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martedì 11 maggio 2021

Che fine hanno fatto i rohingya? - Stefano Romano

 


 

Negli ultimi anni il fotografo Stefano Romano ha intervistato decine di famiglie rohingya rifugiate in Malesia, dove come fantasmi vivono ai margini della società, senza possibilità di accedere a istruzione e sanità pubblica.


“Lasciamo che anche loro camminino sulla terra.

Su questa nostra madre terra

Cresceranno sempre di più.

Se non riusciamo a garantire loro il ritorno,

Lasciamo che si diffondano su qualsiasi riva “.

Mohammad Nurul Huda, da “Rohingyas”

 

“Irohingya sono una minoranza prevalentemente musulmana dello stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale. Contano circa un milione di persone, ma le leggi approvate negli anni ’80 li hanno effettivamente privati della cittadinanza birmana. La violenza è esplosa in Myanmar il 25 agosto dopo che una fazione di militanti rohingya ha attaccato postazioni di polizia, uccidendo 12 membri delle forze di sicurezza del Myanmar. Le autorità del Myanmar, in luoghi sostenuti da gruppi di buddisti, hanno lanciato una repressione, attaccando villaggi rohingya e case in fiamme. Secondo l’UNHCR, il 28 settembre il numero di rohingya che successivamente sono fuggiti dal Myanmar per il Bangladesh ha raggiunto i 500.000”. In questo modo i rohingya venivano descritti nella sinossi introduttiva del World Press Photo alle fotografie che fecero conoscere questa tragedia al mondo. Era il 2018.

La comunità internazionale iniziava a conoscere le cifre e l’orrore di questo genocidio. Poi si sarebbe alzata una voce di protesta contro il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, allora a capo del paese. La si accusava di tacere davanti allo sterminio, spalleggiata al potere dall’esercito che, del genocidio, ne era l’esecutore. Suona ironico, adesso, vederla destituita con un colpo di Stato perpetuato proprio dall’esercito del Myanmar.

Va detto che già nel 2014 Shaihdul Alam, il fotografo più famoso del Bangladesh, aveva fotografato le navi abbandonate dai ronhingya sulle spiagge della Malesia. Lo stesso aveva fatto nel 2016 documentando l’arrivo dei rifugiati nel distretto di Teknaf a Cox’s Bazar, prima che venissero accolti nel campo profughi. A tal proposito si veda il suo ultimo libro, The Tide Will Turn (Vijay Prashad, 2020).

Sta di fatto che, come tutte le cose, la tragedia di questo popolo vortica impetuosa come un mulinello d’aria sulla sabbia, per poi disperdersi e svanire in poco tempo. Chi non ha voce per urlare il proprio dolore cade velocemente nel disinteresse.

Una persecuzione vecchia almeno 237 anni

Se quella dei rohingya è una tragedia che abbiamo iniziato a conoscere in anni recenti, la sua storia ha radici molto antiche. Non è vero che la persecuzione sia iniziata negli anni Ottanta, come viene riportato spesso. Già nel 1784 l’esercito birmano iniziò ad uccidere i rohingya, quando il re birmano Bodawpaya conquistò Arakan. E non solamente loro, a dimostrazione che il problema va oltre l’essere di fede islamica: tra le minoranze etniche perseguitate ci sono anche i chin, i kayah, i mon e altri ancora.

Il Myanmar è un paese misterioso e tormentato, che ha cambiato nome (da Birmania, nel 1989) e tre diversi dominanti, passando dagli inglesi ai giapponesi fino all’esercito militare. Tutto pare iniziare con le vicende di Shaha Shuja, secondo figlio dell’imperatore Mughal che dominava tutto il Bengal. A causa di tradimenti e conflitti per la successione al trono, Shah Shuja fu costretto a fuggire dal Bengal e da Chittagong raggiunse Arakan (tuttora questo itinerario è chiamato Shuja Road). Qui fu ospite del Principe musulmano di Arakan Sanda Thudamma, che fu tradito proprio dal discendente del Mughal e che per questo lo uccise. Questa ribellione provocò la reazione tremenda del re Mughal, che lo uccise a sua volta e obbligò alla schiavitù il popolo di Arakan. Fino, praticamente, ai giorni nostri.

