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mercoledì 17 gennaio 2024

Elogio del boicottaggio - Piero Bevilacqua

 

Se dovessimo chiederci quale fra le tante cause abbia oggi più peso nel determinare lo scadimento della vita politica, il restringimento della democrazia, la crescita delle disuguaglianze, l’impoverimento dello spirito pubblico, io non avrei esitazione a indicarla: l’affievolimento e la perdita d’efficacia del conflitto sociale. Non che le lotte siano scomparse dalla scena, ma sono quasi sempre frammentate, non inserite in una progettualità generale e soprattutto inefficaci, scarse di esiti positivi, di contropartite incoraggianti in grado di innescare processi più vasti. Senza qui addentrarci in analisi complesse, credo che il cuore di questo affievolimento sia nel depotenziamento della lotta di fabbrica, provocato dalla possibilità che il capitale ha di delocalizzare le sue aziende, e dalle molteplici ristrutturazioni industriali che hanno frantumato la compatta omegeneità operativa della classe operaia. La possibilità che le imprese hanno di rispondere alle rivendicazioni operaie con la fuga, spostando altrove le proprie sedi, ha posto i lavoratori in una condizione di impotenza, che poi si è riflessa – con intrecci che sarebbero da ricostruire in sede storica – nelle scelte moderate e neoliberistiche dei partiti ex comunisti e socialdemocratici. Costoro, sempre meno in grado di rispondere ai bisogni popolari, hanno progressivamente cessato di assumerne la rappresentanza e cercato presso altri ceti il consenso per la propria sopravvivenza. È quanto accaduto negli ultimi 30 anni.

Sul carattere dinamico e progressivo della lotta di classe non occorrerebbero prove storiche. Qui mi basti rammentare che si tratta di una scoperta teorica alle origini del pensiero politico moderno. È Niccolò Machiavelli che, nei Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, criticando tutti gli storici che avevano sin lì considerato la lotta tra patrizi e plebei, nella Roma repubblicana, come dei meri disordini, ne capovolge l’interpretazione. «Costoro biasimano quelle cose che furono la prima causa del tenere libera Roma» poiché «vi sono in ogni repubblica due umori diversi, quelli del popolo e quello dei grandi; e […] tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascono dalla disunione loro» (I, IV).

Com’è noto, non si comprenderebbe lo sviluppo della società industriale senza le lotte operaie, come sul piano teorico ha mostrato Marx e come testimonia la storia del movimento operaio a livello mondiale. Un illustre sociologo del ‘900, Ralf Dahrendorf, pur da posizioni democratico-liberali, riconosceva che Marx aveva avuto il merito di cogliere il nesso profondo «tra struttura sociale e mutamento sociale assumendo che i conflitti di gruppo e le loro violente manifestazioni siano le forze che determinano tale mutamento» (Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, 1963). Del resto non c’è Paese che più pienamente dell’Italia fornisca le prove empiriche di tale nesso. Tutto il vasto processo riformatore che negli anni ’70 ha modernizzato un Paese arretrato e autoritario come il nostro, grazie allo Statuto dei lavoratori, alla riforma del diritto di famiglia, al divorzio, al Sistema sanitario nazionale, alla legge sull’aborto ecc., non sarebbe stato possibile senza i grandi e prolungati conflitti della fine degli anni ’60.

Ora è evidente che di fronte al limitato impegno dei sindacati e dei partiti politici nel sostenere lo scontro sociale, com’era accaduto nel ‘900, occorrerebbe pensare a come dar vita a nuove forme di lotta utilizzando le innumerevoli e disperse forze dei movimenti, associazioni, gruppi ecc. che oggi tengono viva per lo meno la critica alla società capitalistica. Beninteso, non si tratta di dar vita a manifestazioni di protesta, organizzare cortei, scrivere appelli ecc. Quel che appare oggi vitalmente necessario è la capacità di infliggere danni alla controparte che si vuol combattere. Senza produrre penalizzazioni, minacciare di perdite, intimorire le imprese, i gruppi politici o i governi, la lotta è quasi sempre povera di esiti. Con ogni evidenza oggi si è creata una tale la sproporzione delle forze tra poteri dominanti e ceti subalterni, alla base dell’umiliazione del lavoro e della dignità umana, dell’imbarbarimento civile che abbiamo sotto gli occhi, che non è possibile cominciare a invertire l’asimmetria se non colpendo gli obiettivi con efficacia.

