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sabato 17 aprile 2021

Ahmet Altan e Dana Lauriola tornano a casa

 

Ahmet Altan, dal carcere di Silivri (19/06/2017), scriveva al suo giudice:

In un suo romanzo, John Fowles dice che tutti i giudici del mondo vengono giudicati in base alle loro decisioni. Ed è vero. Tutti i giudici vengono giudicati in base alle loro decisioni. Anche lei verrà giudicato in base alle sue. Pensi a come vorrà essere giudicato, a quale tipo di verdetto si augurerebbe di ricevere, a come vorrà essere ricordato, e poi giudichi di conseguenza. Perché è lei che verrà giudicato. Grazie per il suo tempo e la sua pazienza. (da qui)

 

Possono essere successe tante cose che hanno portato all’apertura delle porte delle celle (vale anche per Dana): qualche giudice si è vergognato delle condanne inflitte dai suoi colleghi, oppure hanno detto loro che strade e scuole vengono intitolate, a volte, a giudici ammazzati, più spesso a chi viene incarcerato, e chi condanna poi può entrare nel campo dell'infamia, per l’eternità, oppure tra i giudici qualcuno non è a libro paga del potere, chissà.

 

Di sicuro passare sette mesi in galera per aver parlato con un megafono o un microfono a qualcuno deve essere sembrato troppo, e passare anni in galera per aver inviato messaggi subliminali pro-golpe durante un programma tv andato in onda mesi prima (leggi qui), se non fosse tragico sarebbe ridicolo.

Di sicuro per Dana e Ahmet sono stati importanti gli appelli e la solidarietà di chi era sentito offeso, in preda ad astratti e concreti furori, per le ingiustizie del mondo e quelle inflitte a loro due e nel caso di Altan, probabilmente, un peso importante ha avuto anche la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.

 

È curioso che da una parte la Corte Costituzionale condanni l’ergastolo ostativo e contemporaneamente si possa stare in galera per reati come quelli per cui vengono condannati molti noTav (e quando escono si continua con gli arresti domiciliari).

 

E come trascurare il fatto che le forze dell’ordine sembrano una polizia privata di Telt (Tunnel Euralpin Lyon Turin), ma anche di FedEx-TNT a Piacenza, e non solo, come se fossimo negli Usa degli anni bui, praticamente tutti, o nell’Italia fascista? Sembra che il capo della polizia sia Edgar Hoover, e che i conti con Bolzaneto non siano stati fatti troppo bene.

 

 

Lettera di Dana: sempre a testa alta, siate saldi!

Carcere delle Vallette, 19 marzo 2021

Car* tutt*,

rieccoci qua dopo un po’ di tempo dall’ultima lettera. Non è mai facile iniziare a scrivervi, molte sono le cose che vorrei condividere e, giorno dopo giorno, si accumulano a tal punto che non so bene come smaltire il grosso. Comunque, ci provo.

Intanto vi rassicuro sulla mia situazione: sto bene, nonostante il passare del tempo e vari accadimenti. Ho passato dei giorni bui a causa della positività da Covid-19 di mia mamma e di mio papà. Mi è stata comunicata tempestivamente e, inevitabilmente, la notizia mi ha provocato angoscia e paura. Per fortuna ad oggi la loro condizione sanitaria appare buona e, nonostante qualche inevitabile strascico, sembrano avviarsi verso la guarigione. Ad altre famiglie, ad altri figli, non è andata così e a tutti loro mi stringo in un sincero è commosso abbraccio…

In questo luogo, dove molte cose non sono concesse, anche il dolore è qualcosa che trova a fatica uno spazio di libertà, per esprimersi.

Più passano i mesi e più mi chiedo come una società che si definisce “civile” possa anche solo tollerare l’esistenza di un’istituzione come quella carceraria. Vorrei davvero essere in grado di trasmettervi la bellezza e la profonda umanità delle mie compagne di detenzione. Vorrei potervi convincere, uno per uno, di quanto meritino la possibilità di vivere una vita diversa, con altri strumenti, essere messe nella condizione di diventare la migliore versione di loro stesse. Il carcere, questo luogo disumano, non ha alcuna utilità e può solo ferire più profondamente di quanto la vita lo abbia già fatto.

A breve si saprà quali saranno le “riforme” messe in campo dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. C’è molta speranza tra la popolazione detenuta che spero, almeno in parte, non venga delusa. So bene che per poter anche solo immaginare un “sistema” equilibrato, bisognerebbe smontare pezzo per pezzo tutto il sistema giudiziario, fare cenere delle sue fondamenta, eliminare le fonti di ingiustizia all’interno della società in cui viviamo e ridefinire collettivamente una serie di priorità e valori. Insomma, per quanto Cartabia abbia, sulla carta, un profilo da costituzionalista di alto livello, non credo sia portatrice di questi ampi interessi e, anche se li avesse, non sarà il Governo Draghi (Governo “acchiappafondi”) a fornire l’opportunità per un reale e profondo cambiamento.

Nonostante questo, qui incrociamo le dita e facciamo lunghi elenchi di possibilità: libertà anticipata di 75 giorni, misure di clemenza, fondi e percorsi per il reinserimento abitativo e lavorativo, tribunale di sorveglianza “obbligati” a concedere misure alternative al carcere laddove ce ne sia la possibilità, ecc…

Qui continuiamo a convivere col Covid, noi come al maschile e in molte altre carceri del Paese.

Per fortuna nessuna di noi si è ammalata troppo seriamente ed anche le “positive”, poco alla volta, recuperano in salute. C’è preoccupazione mista ad un senso di impotenza e per quanto si possa fare “attenzione”, la promiscuità è inevitabile negli spazi ristretti in cui siamo costrette 24 ore su 24.

Mi distacco ora dalla realtà inframuraria per condividere altri pensieri…

Proprio oggi ho letto dell’iniziativa dei giovani del Fridays For Future (che saluto con affetto!!!) e mi chiedo come sia possibile che i media, impegnati in maratone no stop sulla pandemia da tempo immemore, omettano sistematicamente di dire che gli unici responsabili di questo disastro e dei suoi morti siamo solo noi! Noi che con la violazione degli ecosistemi e lo sfruttamento e la devastazione dei territori abbiamo rotto il patto con la natura, lo stesso che fino ad oggi ci ha permesso di vivere!

In molti si chiedono come tutto questo sia possibile e se finirà mai.

Se la prima risposta sta nel capitalismo vorace e sfruttatore, la seconda e sì e che dipende solo da noi! Nessuno però lo dice, il rischio è quello di far passare un messaggio rivoluzionario su scala globale. Spetta a noi, quindi, sostenere i giovani che lottano per un pianeta vivibile e per un futuro che, francamente, per loro, mi sembra nero sotto molti punti di vista!

In quest’ultimo mese si sono susseguiti molti avvenimenti e le lotte, che con fatica si sono manifestate a causa delle restrizioni della pandemia, mi sono giunte forti e chiare: l’8 marzo delle donne e le manifestazioni di studenti ed insegnanti sono solo alcune, senza dimenticare la mia amata Valle a cui dedicherò l’opportuno spazio a fine lettera. Con emozione ricevo queste immagini e ne sono stimolata.