 

I rohingya in Malesia

Ho conosciuto le prime famiglie rohingya quando visitai la Malesia nel 2017. Ero ospite di una famosa università del Penang, l’isola al nord della Malesia; fu molto toccante conoscere alcuni dei bambini rohingya ospiti del Penang Peace Learning Center, una struttura fondata da Kamarulzaman Askandar, professore di studi su Peace and Conflict (USM) e coordinatore regionale del Southeast Asian Conflict Studies Network (SEACSN).

Madri rohingya accompagnano le figlie alla scuola del professor Askandar

Lo intervistai per capire più in profondità i vari aspetti del conflitto in Myanmar e la presenza dei rohingya in Malesia. Tra le altre cose, il professore Askandar mi spiegò che secondo lui si trattava senza ombra di dubbio di genocidio e, per questo, il problema riguardava tutti i paesi, che avrebbero dovuto “non solo essere consapevoli, ma anche agire per la risoluzione”. Sul ruolo del suo paese, in cui già allora erano presenti quasi 90mila rifugiati rohingya, Askandar mi aveva spiegato che “nonostante la Malesia non sia un firmatario della convenzione sui rifugiati, ha accolto un gran numero di rifugiati rohingya e permesso allo staff dell’UNHCR di registrarli”. Ribadì che la questione era globale, non solo della Malesia e che andava risolta direttamente in Myanmar. D’altro canto, “la Malesia dovrebbe fare qualcosa per fare pressione sul governo del Myanmar”, “per trattarli umanamente, per dare loro la vita sociale e politica che realmente richiedono e che dovrebbero avere”…

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martedì 2 febbraio 2021

Rohingya: il genocidio silenzioso di una comunità musulmana nella sua città - Emanuele Giordana

  

Questo reportage è il frutto di un viaggio a Sittwe, capitale del Rakhine, nel luglio 2020. È stato pubblicato nell’ottobre 2020 sul n. 44 de “Il Reportage”, trimestrale diretto da Riccardo De Gennaro. Qui se ne riporta la versione integrale dell’Autore.


Il duplice volto di Sittwe

Sittwe (Stato del Rakhine). Quanto tempo ci vuole per dimenticare il dolore? E quanto ce ne vuole perché il dolore diventi abitudine, sistema di vita, quotidianità? Un musulmano di Sittwe lo sa anche se in questa città settentrionale del Myanmar le apparenze possono ingannare. La capitale del Rakhine, lo stato birmano da cui tra il 2012 e il 2017 almeno 850.000 musulmani rohingya sono stati obbligati a fuggire da una sistematica persecuzione, sembra una città tranquilla e invitante. Il lungomare porta a un belvedere affacciato da una parte sul Golfo del Bengala e dall’altra sul delta di un grande fiume limaccioso che confonde le sue acque con quelle del Mar delle Andamane. Lungo la passeggiata, coppiette mano nelle mano, bambini festosi e giovani che si allenano. Qualche surfista occidentale e giovani allegri che nuotano su pneumatici gonfiati come enormi salvagenti. Sulla spiaggia decine di baracchette con birra, gamberi arrostiti, piacevolezze da weekend e sorrisi. Sullo sfondo, pagode ristrutturate con lamine dorate.

La città vecchia non dimentica

Nel cuore della città vecchia però si respira tutt’altra aria. Se l’occhio va oltre l’alto muro di cinta che circonda la grande moschea di Sittwe, l’antica costruzione ottocentesca – un piccolo gioiello dell’arte islamica con suggestioni mogul – è ora un ammasso di rovine. La struttura esterna ha resistito ma dentro tutto è devastato. Le piante si arrampicano rapide lungo i muri sbrecciati, corrosi dall’umidità e dall’incuria. E se dimenticare è difficile, alla natura bastano otto anni per cominciare a ripigliarsi ciò che era suo. Succede lo stesso per altri luoghi di culto islamici della città ed è accaduto anche a monasteri e templi buddisti, seppur in maniera minore. Non lontano dalla moschea si apre il ghetto islamico. Non ci si può entrare e non ci si può uscire. Quanti sono? Una stima dice 4000. Quanti erano? Forse 80.000. Come sopravvivono? È un altro mistero di una città divisa da una guerra per bande scoppiata nel 2012 che, nel giro di qualche mese, ha chiuso un bilancio per il solo Rakhine – dice un rapporto del 2013 di Pysichians for Human Rights – di almeno 280 morti, circa 135.000 sfollati e la distruzione di oltre 10.000 abitazioni, decine di moschee, madrase e monasteri.

