Fronte
dell’Interporto - Giovanni
Iozzoli
Sarà curioso leggere un po’ più
approfonditamente le carte della Procura piacentina e del Gip Caravelli,
relative all’inchiesta che ha portato all’arresto di sei sindacalisti, oltre
che ad allungare a dismisura il già ricco carnet di perquisizioni,
provvedimenti amministrativi e denunce che la magistratura di quel territorio
ha collezionato negli anni, ai danni del movimento operaio della logistica.
Perché se è vero che di solito durante le conferenze stampa si danno in pasto
al pubblico le anticipazioni più succose, quello che è venuto fuori dalle
dichiarazioni dei magistrati è davvero disarmante. Viene da chiedersi se certe
figure siano davvero consapevoli della gravità del loro agire – una retata di
sindacalisti nel 2022! -, se siano in grado di valutare la sproporzione tra i
loro provvedimenti e gli “episodi contestati”; se si rendano conto che una
iniziativa come quella del 19 luglio va ad interferire pesantemente con
l’interpretazione e l’applicazione di alcuni fondamentali diritti
costituzionali.
La lettura politica di queste inchiesta,
apre il giudizio a diverse opzioni: la piccola Procura di Piacenza si è
ritrovata dentro una specie di delirio di onnipotenza, convincendosi di essere
un organo di garanzia del buon ordine sociale; e quindi, come candidamente
ammesso in alcuni stralci dell’ordinanza, ritiene suo preciso dovere “tutelare
aziende e multinazionali (sic) che sono una ricchezza del territorio”? In
questo caso la Procura, nel vuoto della politica, assumerebbe un ruolo di
riequilibrio del rapporto di forze, in un comparto che nell’ultimo decennio ha
visto l’insediamento di un sindacalismo, forse a volte caotico e litigioso, ma
comunque conflittuale e classista. Oppure stanno arrivando ai magistrati input
e segnali dall’alto, circa la necessità di irrigidire le maglie del controllo e
della sanzione, in vista di un autunno che si presenta come uno dei più
drammatici della storia italiana?
Difficile sbrigliare il nodo dei moventi
che possono reggere un’inchiesta così strampalata, indubitabilmente destinata a
morire prematura. Come si fa a contestare un’associazione a delinquere sulla
base di episodi come la tinteggiatura dell’appartamento di un dirigente del Si
Cobas da parte di un iscritto (traffico di influenze)? O il “differenziale” di
buonuscita per un delegato licenziato (sì, lo confermiamo ai magistrati:
liberarsi di un delegato rompicoglioni costa di più alle aziende, per una
elementare legge di mercato). Oppure l’uso dei soldi delle tessere e delle percentuali
sulle conciliazioni per gestire i quadri e le strutture sindacali (i Pm di cosa
pensano campino gli altri sindacati? Magari hanno i bilanci certificati, ma la
sostanza è quella).
La Gip nella sua ordinanza pare
ossessionata dall’idea della lobby tentacolare costituita da questi
sindacalisti rampanti ai danni delle aziende; ed è surreale pensare che nel
paese delle lobbies – spesso occulte e criminali –, i magistrati vadano a
caccia di “lobby operaie” dentro i magazzini della logistica. Del resto, la
vittimizzazione dell’impresa è uno degli elementi che ricorre più spesso
nell’impianto accusatorio: nel mondo alla rovescia dei magistrati, non è il
sistema dei sub appalti ad avvelenare le relazioni industriali e la
concorrenza; sono piuttosto i lavoratori a vessare i grandi gruppi della
logistica con richieste incongrue. Ed è anche comprensibile, tale visione,
perché i magistrati sono sottoposti come tutti noi alle medesime narrazioni
tossiche: l’imprenditore “chiagn’ e fotte” è ormai una figura onnipervadente
del nostro immaginario.
Pm e Gip hanno più volte negato, con
scrupolo peloso, che la loro possa essere interpretata come un’inchiesta contro
il sindacalismo di base (no: e quando mai?). Si tratterebbe piuttosto di
un’azione contro “due specifiche associazioni a delinquere costituitesi
all’interno delle sigle sindacali in questione”. Tra l’altro il Gip si occupa,
incredibilmente, anche di valutare e censurare le politiche sindacali delle due
organizzazioni – Si Cobas e USB – che competerebbero sfacciatamente tra loro
per mere ragioni di potere, invece di pensare all’interesse generale dei
lavoratori. Magistrati decisamente a tutto campo.