Vorrei ringraziare con tutto il cuore le Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso e i/le compagn* tutt* che ogni giovedì sono una presenza amica sotto al carcere che dà forza a tutte noi.

Mando un altrettanto grosso ringraziamento alle compagne dell’Udi di Palermo e a tutti coloro che si stanno battendo per la mia liberazione e per accendere un faro sulla difficile condizione di noi detenute e detenuti.

Un ringraziamento, perché forse finora ne ho fatti troppo pochi, a tutte le persone che da oltre sei mesi e da tutto il Paese continuano a scrivermi lettere, cartoline, disegni, e mi inviano, fiori, gatti e farfalle. Mi aprite ogni volta un’inaspettata finestra sul mondo e grazie a voi, per qualche minuto, non vedo sbarre né cemento.

Per concludere, il mio pensiero va là alla mia amata Valle.

In questi giorni state lottando, di nuovo, contro gli incendi. So bene quanto doloroso sia vedere bruciare i nostri boschi e i nostri alberi e non posso che non condividere con voi questo dispiacere. Mentre la valle brucia e lotta contro la pandemia, si vede espropriare manu militari i terreni di nostra proprietà da parte dell’azienda Telt, su mandato dello Stato italiano. Non credo ci sia bisogno di ulteriori commenti, credo che la realtà sia sotto gli occhi di tutti!

La lotta No Tav, irriducibile come il suo no alla devastazione della nostra terra e allo sperpero di denaro pubblico, mi insegna ogni giorno il valore della resistenza e della lotta. Se potessi scegliere oggi, dal carcere in cui sono rinchiusa, tra altre mille vite, quella accanto a voi sarebbe per me l’unica desiderabile. I giganti che da decenni ci troviamo a fronteggiare hanno i piedi d’argilla perché sono stati costruiti su menzogne e inganni, prima o poi, se sapremo restare uniti e determinati, li faremo andare giù!

Vorrei ancora, scusate se sono prolissa ma l’aveva anticipato, dedicare un pensiero ai compagni dei Si-Cobas colpiti pochi giorni fa da un’infame inchiesta giudiziaria per la loro attività sindacale di lotta, a loro va tutta la mia solidarietà e l’impegno, per quanto possibile, a dar voce alla loro iniziativa per smascherare questa vergognosa operazione!

Solidarietà anche alle sorelle e ai fratelli del comitato No Grandi Navi di Venezia che, per difendere la laguna dai mostri delle navi da crociera, si trovano ora sotto attacco e a dover sostenere onerose spese legali. Sono sicura che anche in questo caso la solidarietà sarà diffusa, io sono sempre con voi! (Anche sui barchini!)

Chiudo, finalmente, confermandovi che il 14 aprile ci sarà la “Camera di Consiglio” presso il Tribunale di Sorveglianza per valutare mie eventuali misure alternative al carcere. Sappiate che comunque vada, io sono serena.

Sono in contatto con me stessa e la mia voglia di lottare per un mondo più giusto, e più vivace che mai. Sono con voi, in ogni momento.

Sempre a testa alta, siate saldi!

Avanti No Tav!

Dana

Ps. Rispetto alla chiusura indagini e le relative misure cautelari sul Primo Maggio 2019, non posso che restare allibita dalla strumentalità messa in campo da Questura e Pubblico Ministero.

Quella giornata, attraversata da migliaia di persone nello spezzone sociale insieme al movimento No Tav, è stato unicamente un atto di dignità verso chi, non volendoci in piazza, fa da tempo ormai di temi importanti come i diritti sociali e quelli lavorativi discorsi ed azioni al ribasso.

Noi, padroni di niente, ma soprattutto schiavi di nessuno, abbiamo dato voce a chi lotta per un futuro diverso, per i diritti e a difesa della Terra e dell’ambiente. Abbiamo difeso il nostro diritto a manifestare e non ci siamo accontentati di una sfilata fine a se stessa con unico intento quello celebrativo.

Siamo tanti a non accontentarci delle briciole e a non credere alle solite bugie.

Ai compagn* colpit* insieme a me dalle misure cautelari (nel mio caso come il gioco carta-forbice-pietra il carcere in cui già mi trovo vince il banco quindi le firme sono per ora rimandate) va il mio abbraccio più sincero.

Siate saldi!

da qui

 

 

Con la fantasia rompo i muri della mia galera - Ahmet Altan

 

«Un oggetto in movimento non è né dove è, né dove non è», afferma Zenone nel suo famoso paradosso. Fin dalla mia giovinezza ho creduto che questo paradosso sia più adatto alla letteratura o, anzi, agli scrittori, che alla fisica. Scrivo queste parole dalla cella di una prigione. Aggiungete la frase: «Scrivo queste parole dalla cella di una prigione» a qualsiasi narrazione e sarà come aggiungere una vitalità inquieta, una voce spaventosa proveniente da un mondo oscuro e misterioso, la coraggiosa posizione di un oppresso che resiste e un malcelato appello alla grazia. È una frase pericolosa che può essere usata per sfruttare i sentimenti delle persone. E gli scrittori non sempre si astengono dall’usare le frasi in un modo utile ai loro interessi quando è in gioco la possibilità di toccare i sentimenti della gente. Perfino capire la loro intenzione può bastare al lettore per provare compassione nei confronti di chi ha scritto quella frase. Ma aspettate. Prima che iniziate a commiserarmi, ascoltate quello che vi dirò.

Sì, sono detenuto in una prigione di alta sicurezza in mezzo al nulla. Sì, mi trovo in una cella dove la porta viene aperta e chiusa con uno sferragliare di chiavi. Sì, ricevo i miei pasti attraverso un buco in mezzo alla porta. Sì, anche la parte superiore del piccolo cortile lastricato dove cammino su e giù è chiusa da gabbie d’acciaio. Sì, non mi è permesso di vedere nessuno a parte il mio avvocato e i miei figli. Sì, mi è vietato perfino inviare una lettera di due righe ai miei cari. Sì, ogni volta che devo andare in ospedale tirano fuori delle manette da un mucchio di ferri e me le mettono ai polsi. Sì, ogni volta che mi portano fuori dalla mia cella gridano «alza le braccia, togliti le scarpe» e me lo urlano in faccia.

Tutto questo è vero, ma non è l’intera verità. Nelle mattine d’estate, quando i primi raggi di sole passano attraverso le nude finestre a sbarre e colpiscono il mio cuscino come delle lance scintillanti, sento i canti giocosi degli uccelli di passaggio che hanno fatto il loro nido sotto le grondaie del cortile e gli strani scricchiolii dei detenuti che, passeggiando negli altri cortili, schiacciano le bottiglie d’acqua vuote sotto i loro piedi.

Vivo con la sensazione di abitare ancora in quella casa con giardino dove ho trascorso la mia infanzia o, per qualche motivo e non so spiegarmi perché, in uno di quegli alberghi delle vivaci strade francesi del film Irma la Dolce.

