettori con dei lavoratori in nero?"

Ma Giordano precisa, che in caso di violazioni, l'azienda ha 20 giorni per regolarizzare la sua posizione.

 

Ipotizziamo un controllo in un cantiere edile. L'Ispettore trova un lavoratore non in regola con il contratto.

L'azienda può appellarsi alla ritardata comunicazione alla Cassa Edile. Ha 20 giorni di tempo per sanare.

L'articolo 6 del Decreto prevede la "non punibilità per errore scusabile". L'azienda sana ed è tutto risolto.

Non a caso si chiama DECRETO SEMPLIFICAZIONI. L'Ispettore non potrà sanzionare, ma solo attendere.

 

Inutile sottolineare il senso di frustrazione e di impotenza da parte degli Ispettori del Lavoro. Comprensibile.

I loro controlli perdono di forza, perchè il datore di lavoro potrà sempre appellarsi all' "errore scusabile".

il malcontento tra gli operatori dell'INL è fortissimo. Il lavoro sta diventando sempre più inaccettabile.

Massimo Franchi, nel suo articolo apparso sul quotidiano "Il Manifesto" il 3 agosto 2024, concede spazio.

 

" Il Ministro del Lavoro del precedente Governo Andrea Orlando, aveva deciso l'assunzione di 500 Ispettori.

  Peccato che molti vincitori di concorso rinunciano. 1650 euro mensili è uno stipendio insufficiente, purtroppo.

  La mancanza di Assistenti Amministrativi, ci obbliga a dover fare le nostre ispezioni da soli. Nessun aiuto.

  Tale carico di lavoro ha fatto scendere le ispezioni annuali. 20 anni fa ne facevo 120 adesso ne faccio 35.

  Tutto ciò a fronte di un 78% di irregolarità rilevate nelle nostre ispezioni. Una vera pazzia.."

 

C'è un altro articolo di questo decreto che a mio avviso stride. Cita la cosiddetta "franchigia". Provo a spiegarla.

Se un'azienda, a seguito di un controllo viene trovata in ordine, potrà godere del diritto alla cosiddetta franchigia.

Ciò significa che avrà la garanzia di non essere più sottoposta ad altre ispezioni similari, per almeno 10 mesi.

Zangrillo cita la premialità e fa bella figura. Peccato che da anni, ogni azienda italiana rischi controlli ogni 18 anni.

 

Ho avuto conoscenza di questo Decreto Legge, quasi per caso. Credo lo conoscano in pochi. Gli addetti ai lavori.

Mi ha indignato, perchè è orientato verso una non punibilità delle aziende, che invece andrebbe più contrastato.

Non credo sia un caso che sia operativo dal 3 agosto, perchè approvato dal Consiglio dei Ministri il 12 luglio 2024. 

Un'altra foglia di fico, che viene approvata in piena estate, quando cala naturalmente l'attenzione dei cittadini.

 

Questo decreto è, a mio avviso, più importante di quanto si pensi. L'Italia vanta un primato del quale mi vergogno.

E' il Paese dove, dati statistici alla mano, i controlli trovano irregolarità in 3 aziende su 4. Nonostante le carenze.

INAIL ha fornito i dati del primo semestre 2024. I morti sul lavoro sono stati 469. Rispetto al 2023 il 4,2% in più.

Questi dati parlano da soli. E per completezza, le denunce per infortuni sul lavoro sono state 299.303. Una guerra.

 

Un decreto che strizza l'occhio alle aziende. Un decreto che deresponsabilizza, invece che pretendere serietà.

Esclude le sue prerogative di facilitazione alle aziende se si tratta di penale, ma lancia un segnale pericoloso.

Le aziende sane ed oneste non hanno bisogno di scorciatoie. E allora a chi si rivolge il Decreto Semplificazioni?

La risposta arriva dal grido d'allarme degli Ispettori del Lavoro... a loro credo.

 

mercoledì 31 luglio 2024

I DIPENDENTI PUBBLICI SONO BESTIE - DANILO TOSARELLI

 Quando sei giovane, neppure ti sfiora il pensiero. E' sempre stato così. 

Quando lo sei un po' meno, la vedi ancora lontana, ma inizi a farci un pensierino.
Ma poi con il trascorrere degli anni, pensione e liquidazione diventano importanti.