Insomma, se quello che si è letto in
questi giorni, è il “meglio” che il menu della casa può servire, l’inchiesta è
destinata agli archivi meno nobili della triste storia giudiziaria italiana.
Per quanto giuridicamente effimera, l’azione della magistratura piacentina
produce però altra repressione, altra sofferenza, mandando segnali intimidatori
a tutto un mondo conflittuale e ribadendo esplicitamente che le eccessive
richieste economiche contro “le multinazionali” sono un’estorsione e che la
contrattazione può diventare un reato.
Bisogna schierarsi esplicitamente dalla
parte del sindacalismo di base (come correttamente hanno fatto anche le
minoranze in CGIL e tutta la sinistra di classe) e alzare la soglia della
mobilitazione tutte le volte che la violenza di Stato si scaglia sulle
organizzazioni popolari. Inutili i distinguo e gli attendismi: queste
iniziative repressive meritano una lettura e una risposta politica complessiva.
E la società e l’opinione pubblica, vanno assolutamente coinvolte: non si può
assistere all’indignazione a reti unificate dei nostri TG mentre arrestano gli
oppositori a Mosca, e permettere loro di girare la testa dall’altra parte a
Piacenza.
Quanto alle Procure, anche senza grandi
dibattiti sulla divisione delle carriere, se si stabilisse una norma per cui i
Pm sono economicamente responsabili delle spese di certe inchieste farlocche –
ingentissime, immaginiamo: 5 anni di indagini, centinaia di ore di
intercettazioni, schedature di massa, forze di polizia, interpreti e consulenti
all’opera – , certi magistrati, dicevo, smetterebbero di occuparsi della
tinteggiatura di interni e comincerebbero a pensare di più alle infiltrazioni
mafiose – quelle reali – dentro al “tessuto economico” che vorrebbero
preservare dalle orde sindacalizzate.
Il vecchio vizio di certi segmenti di
magistratura è sempre lo stesso: pesca a strascico dentro un ambiente o un contesto,
protratta per anni, con ogni mezzo di indagine possibile; e poi, su questa mole
caotica di carte, l’edificazione di un teorema, solitamente debole o
fantasioso. Perché il paradosso italiano, negli inferni della logistica, è
sempre lo stesso: sono i rivoluzionari “associati a delinquere”, quelli che, in
ultima analisi, difendono la legalità e aiutano lo Stato a recuperare enormi
introiti facendo emergere il nero e il grigio delle elusioni fiscali e
contributive; mentre la buona borghesia della provincia padana ha assistito in
compiaciuto silenzio per un quarto di secolo al proliferare di ogni abuso,
truffa e illegalità.
L’inchiesta indugia morbosamente sulle
faccende di soldi e contabilità, insinuando il sospetto che tutte le lotte non
siano altro che il paravento dei modestissimi introiti di cui vivono i
sindacalisti (attività defatigante, in certi ambienti anche pericolosa).
Nell’ottica del perbenismo piccolo borghese parlare di soldi è peccaminoso o
improprio e suscita immediata diffidenza. In tal modo i magistrati, lisciano il
pelo al comune sentire “anti-politico”, al qualunquismo passivizzante: sembrano
dire all’opinione pubblica: non vi fidate, sono tutti ladri, non seguite certe
bandiere, state a casa che è meglio. Quello che vi serve vi arriverà dall’alto,
senza bisogno di agitarvi troppo. I lavoratori – quelli che in questi giorni
stanno scioperando e manifestando contro gli arresti – sono raffigurati come
bambini ingenui, raggirati da dirigenti marpioni che hanno usurpato la loro
fiducia.