Quando mi sveglio con la pioggia autunnale che colpisce le sbarre della finestra, con la furia dei venti del nord, comincio la giornata sulle rive del Danubio in un albergo con delle torce sulla facciata che vengono accese ogni notte.

Quando mi sveglio con il sussurro della neve che si accumula tra le sbarre della finestra d’inverno, inizio la giornata in quella dacia con una finestra sul davanti dove si rifugiò il dottor Zivago.

Finora, non mi sono mai svegliato in prigione – nemmeno una volta. Di notte, le mie avventure sono ancora più cariche di azione. Giro tra le isole della Thailandia, gli alberghi di Londra, le strade di Amsterdam, i labirinti segreti di Parigi, i ristoranti sul lungomare di Istanbul, i piccoli parchi nascosti tra le strade di New York, i fiordi della Norvegia, le piccole città dell’Alaska con le loro strade sepolte dalla neve.

Mi potete incontrare lungo i fiumi dell’Amazzonia, sulle rive del Messico, nelle savane africane. Parlo tutto il giorno con persone che nessuno vede o sente, persone che non esistono e non esisteranno fino al giorno in cui le menzionerò. Le ascolto mentre parlano tra di loro. Vivo i loro amori, le loro avventure, le loro speranze, le loro preoccupazioni e le loro gioie. A volte rido mentre cammino in cortile, perché mi capita di sentire le loro conversazioni piuttosto divertenti. Poiché non voglio metterli sulla carta in prigione, incido tutto ciò in qualche angolo della mia mente con l’inchiostro scuro della memoria.

So che sarò un uomo schizofrenico finché queste persone rimarranno nella mia mente. So anche che sono uno scrittore quando queste persone si ritrovano in certe frasi sulle pagine di un libro. Mi piace fare avanti e indietro tra schizofrenia e scrittura. Mi libro come fumo e lascio la prigione con le persone che esistono nella mia mente. Forse hanno il potere di imprigionarmi, ma nessuno ha il potere di tenermi in prigione.

Sono uno scrittore. Non sono né dove sono né dove non sono. Ovunque mi rinchiudano, viaggerò per il mondo con le ali della mia mente infinita. Inoltre, ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare, molti dei quali non ho mai conosciuto. Ogni occhio che legge quello che ho scritto, ogni voce che ripete il mio nome, mi tiene per mano come una piccola nuvola e mi fa volare sulle pianure, le sorgenti, le foreste, i mari, le città e le loro strade.

Mi ospitano silenziosamente nelle loro case, nelle loro sale, nelle loro stanze. Viaggio in tutto il mondo nella cella di una prigione.

Come avrete capito, ho un’arroganza divina, un’arroganza che spesso non è riconosciuta ma che è propria degli scrittori ed è stata tramandata di generazione in generazione per migliaia di anni. Ho una fiducia in me stesso che cresce come una perla dentro il duro guscio della letteratura. Ho un’immunità protetta dall’armatura di acciaio dei miei libri. Scrivo nella cella di una prigione. Ma non sono in prigione.

Sono uno scrittore. Non sono né dove sono né dove non sono. Mi si può imprigionare, ma non tenermi in prigione. Perché, come tutti gli scrittori, possiedo una magia. So attraversare i muri con facilità.

Traduzione di Luis E. Moriones

Dalla Repubblica del 27 settembre 2017.

da qui

 

 

Cara Dana, ora che sei finalmente tornata a casa…

 

Cara Dana,

ora che sei finalmente tornata a casa, anche se non nella tua amata Bussoleno in Valsusa, siamo certi che poco alla volta ti riapproprierai delle tue libertà.

Quando ieri è arrivata la notizia della tua scarcerazione, ci siamo tutti immediatamente agitati dalla contentezza e dalla voglia di riabbracciarti. Saremmo voluti venire di corsa tutte e tutti sotto al carcere!

Immaginavamo però che il provvedimento mantenesse comunque delle caratteristiche vendicative, nonostante l’ottima relazione dell’equipe trattamentale interna al carcere, che è il pilastro su cui dovrebbe fondarsi la valutazione dei magistrati, come hanno aggiunto anche i tuoi avvocati. Tant’è che purtroppo ti è stata concessa la detenzione domiciliare con tutte le restrizioni e non ti è permesso accompagnarti o ricevere visite da chi è parte del movimento No Tav o dell’Askatasuna.

Ci viene subito da pensare che sembra essere una colpa quella di condividere con i propri affetti la voglia di costruire un mondo libero dalle ingiustizie sociali e di lottare contro chi vuole devastare la terra e speculare sulla vita di tutte e tutti noi. Resta che però abbiamo tirato un grande sospiro di sollievo nel saperti finalmente fuori da quelle orribili mura.

Cara Dana, chissà come sarà andata la tua prima notte in una casa, in un letto vero, senza sbarre, senza il rumore delle chiavi, delle serrature, dei manganelli sulle sbarre. La possibilità di recuperare un’intimità personale, di cura e riposo.

Immaginiamo che non sia stato semplice salutare le tante compagne di detenzione che in questi lunghi sette mesi sono diventate la tua famiglia in qualche modo, come pensiamo che lasciare lì Fabiola, con cui hai condiviso tre mesi di detenzione e lo sciopero della fame, sia stato ugualmente difficile.

Ma ora è il tempo della riconquista della libertà. La strada sappiamo essere ancora un po’ in salita, ma ci rallegriamo nel saperti fuori dal carcere.

È stata tantissima la solidarietà che nel tempo si è costruita in tuo sostegno. Da realtà come Amnesty International e Greenpeace, alle incredibili Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso, che dall’8 ottobre ogni giovedì si sono ritrovate sotto il carcere; la lunga lista di realtà in lotta che in tanti anni hanno avuto la possibilità di incontrarti e condividere un pezzo di strada insieme a te; il lunghissimo elenco tra giuristi, intellettuali, persone della cultura e dello spettacolo tra cui Elio Germano, Zerocalcare, Giovanna Marini e altri circa 800 firmatari dell’appello che chiedeva a gran voce la tua liberazione.

E poi ovviamente le Fomne Contra ‘l Tav e tutto il movimento No Tav che no ha smesso per un solo secondo di sentirti vicina.

Un grazie speciale vogliamo mandarlo ai tuoi avvocati per quanto hanno fatto in questi lunghi mesi, combattendo contro un’ingiustizia amplificata da un sistema carcerario basato solo sulla repressione.

A loro va un sentito ringraziamento perché in questi sette lunghi mesi, sono venuti a trovarti ogni settimana, con l’emergenza sanitaria in corso, anche più volte. Con lo stesso affetto che faceva battere i nostri cuori qui fuori.

 

Insomma, la solidarietà è un’arma potente e meravigliosa, che ci ha permesso di tenere duro tutto questo tempo che, a volte, è davvero sembrato infinito anche per noi qui fuori.

Ma adesso è arrivato il momento di riconquistare la libertà per te, ma anche per Fabiola che purtroppo si trova ancora in carcere e anche per Stella e Mattia, anche loro ancora ai domiciliari.