Tratterò una questione che riguarda i dipendenti pubblici, ma non trascuriamola.
Il dipendente privato, ha sempre preso prima la sua liquidazione. Non è normale?
Dopo 45/60 giorni dalla fine del suo lavoro. Indiscutibili e sacrosanti. Sono soldi suoi. 

Perché allora non è così anche per il dipendente pubblico? Domanda persino banale.
Chiariamo. TFR per chi è stato assunto prima del 31/12/2000.
Si chiama TFS per chi è stato assunto successivamente. Ma la minestra è quella.
Non abbiate dubbi. Sempre di liquidazione stiamo parlando. Riguarda tutti.

Vai in pensione a 67 anni? Ti pagano la liquidazione dopo 12/24 mesi.
Se vai in pensione prima dei 67 anni, i tempi si allungano. Dai 36 mesi in su.
Il dipendente pubblico deve attendere queste tempistiche. Piaccia o no.

È il governo Prodi del 1997 ad aver preso questa decisione. Che vergogna.
Bisognava aiutare il Bilancio dello Stato. Ecco allora la scelta scellerata di stringere.
Prorogare nel tempo, la liquidazione dei dipendenti pubblici. Ma siamo davvero bestie?
Con il trascorrere degli anni, i tempi si sono allungati sempre più. Ma chi se ne frega.

Poi finalmente, dopo tanti anni di attesa, è intervenuta la Corte Costituzionale.
Sentenza numero 130 del 23/6/2023. L'organismo più autorevole che abbia lo Stato.
Basta differenze di trattamento tra lavoratore privato e pubblico. Stessi diritti. 
Liquidazione da fine lavoro? Deve essere erogata identica, come per i lavoratori privati.

La sentenza della Corte Costituzionale è stata dirompente. Finalmente un pò di giustizia.
Riguarda almeno 2 milioni di lavoratori pubblici che sono in attesa di liquidazione.
Quella data è rimasta scolpita nella mente di milioni di italiani. Adesso dovranno pagare.
Ma qualcuno già mise le mani avanti. Troppi soldi da sborsare e i soldi lo Stato non li ha.

Abbiamo atteso con speranza che questa sentenza diventasse realtà. Vedrai che arriverà.
Evidentemente, in questi 13 mesi di attesa Governo e Parlamento non hanno avuto tempo.
Ma adesso, il Ministero dell'Economia e delle Finanze hanno preso una decisione importante.
Finalmente, penserete voi. Ci daranno il dovuto, perchè la Corte Costituzionale ha deciso.

E invece no. La Ragioneria generale dello Stato ha espresso parere contrario al provvedimento.
Il 20 marzo 2024 la relazione tecnica predisposta dall'INPS, certifica l'impossibilità a farvi fronte.
Occorrerebbero 3,8 miliardi di euro solo nel 2024 per la copertura dell'onere in oggetto. Negativo.
Lo Stato in questo momento ha bisogno di quei soldi. I lavoratori pubblici dovranno attendere ancora.

Vi voglio però dire, che i lavoratori pubblici non verranno abbandonati. Il Ministro Giorgetti pensa a noi.
E' stato stilato un accordo quadro tra i Ministeri di Economia, Lavoro e Funzione Pubblica e l'ABI.
L'accordo può essere rinnovato ogni 2 anni e l'Associazione delle Banche Italiane lo ha sottoscritto.
Il lavoratore potrà continuare a chiedere alle banche l'anticipo della propria liquidazione. Ip Ip Urrà...

Finalmente. I soldi non me li dà lo Stato ( vorrebbe, ma non può!), ma me li anticipa la Banca. Va bene..
Lo Stato non abbandona i suoi lavoratori. Se li è tenuti cari per tutta la vita e sente il dovere di sdebitarsi..
Perchè non vedere il bicchiere mezzo pieno? Possibile che si debba sempre pensare male? Ci voglio credere.
Dimenticavo però un particolare. Non vorrei deludervi. Le banche applicheranno un tasso di interesse del 4,1%.

Ho scelto di mantenere un tono scanzonato, per evitare che a qualcuno salga la pressione, ma c'è da incazzarsi.
Giova precisare, che la liquidazione maturata dal lavoratore non è soggetta ad adeguamento. E l'inflazione?
L'inflazione è per lo Stato un optional che non riguarda il lavoratore. Riguarda solo i mercati e le banche. E noi?
Per noi non aumenta il costo della vita. La mia liquidazione fra 3 anni non varrà allo stesso modo... Eppure è così.

