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giovedì 30 maggio 2024

La commedia del lavoro – Tersite Rossi

 

Una storia che sa di finzioni spudorate, danni apocalittici e confessioni tragiche

 

Prima puntata di due

“La gente recita a destra e a manca la commedia del lavoro, recita la commedia dell’attività mentre in realtà poltrisce soltanto e non fa assolutamente nulla e di solito, per giunta, anziché rendersi utile provoca danni enormi”, lessi in un romanzo di Thomas Bernhard. L’austriaco lo scrisse nel 1986 e oggi, quarant’anni dopo, è ancora più vero, pensai mentre anch’io, nel mio ufficio, fingevo di lavorare. Eran vent’anni, ormai, che fingevo di lavorare.

Ero impiegato in un ufficio di cui nemmeno erano chiare le mansioni, un ufficio in qualche modo preposto all’informazione e alla comunicazione, solo che dell’attività di quell’ufficio non fregava in realtà assolutamente nulla a nessuno, e così io fingevo di lavorare dalla mattina alla sera. Non che me ne stessi a braccia conserte tutto il tempo, sia chiaro. Fingere di lavorare significa pur sempre fare qualcosa, solo che è qualcosa di completamente inutile, qualcosa di cui non frega niente a nessuno, qualcosa che se nessuno la facesse non cambierebbe nulla, assolutamente nulla.

Per fingere di lavorare io ho bisogno di un computer sempre acceso, di navigare su internet, persino di stampare documenti ogni tanto, e tutto questo ha un impatto economico e ambientale. Poi c’è l’impatto sociale e per così dire cognitivo del lavoro che fingo di fare tutti i giorni, contribuendo a quell’eccesso di informazione e comunicazione che oggi letteralmente rimbecillisce chiunque, non c’è scampo per nessuno, oggi, al flusso ininterrotto di idiozie che gente come me immette nel grande tubo dell’informazione e della comunicazione, e questo prima o poi porterà alla paralisi cognitiva e sociale, anzi lo sta già facendo, e allora il danno sarà bello grosso. Senza contare il danno che intanto subisce la mia vita sociale e psichica, azzerata da un dialogo costante ed esclusivo con una macchina, o meglio un insieme di macchine.

Così, mentre fingevo di lavorare, lessi quella frase in quel romanzo di Bernhard e decisi di prendermi una pausa da quel lavoro finto e uscire dall’ufficio, senza comunicarlo a nessuno, tanto nessuno se ne sarebbe accorto. Decisi di uscire fuori a vedere coi miei occhi quanto, come intuito da Bernhard ormai quarant’anni fa, praticamente tutti, oggi, fingano di lavorare, con l’aggravante, così Bernhard, di recitare la commedia fino al punto di affermare con solennità il contrario, ovvero che si ammazzano di lavoro: “Certo non li rimprovero per il fatto che loro, in realtà, fingono soltanto di lavorare e prendono per il naso il prossimo”, così Bernhard, “ma, mi dicevo sempre, non dovrebbero affermare a ogni piè sospinto che si ammazzano di lavoro”.

In strada incontrai uno spazzino, un operatore ecologico come si dice oggi, e notai che spazzava sempre lo stesso metro quadro, che era già pulitissimo ovviamente, e allora gli chiesi perché lo facesse, e lui reagì scortese e mi disse di farmi i fatti miei. Allora gli dissi che con me non doveva fingere, che avevo letto Bernhard e sapevo che tutti fingevano, anch’io fingo per tutto il santo giorno, gli dissi, ed ero lì solo per conoscere, capire, per cui le mie domande erano fini a se stesse e non avrebbero avuto conseguenze per nessuno. Lui allora posò la ramazza, si accese una sigaretta, aspirò forte il fumo e poi mi disse che la sua giornata di lavoro era di otto ore, ma se faceva tutto a velocità normale avrebbe finito di lavorare nel giro di quattro, poi nella seconda metà della giornata non avrebbe avuto nulla da fare, e allora avrebbero capito che bastavano la metà degli spazzini, e magari lo licenziavano, e questo doveva evitarlo assolutamente perché il suo reddito dipendeva unicamente da quel lavoro che peraltro, così lo spazzino, per buona parte era già stato affidato alle macchine, quelle enormi e rumorose spazzatrici che da sole, in un’ora, fanno un lavoro che prima ci volevano quattro uomini e il triplo del tempo per fare. Lo ringraziai per quella spiegazione e continuai il mio giro.