Occorre dunque una una visione più complessa dei poteri che governano le nostre società. Dovremmo meglio considerare che il capitalismo non è solo un “modo di produzione”, ma anche un “modo di consumo”. Per sopravvivere esso ha un bisogno crescente di consumo famelico, perché la produzione di merci è in continua espansione, così come la competizione tra imprese, sicché gli acquisti bulimici vanno sollecitati con campagne pubblicitarie sempre più invasive e ossessive. Gli imprenditori investono somme ingenti in marketing e pubblicità, perché, mentre accrescono lo sfruttamento dei cittadini in qualità di lavoratori, debbono anche esortarli senza requie affinché acquistino i prodotti del loro stesso lavoro. Mentre spadroneggiano nelle proprie aziende, nell’ambito della società debbono inchinarsi ai potenziali clienti. È evidente dunque che nella sfera del consumo i rapporti di forza tra capitale e lavoro cambiano e in un certo senso si rovesciano. Il profitto, che si realizza solo quando la merce è venduta, sempre più dipende da bisogni non necessari dei cittadini, che si possono rifiutare di acquistare.

E qui viene in rilievo una contraddizione, certo ben nota, ma su cui si è poco lavorato in termini di progettualità politica e di lotta, soprattutto in Italia. Se consideriamo le cose dal versante del consumo dei beni appare evidente che se i lavoratori sono territorialmente chiusi nei confini nazionali come produttori – benché, almeno a livello europeo, i sindacati avrebbero potuto unificarli – in quanto consumatori potrebbero godere di uno spazio internazionale e avere al loro fianco anche altri ceti. Il rifiuto all’acquisto dei prodotti di una fabbrica che discrimina le maestranze in un luogo delimitato può teoricamente abbracciare un vasto mercato sovranazionale. Non è tutto. Anche le imprese che adottano i metodi più brutali di comportamento nei confronti dei propri dipendenti, che inquinano i suoli e le acque, danneggiano l’ambiente, cercano sempre di darsi una immagine impeccabile di probità, curano in sommo grado la propria reputazione. Le grandi imprese investono cospicue risorse per innalzare e rendere lustro il loro capitale simbolico. Una forma di ricchezza etica che si traduce in danaro, legittimità e potere. Ma anche un capitale esposto, che si può colpire su scala sovranazionale.

Appare chiaro che sto parlando di una forma di lotta ben nota, il sabotaggio, ma che dovremmo riprendere in considerazione entro un quadro di consapevolezza strategica più ampio e soprattutto con uno sforzo organizzativo all’altezza degli obiettivi. Oggi chi rilegge il vecchio testo di Francesco Gesualdi, Manuale del consumatore responsabile. Dal boicottaggio al consumo equo e solidale (Feltrinelli, 1999), a parte le utili informazioni storiche che fornisce, trova ancora freschissime indicazioni metodologiche e giuste riflessioni sulle inespresse potenzialità di questa forma di conflitto.

Beninteso, il boicottaggio non va immaginato in alternativa alla tradizionale lotta sindacale vincolata ai territori, come non sostituisce i partiti. Ma spesso può anche accompagnarla utilmente. Pensiamo alla vertenza dei dipendenti Amazon per il salario e le condizioni di lavoro. Essa poteva e potrebbe essere accompagnata da una campagna nazionale in cui si invitano i suoi potenziali clienti a non acquistare prodotti tramite quell’azienda. Una esortazione motivata con la denuncia delle condizioni di lavoro dei dipendenti, del livello dei salari, dei soprusi che spesso subiscono ecc. In questo caso la forza degli operai nella vertenza con la potente multinazionale, acquisterebbe ben altro vigore. Se si dispone di una efficiente rete organizzativa, al danno degli scioperi operai si unisce quello della perdita di centinaia di migliaia di acquisti. Al contempo l’impresa subisce uno scadimento d’immagine, una ferita al proprio capitale simbolico, apparendo socialmente esecrabile, e destinata perciò a perdere quote di mercato. Una vittoria netta su questo piano potrebbe creare effetti imitativi a catena e cambiare le carte in tavola del conflitto di classe nel nostro tempo, far lievitare il nostro depresso immaginario politico.