Ci ha condannato il prode tortellino Prodi nel 1997, continua a non considerarci neppure il Governo Meloni.
Va riconosciuto con amarezza, che neppure le sentenze della Corte Costituzionale hanno più un valore. E' grave.
Se questo è lo stato delle nostre Istituzioni, davvero voglio esprimere tutta la mia sincera preoccupazione.

I dipendenti pubblici stanno subendo da quasi 30 anni una discriminazione inaccettabile. Quanti di voi lo sanno?     
Politici e media preferiscono tralasciare. L'argomento evidentemente non fa notizia. Siamo o no un paese civile? 
Con quale entusiasmo e quali motivazioni un dipendente pubblico dovrebbe aver voglia di continuare a lavorare?
Davvero qualcuno pensa, che I dipendenti pubblici siano bestie da maltrattare? 


venerdì 12 luglio 2024

Controllare e disciplinare. Un apologo - Giovanna Lo Presti

 

Il nostro Paese sta scivolando verso un assetto sempre più autoritario. Ce lo confermano molte cose. Alcune arrivano all’opinione pubblica e destano la condanna di chi ha ancora un po’ di buon senso (un esempio per tutti: gli studenti pisani incastrati a tenaglia e poi manganellati dalla Polizia durante una manifestazione contro il massacro dei palestinesi nel febbraio scorso). Altre, sia perché colpiscono singoli individui sia perché non hanno una immediata dimensione pubblica, sia per la loro apparente poca rilevanza, si consumano ogni giorno nei luoghi di lavoro. L’istanza disciplinare si è fatta in questi anni sempre più forte. Muovere critiche al proprio datore di lavoro o alle condizioni in cui si lavora può mettere a rischio la prosecuzione del rapporto di lavoro, con la scusa che la critica compromette il “rapporto di fiducia” tra lavoratore e datore di lavoro. Va da sé che sto parlando di critiche verificabili e giustificate: nemmeno quelle sono accettabili, ai giorni nostri! Di quanto sia cresciuto l’atteggiamento sanzionatorio nel lavoro pubblico e privato non è semplice dire, per l’oggettiva difficoltà nel reperire i dati totali. Facendo riferimento al lavoro pubblico nel 2021 sono stati in totale 11.203 i provvedimenti disciplinari a carico dei dipendenti pubblici; nel 2019 è pervenuto un elevatissimo numero di comunicazioni che hanno dato avvio a 12.000 procedimenti disciplinari, rispetto ai 10.000 del 2018. Nel 2017, per andare indietro di qualche anno, i procedimenti avviati erano stai 8576; nel 2014, 6935 (le informazioni complete si trovano nel sito ministeriale). La tendenza è, evidentemente, alla crescita degli interventi disciplinari.

Sono passati quindici anni ed è ancora viva nella memoria la vicenda di Riccardo Antonini, il ferroviere che si era offerto come consulente gratuito per una delle famiglie delle vittime del disastro ferroviario di Viareggio del 2009. Venne licenziato «per aver rilasciato dichiarazioni lesive dell’immagine del Gruppo Ferrovie dello Stato», «per le pubbliche e ripetute ingiurie rivolte all’allora amministratore delegato della società» e perché si era «posto dichiaratamente come concreto antagonista della società da cui dipendeva». Il ricorso in Cassazione diede ragione all’azienda. Ma che legge è questa se non la barbara legge del più forte?