Ovviamente non è la vil moneta, al centro dell’attenzione dei magistrati:
lo scandalo vero sono i picchetti, le agitazioni senza preavviso, il blocco
delle merci, le vertenze aziendali per rinforzare una contrattazione nazionale
esangue. La Procura ventila il reato di “sabotaggio” (tipico di un contesto di
guerra), e in effetti queste migliaia di lavoratrici e lavoratori hanno
rappresentato in questi anni un’efficace avanguardia di sabotatori: hanno
sabotato il modello emiliano fondato sulle finte cooperative e il
semischiavismo, hanno sabotato le complicità sindacali e il comparaggio
politico, hanno sabotato il conformismo omertoso che aveva regnato in certi
territori della ricca Padania peggio che in Aspromonte. Altro che i quattro
soldi delle conciliazioni: al centro dell’azione della Procura c’è lo scandalo
di proletari che si organizzano, che rovesciano le filiere etniche dello
sfruttamento in forza operaia, che mettono i piedi nel piatto
dell’organizzazione del lavoro, della prestazione, degli orari, della dignità.
I “delinquenti associati” di Piacenza sono quelli che in questi anni, dentro ai
cancelli degli stabilimenti, hanno paradossalmente soltanto difeso la
Costituzione repubblicana – uno dei lavori che gli italiani non vogliono fare
più.
Aldo Milani e Arafat sono già al secondo
arresto. Abdel Salam Al Nanf, ammazzato a Piacenza nel 2016 nel corso di un
picchetto “criminale”, aspetta ancora giustizia. La modifica dell’art. 1677 del
codice civile per eliminare la responsabilità in solido del committente negli
appalti, è l’ultimo regalo di Draghi ad Assologistica e Confindustria, un
attimo prima di cadere. Il Pm Pradella ha subito dichiarato che le
manifestazioni non autorizzate di questi giorni saranno oggetto di
provvedimenti specifici. Cartoline italiane da Piacenza.
da qui
I molti problemi dell’inchiesta contro i
sindacati di base a Piacenza - Isaia
Invernizzi
C’entrano un’interpretazione
controversa del diritto di svolgere attività sindacali e le pessime condizioni
di lavoro nella logistica
Sabato scorso a Piacenza oltre duemila
persone hanno manifestato per
chiedere la libertà di sei sindacalisti di SI Cobas e Usb, i principali
sindacati di base attivi nei magazzini della logistica, arrestati il 19
luglio su richiesta della procura con accuse gravi: associazione a delinquere,
violenza privata, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, sabotaggio e
interruzione di pubblico servizio. Alla manifestazione hanno partecipato operai
e operaie, studenti, attivisti arrivati da altre regioni italiane e
dall’estero. «Le lotte operaie non si processano», diceva lo striscione che
apriva il corteo, una sintesi efficace delle contestazioni rivolte alla
procura.
Secondo i sindacati di base e i loro
avvocati, infatti, l’obiettivo dell’inchiesta sarebbe di reprimere la legittima
attività sindacale.
Sono stati arrestati il coordinatore
nazionale del SI Cobas, Aldo Milani, e tre dirigenti piacentini, Mohamed
Arafat, Carlo Pallavicini e Bruno Scagnelli, oltre a due dirigenti dell’Usb, Abed
Issa Mohamed e Roberto Montanari. Sono tutti agli arresti domiciliari. Altri
due sindacalisti hanno ricevuto l’obbligo di firma e il divieto di dimora a
Piacenza, revocato martedì dal
giudice per le indagini preliminari in seguito ai primi interrogatori. In
totale le persone indagate sono circa un centinaio.
Gli arresti si basano sui risultati di una
lunga inchiesta iniziata nel 2016. La polizia giudiziaria ha acquisito migliaia
di documenti: relazioni della Digos, video delle manifestazioni e delle
assemblee trasmesse sulle pagine social dei sindacati, fotografie,
approfondimenti sui conti correnti e sulle proprietà immobiliari, comunicati e
volantini. La parte più consistente delle accuse si basa su moltissime ore di
intercettazioni telefoniche, un’operazione iniziata il 3 dicembre 2018.
Tutto questo materiale è stato riportato in
22mila pagine che presentano la maggior parte delle proteste sindacali avvenute
in provincia di Piacenza tra il 2014 e il 2021. I risultati sono stati
riassunti nelle 347 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal
giudice per le indagini preliminari Sonia Caravelli.