È solo un esempio, ma, come suggerisce Gesualdi, questo tipo di battaglie esigono lungo studio da parte di militanti, che vi si dedicano in maniera specifica, e una notevole capacità organizzativa. Capacità che oggi è potenzialmente cresciuta grazie alla rete, ma che si stenta a utilizzare per pura inettitudine. Pressoché nessuno pensa che di fronte al potere sovranazionale delle multinazionali i cittadini organizzati potrebbero mettere in piedi, con costi limitati, un’“Internazionale elettronica”, grazie al collegamento con milioni di consumatori sparsi per il mondo.

Le lotte per la protezione dell’ambiente possono trovare qui il loro campo privilegiato d’azione. Si pensi a come si potrebbero colpire le singole compagnie petrolifere invitando i cittadini a non rifornirsi di benzina presso determinate stazioni di servizio. Ma anche i governi possono essere oggetto di pressioni di grande efficacia, se fossimo bene informati e organizzati con disciplina. Consideriamo come potremmo colpire l’economia d’Israele mentre sta consumando, nell’indifferenza delle élites occidentali, il genocidio del popolo palestinese. Ma oggi, in Italia, si potrebbe organizzare una lotta in grande stile contro un potere che condiziona la vicenda politica nazionale, manipola l’opinione corrente, degrada lo spirito pubblico e la dignità del Paese. Mi riferisco ai grandi quotidiani e soprattutto alla TV pubblica e privata. Il modo in cui questi organi hanno dato conto della condotta di Israele in questi mesi, ha segnato una pagina incancellabile di disonore del giornalismo italiano. Se ne avessimo la forza potremmo organizzare una lunga campagna con la parola d’ordine “spegni la TV”, invitando gli italiani a non accendere i televisori per 1, 2 mesi, in forma di protesta per la parzialità e il servilismo filoatlantico dei nostri telegiornali e rubriche varie. Rammento che ove si riuscisse a creare una defezione significativa, si infliggerebbe un danno alle TV sia pubbliche che private, perché molti inserzionisti farebbero mancare i loro introiti dal momento che il numero dei consumatori di pubblicità diminuirebbe. Riuscire a creare un tale rapporto di ricattabilità delle TV darebbe ai cittadini un nuovo potere, la possibilità di rivendicare una informazione pluralista e meno asservita al conformismo dominante. Una campagna ben condotta, in grado di suscitare un vasto dibattito, capace di porre all’attenzione generale del Paese il problema della veridicità e qualità dell’informazione, potrebbe essere la leva per puntare a una riforma della TV pubblica, che la sottragga al controllo dell’esecutivo e all’occupazione dei partiti.

da qui


giovedì 25 marzo 2021

PROTESTARE CONTRO LA GUERRA E’ “ASSOCIAZIONE A DELINQUERE”?

Siamo in un momento importante, per the Weapon Watch, per gli amici che ci sostengono e per chi si è esposto in prima persona, “con il corpo”, nella protesta nonviolenta contro le “navi di morte” saudite. Polizia e magistratura genovesi hanno deciso di passare all’azione: ora un gruppo di portuali e militanti genovesi è accusato di associazione a delinquere e di avere attentato alla sicurezza dei trasporti per aver lanciato “micidiali” fumogeni contro le navi Bahri al loro arrivo in porto. Interpretiamo l’azione di polizia come un segnale di quanto sia forte e non azzerabile la protesta contro la guerra, di quanto sia insopportabile denunciare la connivenza della politica (si pensi ai viaggi d’affari di Matteo Renzi) e degli operatori economici (dagli agenti marittimi genovesi alla multinazionale Leonardo) con una dittatura come quella del Regno saudita, in cui gli oppositori politici finiscono in galera o assassinati. Segnaliamo che lo stesso trattamento viene contemporaneamente riservato anche agli autori di uno sciopero nel magazzino Fedex-TNT di Piacenza, 29 persone indagate di cui 2 agli arresti domiciliari, 5 con divieto di dimora e 6 con revoca del permesso di soggiorno, accusati – come a Genova – di associazione a delinquere e anch’essi privati di telefoni e computer personali. Lo sciopero di Piacenza era coordinato da una rete sindacale europea. Le proteste nel porto di Genova sono seguite e sostenute in tutti i porti da cui transitano le navi saudite, dal Canada al Nord Europa e al Mediterraneo. Di questa rete internazionale a sostegno dei portuali di Genova e delle conseguenze sulla popolazione civile yemenita delle armi vendute all’Arabia Saudita darà conto proprio stasera, alle 21:20, la trasmissione di Riccardo Iacona, una puntata di “Presa Diretta” (RAI 3) dal titolo assai opportuno: “La dittatura delle armi”.