La scintilla che scatena i pogrom

Se buddisti, cristiani e musulmani rohingya (una comunità di lingua bengalo-assamese ed etnicamente indo-ariana che vive qui da secoli) convivevano più o meno pacificamente, al netto di qualche ricorrente dissidio, nel 2012 uno stupro mortale di cui sono accusati tre musulmani scatena il caos. Un autobus viene assalito e vengono giustiziati dieci rohingya. Parte la caccia all’uomo dalle due parti ma con due grossi svantaggi per la comunità islamica: sono minoranza in un paese devoto a Budda il compassionevole e l’esercito chiude un occhio. Un occhio lo chiudono anche le autorità religiose buddiste che solo in seguito prenderanno le distanze dal movimento “969” del monaco oltranzista Ashin Wirathu, i cui infiammati sermoni istigano all’odio e alla violenza etnico-religiosa. Una violenza che si espande in decine di siti in tutto il paese – Meiktila, Yamethin, Mandalay – ma che ha il suo fulcro nel Rakhine, a Sittwe, dove i musulmani vengono “evacuati” nei campi sfollati fuori dalla capitale.
Il pogrom antimusulmano si ripete cinque anni dopo, nel 2017, quando un gruppo islamico (Arakan Rohingya Salvation Army – Arsa) attacca alcuni siti delle forze di sicurezza birmane nel Rakhine. È la loro risposta al 2012, ma per l’esercito birmano – conosciuto come Tatmadaw – è l’occasione per far piazza pulita. Nel giro di un mese quasi 700.000 rohingya scappano in Bangladesh a ingrossare le fila nei campi profughi oltre confine. Presto se ne aggiungono altri. Il Myanmar non è più casa loro: per Naypyidaw sono bengalesi immigrati, quindi clandestini, senza diritto a un documento. La parola rohingya è bandita dal vocabolario in quella che diventa la prima grande operazione di pulizia etnica del XXI secolo che si consuma, dopo 50 anni di governo militare, all’ombra del primo esecutivo civile con a capo un premio Nobel, la signora Aung San Suu Kyi. Poi, tra la fine 2018 e l’inizio del 2019, per Tatmadaw appare un’altra sfida: l’Arakan Army, autonomisti arakanesi per lo più buddisti e armati. Sono nati nel 2009 e sono attivi dal 2015 ma questa volta fanno sul serio. Non sono gli straccioni armati di machete e moschetto dell’Arsa. Una nuova guerra si riaccende tra le pianure del Rakhine e le montagne dello stato Chin, dove l’AA mantiene le sue basi operative.

Sfollati e vulnerabili

A fine 2019 il più recente aggiornamento dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) diceva che circa la metà della popolazione sfollata in Myanmar a causa del conflitto vive nello stato del Rakhine: circa 241.000 sfollati – il 77% sono donne e bambini – vivono in campi o in situazioni simili a campi negli stati Kachin, Kayin, Shan e Rakhine. Ciò include – sempre secondo Ocha – circa 92.000 persone nel Kachin, 15.000 nello Shan, 5600 nel Kayin e quasi 130.000 persone nel Rakhine, in gran parte sfollate a causa delle violenze del 2012. Numeri che crescono e che il sito dell’Unhcr stimava nel 2019 a oltre 700.000 persone (prese in carico a diverso titolo, tra cui 600.000 rohingya). La condizione in cui vivono gli sfollati nei campi è di estrema vulnerabilità: persistenza dei conflitti armati, apolidia, restrizioni di movimento, malnutrizione, malattie. Le agenzie umanitarie fanno quel che possono ma «l’accesso ai campi sfollati viene impedito dall’esercito a qualunque straniero. Possiamo arrivarci – dice il funzionario di un’organizzazione internazionale che chiede l’anonimato – solo con personale locale». C’è una diffusa reticenza a parlare coi reporter da parte delle varie strutture internazionali – dalle Nazioni Unite alle Ong – presenti a Sittwe. Probabilmente è dovuta anche al fatto che nel 2014 ci fu una vera e propria sollevazione contro gli internazionali ritenuti pro-rohingya e a un episodio dell’aprile di quest’anno, quando è stato ucciso nel Rakhine un autista dell’Oms. Nessuno se la sente di parlare con un giornalista, nemmeno off the record. «Argomento troppo sensibile», è la vaga risposta quando una risposta viene data.