La tesi principale della procura è che la
lotta sindacale portata avanti da SI Cobas e Usb sarebbe stata organizzata non
per rivendicare e ottenere più diritti per i lavoratori, ma per garantire
vantaggi economici personali agli arrestati e ai sindacati attraverso una
doppia associazione a delinquere, una per ogni sindacato di base.
Le manifestazioni non autorizzate, secondo
la procura, sarebbero servite non per conquistare diritti e accordi, ma per
inasprire il conflitto con le aziende e la competizione tra le due sigle
sindacali, SI Cobas e Usb, entrambe impegnate a imporsi come organizzazione più
rappresentativa e ottenere vantaggi come l’aumento delle iscrizioni, dei
proventi delle conciliazioni e anche arricchimento personale.
In molti passaggi dell’ordinanza si parla
dei proventi delle conciliazioni, cioè delle trattative svolte dai sindacati
per ottenere le buonuscite da dare a ciascun lavoratore che viene licenziato:
una percentuale di queste buonuscite viene poi riconosciuta ai sindacati per il
lavoro svolto.
È questo però un modo legale per
finanziarsi, comune a tutti i sindacati. Per la procura, «tali flussi di denaro
vanno ad alimentare l’organizzazione di tali sigle sindacali che vivono appunto
del conflitto, che rilanciano continuamente e sistematicamente proprio perché
da lì ricavano il loro sostentamento derivante dalle nuove affiliazioni
(ottenute a fronte dello strappare migliori condizioni per i propri iscritti) e
soprattutto dalle conciliazioni».
Ci sono poi riferimenti a rimborsi per
biglietti aerei e spese dei sindacati. Una delle contestazioni riguarda le
spese per il trasporto degli iscritti del SI Cobas a tutte le manifestazioni,
circa 300mila euro in diversi bonifici fatti in un anno da conti correnti del
sindacato a due diverse compagnie di trasporti. Secondo la procura, 300mila
euro sarebbero moltissimi soldi che suggeriscono la gestione di attività
illegali e il reato di associazione a delinquere. Secondo i sindacati
mostrerebbero solo come negli ultimi anni la mobilitazione dei lavoratori in
provincia di Piacenza sia stata notevole.
Una delle accuse più puntuali riguarda
l’accordo ottenuto dal SI Cobas con il consorzio Ucsa: la procura sostiene che
siano stati concessi tra 25 e 30mila euro di buonuscita a testa a una
cinquantina di lavoratori, mentre a Mohamed Arafat, uno degli arrestati, tra le
figure principali dei SI Cobas a Piacenza, l’azienda avrebbe dato 100mila euro
(quindi l’accusa è che Arafat avrebbe ricevuto dall’azienda più soldi degli
altri lavoratori e si sarebbe arricchito personalmente, non è chiaro in cambio
di cosa).
Ad Arafat sono stati contestati anche
bonifici del sindacato accreditati sui conti personali per l’acquisto di case
in Italia e in Egitto.
Molte delle accuse contro Arafat si basano
su una denuncia presentata dall’ex cognato. «Si ha motivo di ritenere che
Arafat in effetti abbia utilizzato il sindacato per arricchirsi, con la seria
possibilità che abbia addirittura drenato risorse illegali dai conti
dell’organizzazione di lavoratori», spiega la procura. «Il tutto
strumentalizzando il suo ruolo centrale nella creazione del conflitto e nella
successiva gestione delle vertenze conciliative attraverso un sistema
consolidato di fittizi rimborsi spesa».
Secondo gli avvocati dei sindacalisti, i
singoli episodi non bastano a giustificare l’accusa di associazione a
delinquere, e più in generale l’osservazione dei fatti e dell’insieme delle
contestazioni si basa su presupposti controversi: l’ampia rappresentatività
sindacale è considerata dalla procura un elemento “ricattatorio”, gli scioperi
e le proteste una forma di richiesta “estorsiva”. Di fatto, nell’ordinanza
molti dei metodi e degli obiettivi dei sindacati di base sono considerati
illegali, al punto che alcuni mezzi di informazione hanno ribattezzato le
accuse come “reato di sindacato”.