Riportiamo qui il testo del comicato stampa del CALP:

La Digos ha perquisito le case di alcuni compagni del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova (CALP) su ordine della Procura. I reati contestati riguardano la attività sindacale e antimilitarista in porto, con preciso riferimento alle lotte nei confronti delle navi saudite Bahri con i suoi carichi di armi pesanti e esplosivi destinati alla guerra in Yemen e in Siria.
Dallo sciopero indetto due anni fa per bloccare un carico destinato alla guerra in Yemen su una Bahri, a oggi, passando per la manifestazione di un anno fa contro il transito di esplosivi a bordo di un’altra Bahri dagli USA diretto alla guerra siriana, gli armatori sauditi attraverso l’agenzia genovese Delta e il Terminal GMT avevano chiesto a più riprese alla Procura la testa dei portuali del CALP. Per quale colpa?
La colpa di avere messo in pratica in questi due anni, con le associazioni e i movimenti contro la guerra e per i diritti civili ciò che il Parlamento ha approvato poco dopo lo sciopero nel porto di Genova del 2019 e confermato alla fine del 2020: lo stop alla vendita di bombe e missili ad Arabia e Emirati, utilizzati per colpire la popolazione civile in Yemen.
Nel frattempo, la Procura di Roma, pochi giorni ha aperto un’indagine contro i responsabili della RWM Italia produttrice degli ordigni e dell’UAMA, l’agenzia del Ministero degli Esteri che autorizza l’esportazione di armamenti, a seguito delle morti civili procurate in Yemen e documentate da Amnesty International. È di questi giorni la notizia che il Presidente USA Biden ha rivelato che è stato Bin Salman, Principe della Corona dell’Arabia Saudita, a fare scannare il giornalista dissidente Kashoggi nel consolato saudita a Istanbul.
La Procura di Genova sostiene che il CALP si è reso colpevole di avere strumentalizzato la protesta con “dispositivi modificati in modo da renderli micidiali”. I bengala e i fumogeni utilizzati dai portuali per attirare l’attenzione sulle navi dalle stive e i ponti piene di armi e esplosivi diretti a fare stragi sarebbero “micidiali”, non le armi e gli esplosivi caricati sulle navi. In realtà il CALP ha usato un’arma “micidiale”, ossia lo sciopero. Questo ha fatto tremare gli armatori e i terminalisti: non i razzi luminosi e i fumi colorati, ma che il traffico criminale di armi non sia solo criticato idealmente ma sia bloccato materialmente dai lavoratori.
Rivolgiamo un invito alla Digos e alla Procura. Ad acquisire dall’Agenzia Delta e dal Terminal GMT i documenti di carico e di destinazione delle merci trasportate dalle navi Bahri verso gli Stati del Medio Oriente, compresa la Turchia che, denunciata dalla stessa procura per la nave Bana in relazione all’embargo libico, impiega in Siria contro i civili le armi sbarcate dalle Bahri a Iskenderun. Che in particolare a segnalino alla Procura di Roma l’Agenzia Delta quale rappresentante delle navi Bahri che hanno trasportato dall’Italia le bombe della RWM incriminate per la strage civile procurata in Yemen.
Li invitiamo infine a non essere sottomessi alle denunce di chi con ipocrisia e arroganza parla di pace ma vive del commercio delle armi, come ci ha ricordato Papa Francesco: «I lavoratori del porto hanno detto no. Sono stati bravi! E la nave è tornata a casa sua. Un caso, ma ci insegna come si deve andare avanti».

COLLETTIVO AUTONOMO LAVORATORI PORTUALI DI GENOVA

Qui il link del video pubblicato dal CALP su FB:

https://www.facebook.com/CalpGe/videos/1226171091118744/

 

da qui

sabato 5 dicembre 2020

Tiriamo un pacco ad Amazon - Movimento Decrescita Felice

 Oggi più che mai: boicottiamo Amazon. Boicottiamo chi, approfittando della crisi non fa altro che continuare a generare crisi. Boicottiamo chi, favorito da leggi e politiche nazionali e internazionali, sta fagocitando i piccoli, umiliando i lavoratori, creando schiere di schiavi consumatori da divano. Con con i nostri soldi, anche se pochi, possiamo fare tanto: possiamo decidere di sostenere quell’economia reale e locale, virtuosa e solidale, che produce benessere per tanti, sorregge i territori, fa vivere i nostri paesi, favorisce tante famiglie, e permette a tutti noi di essere un po’ più liberi.