Accesso vietato

A Yangon un funzionario Onu accetta di parlare ma anonimamente: «La situazione si è molto complicata dal 2019: in termini di flussi, stiamo parlando di 70 nuovi siti – difficile, dice, chiamarli “campi” – con 45.000 sfollati che nei primi sei mesi del 2020 sono raddoppiati: 150 siti con un totale di 90.000 sfollati. In queste aree del Rakhine il nostro lavoro è ostacolato da una burocrazia di permessi che comincia col governo ma finisce con i militari. E il Western Comand, che controlla l’area, ha sempre l’ultima parola. Per il personale non birmano l’accesso è praticamente impossibile e anche per i locali non è facile: ci sono cinque livelli da superare per avere un permesso nelle aree off limits salvo che il primo check point non ti rispedisca a casa. L’accesso è migliore nelle aree urbane ma in quelle rurali – nelle zone di Paletwa, Rathedaung e Buthidaung – non c’è niente da fare. Il mantra è “sicurezza” cui si sono aggiunte – conclude – le restrizioni del Covid». È abbastanza chiaro che non è molto piacevole dover ammettere di non aver quasi nessuna capacità di controllo sull’emergenza umanitaria degli sfollati che richiede comunque una spesa di circa 150 milioni di dollari l’anno. È possibile solo un monitoraggio a distanza che lascia libero Tatmadaw di controllare la situazione e la segregazione. Va aggiunto poi che, al di fuori di Sittwe, la regione è da oltre un anno isolata da Internet. Impossibile dunque persino comunicare, figurarsi controllare.

Impossibile comunicare: isolamento e mancanza di controllo

Anche ottenere i dati è complesso e i siti internet, cui le organizzazioni rimandano, non sono di grande aiuto. Quel che è certo e che la statistica non è di casa nel Rakhine. E difficile sapere con certezza le variazioni demografiche di Sittwe, l’unico posto che uno straniero possa raggiungere. In aereo. La città è sigillata e non si può uscire perché attorno si spara e «a volte in città scoppia qualche bomba», confida una fonte locale. L’Arakan Army è più vicino di quanto non si pensi e nel primo quadrimestre del 2020 ha messo a bilancio oltre 80 azioni armate al mese. A inizio agosto ci sono stati scontri con vittime tra Tatmadaw e l’AA nelle città di Rathedaung e Buthidaung, a Nord di Sittwe e, a fine luglio, due raid aerei dell’esercito birmano hanno bombardato l’area tra Kyauktaw e Mrauk U – a circa 150 chilometri Est da Sittwe per rispondere a un attacco dell’AA. Il giorno dopo, vediamo una colonna di camion trasporto truppe attraversare la capitale. Una cinquantina di soldati per camion usciti da una delle tante caserme di Sittwe. Molti residenti, si dice, avrebbero abbandonato l’area: la zona dista una sessantina di chilometri in linea d’aria dal territorio di Paletwa, nel Chin, dove, con la popolazione civile, sono intrappolati dai continui scontri armati anche alcuni sacerdoti cattolici. È l’altro fronte della guerra nei due “stati caldi” dove il processo di pace tra Naypyidaw e gli eserciti armati degli stati periferici birmani (l’ultimo vertice si e tenuto in agosto) non funziona. Con le fazioni che hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco c’è tutt’al più qualche scaramuccia. Nel Chin e nel Rakhine si combatte. Quotidianamente.
Una fonte locale confida che «la guerra è purtroppo una realtà quotidiana anche nelle aree di Myay Bon e di Min Bya», sempre a Est di Sittwe, dove «si combatte tutti i giorni». A Nord della capitale è forse ancora peggio: a giugno «la situazione della sicurezza nelle aree settentrionali dello stato Rakhine rimane instabile, con continui combattimenti e una maggiore presenza di forze di sicurezza nel distretto di Rathedaung – scrive un rapporto congiunto Ocha-Unhcr – tuttavia i numeri sono difficili da verificare a causa della fluidità della crisi» ma quasi 3000 persone avrebbero lasciato la zone degli scontri. «È stata fornita assistenza agli sfollati, ma l’accesso per valutare e rispondere ai bisogni rimane una sfida, in particolare nelle zone rurali… aggravata dal Covid-19». Se il controllo sugli aiuti è difficile, quello sulle attività di Tatmadaw lo è ancora di più: «Molto semplice: bruciano tutto, passano coi bulldozer e dopo qualche settimana la foresta ricopre tutto», sostiene un’altra fonte a Yangon. Lo confermano le riprese satellitari che Amnesty o Human Right Watch fanno ciclicamente per monitorare, dal 2017, cosa succede da queste parti dove è facile sparire senza che se ne sappia più nulla.