Abbiamo voluto ricordare la vicenda di Riccardo Antonini per introdurne un’altra, più ordinaria ma pur sempre ingiusta. Il fatto riguarda un operaio della Pirelli, Diego Bossi, dirigente sindacale impegnato nella difesa dei diritti dei lavoratori (troppo spesso messi dai sindacati “maggiormente rappresentativi” e talvolta accantonati da quegli stessi sindacati di base, in uno dei quali – l’Allca CUB – milita Diego). L’azienda gli ha contestato la presenza ingiustificata «fuori turno all’interno delle aree aziendali senza motivazione o preventiva autorizzazione». Leggendo questa contestazione viene da immaginare qualcuno che, con aria furtiva, si aggiri nottetempo nelle “aree aziendali” chissà per quali loschi motivi. Invece Diego era sì presente in azienda fuori orario di lavoro, ma per un motivo preciso e dichiarato a chi di dovere: un collega, affetto da una grave patologia invalidante, gli aveva chiesto di accompagnarlo, essere presente e assisterlo durante il colloquio con il medico competente. La Direzione era stata avvisata dallo stesso lavoratore della presenza del rappresentante sindacale e nulla ha obiettato il medico competente durante il colloquio. Non è l’entità della sanzione che qui si prende in considerazione ma il fatto che la sanzione abbia il chiaro intento di far pressione, di far sentire il fiato sul collo al rappresentante sindacale. Se non fosse così, l’azione di Diego, che ha accompagnato, fuori dal suo orario di servizio, un collega in difficoltà al colloquio con il medico competente si dovrebbe considerare meritoria.

Viviamo tempi in cui il moto degli eventi è troppo spesso regressivo. Le tante “memorie artificiali” non ci aiutano a imparare dal passato e a ricordare. Perciò, invece, è bene ostinarsi a ricordare e anche a prendersi la licenza di confrontare eventi di peso diverso ma analoghi. In questi giorni si ricorda il centenario della nascita di Danilo Dolci, un uomo che fu molte cose, un utopista poliedrico che negli anni Cinquanta, in un borgo remoto della poverissima Sicilia occidentale, si inventò lo “sciopero al contrario”. Con un centinaio di disoccupati mise mano a una impraticabile trazzera per risistemarla. Per questo fatto venne arrestato e condannato. Lo difese Piero Calamandrei, che pronunciò a sua difesa, nel Tribunale di Palermo una memorabile arringa. Come si possono condannare uomini che, per senso della comunità, fanno un lavoro che servirà a tutti? «Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso morale e perfino del senso comune?». Questo chiedeva Piero Calamandrei ai giudici e questo ci chiediamo oggi di fronte a un piccolo episodio di ordinaria ingiustizia come quello che ha colpito Diego. Il quale saprà bene come difendersi – e la prima vera difesa è rappresentata dai tanti compagni di lavoro che lo stimano. Gli altri, quelli che sanzionano, quelli che considerano ogni giusta protesta per la dignità nel proprio lavoro qualcosa contro cui intervenire con metodi da legulei o, peggio ancora con la forza, li compatiamo.

«È certo che in questa società compressa da una crosta di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli uomini che prendono le cose sul serio»: sono sempre parole di Calamandrei, la cui attualità è evidente. Da questa situazione c’è una sola via d’uscita: la lotta solidale per costruire una società giusta e umana.

da qui

giovedì 20 giugno 2024

L’Italia dei braccianti dimezzati - Enrico Campofreda

  

Un bracciante che perde un braccio, cos’è? Una certa Italia, mai benevola col lavoro delle mani, lo trattava da un uomo dimezzato nell’efficienza produttiva e lo compensava con mezza paga. Non importava se il malcapitato s’affannasse a lavorare sodo dimenando velocemente l’altro arto, il salario era dimezzato. Accadeva nel Novecento giolittiano e in quello della rivoluzione fascista, che però ai mutilati d’ogni guerra, ancor più se coloniale, concedeva compensazioni. L’Italia della ricostruzione e del boom economico accordava qualcosa agli incidentati delle braccia da lavoro. Allora si parlava di progresso e di tutele. Alcune sono arrivate, ma tanti diritti sono stati smarriti o sono rimasti sogni. Nell’Italia digitalizzata le difese sono scemate sebbene, o non a caso, si registrino un anno via l’altro mille e passa caduti di pacifico lavoro. “Morti bianche” le chiamavano con un ossimoro pazzesco perché non c’è luce né chiarezza in tanti di questi assassini legalizzati. L’altro alibi è la fatalità o peggio la disattenzione per la quale il boomerang della menomazione o del decesso s’addossa a chi ne è colpito. La classe che frequenta campagne e cantieri e le fabbriche che restano e i tanti magazzini dove s’accumula la robbba da riversare negli scaffali delle vendite - ingrosso o dettaglio non fa differenza - la classe operaia è l’unica a guardare in faccia la morte o la lesione di corpi martoriati da impalcature, trivelle, presse, muletti su cui si lavora in una sicurezza resa insicura da inosservanze, assenza di controlli, ritmi, subappalti, caporalato. Fino a giungere a Borgo Santa Maria nel Pontino, vicino alle case che sanno di patria: Borgo Piave, Bainsizza, Podgora.  Campagne con una storia densa di contraddizioni che qui non trattiamo, e da tempo al centro di cronache di super sfruttamento bracciantile, fatto da sikh ultimamente ribelli a padroncini e moderni campieri. Lì un bracciante indiano ha avuto l’arto tranciato da una falciatrice meccanica ed è stato “soccorso” in questo modo: infagottato e trasportato su un pulmino verso l’abituale alloggio. E lasciato lì. Però i padroni benevoli non gli hanno fatto mancare il braccio, gettato accanto al corpo martoriato. I contadini del Punjab rischiano trattamenti simili? Può darsi. Ma intanto questo accade da noi e vedremo cosa faranno le festaiole istituzioni da G7.