Vogliamo che il lungo elenco dei/delle No Tav ancora afflitti da restrizioni della propria libertà tornino liberi al più presto e faremo tutto il necessario perché ognuno possa ritornare a percorrere i sentieri della Valsusa, quegli stessi sentieri che ci hanno fatto incontrare e creare relazioni indistruttibili e intoccabili anche dai più duri dei provvedimenti punitivi.

“Si parte e si torna insieme”, sempre! È la promessa che rinnoviamo anche questa volta!

Che il vento della Valsusa possa tornare presto a soffiare sul tuo viso di donna libera e su quello di tutte e tutti i No Tav ancora ristretti!

Forza Dana e Avanti No Tav!

da qui

 

 

qui un dialogo tra Ahmet Altan e Roberto Saviano

giovedì 7 maggio 2020

Gherardo Colombo spiega perché il carcere è da abolire



(intervista di Nicola Mirenzi)

A un certo punto, è diventata insopportabile: “L’idea di mandare in galera una persona mi tormentava, mettendomi davanti a interrogativi insolubili e angosciosi. Ho cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il mio senso della giustizia, la mia concezione della dignità umana, la mia interpretazione della Costituzione. Più che pensare, in realtà sentivo: sentivo tutta l’ingiustizia della prigione. Era ormai intollerabile. Perciò, dopo anni passati a pensarci, ne ho tratto tutte le conseguenze”.
Gherardo Colombo si è dimesso dalla magistratura nel marzo del 2007, dopo trentatré anni di servizio, prima come giudice, poi come pubblico ministero di inchieste celebri (la Loggia P2, il delitto Ambrosoli, i fondi neri dell’Iri, Mani Pulite), infine come giudice della corte di Cassazione. La sua conversione è cominciata molti anni fa, presentandosi sotto la forma di una ritrosia: “Ho chiesto l’ergastolo una sola volta nella mia vita. E quando ho saputo che il giudice l’aveva rifiutato, ho tirato un sospiro di sollievo. Ero felice che non mi avesse ascoltato”. Oggi, dopo numerose letture e altrettante riflessioni, è arrivato a una conclusione radicale: “Ritengo il carcere, così com’è, non in coerenza con la Costituzione. L’articolo 27 della Costituzione dice che ’le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità’. Eppure, basta mettere piede in qualsiasi penitenziario italiano, salvo rare e parziali eccezioni, per rendersi conto che le condizioni in cui vivono i detenuti lo contraddicono scandalosamente”.
Il pensiero di Colombo sull’argomento è racchiuso in un libro da poco aggiornato e ripubblicato, Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla (Ponte alle Grazie). Nel quale ricostruisce il concetto di pena che si è affermato nelle società occidentali. Racconta la possibilità dischiusa e non esplorata di un’altra idea di giustizia, presente già nell’Antico Testamento e, ancora di più, nel Nuovo. E che poi è simile a quella che risuona nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e nella nostra Carta costituzionale, ed è un invito alla trasformazione: “Il carcere così com’è oggi, in Italia, è da abolire. Non faccio nessuna fatica a dirlo. Conosco l’obiezione e perciò aggiungo: abolire il carcere non significa lasciare chi è pericoloso libero di fare del male agli altri”.
Com’è possibile conciliare le due cose?
È possibile mettendo le persone pericolose nella condizione di non esercitare la propria pericolosità. Adottando misure che limitino la loro libertà, ma garantendo il loro diritto allo spazio vitale, alla salute, alla dignità, all’affettività. Andando il più possibile verso misure alternative al carcere.
È realistico?
Nemmeno io riuscivo a concepire una società senza la pena del carcere, quando ho iniziato a fare il magistrato. Credevo che la pena, inflitta rispettando tutte le garanzie del condannato, avesse una forza educativa. Non sbagliavo. Semplicemente, non mi ero mai chiesto a cosa educasse.
E a cosa educa?
In una società senza perdono, la pena educa solo a obbedire. Insegna a rispettare le regole dicendo che non rispettarle costa molto caro. Anziché mostrare che la regola risponde a un principio di ragione.
Lei quando ha cominciato a dubitare?
All’inizio facevo il giudice di dibattimento. Mi occupavo di sequestri di persona, reati puniti con pene molto alte. L’idea di doverle infliggere mi metteva a disagio. Dopo tre anni, infatti, chiesi di essere trasferito all’ufficio istruzione. Quantomeno, per allontanare da me l’obbligo di mandare in carcere un’altra persona.
Come andò?
Credevo che fare le inchieste, rivelare cosa c’era dietro il delitto Ambrosoli, le trame della P2, i fondi neri per l’Iri, nonché le tangenti di Mani Pulite, sarebbe servito ai cittadini per esercitare meglio la democrazia, per aiutarli a scegliere con più consapevolezza. Non fu così. Nemmeno dopo aver scoperto le malefatte peggiori successe niente.
Ma come? Tangentopoli fu un terremoto politico.
Ma finì perché lo decisero i cittadini. La maggior parte di essi preferì continuare a vivere dentro un humus impregnato dalla corruzione, che in uno incentrato sul rispetto delle regole.
Che conclusioni ne trasse?
Che le inchieste non assolvevano al compito che gli attribuivo, così come l’idea della pena non corrispondeva a quella che avevo studiato all’università.
Perché rimase nella magistratura?
Perché il mio percorso – la mia “conversione” – non era ancora completato. In quegli anni, cominciai a leggere Eugen Wienset, un gesuita tedesco che aveva reinterpretato l’idea della pena nelle Sacre scritture. Sosteneva che nei testi biblici esiste un’idea della giustizia non retributiva. Ossia, una concezione della giustizia che non ripaga il male del delitto con il male della punizione, ma punta alla riconciliazione di chi ha sbagliato con la comunità, attraverso il perdono.
La conquistò?
Mi guidò a sciogliere un nodo che era rimasto irrisolto nella mia vita. Il problema di come relazionarmi con le persone che avevano ucciso miei colleghi, alcuni di essi molto cari.
Chi?
Il giudice Guido Galli, in particolare. Prima Linea lo uccise nel 1980. Lo avevo incontrato la mattina. Nel pomeriggio, lo assassinarono nel corridoio dell’Università Statale, sparandogli tre colpi di pistola. Furono anni molto dolorosi. Molti magistrati morirono ammazzati. I loro panni erano i miei. Eppure, nonostante l’immenso dolore faticavo a considerare la pena per chi li aveva uccisi utile e giusta.
Non è quello che dice la Costituzione?
Sono convinto che oggi, dopo l’esperienza dei gulag, i padri costituenti non userebbero più la parola rieducazione per definire il fine della pena. Lo spirito della Costituzione è informato da una concezione che supera l’idea dell’obbedienza. La persona che la nostra Carta vuole formare è un cittadino adulto, responsabile, dotato di spirito critico e discernimento. Sono i presupposti della democrazia. Il carcere va nella direzione opposta. Insegna a sottomettersi all’autorità. Per questo è incompatibile con la Costituzione.
Su cosa si baserebbe una società senza carcere?
Sull’idea del recupero della relazione con chi commette il reato. Senza la disponibilità a ri-accogliere nella collettività chi ha sbagliato, il tessuto sociale strappato dalla trasgressione della norma non si ricucirà mai. Questo significa il perdono: recuperare il rapporto. Non cancellare il male che è stato fatto. Riconoscendo il dolore della vittima e, per quanto possibile, riparandolo. Fermo restando, lo ripeto, che è necessario mettere chi può fare del male agli altri nelle condizioni di non farlo.
Si può imporre il perdono per legge?
Non si tratta di cambiare una legge: si tratta di cambiare una cultura, un’educazione, di introdurre trasformazioni politiche, sociali, economiche.
Non è troppo augurarsi la palingenesi?
Cos’altro propone la Costituzione, se non questo? È la Costituzione che prevede, per esempio, che tutti possano accedere all’istruzione, aver garantita la propria salute, ricevere una retribuzione dignitosa. Tutto sta nel modo in cui la si concepisce. Un monumento da celebrare o un programma da attuare? Per me è la seconda.
Lei è cristiano?
Sono cristiano filosoficamente, mentre teologicamente ho un problema che qui è superfluo considerare: credere o non credere a Dio.
Che significa?
Che mi riconosco completamente in molti passi del Vangelo. In particolare nel discorso della Montagna, così come lo riporta il testo di Matteo: là dove Gesù rifiuta la legge dell’occhio per occhio dente per dente e parla di una giustizia completamente diversa.
E però si conclude dicendo: “Siate perfetti”.
E allora?
Lei che ha scritto un libro sul Grande Inquisitore di Dostoevskij sa che a Cristo rimprovera proprio questo: non si può chiedere agli uomini di essere perfetti.
È vero che gli esseri umani sono un miscuglio di contraddizioni e debolezze che fanno fatica a stare insieme. Il Grande Inquisitore conosce bene la natura umana, sa che l’uomo è fragile, che la libertà inquieta. Eppure qual è la sua soluzione? Dominare gli uomini. Indurli a deporre ai suoi piedi la libertà e offrirgli in cambio una custodia. Mantenendoli bambini, bisognosi di chinare la testa. Insegnandogli solo a obbedire. È quello che fa il carcere. Ecco perché è necessario abolirlo.