Ambala: un lager a cielo aperto

All’ingresso di Aung Mingalar o “Ambala”, com’è conosciuto il quartiere musulmano di Sittwe, i gabbiotti azzurri della polizia presidiano mucchi di spazzatura e impediscono che ci si avvicini a un’area in cui non è permesso entrare e da cui non è permesso uscire. Un lager a cielo aperto col titolo di quartiere «in cui vivono circa 4000 persone», secondo Nay San Lwin, cofondatore della Free Rohingya Coalition: «Solo poche persone – dice – possono uscire dal quartiere per fare spesa ogni due settimane. Sorvegliati dalla polizia». Molte case musulmane sono semplicemente abbandonate, altre sono diventate caserme o aree di rispetto interdette. In una settimana a Sittwe incontriamo non più di tre quattro donne con l’hijab e quando ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzi dai tratti somatici indiani, specificano subito di essere “indostani”, vale a dire non rohingya. Secondo le statistiche ufficiali del 2016, rielaborazione dei dati del censimento del 2014, nel Rakhine il 96,2% degli abitanti è buddista (il dato nazionale è 87,9%) mentre i musulmani sarebbero solo l’1,4% contro il 4,3% nazionale. Ma nel Nord Rakhine la percentuale cambia: 60% di buddisti contro 30% di musulmani (70% a 29 o 67% a 24 secondo altre fonti) anche se ormai la bilancia etnico-religiosa è cambiata. Con la fuga di quasi un milione di rohingya negli ultimi anni, i pochi che restano sono i prigionieri di Sittwe e dei campi sfollati.

Il distretto di Sittwe conta oltre un milione di abitanti e per Sittwe città la stima è attualmente di oltre 150.000 di cui circa il 70% vive nell’area urbana. Quanti musulmani sono andati via dalla città e quanti ne sono rimasti, se gli sfollati a giugno 2017 erano – scrive il Sittwe Camp Profiling Report* – ancora quasi 100.000 distribuiti in 15 campi nell’area rurale di Sittwe e altri 20.000 dispersi in un’altra ventina di campi nel Nord Rakhine? La fotografia del 2017 non dice quanti di loro abbiano raggiunto, prima o dopo il 2017, l’ondata di profughi rohingya riversatasi in Bangladesh o abbiano scelto la via del mare verso Thailandia o Malaysia. Quel che si sa con certezza è che la piccola minoranza dei Kaman – una popolazione musulmana del Rakhine che è però riconosciuta tra le 135 nazionalità ufficiali (da cui i rohingya sono esclusi) – sarebbe sfollata a Yangon. Un provvedimento cui nel 2018 si oppone un ex ministro vicino ai militari, sostenendo che così si «esporta il cancro» nella parte sana del paese. Quanto ai musulmani nei campi attorno a Sittwe, nel 2017 l’84% proveniva dalla città che ne doveva dunque ospitare, prima del pogrom, almeno 80.000. Se contare i musulmani prigionieri a Sittwe è un’operazione incerta, qualche dato comunque illumina: per esempio il numero di trattamenti all’ospedale generale della città nel periodo settembre-dicembre 2019 che ha a bilancio 26.046 interventi per “razze nazionali” contro 814 per “musulmani”. Con una divisione razziale dei pazienti che, da sola, messa nero su bianco, mette i brividi.

Un conflitto senza soluzione?

Il Myanmar – ha scritto International Crisis Group nel suo ultimo rapporto sul Rakhine (giugno 2020) – «ha anche sviluppato una strategia legale per difendersi dalle accuse di genocidio (per il dossier rohingya [N.d.A.]) alla Corte internazionale di giustizia. Ma sembra non avere una più ampia strategia per risolvere la crisi di fondo… dovrà riconoscere che il conflitto con l’AA e la crisi dei rohingya sono collegati, ed entrambi devono essere affrontati per stabilizzare il Rakhine e migliorare significativamente le sue prospettive di sviluppo. Senza fine al conflitto con l’AA, il rimpatrio volontario dei rohingya (dal Bangladesh [N.d.A.]) è inconcepibile. Inoltre, qualsiasi progresso sostenibile nel miglioramento della vita dei rohingya richiede una consultazione con la popolazione del Rakhine per ottenere il suo via libera. Eppure nel contesto attuale, tutto ciò sembra quasi inconcepibile, dato che l’impegno a livello politico tra il governo e il popolo del Rakhine – conclude Ics – è del tutto assente».