da qui

giovedì 30 maggio 2024

La commedia del lavoro – Tersite Rossi

 

Una storia che sa di finzioni spudorate, danni apocalittici e confessioni tragiche

 

Prima puntata di due

“La gente recita a destra e a manca la commedia del lavoro, recita la commedia dell’attività mentre in realtà poltrisce soltanto e non fa assolutamente nulla e di solito, per giunta, anziché rendersi utile provoca danni enormi”, lessi in un romanzo di Thomas Bernhard. L’austriaco lo scrisse nel 1986 e oggi, quarant’anni dopo, è ancora più vero, pensai mentre anch’io, nel mio ufficio, fingevo di lavorare. Eran vent’anni, ormai, che fingevo di lavorare.

Ero impiegato in un ufficio di cui nemmeno erano chiare le mansioni, un ufficio in qualche modo preposto all’informazione e alla comunicazione, solo che dell’attività di quell’ufficio non fregava in realtà assolutamente nulla a nessuno, e così io fingevo di lavorare dalla mattina alla sera. Non che me ne stessi a braccia conserte tutto il tempo, sia chiaro. Fingere di lavorare significa pur sempre fare qualcosa, solo che è qualcosa di completamente inutile, qualcosa di cui non frega niente a nessuno, qualcosa che se nessuno la facesse non cambierebbe nulla, assolutamente nulla.

Per fingere di lavorare io ho bisogno di un computer sempre acceso, di navigare su internet, persino di stampare documenti ogni tanto, e tutto questo ha un impatto economico e ambientale. Poi c’è l’impatto sociale e per così dire cognitivo del lavoro che fingo di fare tutti i giorni, contribuendo a quell’eccesso di informazione e comunicazione che oggi letteralmente rimbecillisce chiunque, non c’è scampo per nessuno, oggi, al flusso ininterrotto di idiozie che gente come me immette nel grande tubo dell’informazione e della comunicazione, e questo prima o poi porterà alla paralisi cognitiva e sociale, anzi lo sta già facendo, e allora il danno sarà bello grosso. Senza contare il danno che intanto subisce la mia vita sociale e psichica, azzerata da un dialogo costante ed esclusivo con una macchina, o meglio un insieme di macchine.

Così, mentre fingevo di lavorare, lessi quella frase in quel romanzo di Bernhard e decisi di prendermi una pausa da quel lavoro finto e uscire dall’ufficio, senza comunicarlo a nessuno, tanto nessuno se ne sarebbe accorto. Decisi di uscire fuori a vedere coi miei occhi quanto, come intuito da Bernhard ormai quarant’anni fa, praticamente tutti, oggi, fingano di lavorare, con l’aggravante, così Bernhard, di recitare la commedia fino al punto di affermare con solennità il contrario, ovvero che si ammazzano di lavoro: “Certo non li rimprovero per il fatto che loro, in realtà, fingono soltanto di lavorare e prendono per il naso il prossimo”, così Bernhard, “ma, mi dicevo sempre, non dovrebbero affermare a ogni piè sospinto che si ammazzano di lavoro”.