Prevenendo questa critica, i magistrati
hanno detto fin da subito di essersi concentrati esclusivamente sulle
responsabilità personali degli arrestati.
Sia nell’ordinanza di custodia cautelare,
sia durante la conferenza stampa di martedì scorso, i magistrati hanno
sostenuto di non aver seguito un intento repressivo nei confronti dell’attività
sindacale. «Questa ordinanza non contiene nulla che possa essere definito
limitativo o solo offensivo della attività sindacale lecitamente svolta, in
relazione alla quale questo procuratore e il questore, e le forze dell’ordine,
hanno il massimo rispetto», ha detto la
procuratrice capo, Grazia Pradella.
Nonostante le rassicurazioni della procura,
come si può notare dalle accuse e dal contenuto dell’ordinanza, l’inchiesta
coinvolge inevitabilmente i sindacati di base e i loro metodi in un territorio
in cui il settore della logistica è cresciuto in maniera incontrollata, spesso
a scapito dei diritti dei lavoratori.
Uno dei limiti più significativi delle
indagini, secondo i sindacati e gli avvocati della difesa, è proprio la
mancanza del contesto e dei problemi segnalati in anni di lotte e denunce.
L’evoluzione del settore della logistica in provincia di Piacenza è importante
per capire come e perché si siano sviluppate le proteste al centro
dell’inchiesta. In sintesi, il fatto che la logistica fosse un settore completamento
non regolato e dove erano poco presenti i sindacati confederali ha reso
particolarmente difficile per i sindacati di base ottenere diritti anche minimi
per i lavoratori. Questo ha fatto sì che i sindacati di base abbiano fatto
ricorso a metodi più radicali di lotta politica, a volte controversi e
illegali, ma anche ad alcuni sistemi legali di autofinanziamento che la procura
sostiene siano una prova del reato di associazione a delinquere.
Piacenza è uno dei territori con la più
alta concentrazione di magazzini della logistica, dove oggi lavorano circa
10mila persone. È in una posizione strategica, al centro della pianura padana:
da qui si può spostare in breve tempo una grande quantità di merce in molte
regioni italiane. Grazie a persone, mezzi, infrastrutture, magazzini e
software, centinaia di migliaia di pacchi ordinati online arrivano
quotidianamente nelle case, nel giro di pochi giorni e in alcuni casi in poche
ore dall’ordine. I servizi sono costruiti a misura di consumatore, con alle
spalle una rete di magazzini sempre più estesa e un sistema di consegne
efficiente e veloce. Ogni passaggio è controllato per rispettare i tempi
stabiliti e garantire la soddisfazione del cliente.
Dalla metà degli anni Novanta a Piacenza,
come nel resto dell’Emilia-Romagna, in Lombardia e in Veneto, la logistica è
cresciuta in modo notevole e senza controlli, le condizioni ideali per favorire
lo sfruttamento dei lavoratori, prevalentemente stranieri.
L’organizzazione imprenditoriale è basata
quasi esclusivamente sul ricorso a cooperative, un sistema poco trasparente di
appalti e subappalti in cui la precarietà è strutturale: lo scioglimento dei
contratti e gli improvvisi cambi di appalto, resi noti con pochissimo
preavviso, ancora oggi sono modi per ricattare i lavoratori ed evadere le
tasse.
Spesso gli stipendi vengono pagati in parte
con indennità di trasferta, esente da tasse, senza che il lavoratore si sia mai
spostato dal magazzino. Oppure si ricorre al metodo del falso part time: su
dieci o dodici ore al giorno lavorate, in busta paga ne compaiono quattro o
cinque e il resto viene pagato in nero.
Nella catena degli appalti le
responsabilità sociali sono diluite e i lavoratori sono più deboli, con poche
possibilità di rivendicare i propri diritti. Tutto questo, però, nelle carte
della procura non c’è, come non c’è alcun riferimento all’Ispettorato Nazionale
del Lavoro nelle indagini.