martedì 20 novembre 2018

LETTERA DAL CARCERE ai genitori - Frei Betto





Ai Genitori
(…) Il coraggio con cui voi affrontate la realtà e la vostra fiducia nell’avvenire mi danno molto coraggio. A volte, fra me e me, mi dispiaccio di darvi tanta preoccupazione. Poi, mi accorgo che si tratta di un’altra cosa, cioè del desiderio naturale che tutti abbiamo di ottenere la libertà.
Ma che cos’è la libertà? Ecco una domanda che mi pongo frequentemente. C’è la libertà garantita dal denaro e dal lavoro altrui; c’è la libertà dell’uomo che trova se stesso nell’atto di donarsi, del servizio. Saranno stati liberi i grandi uomini come Cesare o Napoleone, solo perché non dovevano obbedienza a nessuno? Gesù Cristo e Francesco d’Assisi, che scelsero il cammino del sacrificio, del servizio al prossimo, dell’obbedienza totale, furono liberi? Il filosofo Marcuse, in uno studio sulla libertà nel mondo attuale, afferma che negli Stati Uniti, Paese considerato nell’Occidente come prototipo della libertà, quasi non esistono uomini liberi. L’alto livello di organizzazione sociale, raggiunto attraverso uno sviluppo tecnico spaventoso, dove l’uomo è condizionato dalla macchina, fa sì che il sistema industriale e statale eserciti un potente controllo su ogni individuo. Le scelte che l’americano medio deve fare sono molto ridotte. Sceglie un tipo di automobile, un orario di viaggio, un film o una cassetta di birra. Ma ha poche possibilità di scegliere un’altra maniera di vivere al di fuori dell’”American way of life”. E’ carente specialmente di contenuto spirituale (benché possieda abitudini e sentimenti religiosi ben radicati) e di obiettività filosofica. Non si interroga circa la sua esistenza e molto meno cerca di modificare il suo status, anzi si preoccupa di propagarlo. Il risultato della libertà americana lo conosciamo dai giornali: la persistenza di un contagio che si estende ne Sud-est asiatico (Vietnam, Laos, Cambogia, per non parlare del Medio Oriente); il record mondiale nel consumo di tossici; l’erotismo sfrenato; le produzioni artistiche sprovviste di qualunque messaggio costruttivo (vedi i film di Hollywood dove si insegna solo a bere Coca Cola); la disintegrazione razziale ecc. Questa libertà tecnologica è stata molto ben criticata da Aldous Huxley nel suo libro Brave New World.
Molto meno ancora si può parlare di libertà nei regimi personificati da un Hitler o da uno Stalin dove tutto il potere emana dallo stato ed è esercitato esclusivamente in suo nome. Dove il popolo è collocato al margine del processo politico, e i dissidenti sono spediti in prigione, banditi dalla società o uccisi dalla polizia.
La gravità di questi fenomeni risiede nel fatto che lo stato può togliere o restringere la libertà; non può mai darla. Perché la libertà è qualcosa che si conquista e per la quale gli uomini dovranno sempre lottare, anche a prezzo della vita.
Credo che la libertà, come conquista sociale, non è ancora nata. Esistono momenti di libertà, spazi di liberta e uomini liberi. La libertà come status storico non è ancora stata raggiunta. La schiavitù ufficiale è stata abolita solo un secolo fa. Ma gli uomini continuano a creare nuovi miti che compensino le loro frustrazioni, nuove forme di soggezione come il colonialismo e l’imperialismo. La stessa struttura sociale in cui viviamo è fondamentalmente coercitiva: fin dai primi mesi di vita abbiamo imparato “ciò che non dobbiamo fare”, siamo soggetti a leggi repressive, vediamo in ogni angolo di strada un agente di polizia. La situazione è talmente aggravata dalla struttura sociale che molti uomini, pur avendo la possibilità di essere liberi, non sanno cosa farsene della libertà.
Un secolo fa l’uomo cominciò a scoprire se stesso per mezzo della psicologia, della sociologia e della biologia. Siamo ancora troppo protesi “al di fuori”. La ricchezza psichica e spirituale che esiste nell’uomo è stata finora molto poco sfruttata. Credo che arriveremo alla vera libertà solo quando arriveremo a quella tappa dell’evoluzione che Teilhard De Chardin chiama “noosfera”, la sfera dello spirito. Certamente lo spirito sarà l’ultima grande scoperta dell’umanità. Allora saremo liberi, perché la libertà esisterà soprattutto dentro di noi.
La testimonianza degli uomini liberi ci fa credere nella libertà e desiderarla. Una libertà che sboccia e si irradia dal di dentro. Nessun carcere è capace di distruggerla. Questa testimonianza io l’ho avuta dai compagni di prigione, dai bambini, dai poeti, dai santi e dai poveri. Sono persone che le sbarre non riescono a imprigionare. Parlano con gli occhi, comunicano col silenzio, si impongono con la serenità. Sono i profeti dello spirito che sanno captare le rotte della Storia. Questi sono gli uomini veramente pericolosi, che devono essere temuti da tutti coloto che non vogliono ascoltare la parola libertà, e molto meno ammettere che esista.
E’ molto naturale che io, nella mia condizione di prigioniero, parli di libertà. Proprio perché ogni giorno la scopro dentro di me, tra i miei compagni, e ne percepisco il prezzo (…).
“…Così come la malattia ci porta a riconoscere il valore della salute, la prigione ci rivela il valore della libertà”.