In strada incontrai uno spazzino, un operatore ecologico come si dice oggi, e notai che spazzava sempre lo stesso metro quadro, che era già pulitissimo ovviamente, e allora gli chiesi perché lo facesse, e lui reagì scortese e mi disse di farmi i fatti miei. Allora gli dissi che con me non doveva fingere, che avevo letto Bernhard e sapevo che tutti fingevano, anch’io fingo per tutto il santo giorno, gli dissi, ed ero lì solo per conoscere, capire, per cui le mie domande erano fini a se stesse e non avrebbero avuto conseguenze per nessuno. Lui allora posò la ramazza, si accese una sigaretta, aspirò forte il fumo e poi mi disse che la sua giornata di lavoro era di otto ore, ma se faceva tutto a velocità normale avrebbe finito di lavorare nel giro di quattro, poi nella seconda metà della giornata non avrebbe avuto nulla da fare, e allora avrebbero capito che bastavano la metà degli spazzini, e magari lo licenziavano, e questo doveva evitarlo assolutamente perché il suo reddito dipendeva unicamente da quel lavoro che peraltro, così lo spazzino, per buona parte era già stato affidato alle macchine, quelle enormi e rumorose spazzatrici che da sole, in un’ora, fanno un lavoro che prima ci volevano quattro uomini e il triplo del tempo per fare. Lo ringraziai per quella spiegazione e continuai il mio giro.

Entrai in un bar e dentro c’era un sacco di gente, prendevano il caffè, chiacchieravano, l’unico che lavorava era il barista ma anche lui, pensai, in realtà fingeva, e glielo dissi, tu stai fingendo di lavorare, e lui mi guardò e sorrise, perché era così che fingeva di lavorare, sorridendo continuamente a tutti anche se non aveva assolutamente nessun motivo di sorridere a tutti, perché se non lo avesse fatto, così pensava, supposi, avrebbe perso clienti e quindi, alla lunga, il lavoro che fingeva di fare tutto il giorno e dal quale dipendeva il suo reddito. Sorrise e mi disse che no, non era così, che lui si ammazzava di lavoro tutto il giorno. Allora gli spiegai cosa facevo lì, Bernhard eccetera, e allora lui mi servì il caffè e poi, mentre lo sorseggiavo, mi disse che sì, era vero, il suo lavoro non serviva assolutamente a nulla, così quel barista, testuale, assolutamente a nulla, disse, perché la gente il caffè poteva farselo a casa la mattina e non era necessario prenderne così tanti durante il giorno, se le persone bevevano tutti quei caffè dentro bar come il suo era perché sentivano invincibile il bisogno di prendersi una pausa dai loro lavori completamente inutili, così il barista, testuale, completamente inutili, disse, perché prendere una pausa da un lavoro che si finge di fare è il modo migliore per fingere di fare un lavoro, così il barista, e alla fine anche fingere di lavorare è logorante, anzi, lo è molto di più che lavorare davvero, e così venivano nel suo bar e bevevano caffè che potevano farsi a casa la mattina prima di uscire o potevano evitare del tutto di bere, lo pagavano cento volte di più del suo valore e in più gli faceva male, perché bere tutto quel caffè distruggeva lo stomaco, disse, e aggiunse che anche il suo era distrutto, perché, a forza di fingere di lavorare pure lui tutto il giorno col caffè sempre a portata di mano, ne beveva più di tutti e il suo stomaco ormai era una poltiglia, così il barista, testuale, una poltiglia, disse. Finii di bere il mio caffè, pagai, lo ringraziai e uscii.

Camminai fino alla biblioteca comunale, che aveva sede in un palazzo storico, magnifico, costruito con un gusto estetico che oggi manca completamente, il gusto di quando si lavorava davvero e non per finta, pensai. Andai dal bibliotecario e gli chiesi cosa stesse facendo, e lui mi disse che non stava facendo niente. Lo ringraziai per avermi risparmiato la commedia del lavoro e lui mi spiegò che aveva letto Bernhard, che quel romanzo lo aveva lì, il suo ultimo, grandioso romanzo, il suo testamento letterario, disse. Prese il libro da un’altissima pila di libri, una pila di libri che dava l’impressione di essere lì impilata da secoli, e aprì alla pagina dove l’austriaco rifletteva sulla commedia del lavoro, e me la lesse ad alta voce, riflessioni che avevano ormai quarant’anni e oggi erano ancora più attuali, disse il bibliotecario. La gente non leggeva più niente, disse poi sempre ad alta voce, in quel luogo silenzioso dove la sua voce rimbombava come una cannonata, e così il suo lavoro non serviva più, le biblioteche non servivano più, perché la gente ormai leggeva solo i post sui social network, non era nemmeno lettura quella, così il bibliotecario, nemmeno lettura, disse, solo scrolling, così il bibliotecario, scrolling, disse, e questo perché ormai la gente non aveva più nemmeno le capacità cognitive necessarie a leggere libri, perché quello stesso scrolling le aveva devastate con l’effetto di un’esplosione nucleare, così il bibliotecario, un’esplosione nucleare dentro i nostri cervelli, anche il suo e il mio, disse, non pensassimo noi di esserne immuni, eravamo tutti contagiati, così il bibliotecario, testuale, contagiati, disse, e poi tornò a far niente. Lo ringraziai e uscii.