Entrai in un bar e dentro c’era un sacco di gente, prendevano il caffè, chiacchieravano, l’unico che lavorava era il barista ma anche lui, pensai, in realtà fingeva, e glielo dissi, tu stai fingendo di lavorare, e lui mi guardò e sorrise, perché era così che fingeva di lavorare, sorridendo continuamente a tutti anche se non aveva assolutamente nessun motivo di sorridere a tutti, perché se non lo avesse fatto, così pensava, supposi, avrebbe perso clienti e quindi, alla lunga, il lavoro che fingeva di fare tutto il giorno e dal quale dipendeva il suo reddito. Sorrise e mi disse che no, non era così, che lui si ammazzava di lavoro tutto il giorno. Allora gli spiegai cosa facevo lì, Bernhard eccetera, e allora lui mi servì il caffè e poi, mentre lo sorseggiavo, mi disse che sì, era vero, il suo lavoro non serviva assolutamente a nulla, così quel barista, testuale, assolutamente a nulla, disse, perché la gente il caffè poteva farselo a casa la mattina e non era necessario prenderne così tanti durante il giorno, se le persone bevevano tutti quei caffè dentro bar come il suo era perché sentivano invincibile il bisogno di prendersi una pausa dai loro lavori completamente inutili, così il barista, testuale, completamente inutili, disse, perché prendere una pausa da un lavoro che si finge di fare è il modo migliore per fingere di fare un lavoro, così il barista, e alla fine anche fingere di lavorare è logorante, anzi, lo è molto di più che lavorare davvero, e così venivano nel suo bar e bevevano caffè che potevano farsi a casa la mattina prima di uscire o potevano evitare del tutto di bere, lo pagavano cento volte di più del suo valore e in più gli faceva male, perché bere tutto quel caffè distruggeva lo stomaco, disse, e aggiunse che anche il suo era distrutto, perché, a forza di fingere di lavorare pure lui tutto il giorno col caffè sempre a portata di mano, ne beveva più di tutti e il suo stomaco ormai era una poltiglia, così il barista, testuale, una poltiglia, disse. Finii di bere il mio caffè, pagai, lo ringraziai e uscii.

Camminai fino alla biblioteca comunale, che aveva sede in un palazzo storico, magnifico, costruito con un gusto estetico che oggi manca completamente, il gusto di quando si lavorava davvero e non per finta, pensai. Andai dal bibliotecario e gli chiesi cosa stesse facendo, e lui mi disse che non stava facendo niente. Lo ringraziai per avermi risparmiato la commedia del lavoro e lui mi spiegò che aveva letto Bernhard, che quel romanzo lo aveva lì, il suo ultimo, grandioso romanzo, il suo testamento letterario, disse. Prese il libro da un’altissima pila di libri, una pila di libri che dava l’impressione di essere lì impilata da secoli, e aprì alla pagina dove l’austriaco rifletteva sulla commedia del lavoro, e me la lesse ad alta voce, riflessioni che avevano ormai quarant’anni e oggi erano ancora più attuali, disse il bibliotecario. La gente non leggeva più niente, disse poi sempre ad alta voce, in quel luogo silenzioso dove la sua voce rimbombava come una cannonata, e così il suo lavoro non serviva più, le biblioteche non servivano più, perché la gente ormai leggeva solo i post sui social network, non era nemmeno lettura quella, così il bibliotecario, nemmeno lettura, disse, solo scrolling, così il bibliotecario, scrolling, disse, e questo perché ormai la gente non aveva più nemmeno le capacità cognitive necessarie a leggere libri, perché quello stesso scrolling le aveva devastate con l’effetto di un’esplosione nucleare, così il bibliotecario, un’esplosione nucleare dentro i nostri cervelli, anche il suo e il mio, disse, non pensassimo noi di esserne immuni, eravamo tutti contagiati, così il bibliotecario, testuale, contagiati, disse, e poi tornò a far niente. Lo ringraziai e uscii.

https://tersiterossi.substack.com/p/la-commedia-del-lavoro-1

 

La commedia del lavoro (2)

 

Seconda e ultima puntata

 