“…Il borghese può capire il cristianesimo solo come morale individualista perché gli interessa mantenere lo status quo (che egli, fra l’altro, chiama cristiano), come se il cristianesimo costituisse una forza di resistenza alla dinamica della Storia. Il povero invece, per la struttura della sua mentalità, è il più idoneo a ricevere e vivere il Vangelo, perché nulla lo lega al “qui, adesso”. Egli è pieno di speranza, di attesa, di volontà di cambiare, ed è capace come nessun altro di sacrificio, servizio e amore, proprio a causa della sua libertà interiore. Dobbiamo però presentargli un cristianesimo che sia “prassi” e non corpo di dottrine e di abitudini liturgiche. Chi si converte non può continuare ad agire alla maniera di prima”. 

Carcere di S Paolo, 23/03/1970

Carlo Alberto Libânio Christo, Frei Betto

giovedì 26 luglio 2018

Lettera aperta di Carmelo Musumeci al criminologo con l’amore sociale nel cuore



Gentile Professor Nils Christie,
non sono sicuro se riuscirò a farle avere questa lettera, se riuscirò a tradurla in inglese e non so neppure se lei mi risponderà, ma ci provo lo stesso perché mi piacciono le imprese impossibili. Innanzitutto mi presento: sono un “uomo ombra”, così si chiamano fra di loro in Italia gli ergastolani ostativi a qualsiasi beneficio penitenziario.
Sono un “cattivo e colpevole per sempre” destinato a morire in carcere se al mio posto in cella non ci metto qualcun altro, perché sono condannato alla “Pena di Morte Viva”, infatti in Italia una legge prevede che se non parli e non fai condannare qualcun altro al tuo posto, la tua pena non finirà mai e si esclude completamente ogni speranza di reinserimento sociale. Questa condanna è peggiore, più dolorosa e più lunga, della pena di morte, perché è una pena di morte al rallentatore, che ti ammazza lasciandoti vivo.
Professor Nils Christie, un amico sconosciuto, (le amicizie con gli sconosciuti sono le più belle), Tommaso Spazzali, che ha fatto la postfazione al suo libro nella versione italiana, mi ha inviato e donato il suo saggio. L’ho letto in un solo giorno e condivido molto i suoi pensieri e tutto quello che ha scritto. Anch’io penso che la mafia e la criminalità organizzata come tutti i poteri nascono dall’alto e non dal popolo e dai poveracci, ma piuttosto dai potenti e dai ricchi. Poi quando lo Stato-Mafia è in difficoltà manda in catene le persone che ha usato per raggiungere e mantenere il potere. Spesso in Italia sono proprio i mafiosi che urlano di lottare contro la mafia, per far credere che non sono mafiosi. Lo so, non ho prove per dimostrare queste affermazioni, ma io non sono un giudice (e neppure un criminologo) e non ho bisogno di prove perché non devo condannare nessuno, tento solo di pensarla diversamente da come lo Stato-Mafia vuole farmi pensare. Non so cosa accade negli altri Paesi, ma il carcere in Italia non ti vuole solo togliere la libertà, ti vuole anche possedere. Credo che sia impossibile “rieducare” un uomo che ha commesso un crimine se questo non si sente amato e perdonato dalla società.
Professor Nils Christie, a questo punto lei si domanderà perché le sto scrivendo.
Ebbene, sono tanti anni che lotto contro i mulini a vento, quasi da solo, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo in Italia. Leggendo il suo libro mi sono fatto un’ idea della sua coscienza sociale e penso che lei non sia d’accordo che una persona possa essere cattiva e colpevole per sempre e murarla viva fino all’ultimo dei suoi giorni, senza neppure la compassione di ucciderla.
Per questo ho pensato di scriverle per chiederle di aiutarmi a fare conoscere all’estero la “Pena di Morte Viva” che esiste in Italia, unico Paese al mondo che se parli esci e se no stai dentro, come nel Medioevo.
Se vuole sapere qualcosa di me e dell’ergastolo ostativo, potrà trovare i miei scritti sul sito www.carmelomusumeci.com, curato dalla figlia che il cuore ha adottato e dal mio angelo (anche i diavoli a volte ne hanno uno)
Le invio un sorriso fra le sbarre.
Carmelo Musumeci
Carcere di Padova, marzo 2013


Il Professore Nils Christie, nato a Oslo nel 1928, docente all’Università di Oslo, uno dei più noti criminologi a livello mondiale, ha avuto la mia lettera e mi ha scritto:

Caro Carmelo, innanzitutto grazie per la tua lettera. L’ho ricevuta in un ottimo inglese. Avrei dovuto rispondere molto tempo fa ma ho avuto dei problemi di salute. Ora sto di nuovo bene e mi preparo per un viaggio in Italia.
Dunque il sistema ostativo mi pare orribile. Non riesco a capire come può essere in accordo con le norme e le regole internazionali. Contatterò degli esperti di diritto internazionale e chiederò, poi cercherò di farti avere la loro risposta. Certamente parlerò di questo durante il mio viaggio in Italia.
Indipendentemente da quanto gli esperti possono dire, io voglio dire da uomo normale che questo sistema, per come l’hai descritto, è in contrasto con le regole dei rapporti che le persone normali hanno. Se capisco bene ciò che dici, il sistema ti chiede di dare informazioni su una altra persona, spesso un amico, per avere dei benefici. Nelle torture delle dittature questo sistema è talvolta usato perché uno denunci un altro. Il sistema di cui ho sentito in Italia è come una tortura.
Carmelo Musumeci

sabato 21 luglio 2018

dice il magistrato Olindo Canali


…Dice il magistrato Olindo Canali: “Abbiamo inventato addirittura i diversamente stranieri” ha detto con riferimento ai cittadini comunitari durante il suo intervento intitolato “Straniero per legge”. Una mezz'ora a tutto campo, quella del magistrato che lavora nella sezione Protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini comunitari del tribunale di Milano. “In passato non c'erano nemmeno i passaporti. Si controllavano le merci ma non le persone”. Quando il giudice ascolta i racconti dei migranti che chiedono protezione per cercare di capire se la loro storia è vera, falsa o verosimile vede “la paura negli occhi degli immigrati” e si meraviglia che il dibattito attuale sia tutto sui timori degli italiani rispetto al fenomeno migratorio. La paura perché il magistrato che “condanna un uomo a 25 anni di carcere sa che la pena prima o poi terminerà”. Mentre quella “di chi è obbligato ad andarsene non finisce mai”.