«Le cooperative hanno avuto almeno 15 anni
per fare quello che volevano, fino a quando non sono arrivati i sindacati di
base», dice Gianni Boetto, segretario dell’ADL Cobas, sindacato di base tra i
primi a entrare nei magazzini della logistica insieme al SI Cobas. «Ogni due
anni le cooperative sparivano, cancellavano tutto e mandavano a casa i
lavoratori senza che lo stato potesse fare nulla. Le condizioni di lavoro erano
assurde: mandavano messaggi per convocare i lavoratori giorno per giorno,
c’erano telecamere per controllare ogni movimento, i bagni non esistevano. Era
un mondo marcio e siamo orgogliosi di averlo trasformato con le nostre lotte,
anche se c’è ancora molto da fare».
– Leggi anche: La logistica in Emilia-Romagna si regge sullo sfruttamento dei
lavoratori
Dal 2012, a Piacenza, è iniziata una serie
di proteste e rivendicazioni che hanno interessato quasi tutti i magazzini. I
sindacati di base hanno raccolto e diffuso l’urgenza di dignità e diritti
manifestata da migliaia di lavoratori stanchi di caporalato, salari bassi e
pessime condizioni di lavoro. Gli sforzi per cambiare le cose sono stati
condotti con azioni molto dure e in alcuni casi considerate illegali. Oltre a
scioperi e picchetti, ci sono stati blocchi delle merci, proteste sui tetti,
occupazioni, chiusure degli stabilimenti e “scioperi bianchi”, cioè il
rallentamento del lavoro pur senza dichiarazione di sciopero.
La tensione è cresciuta con la morte di Abd
Elsalam Ahmed Eldanf, sindacalista egiziano dell’Usb, ucciso nella notte
tra il 14 e il 15 settembre del 2016, investito da un camion. Eldanf si trovava
con altri colleghi all’esterno dei cancelli della GLS, in attesa di avere
notizie su una riunione tra i sindacati e l’azienda per discutere della mancata
assunzione di 13 operai della Seam srl, un’azienda dell’indotto per il carico e
scarico merci del corriere, dopo che era stata promessa da tempo la loro
stabilizzazione.
Le azioni dei sindacati di base sono state
dure, spesso con modalità più radicali di quelle normalmente impiegate dagli
altri sindacati, ma che si sono dimostrate in diversi casi efficaci. Negli
ultimi anni in provincia di Piacenza sono stati firmati centinaia di accordi
tra aziende e sindacati di base: gli stipendi sono aumentati, c’è una
percentuale più alta di contratti a tempo indeterminato e sono stati introdotti
nuovi benefit come i ticket mensa o i premi di risultato.
Allo stesso tempo, i sindacati confederali,
cioè Cgil, Cisl e Uil, hanno continuato a mantenere un ruolo assai marginale
nel settore della logistica, di fatto lasciando tutto lo spazio ai sindacati di
base.
Molti di questi risultati non sono previsti
dal contratto nazionale, ma dalla cosiddetta contrattazione di secondo livello
che consente di trovare accordi singoli tra le aziende e i sindacati. «A
Piacenza siamo presenti in 53 magazzini, abbiamo 3.500 iscritti e in ogni
azienda abbiamo solo cercato di fare accordi per migliorare le condizioni di
lavoro», dice Ruben Mongiovì, esponente del SI Cobas di Piacenza. «Il nostro
sindacato di base è cresciuto molto negli ultimi anni, non solo a Piacenza: è
per questo che stiamo subendo attacchi repressivi».
Una delle conquiste più significative è
stata raggiunta nel 2015 e consiste nella firma dell’accordo tra i sindacati di
base SI Cobas, ADL Cobas e alcune delle più grandi aziende della logistica per
migliorare il vecchio accordo dei sindacati confederali: il punto più
importante prevede, in caso di un cambio di appalto, l’obbligo di assumere
lavoratori già occupati a parità di condizioni e il passaggio automatico di
livello in base all’anzianità.
In questo modo è stata limitata la
precarietà e il potere discrezionale dei responsabili delle cooperative.
Molte delle azioni di protesta avvenute a
Piacenza negli ultimi anni sono state descritte nel dettaglio in decine di
pagine dell’ordinanza con cui la procura ha chiesto l’arresto dei sindacalisti.