 

A Sittwe, mentre sul lungomare si gustano calamari e gamberoni, si consuma in sostanza un genocidio silenzioso dove i killer nei lager a cielo aperto sono anonimi: fame, malattie, depressione, prigionia. E tempo. Lo sterminio attraverso un lento stillicidio di quel che rimane di una comunità.

* Dati raccolti con questionario da CCCM, Danish Refugee Council, Unhcr. Il Rapporto (155 pagine più annessi) utilizza una sola volta il termine “rohingya” a testimoniare quanto l’argomento resti “sensibile”: «For the purposes of this paper, the term Muslims is used to refer to the population the Government refers to as “Bengali” and who refer to themselves as “Rohingya”. The labelling of this group in Rakhine State is a contentious issue and continues to fuel misunderstanding».

da qui

domenica 1 ottobre 2017

Nessuno farà niente per i rohingya - Francesca Marino




“Un caso di pulizia etnica da manuale”. Parola di Zeid Ra’ad Al Hussein, a capo dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite. Eppure, per l’ennesima volta la cosiddetta comunità internazionale si divide sul caso dei rohingya in Myanmar. “Il popolo più discriminato del mondo”, secondo le organizzazioni umanitarie, oggetto di una persecuzione più che decennale quasi sempre ignorata dai più.

Lo Stato del Rakhine (nome precedente: Arakan), dove i rohingya vivono da secoli, è stato conquistato e annesso all’attuale Myanmar, da cui è fisicamente separato da una catena montuosa, nel 1784. Diventato poi parte dell’India britannica, nel 1948 è stato ceduto alla Birmania indipendente.

I rohingya, di fatto cittadini del Myanmar, sono stati privati della nazionalità, non riconosciuti come uno dei 135 gruppi etnici del paese e fatti oggetto di una campagna persecutoria in grande stile: moschee distrutte, terre confiscate, stupri e omicidi hanno costretto all’epoca più di 200 mila persone ad abbandonare la patria e a rifugiarsi all’estero. Quelli che sono rimasti sono stati dichiarati “stranieri residenti”, senza diritto a possedere terra e senza diritti civili o legali. Al principio degli anni Novanta, in seguito all’ennesima campagna di persecuzioni, altri 250 mila rohingya hanno abbandonato la Birmania per rifugiarsi principalmente in Bangladesh inseguendo l’illusione di poter essere meglio accolti in uno Stato a maggioranza musulmana sunnita.

Non è andata così, perché anche in Bangladesh i rohingya subiscono discriminazioni, soprusi, violenze e ripetute violazioni dei diritti umani. Crimini denunciati dalle Nazioni Unite e caduti in un assordante silenzio. Nell’ultimo anno, le operazioni di pulizia etnica del governo birmano si ripetono con allarmante frequenza. Secondo le agenzie umanitarie, tra il 9 ottobre e il 2 dicembre 2016 sono arrivati a Cox Bazaar, in Bangladesh, 21 mila rohingya. Che si aggiungono ai circa 230 mila (dati ufficiali, ma c’è chi parla di 500 mila) che vivono già nel paese. Soltanto 32 mila sono registrati. Gli altri ci sono, ma sulla carta non esistono.

Dal 25 agosto a oggi, si stima che circa 370 mila persone siano scappatedall’ennesima tornata di violenza a opera del governo di Naypyidaw. Per la prima volta, la “comunità internazionale” si è mossa in grande stile chiedendo perfino il ritiro del Nobel per la pace ad Aung San Suu Kyi, che da quando è stata liberata ed è in seguito andata al potere non ha mai speso una parola in favore dei rohingya. Anzi.

Il Myamnar, prima e dopo la giunta, ha una lunga e onorata tradizione di repressione delle minoranze e di qualunque istanza indipendentista. Il caso dei rohingya è solamente il peggiore e il più emblematico di tutti.