Non è naif il giudice Canali: “Abbiamo un problema di criminalità connessa al fenomeno migratorio” e cita il 68 per cento della popolazione carceraria formata da stranieri per le pene fino a 4 anni. Percentuale che si inverte  per i reati più gravi: “Per pene superiori ai 20 anni solo il 5 per cento dei reati è commesso da stranieri”. Un dato che racconta molto anche dell'Italia. Un affondo anche verso la politica. “Pezzi di classe dirigente si stanno accanendo contro la protezione umanitaria” che è prevista “non per i perseguitati o chi proviene da aree ad alti tassi di violenza” ma comunque per persone “ad alti indici di vulnerabilità: vittime di tratta o di tortura, donne stuprate”. 

La battaglia dei numeri che, per Canali, non serve a nulla: “Nella nostra sezione milanese stiamo giudicando i casi del 2015 e fino alla metà del 2016, durante il picco degli arrivi nel nostro Paese”. Poi il calo, soprattutto degli sbarchi, e “sarà la storia a giudicare se il 'patto con il diavolo' che abbiamo siglato in Libia sia una mossa politica giusta o sbagliata”. Una riflessione globale il magistrato la fa, forte dei racconti accumulati e raccolti nella sezione Protezione umanitaria dle tribunale meneghino: “Vengono a casa nostra” come si ripete anche perché “siamo andati a casa loro: nel Delta del Niger ci sono bambini di 8 anni che sviluppano tumori” in quella che, chiude il magistrato, “è diventata la pattumiera del mondo a causa dell'industria petrolifera”. (Francesco Floris)

martedì 8 maggio 2018

divieto di poesia


 “Istigazione alla violenza”: condannata la poetessa palestinese Tatour - Roberto Prinzi 


Condannata per “istigazione alla violenza” e sostegno ad una “organizzazione terroristica” per un post su Facebook. È quanto ha stabilito ieri un tribunale di Nazareth per la poetessa Dareen Tatour. Taour, palestinese con cittadinanza israeliana, nel 2015 aveva pubblicato sul noto social network un video in cui alcuni palestinesi lanciavano pietre contro l’esercito israeliano accompagnandolo con un suo poema intitolato “Resisti, popolo mio, resisti”. L’imputata si è difesa spiegando che il suo componimento non era affatto un invito alla violenza, quanto piuttosto una esortazione a lottare. Una lotta che, ha precisato, solo le autorità israeliane hanno voluto interpretare come violenta: secondo la corte, infatti, i post della Tatour “hanno creato una reale possibilità di ispirare le persone a commettere atti di violenza e terrore”. La sentenza è prevista per questo mese anche se non è ancora chiaro quando con esattezza.
La decisione del tribunale non ha stupito Tatour che, al termine dell’udienza di ieri, si è detta “pronta a tutto” e ha rivendicato il suo gesto. “Il mondo intero ascolterà la mia storia – ha dichiarato – Il mondo intero sentirà che tipo di democrazia è Israele. Una democrazia solo per gli ebrei mentre gli arabi vanno in carcere. Il tribunale ha detto che sono condannata per terrorismo. Se questo è terrorismo, allora darò al mondo un terrorismo d’amore”. Intervistata dal portale Middle East Eye prima del verdetto di ieri, la poetessa aveva spiegato che era stata inizialmente accusata per un suo post su Facebook del 2014 in cui aveva scritto “Sono la prossima martire”. “Le accuse – ha raccontato – erano deboli per cui hanno scavato nel mio Facebook e hanno così trovato il poema dove hanno interpretato il verso: ‘Resisti, mio popolo, resisti al furto del colono e segui la carovana dei martiri’ come un invito rivolto ai palestinesi ad essere uccisi ed essere martiri”.
I problemi con la legge per Tatour iniziano l’11 ottobre del 2015, una settimana dopo la pubblicazione in rete del suo componimento: la polizia israeliana fa irruzione nella sua casa di Reineh (nei pressi di Nazareth) e l’arresta. Inizia così il calvario della poetessa: detenuta prima per 3 mesi, viene posta ai domiciliari nella casa di suo fratello nel quartiere di Kiryat Ono a Tel Aviv per 6 mesi durante i quali le è stato impedito di utilizzare Internet, il cellulare e di pubblicare i suoi lavori sui media. Dopo 4 mesi l’è stato concesso di lasciare l’abitazione per due ore nei weekend solo se accompagnata da un parente.
Il caso Tatour ha avuto ampia eco anche al di fuori d’Israele: per la sua liberazione si sono mossi oltre 150 intellettuali, tra cui Alice Walker, Naomi Klein, Natasha Trethewey e Jacqueline Woodson. In difesa della poetessa è intervenuto ieri anche il gruppo internazionale degli scrittori PEN: “Dareen Tatour è condannata per aver fatto quello che gli scrittori fanno ogni giorno: usare le loro parole per sfidare pacificamente l’ingiustizia”.
Sulla decisione del tribunale di Nazareth è stato duro il commento della sua legale, Gaby Lasky: “In pratica quello che la corte ha fatto è stato seppellire la libertà di parola nonostante abbiamo portato in aula [come prova] molti componimenti di poeti ebrei scritti nel corso degli anni che sono molto più duri di quelli di Dareen. Tuttavia, in quei casi, nessuno ha mai pensato di incriminare [i loro autori]” . Secondo Lasky, il poema della sua assistita è stato “mal interpretato” dalle autorità perché, invece di essere un invito alla violenza, è “una espressione artistica”. Le accuse, ha poi sottolineato, sono “un attacco alla libertà di espressione” della sua cliente e “una violazione dei diritti culturali della minoranza palestinese all’interno d’Israele che provoca autocensura e auto-criminalizzazione della poesia”.
La durezza del mondo giudiziario israeliano contro i palestinesi non è cosa nuova: per aver dato qualche schiaffo a dei soldati lo scorso dicembre, l’adolescente Ahed Tamimi sta scontando 8 mesi di carcere (patteggiati per evitare una pena più severa). Ma l’inflessibilità dei tribunali viene meno quando a compiere i reati sono cittadini ebrei israeliani. Il caso recente più emblematico è rappresentato dal soldato Elor Azaria che il 24 marzo del 2016 uccise a sangue freddo a Hebron il palestinese Abdel Fattah al-Sharif. Per il militare la pena già irrisoria di 18 mesi di detenzione è stata ridotta a solo un anno di carcere per “buona condotta” e perché “non costituisce un pericolo”. Nelle differenze di trattamento tra Tamimi e Tatour da un lato, e Azaria dall’altro, c’è la rappresentazione più significativa del doppio binario su cui viaggia la “giustizia” israeliana. 