https://tersiterossi.substack.com/p/la-commedia-del-lavoro-1

 

La commedia del lavoro (2)

 

Seconda e ultima puntata

 

Mi allontanai dal centro urbano. Giunto in periferia, mi fermai nei pressi del grande cantiere di un palazzo e mi misi a discorrere con uno degli operai, intento a gettare del cemento. Gli chiesi se anche lui stava fingendo di lavorare, anche se già avevo visto che stava fingendo, non c’era alcun dubbio che stesse spudoratamente fingendo. Lui si guardò attorno furtivo e poi, a bassa voce, mi disse che non era colpa sua, il lavoro che gli avevano affidato era quello, che per pietà non lo denunciassi al padrone, altrimenti per lui era finita, così l’operaio, finita per sempre, disse. Gli dissi di stare tranquillo, che ero solo un passante che aveva letto Bernhard e voleva la conferma che più o meno tutti, oggi, fingano di lavorare. Allora lui si tranquillizzò, posò la pala e mi disse che era quel palazzo, di per sé, a essere completamente inutile, così l’operaio, testuale, completamente inutile, disse, perché di edifici ce n’erano già ovunque a centinaia, sarebbe bastato ristrutturarli anziché costruirne di nuovi, peraltro orribili, mentre quelli di una volta erano esteticamente pregevoli, realizzati da individui che non erano alienati dal loro lavoro, così l’operaio, testuale, individui che non erano alienati dal loro lavoro, disse, e di conseguenza il frutto del loro lavoro era bello, e confortevole, e sensato, mentre di quel palazzo che stavano costruendo, come delle altre centinaia di palazzi che venivano costruiti in quella città, tutto era insensato, dalle vetrate lucide e glaciali, al numero infinito di piani, ai controsoffitti che celavano brutture orripilanti, alle tonnellate di ferro e cemento, al sistema di aria condizionata, soprattutto il sistema di aria condizionata era un’aberrazione mostruosa, così l’operaio, testuale, un’aberrazione mostruosa, disse, un infinito reticolo di canaline da cui sarebbe fuoriuscita aria tossica che avrebbe inquinato inesorabilmente le menti di chi avrebbe abitato quegli uffici, dove un mucchio di gente avrebbe finto di lavorare proprio come stava facendo lui ora, causando solo danni enormi e irrimediabili, così l’operaio, testuale, danni enormi e irrimediabili, disse, danni apocalittici, aggiunse. Poi tornò a gettar cemento e io me ne andai.