Jeff Bezos è il fondatore, presidente e amministratore delegato di Amazon, la più grande società di commercio elettronico al mondo. Inoltre è fondatore di Blue Origin, società di start up per voli spaziali, e proprietario del The Washington Post. Bezos guadagna in un secondo quanto uno dei suoi magazzinieri in cinque settimane. Magazzinieri che lavorano in condizioni simili ai servi, monitorati h24, in ogni singolo movimento, per verificare che sia abbastanza veloce.

“Il personale oberato di lavoro del magazzino dell’azienda ha dovuto fare pipì in vecchie bottiglie d’acqua mentre il loro CEO viene pagato in un secondo quanto guadagnano in cinque settimane” si legge in un’inchiesta del Guardiane del 2019 “Vuoi sentirti davvero bene questo Natale? Boicotta Amazon” . Niente di nuovo sotto il sole.

Un report dell’Economic Policy Institute dice che nei centri Usa in cui il colosso di Jeff Bezos ha messo radici in realtà non si registra alcun miglioramento in termini occupazionali. Anzi, in alcune aree i posti di lavoro sono anche diminuiti. Ne ha parlato un bell’articolo de Linkiesta “Prepariamoci: arriva Amazon e il lavoro non cresce, anzi diminuisce”. Verrebbe da dire: ma dai?

Linkiesta riferisce anche di una ricerca dell’Institute for Local Self-Reliance (Ilsr) che ha fatto un confronto sui numeri tra i punti vendita classici e i grandi hub Amazon: se i negozi fisici, in media, impiegano 49 persone per ogni 10 milioni di vendite, nel caso di Amazon si scende a 23 persone.

E a rimetterci non è solo l’occupazione perché alla perdita di lavoro, è chiaro, si dovrebbe aggiungere anche quella di gettito fiscale locale. 

Anche sul fronte dei salari, infatti, l’impatto prodotto da Amazon sarebbe tutt’altro che positivo:  una ricerca dell’Economist ha dimostrato che dopo l’apertura di un magazzino Amazon le retribuzioni locali dei lavoratori diminuiscono in media del 10% rispetto a omologhi lavoratori impiegati altrove.

Che la grande distribuzione stia distruggendo il commercio al dettaglio, la bottega e il negozio sotto casa, non è certo una novità. La strage dei piccoli è sotto gli occhi di tutti. Gli effetti, forse, un po’ meno. Sono tragiche conseguenze sociali, economiche e ambientali, soprattutto per un Paese come l’Italia che ancora vive di piccola e media impresa.

Parliamo di qualità del lavoro, di benessere per i lavoratori, di soddisfazione personale e professionale… ma parliamo anche di estetica territoriale, socialità, cura dell’ambiente. Parliamo  del bello che ci dovrebbe circondare e che nulla ha a che fare con un grande hub Amazon, un centro commerciale, l’ennesima colata di cemento per fare l’ennesimo parcheggio.

Un’interessante inchiesta di Presa Diretta “Vite a domicilio” ci racconta come l’e-commerce e le nuove tecnologie abbiano cambiato radicalmente il nostro modo di consumare e di vivere. E ci mostra l’impatto che tutto ciò ha sul mondo del lavoro, sulla mobilità nelle nostre città e sull’ambiente. Chi pensa che acquistare nel mondo virtuale abbia perlomeno un impatto positivo sull’ambiente sarà presto smentito…

L’e-commerce genera un packaging dal peso 3 volte superiore rispetto a quello dei negozi fisici e un packaging più difficile da smaltire perché multi-materiale: stiamo parlando di una confezione il cui impatto ambientale è 10 volte superiore a quello del classico sacchetto di plastica! In numeri: 182kg di CO2 equivalente vs. 11kg di CO2 equivalente. In pratica, la consegna rapida di un singolo prodotto rappresenta la scelta peggiore dal punto di vista ambientale, con il peggior impatto per prodotto consegnato per chilometro percorso.