venerdì 4 maggio 2018

Ero in prigione… e non avete permesso a me di visitarti - Leonardo Boff




Vangelo di Matteo. Scena altamente drammatica. “Giudizio finale”. È la pubblicazione del destino definitivo di ogni essere umano. Il Giudice supremo non domanderà a quale religione, a quale chiesa appartenevi, se ne hai accettato i dogmi, con che frequenza andavi a messa la domenica.
Questo giudice, rivolgendosi ai buoni, dirà: venite benedetti da mio padre, entrate, prendete possesso del regno pronto per voi da quando il mondo è stato creato; perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, pellegrino e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e siete venuti a vedermi, ero in prigione e siete venuti a trovarmi…Tutte le volte che avrete confortato uno di questi miei fratelli e sorelle più piccoli… l’avrete fatto a me… e quando avrete lasciato di farlo a uno di questi piccoli, sarà stato a me che l’avrete negato (Mt 25,35-45).
In questo momento supremo, sono i comportamenti e non le prediche ai sofferenti di questo mondo che avranno valore. Se saremo andati incontro alle loro necessità, allora udiremo quelle parole benedette.
Questa esperienza è stata vissuta dal Premio Nobel per la pace (1980), l’argentino Adolfo Perez Esquivel (1931), architetto e scultore rinomato, grande attivista dei diritti umani e della cultura della Pace, oltre ad essere profondamente religioso. Per me ha sollecitato le autorità giudiziarie brasiliane per ottenermi il permesso di visitare in carcere l’ex Presidente, amico da molti anni.
Dall’Argentina Esquivel mi ha telefonato e nel Twitter era stata riassunta la conversazione in una specie di Yotube. Saremmo andati insieme, visto che io avevo ricevuto il cosiddetto Nobel Alternativo della pace nel 2001 (Award the right livelihood) del parlamento Svedese. Ma io li avvisai che la mia visita era per adempiere al precetto Evangelico, quello di “visitare chi sta in carcere” oltre che abbracciare Lula amico da 30 anni. Volevo rafforzare la tranquillità dell’anima, che sempre aveva mantenuto. Mi confessò, poco prima di essere arrestato: la mia anima è serena, perché non mi accusa di niente e mi sento portatore della verità che possiede una forza propria e che si manifesterà quando verrà il suo tempo.
Arriviamo a Curitiba, Esquivel e io in orari differenti il giorno 18 aprile. Andiamo direttamente al grande Auditorum dell’Università federale del Paranà, pieno di gente, per un dibattito sulla democrazia, diritti umani e crisi Brasiliana al suo punto più alto nella condanna e carcerazione di Lula. Presenti le autorità universitarie, l’ex-ministro degli Esteri Celso Amorim, rappresentanti dell’Argentina, del Chile, del Paraguay, della Svezia e di altri paesi. Cantano bellissime canzoni Latino-Americane, con la voce sonora dell’ attrice e cantante Letìcia Sabatella. Squadre di Afro discendenti, alternandosi, danzano e cantano con i loro tradizionali costumi colorati. Vengono fatti pronunciamenti vari. Lo scoraggiamento generale come attraverso un tocco di magia, crea un’atmosfera di amicizia e di speranza che il golpe di Stato parlamentare, giuridico mediatico non potrebbe tracciare nessun futuro per il Brasile. Anzi, si aprirebbe un ciclo di dominazione delle élites del ritardo per aprire un sentiero alla democrazia venuta dal basso, partecipativa e sostenibile.
Già prima della sessione ci fu comunicato che la Ministra della Giustizia, Caterina Moura Lebbos, braccio diretto del giudice Sergio Moro, aveva proibito la visita che volevamo fare all’ex presidente Lula.
Questa Ministra non aveva capito un bel niente dell’alto significato di cui è portatore un premio Nobel per la pace. Lui ha il previlegio di andare in giro per il mondo, visitare i detenuti e luoghi di conflitto con l’obiettivo di promuovere il dialogo e la pace. Ci aggrappiamo al documento del Onu del 2015 che per convenzione si chiama “Regole di Mandela” e che tratta di prevenzione al crimine e di giustizia criminale. È lì che si abborda anche la parte della visita ai carcerati. Il Brasile era stato uno dei più attivi nella formulazione di queste regole anche se nel suo territorio non se ne tiene conto.
Ma, tutto inutile. La Ministra Lebbos semplicemente negò. Il giorno seguente 19 di aprile, arrivammo a un accampamento dove centinaia di persone fanno una veglia vicino al dipartimento della giustizia federale, dove Lula è detenuto. Gridano “Bongiorno, Lula” “Lula libero” e altre parole di incoraggiamento e speranza che lui nel suo carcere ha potuto ascoltare perfettamente.
Poliziotti dappertutto. Proviamo a parlare con il capo, per essere ricevuti dal responsabile della polizia federale.
Ma sempre veniva la stessa risposta: non è possibile, Ordini superiori. Dopo molte insistenze con scambi di telefonate, nei due sensi, Esquivel, ottenne un’udienza con il Sovrintendente dell’Istituto di pena. Spiegò il motivo della visita, umanitaria e fraterna a un vecchio e caro amico. Per quanto Perez Esquivel tentasse ragionamenti e facessi valere il suo titolo di premio Nobel per la pace, riconosciuto mondialmente e rispettato, udiva sempre lo stesso ritornello: non è possibile, ordini superiori.
E così a testa bassa ritornammo in mezzo al popolo. Io personalmente insistevo che la mia visita era puramente spirituale. Io portavo due libri Il signore è il mio pastore non manco di nulla, un commentario minuzioso che realmente alimenta la fiducia. L’altro libro è del nostro migliore esegeta, Carlos Mesters La missione di popolo che soffre che descrive lo scoraggiamento del popolo Ebreo in esilio a Babilonia, dove era confortato dai profeti Isaia e Geremia e come a partire da questo, rafforzò il senso della sua sofferenza e della sua speranza.
Nel dipartimento della polizia federale tutto era proibito. Nemmeno un piccolo biglietto da inviare all’ex-presidente.
In mezzo al popolo parlarono vari rappresentanti dei gruppi, specialmente una coppia svedese che sostiene la candidatura di Lula a premio Nobel per la pace. Parlammo io e Perez Esquivel rafforzando la speranza che finalmente quella energia pesante che sostiene quelli che lottano per la giustizia e per un altro tipo di democrazia. Lui annunciò che lanciava una campagna elettorale per Lula come candidato a Premio Nobel della pace. Già migliaia in tutto il mondo hanno sottoscritto. Lula ha tutti requisiti per questo, specialmente la politica sociale che ha tolto migliaia persone dalla fame e dalla miseria e il suo impegno per la giustizia sociale base della pace.
Molte furono le interviste sui mass media, nazionali e internazionali. alcuni foto dell’evento cominciarono girare il mondo e esprimevano solidarietà molti paesi e molti gruppi.
Qui abbiamo toccato con mano che viviamo sotto un regime di eccezione nella forma di un golpe soft che sequestra la libertà e nega diritti umani fondamentali.
La carenza di spirito dei nostri giudici della “lava Jato” e la negazione di un diritto assicurato da un premio Nobel della pace di visitare un suo amico incarcerato nello spirito di pura umanità e di calorosa solidarietà, fa vergognare il nostro paese. Purtroppo comprova che effettivamente siamo in una logica che nega la democrazia in un regime di eccezione.
Ma il Brasile è più grande della sua crisi. Purificati, usciremo migliori e orgogliosi della nostra resistenza e della nostra indignazione e del coraggio di riscattare a partire dalla strada attraverso elezioni uno stato di diritto. Non dimenticheremo mai le parole sacre: “io stavo in prigione e tu non hai permesso a nessuno di venirmi a trovare”.
Leonardo Boff è testimone oculare dei fatti qui narrati.