In particolare, vengono citate le proteste organizzate in aziende come GLS,
Traconf, Nippon Express, Leroy Merlin, Xpo Logistics e Amazon. Tuttavia, non
vengono mai citati i motivi delle proteste, spesso definiti «inesistenti», e in
generale le condizioni pessime in cui erano costretti a lavorare facchini e
operatori delle cooperative a cui venivano affidati gli appalti.
La maggior parte delle vertenze aperte
negli ultimi anni a Piacenza, infatti, si è chiusa a favore dei sindacati di
base.
Uno dei casi che trovano più spazio
nell’ordinanza è la protesta organizzata alla GLS nel 2019, quando per 15
giorni alcuni sindacalisti dell’Usb occuparono il tetto
del magazzino per protestare contro il licenziamento di 33 lavoratori deciso
come ritorsione nei confronti degli scioperi organizzati per chiedere migliori
condizioni di sicurezza. Nelle carte della procura vengono citati molti
dialoghi tra i sindacalisti che avevano organizzato la protesta per dimostrare
la presunta inconsistenza delle rivendicazioni. Tuttavia, nell’ordinanza non
compare la sentenza della Corte di Appello di Bologna che tra il 2020 e il
2021 ha reintegrato tutti
i lavori licenziati, esattamente come richiesto dall’Usb con l’occupazione del
tetto.
Una parte significativa delle premesse
dell’indagine è dedicata inoltre alle denunce presentate da aziende e
cooperative attraverso i loro amministratori o direttori del personale.
In una denuncia, il direttore generale di
un’azienda afferma che Scagnelli, uno degli arrestati, e altri rappresentanti
di SI Cobas e Usb «hanno estorto con la pressione e la minaccia di blocchi,
agitazioni e rivendicazioni, il più delle volte inesistenti, l’accoglimento
delle vertenze che riguardavano il nostro fornitore Seam, inducendo la parte
datoriale a doversi sedere a tavoli di confronto». In questo caso, come in
molte altre denunce contenute nell’ordinanza, le aziende accusano il sindacato
di minacciare scioperi per avviare delle trattative, che è esattamente uno dei
metodi di qualsiasi sindacato per ottenere migliori condizioni di lavoro.
Tra le dichiarazioni ci sono anche le
parole di Giancarlo Bolondi, presidente del consiglio di amministrazione della
società Premium Net. La procura riporta la sua testimonianza senza però
specificare che Bolondi è stato arrestato nel
luglio del 2018 dalla Guardia di Finanza di Pavia nell’ambito dell’operazione
chiamata “Negotium” con l’accusa di caporalato, dalla quale è stato assolto in
primo grado (assoluzione contro cui la procura ha presentato ricorso), e di
frode fiscale per 15 milioni di euro, per cui è stato condannato in primo
grado.
Secondo l’accusa, Bolondi è stato a capo,
tra il 2012 e il 2018, di una rete di consorzi e cooperative attraverso la
quale avrebbe reclutato manodopera in condizioni di sfruttamento, lavoratori
tenuti costantemente sotto la minaccia di perdere il lavoro per costringerli ad
accettare condizioni diverse rispetto ai contratti nazionali su turni, ferie e
riposi.
L’ordinanza non tiene conto nemmeno delle
tante inchieste che hanno rivelato infiltrazioni della criminalità organizzata
nel settore della logistica. Anche qui, come in altre regioni, mafia, camorra e
’ndrangheta sfruttano i sistemi poco trasparenti delle cooperative per
riciclare i proventi delle loro attività illegali. Negli ultimi anni ci sono
state alcune aggressioni ai
sindacalisti da parte di picchiatori assoldati dai clan per impedire gli
scioperi e sono state emanate molte interdittive antimafia a diverse aziende per
«rischi di condizionamento da parte della camorra».
«È importante che ci sia un controllo
capillare su questi datori di lavoro, perché qui stanno arrivando la mafia e la
camorra attraverso le cooperative che prendono gli appalti», ha detto a Micromega Paolo Campioni, delegato provinciale dell’Usb di
Piacenza. «Sembra assurdo: la procura attaccando noi sta facilitando il lavoro
all’illegalità».