Il governo del Bangladesh fino a questo momento ha adottato la politica dello struzzo, non opponendosi all’arrivo dei rifugiati per poi abbandonarli nei campi profughi in attesa che il vicino se li riprenda. Naypyidaw non ha nessuna intenzione di tornare sui suoi passi: dichiara che la cosiddetta “emergenza umanitaria” è un falso inventato dai giornalisti, che sono gli stessi rohingya a bruciare i loro villaggi e a uccidere i non musulmani. E che attualmente è in corso un’operazione antiterrorismo, militari contro militanti, seguita all’attacco di alcune stazioni di polizia da parte di un gruppo chiamato Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), formato nel 2012.

Le operazioni più recenti rappresentano un preoccupante punto di svolta nel conflitto, secondo l’International Crisis Group. Nel corso degli anni è accaduto quello che non era difficile prevedere: i campi profughi, abbandonati e dimenticati, sono diventati bacini privilegiati di reclutamento per vari gruppi jihadisti, trasformando una catastrofe umanitaria in una emergenza terrorismo.

Curiosamente, proprio dal 2012 in poi ha cominciato a operare nei campi profughi del Bangladesh la Fala-i-Insaniyat: una branca della Jamaat-u-Dawa (JuD), il “braccio umanitario” della Lashkar-i-Toiba (LiT), l’organizzazione terroristica pakistana accusata, tra le altre cose, dell’attacco di Mumbai del 2008. Secondo rapporti dell’intelligence indiana e di quella birmana, i rohingya sono felicemente entrati a far parte del progetto di jihad globale della LiT. Sempre secondo i servizi segreti, esistono vari campi di addestramento che hanno stretti legami con la LiT e con la JuD, sul confine tra Myanmar e Bangladesh e tra Thailandia e Myanmar. Non solo: ha cominciato a operare nell’area un gruppo chiamato Aqa-ul-Mujahiddin i cui membri, secondo l’intelligence birmana, sono stati addestrati in Pakistan nei campi della LiT. Pare che le reclute, selezionate in loco, siano state inviate in Pakistan per poi tornare ad addestrare nuove leve. Ci sono rohingya che combattono ormai in Kashmir a fianco della Jaish-i-Mohammed e della Lashkar-i-Toiba; ci sono cellule composte ormai esclusivamente di militanti rohingya.

I legami con i gruppi terroristici di matrice pakistana sono ormai consolidati, tanto che a capo di uno dei gruppi si trova un maulana pakistano di origine rohingya, Abdul Hamid, strettamente connesso alla LiT. L’Arsa e altri gruppi simili sono guidati da Ata Ullah e altri venti compatrioti rohingya emigrati o nati in Pakistan e con quartier generale alla Mecca, in Arabia Saudita. Islamabad e Riyad mantengono un clamoroso silenzio a livello ufficiale sul genocidio dei fratelli musulmani, al contempo finanziando jihadisti più o meno sottobanco.

La Cina, che tiene il Pakistan per la gola, si è schierata ufficialmente a fianco del governo del Myanmar dichiarando che non voterà alcun tipo di sanzione o provvedimento in sede del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. A Pechino si è quietamente accodata la Russia. Gli interessi cinesi nella regione, e in particolare le nuove vie della seta, passano tutti per una stretta collaborazione con Naypyidaw.

Così come gli interessi indiani, volti a contrastare la Cina e per questo a mantenere relazioni sempre più strette con il Myanmar. Il premier Narendra Modi ha dichiarato di voler espatriare tutti i rohingya rifugiatisi nell’instabile Nord-Est indiano, facendo leva sull’emergenza terrorismo.

A rimanere con il classico cerino in mano sarà ancora una volta il Bangladesh, facilmente costretto a ricorrere all’aiuto di paesi musulmani più o meno integralisti rinforzando quella radicalizzazione ideologica sconosciuta ai suoi cittadini ma in atto ormai da molti anni – le madrasa “donation of Saudi Arabia” si potevano ammirare a Cox Bazaar già negli anni Novanta.

È possibile che gli Stati Uniti, in ottica anti-cinese, prendano questa volta una posizione più netta delle solite commissioni di inchiesta, ma non è probabile. C’è già troppa carne al fuoco su diversi fronti, la parola jihad rende le emergenze umanitarie meno pressanti e il Myanmar sa benissimo di avere in mano un paio di assi nella manica dovuti alla propria posizione strategica.