Mi allontanai dal centro urbano. Giunto in periferia, mi fermai nei pressi del grande cantiere di un palazzo e mi misi a discorrere con uno degli operai, intento a gettare del cemento. Gli chiesi se anche lui stava fingendo di lavorare, anche se già avevo visto che stava fingendo, non c’era alcun dubbio che stesse spudoratamente fingendo. Lui si guardò attorno furtivo e poi, a bassa voce, mi disse che non era colpa sua, il lavoro che gli avevano affidato era quello, che per pietà non lo denunciassi al padrone, altrimenti per lui era finita, così l’operaio, finita per sempre, disse. Gli dissi di stare tranquillo, che ero solo un passante che aveva letto Bernhard e voleva la conferma che più o meno tutti, oggi, fingano di lavorare. Allora lui si tranquillizzò, posò la pala e mi disse che era quel palazzo, di per sé, a essere completamente inutile, così l’operaio, testuale, completamente inutile, disse, perché di edifici ce n’erano già ovunque a centinaia, sarebbe bastato ristrutturarli anziché costruirne di nuovi, peraltro orribili, mentre quelli di una volta erano esteticamente pregevoli, realizzati da individui che non erano alienati dal loro lavoro, così l’operaio, testuale, individui che non erano alienati dal loro lavoro, disse, e di conseguenza il frutto del loro lavoro era bello, e confortevole, e sensato, mentre di quel palazzo che stavano costruendo, come delle altre centinaia di palazzi che venivano costruiti in quella città, tutto era insensato, dalle vetrate lucide e glaciali, al numero infinito di piani, ai controsoffitti che celavano brutture orripilanti, alle tonnellate di ferro e cemento, al sistema di aria condizionata, soprattutto il sistema di aria condizionata era un’aberrazione mostruosa, così l’operaio, testuale, un’aberrazione mostruosa, disse, un infinito reticolo di canaline da cui sarebbe fuoriuscita aria tossica che avrebbe inquinato inesorabilmente le menti di chi avrebbe abitato quegli uffici, dove un mucchio di gente avrebbe finto di lavorare proprio come stava facendo lui ora, causando solo danni enormi e irrimediabili, così l’operaio, testuale, danni enormi e irrimediabili, disse, danni apocalittici, aggiunse. Poi tornò a gettar cemento e io me ne andai.

Continuai a camminare e raggiunsi la zona industriale. Mi avvicinai a uno dei tanti capannoni, dove andavano e venivano rapidi innumerevoli muletti, trasportando imballi d’ogni genere. Qui pare lavorino con grande lena, pensai, e in realtà la grande lena è tutta finzione. Lo dissi al tizio in giacca e cravatta, probabilmente un dirigente, che in quel momento stava varcando il cancello d’ingresso. Lui mi guardò e mi chiese se ero uno di quegli attivisti o peggio un sindacalista. Io gli risposi di no, che avevo semplicemente letto Bernhard eccetera, e che volevo solo sapere la verità, niente di più. Allora lui mi disse che dentro quel capannone veniva stoccato ogni tipo di merce, era un centro di stoccaggio per il commercio elettronico, ma quello che stava per dirmi, disse, valeva per qualsiasi altro stabilimento industriale, così quel dirigente, testuale, qualsiasi altro stabilimento industriale, disse. Tutto il sistema produttivo, disse, si basava su una domanda artificiale, drogata per così dire, e di conseguenza ogni tipo di merce, in realtà, veniva prodotta in quantità eccessiva, e gran parte di quelle merci, senz’altro la maggioranza di quelle che loro stoccavano nel loro capannone, era completamente inutile, oltre che prodotta in modo pessimo, dozzinale, per fare in modo che tutto si rompesse nel giro di poco tempo e la gente ne comprasse ancora, e ancora, e ancora, in un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, così il dirigente, testuale, un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, disse, un ciclo che stava trasformando il pianeta, aggiunse, in un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, così il dirigente, testuale, un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, disse. Poi fermò uno dei muletti e ordinò all’operaio che lo stava guidando di aprire l’imballaggio che trasportava. L’operaio obbedì e il dirigente estrasse dall’imballaggio un albero di Natale e mi chiese, semplicemente: “Lo vede?”, e lo ripeté: “Lo vede?”. E io gli dissi che sì, lo vedevo, lo vedevo benissimo, non l’avevo mai visto così bene, gli dissi. Poi lo ringraziai e me ne andai.