Continuai a camminare e raggiunsi la zona industriale. Mi avvicinai a uno dei tanti capannoni, dove andavano e venivano rapidi innumerevoli muletti, trasportando imballi d’ogni genere. Qui pare lavorino con grande lena, pensai, e in realtà la grande lena è tutta finzione. Lo dissi al tizio in giacca e cravatta, probabilmente un dirigente, che in quel momento stava varcando il cancello d’ingresso. Lui mi guardò e mi chiese se ero uno di quegli attivisti o peggio un sindacalista. Io gli risposi di no, che avevo semplicemente letto Bernhard eccetera, e che volevo solo sapere la verità, niente di più. Allora lui mi disse che dentro quel capannone veniva stoccato ogni tipo di merce, era un centro di stoccaggio per il commercio elettronico, ma quello che stava per dirmi, disse, valeva per qualsiasi altro stabilimento industriale, così quel dirigente, testuale, qualsiasi altro stabilimento industriale, disse. Tutto il sistema produttivo, disse, si basava su una domanda artificiale, drogata per così dire, e di conseguenza ogni tipo di merce, in realtà, veniva prodotta in quantità eccessiva, e gran parte di quelle merci, senz’altro la maggioranza di quelle che loro stoccavano nel loro capannone, era completamente inutile, oltre che prodotta in modo pessimo, dozzinale, per fare in modo che tutto si rompesse nel giro di poco tempo e la gente ne comprasse ancora, e ancora, e ancora, in un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, così il dirigente, testuale, un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, disse, un ciclo che stava trasformando il pianeta, aggiunse, in un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, così il dirigente, testuale, un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, disse. Poi fermò uno dei muletti e ordinò all’operaio che lo stava guidando di aprire l’imballaggio che trasportava. L’operaio obbedì e il dirigente estrasse dall’imballaggio un albero di Natale e mi chiese, semplicemente: “Lo vede?”, e lo ripeté: “Lo vede?”. E io gli dissi che sì, lo vedevo, lo vedevo benissimo, non l’avevo mai visto così bene, gli dissi. Poi lo ringraziai e me ne andai.

Continuai a camminare e arrivai in campagna. Lì si produceva cibo, e nessun lavoro è più necessario della produzione di cibo, eppure anche lì fingevano di lavorare, pensai. M’imbattei in un contadino che stava vendemmiando e glielo dissi, gli parlai di Bernhard eccetera, della mia volontà di sapere solo la verità, gli dissi, nient’altro che la verità. E quello ammise che sì, in effetti era così, fingevano pure loro. M’indicò l’uva che stava vendemmiando e mi disse che non era più nemmeno cibo, quello, che se fosse stato cibo avrebbe potuto offrirmelo e avrebbe potuto mangiarne anche lui, ma non era più cibo, quello, ripeté, perché era velenoso innanzitutto, pieno di pesticidi, roba tossica all’inverosimile, e poi perché serviva a produrre vino, non a sfamarsi, producevano uva, disse, ma non per sfamare la gente, solo per produrre vino. Eppure tutti mangiamo, gli dissi, e lui rispose che sì, era vero, tutti mangiamo, ma il cibo che mangiamo, oggi, è tutto quanto tossico senza eccezioni, così il contadino, testuale, tutto quanto tossico senza eccezioni, disse, e non è più nemmeno cibo, perché ha un grado di sofisticazione che non lo si può più nemmeno chiamare cibo, disse, e quindi quando lo ingeriamo non stiamo mangiando, disse, ma ci stiamo soltanto avvelenando. Oggi si produce cibo non per sfamare la gente, aggiunse, ma per fare soldi, monocolture della vite, della mela, di qualsiasi cosa, solo per fare soldi, non per sfamarsi. Il fatto che con quel cibo prodotto solo per fare soldi la gente si sfami, o meglio abbia la sensazione di sfamarsi mentre si avvelena, è un aspetto incidentale, così il contadino, testuale, meramente incidentale, disse, un effetto collaterale di questa gigantesca, ottusa fabbrica di soldi a mezzo cibo, monocolture il cui prodotto è destinato in gran parte alle bestie, così il contadino, a tutte le bestie ammassate dentro stalle enormi in tutto il mondo, disse, miliardi di capi di bestiame allevati per produrre carne del tutto priva di proprietà nutritive, inevitabilmente tossica anch’essa, che non serve a sfamare la gente ma a fare soldi che servono a comprare altro cibo tossico e altra roba inutile, e così via in una catena apparentemente eterna che stritola il mondo e che però prima o poi finirà per spezzarsi, e allora tutta quanta questa gigantesca finzione del lavoro inutile e dannoso crollerà in mille pezzi con un boato assordante, così il contadino, tutta quanta questa finzione crollerà in mille pezzi con un boato assordante, disse, insieme a tutto il resto, aggiunse. Io annuii gravemente, lo salutai e tornai sui miei passi.

Rientrai in ufficio, dove la mia assenza non aveva prodotto alcun effetto e dove nessuno si era nemmeno accorto della mia assenza. E lì, indaffarato, ricominciai a fingere di lavorare.

Le frasi di Thomas Bernhard sono tratte da “Estinzione”, Adelphi 1996 (traduzione di Andreina Lavagetto).

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