L’impronta ambientale generata da Amazon lo scorso anno è stata di 44,4 milioni di tonnellate di CO2, pari all’impronta ecologica dell’intera Svezia (il servizio Prime ha contribuito con ben 5 miliardi di pacchi consegnati). E a luglio 2019 il trasporto aereo di Amazon è cresciuto del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Insomma, in questo venerdì nero, di un periodo nero per tante imprese, commercianti e negozianti… scegliamo con consapevolezza, solidarietà e lungimiranza. Con la nostra spesa facciamo politica, tutti i giorni. Tutti i giorni, con i nostri acquisti, scegliamo in che mondo e in che modo vogliamo vivere.




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venerdì 11 ottobre 2019

Contro l’invasione turca, usiamo il boicottaggio



dice Michele Boato, presidente Ecoistituto del Veneto “Alex Langer”

Faccio mia la proposta della Rete Kurdistan Italia: collaboriamo a fermare lo sterminio turco contro i curdi col boicottaggio economico: i dollari dei turisti e dei partner commerciali finanziano la guerra contro il popolo curdo. La Turchia è al 15° posto mondiale per le spese militari e l’Italia è il suo terzo fornitore di armi dopo Usa e Spagna.
Grazie ai 6 miliardi di euro dell’accordo Ue-Turchia sui profughi, la Ue finanzia il riarmo e le pretese egemoniche turche in Medio Oriente. La Turchia, pur nella Nato, è tra i principali sostenitori dei taglia-gole dell’ISIS, con i quali traffica in petrolio e armi. 
Mentre immagini idilliache di sole, mare e spiagge delle regioni costiere turche vendono l’idea di un paradiso del villeggiante, le entrate dei turisti stranieri sono investite in cecchini, missili F16 e gas lacrimogeni nelle regioni curde.
Per questi motivi, è giusto boicottare la Turchia, paese militarizzato che occupa l’Anatolia curda, per distruggerne identità, cultura, istituzioni, procurando migliaia di morti e prigionieri.
Non scegliamo la Turchia come meta turistica perché ogni soldo speso dai turisti stranieri fornisce al governo i mezzi per continuare la sua massiccia campagna di distruzione militare che devasta villaggi, siti architettonici storici, e, naturalmente, la vita delle persone che vi abitano. Questo può contribuire a fermare la guerra e sostenere la nascita di paese democratico, rispettoso dei diritti umani e delle minoranze.
Si possono inoltre boicottiamo le aziende italiane che operano in Turchia e le aziende turche che vendono i loro prodotti (soprattutto alimentari) in Italia.




E se usassimo il boicottaggio?