Continuai a camminare e arrivai in campagna. Lì si produceva cibo, e nessun lavoro è più necessario della produzione di cibo, eppure anche lì fingevano di lavorare, pensai. M’imbattei in un contadino che stava vendemmiando e glielo dissi, gli parlai di Bernhard eccetera, della mia volontà di sapere solo la verità, gli dissi, nient’altro che la verità. E quello ammise che sì, in effetti era così, fingevano pure loro. M’indicò l’uva che stava vendemmiando e mi disse che non era più nemmeno cibo, quello, che se fosse stato cibo avrebbe potuto offrirmelo e avrebbe potuto mangiarne anche lui, ma non era più cibo, quello, ripeté, perché era velenoso innanzitutto, pieno di pesticidi, roba tossica all’inverosimile, e poi perché serviva a produrre vino, non a sfamarsi, producevano uva, disse, ma non per sfamare la gente, solo per produrre vino. Eppure tutti mangiamo, gli dissi, e lui rispose che sì, era vero, tutti mangiamo, ma il cibo che mangiamo, oggi, è tutto quanto tossico senza eccezioni, così il contadino, testuale, tutto quanto tossico senza eccezioni, disse, e non è più nemmeno cibo, perché ha un grado di sofisticazione che non lo si può più nemmeno chiamare cibo, disse, e quindi quando lo ingeriamo non stiamo mangiando, disse, ma ci stiamo soltanto avvelenando. Oggi si produce cibo non per sfamare la gente, aggiunse, ma per fare soldi, monocolture della vite, della mela, di qualsiasi cosa, solo per fare soldi, non per sfamarsi. Il fatto che con quel cibo prodotto solo per fare soldi la gente si sfami, o meglio abbia la sensazione di sfamarsi mentre si avvelena, è un aspetto incidentale, così il contadino, testuale, meramente incidentale, disse, un effetto collaterale di questa gigantesca, ottusa fabbrica di soldi a mezzo cibo, monocolture il cui prodotto è destinato in gran parte alle bestie, così il contadino, a tutte le bestie ammassate dentro stalle enormi in tutto il mondo, disse, miliardi di capi di bestiame allevati per produrre carne del tutto priva di proprietà nutritive, inevitabilmente tossica anch’essa, che non serve a sfamare la gente ma a fare soldi che servono a comprare altro cibo tossico e altra roba inutile, e così via in una catena apparentemente eterna che stritola il mondo e che però prima o poi finirà per spezzarsi, e allora tutta quanta questa gigantesca finzione del lavoro inutile e dannoso crollerà in mille pezzi con un boato assordante, così il contadino, tutta quanta questa finzione crollerà in mille pezzi con un boato assordante, disse, insieme a tutto il resto, aggiunse. Io annuii gravemente, lo salutai e tornai sui miei passi.

Rientrai in ufficio, dove la mia assenza non aveva prodotto alcun effetto e dove nessuno si era nemmeno accorto della mia assenza. E lì, indaffarato, ricominciai a fingere di lavorare.

Le frasi di Thomas Bernhard sono tratte da “Estinzione”, Adelphi 1996 (traduzione di Andreina Lavagetto).

da qui

giovedì 1 febbraio 2024

Uomini senza donne - Haruki Murakami

Il libro raccoglie alcuni racconti tra cui Drive my car (che ha ispirato un gran bel film, premio Oscar).

Tutti i racconti sono belli, ça va sans dire, e uno mi ha colpito più degli altri, Samsa innamorato.

È (come) un seguito dalla Metamorfosi, di Franz Kafka

Gregor Samsa un giorno si sveglia, e scopre che la porta della sua stanza non è chiusa a chiave, non sa perché, la casa è deserta, si muove a fatica, in cucina il tavolo della colazione è apparecchiato, devono essere usciti di fretta.

Gregor ha dei ricordi confusi, non capisce cosa succede, chi è, dove è, è preoccupato, non capisce cosa succede fuori, è angosciato, indebolito, impaurito, indifeso, si sdraia su un letto, e riesce a prendere sonno.