In una delle intercettazioni citate
nell’ordinanza si parla di un contributo di solidarietà di 150 euro, la “cassa
di resistenza”, chiesto ai lavoratori per sostenere le spese per la difesa di
Aldo Milani, il coordinatore del SI Cobas, tra gli arrestati, in un
procedimento giudiziario per estorsione in cui era stato coinvolto a Modena.
In questo caso la procura spiega che «la
vicenda a cui si fa riferimento è quella che ha visto Aldo Milani a processo
per estorsione ai danni di un’impresa alla quale costui aveva chiesto
l’erogazione di decine di migliaia di euro per alimentare una “imprecisata
cassa di resistenza” dietro la minaccia di alimentare il conflitto sindacale».
La “cassa di resistenza”, un modello di autosostentamento molto diffuso tra i
sindacati di base, viene citata più volte nell’ordinanza come prova di un
vantaggio economico personale per Milani.
Nei documenti si cita l’inchiesta per
estorsione in cui Milani è stato coinvolto, senza però rendere conto
dell’esito. Milani fu arrestato nel
2017 dalla procura di Modena, accusato di aver ricevuto soldi per sospendere le
proteste dei lavoratori nella fabbrica Alcar Uno di proprietà della famiglia
Levoni.
Durante il processo emerse che in realtà
Milani non aveva ricevuto nessuna mazzetta: nel maggio del 2019 era stato assolto per
non aver commesso il fatto. La procura aveva presentato ricorso. Nel 2020 la
Guardia di Finanza aveva poi sequestrato 90
milioni di euro all’azienda Alcar Uno per evasione fiscale e mancato pagamento
dei contributi. «Grazie alle lotte e alle denunce dei sindacati di base, lo
stato ha recuperato milioni di euro di tasse e contributi che non venivano
pagati», dice Boetto, segretario dell’ADL. «Ci accusano di essere delinquenti e
considerano l’attività sindacale come qualcosa di illegale, ma grazie al nostro
lavoro abbiamo consentito di scoprire illegalità e soprattutto conquistare
condizioni di lavoro dignitose».
Secondo Alessandro Delfanti, sociologo,
piacentino, professore all’università di Toronto e autore del libro The Warehouse: Workers and Robots at Amazon (Il Magazzino. Lavoro e robot ad
Amazon), in Italia e in particolare in
Emilia-Romagna c’è molta più attenzione delle procure e delle forze dell’ordine
sull’attività dei sindacati di base rispetto ad altri paesi, nonostante le
azioni e le proteste siano molto simili.
Come rilevato dal giornalista Lorenzo D’Agostino, nella sola
provincia di Modena tra il 2018 e il 2020 sono stati avviati 480 procedimenti
penali contro lavoratori di SI Cobas e Usb che hanno partecipato a proteste
davanti alle aziende. Moltissime sono anche le denunce e i procedimenti penali
avviati dalla procura di Piacenza, come dimostra l’inchiesta.
«Il caso Piacenza è peculiare perché ha
un’anomalia all’interno di un ciclo globale della logistica», ha detto Delfanti
in un’intervista alla Libertà. «Gli scioperi, i
blocchi, i picchetti sono diventati pane quotidiano nei porti di Rotterdam, Los
Angeles, Hong Kong. Insomma, questi metodi di lotta sono diffusi. La
caratteristica piacentina sembra essere invece il carico anomalo di denunce,
arresti, repressioni che tali lotte si portano poi dietro. Fare pressioni sul
datore di lavoro per ottenere condizioni migliori sul contratto di lavoro o
“gareggiare” con altri sindacati per avere più tessere è né più né meno il
mestiere del sindacato».
All’inizio di agosto, probabilmente il 3,
il tribunale del riesame di Bologna sarà chiamato a discutere il ricorso contro
le misure cautelari presentato dagli avvocati dei sindacalisti accusati. Negli
interrogatori di garanzia i sindacalisti hanno rilasciato spontanee
dichiarazioni ricostruendo tutte le principali vertenze e il contesto di
sfruttamento e precarietà da cui sono nate.
da qui