I dollari dei turisti e dei partner commerciali finanziano la guerra contro il popolo curdo. La Turchia è classificata al 15° posto nella graduatoria mondiale delle spese militari e gestisce il secondo più grande esercito Natp: l’Italia contribuisce a questa graduatoria come terzo fornitore di armi dopo Usa e Spagna. Inoltre, grazie ai 6 miliardi di Euro stanziati per l’infame accordo Ue-Turchia sui profughi, la Ue non fa che finanziare il riarmo e le pretese egemoniche della Turchia in Medio Oriente. La Turchia, parte integrante della Nato, è tra i principali sostenitori dei taglia-gole dell’ISIS, con i quali traffica in petrolio e armi. Mentre immagini idilliache di sole, mare e spiagge delle regioni costiere occidentali del paese vendono l’idea di un paradiso del villeggiante, nelle regioni curde le entrate generate da turisti stranieri vengono investite in cecchini, missili di F16 e gas lacrimogeni.
Per questi motivi, vi invitiamo a boicottare la Turchia, paese militarizzato che non garantisce l’incolumità dei turisti, che occupa l’Anatolia curda per distruggerne identità, cultura, istituzioni, procurando migliaia di morti e prigionieri, tra cui il leader Ocalan sequestrato in totale isolamento nell’isola-carcere di Imrali da diciassette anni. Vi invitiamo a boicottare la Turchia per i crimini di guerra commessi ai danni del popolo curdo e degli oppositori. Vi invitiamo a boicottare la Turchia per prendere posizione contro lo sfruttamento del lavoro minorile (secondo i dati TÜİK del 2012, infatti, ci sono circa 900 mila bambini lavoratori tra i 6 e i 17 anni) e contro la negazione della libertà di associazione sindacale (la Turchia, pur aderendo alle convenzioni ILO, di fatto non riconosce la libertà di associazione sindacale).
Vi invitiamo a boicottare la Turchia anche come meta turistica perché ogni soldo speso dai turisti stranieri fornisce al governo i mezzi per continuare la sua massiccia campagna di distruzione militare che devasta villaggi, siti architettonici storici, e, naturalmente, la vita delle persone che vi abitano. Vi invitiamo a boicottare la Turchia per contribuire a fermare la guerra e sostenere la nascita di paese democratico, rispettoso dei diritti umani e delle minoranze.
Boicottiamo: Alitalia, Ariston, Assicurazioni Generali, Barilla Alimentare (Barilla Gida A.S.), Electrolux Dayanikli TuketimMallari San, Enel Spa, Eni Spa, Giolitti Roma, Gruppo Coin Oriental Buying Services Ltd, Indesit, IvecoSpa, Luxottica Gozluk tic.as, Pirelli SpA (Celikord – Turk Pirelli Lastikleri a.s.), Piaggio v.e. SpA (Ferco MotorLtd.), Sapori, Valtur SpA (Valtur Tatil Isl. A.s.), Mimarlik Ins, Bialetti Industries SpA (Cem Bialetti a.s.), Gilma (Iceberg), Burani Fashion Group, Valentino fashion Group, Tuo-dì (discount) che distribuisce i prodotti FATINA (frutta secca), Zara, Hugo Boss, Mayerline, Otto, Benetton, LC Waikiki, Julieta, De Facto, Dolce & Gabbana e Armani.
Le principali aziende turche che commercializzano prodotti in Italia nel settore agro-alimentare sono: SAWA; GÜLSEN; TALAT ELMAS; AGROBAYS; PEYBA; KERVITAS. Etnatost di Biancavilla commercializza fichi secchi, LIFE in Turchia produce albicocche secche che vengono confezionate da Live Italia, Sommariva Perno (CN), USTA Brand di provenienza turca. La famiglia Averna ha venduto al gruppo SANSET della famiglia turca TOKSOZ lo storico marchio di cioccolatini PERNIGOTTI, IBEKO (elettro-domestici); KARSAN (autoveicoli); ANADOLU, KALE (ceramiche); ZORLU (energia). Inoltre KOC, YILDIZ e DOGUS sono corporation di livello internazionale che operano in diversi settori e che controllano anche aziende italiane.
Non comprate prodotti con il codice a barre 869…
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Scarica il materiale informativo:
Le Prime iniziative:


lunedì 20 agosto 2018

MALETTON - Gian Luigi Deiana


girano sollecitazioni al boicottaggio di benetton, comprensibili, giustificate e scontate; ma a me preme fare tre osservazioni, una sui prodotti di marchio, una sul ricorrente smascheramento di singoli demoni, e una sulle possibilità di elevare il boicottaggio al rango di arma contro il capitale;
1. il marchio: boicottare i prodotti di marchio benetton significa colpire i negozi ed i negozianti, i fornitori e le commesse e di fatto solo in italia; il padrone ne verrebbe colpito solo se ne derivasse un tracollo
del titolo, per il resto i suoi tentacoli sono diversificati e mondializzati; tuttavia marchiare di disprezzo il marchio è giusto;
2. la demonizzazione: due mesi fa si demonizzò zuckerberg per il caso cambridge analytica, poi passato in gloria; un mese fa si demonizzò marchionne, per contrastarne la beatificazione, ma anche questo caso passò presto in gloria (eterna); ora si demonizza benetton, e passerà in gloria anche questo, di qui alla prossima botta: ergo, il problema non é il demonio di ieri, quello di oggi e poi quello di domani, il problema è l’inferno stesso e questo inferno si chiama capitalismo;
3. l’inferno è comunque sensibile ad attacchi concentrati, preavvisati scientificamente e attuati su larga scala (vedi lo sciopero ryan air); il soggetto che può fare questo su larghissima scala è il consumatore, e la sua arma letale può essere appunto il boicottaggio; per esempio lanciare una giornata mondiale di boicottaggio di fb, o di shell, o di quale altro demonio si voglia, comincerebbe forse a porre qualche problemino davvero