Suona il campanello della casa, con difficoltà Gregor va ad aprire e…

Buona murakamiana-kafkiana lettura



Murakami Haruki con la sua nuova raccolta di racconti – sette per l’esattezza – sintesi dei suoi temi principali. “ Uomini senza donne ”, come tutte le opere di Murakami, è edito da Einaudi e tratta dei rapporti fra uomo e donna, dove solo la perdita dell’amore o qualcosa di incompiuto fa sì che il protagonista giunga alla consapevolezza di sé. La nostalgia per quello che non è stato e la spasmodica ricerca della felicità, in un rapporto a due, si sovrappongono a temi surreali, dove il fantastico irrompe nella vita quotidiana. La costante del tradimento e il racconto di “storie nella storia" sortiscono l’effetto di un perenne sogno, dal quale l’autore sembra risvegliarsi annotando i minimi particolari. Ogni personaggio beve una determinata marca di birra o whisky; ascolta una musica di cui sono citati i titoli; legge un particolare libro. Nulla è posto a caso. Sono caratteristiche ben definite che ancorano quest’atmosfera da sogno ad una realtà fatta d’amore e di mistero, così come del resto è la vita.

da qui


giovedì 23 novembre 2023

Il viaggio impossibile - Lea Ypi

 

UN RACCONTO POLITICO . Per gentile concessione dell’autrice ripubblichiamo un pezzo uscito sabato sul Financial Times di Lea Ypi, docente di Filosofia politica alla London School of Economics e scrittrice. Il suo romanzo “Libera” è uscito in Italia per Feltrinelli

 

In un giorno assolato di marzo del 1997, a Durazzo, un’insegnante albanese di mezza età porta suo figlio di 11 anni sulla spiaggia. I due si bagnano i piedi nell’acqua, scrivono i loro nomi sulla sabbia e poi restano seduti a guardare il mare. Lei tira fuori uno spuntino che ha portato da casa: pane scuro, pezzettini di feta, cetrioli e pomodori avvolti in un foglio di giornale. Madre e figlio iniziano un bisticcio – il ragazzino afferma di non avere appetito e la donna insiste perché mangi, pena l’immediato rientro a casa – quando sentono una forte esplosione, simile ai fuochi d’artificio sparati durante i matrimoni.

«GLI ALBANESI festeggiano sempre – sorride la donna – anche quando restano in mutande». Intanto i rumori si fanno più vicini e frequenti. In quei giorni il sud del paese era precipitato nel caos: molte famiglie avevano investito tutti i loro risparmi in compagnie finanziarie fraudolente andate in bancarotta, la disperazione spingeva le persone in strada e le proteste sfociavano spesso in combattimenti tra gruppi armati. A Durazzo la vita andava avanti come al solito, indifferente al declino, impermeabile alla speranza. In un istante la donna capisce che quelli che credeva fuochi d’artificio erano in realtà colpi di kalashnikov. Afferra il bambino e inizia a correre a piedi nudi sulla spiaggia.

QUELLA DONNA ERA MIA MADRE. Lei e mio fratello quella sera non sono tornati a casa. Nell’arco di un mese l’intero paese è piombato nell’anarchia. C’erano spari dappertutto, come se premendo il grilletto le pallottole potessero trasformarsi nei soldi persi per sempre. Venne dichiarato lo stato di emergenza nazionale. Serrata in casa, a Durazzo, mi chiedevo se mia madre e mio fratello fossero tra i morti.

Qualche giorno dopo squillò il telefono. Mentre correvano sulla spiaggia in fuga dagli spari mia madre e mio fratello avevano visto una nave requisita dai rivoltosi attraccata sul molo e si erano imbarcati. Una volta arrivati in Italia avevano trovato riparo in un centro vicino a Fasano, in Puglia. All’epoca questi centri venivano chiamati «campi profughi»: la Chiesa ne gestiva la maggior parte. Oggi sono subappaltati a compagnie private e si dividono in Centri di prima accoglienza e Centri di permanenza per i ripatri, dove i migranti sperimentano la detenzione amministrativa. Mia madre ammette di non ricordare se il loro centro fosse presidiato dalle forze dell’ordine, ma ricorda di essere scappata al calar del buio per andare alla stazione e prendere il primo treno per Roma. È certa però che non ci fossero barriere, filo spinato o telecamere di sorveglianza.

HO RIPENSATO a questa storia la scorsa settimana quando l’Italia ha siglato un accordo con il governo albanese per aprire due centri per migranti in Albania, uno per processare le richieste di asilo e l’altro per rinchiudere le persone in attesa del rimpatrio. Ho pensato alle migliaia di persone che, come mia madre e mio fratello, scappano da guerra, povertà e persecuzioni per cercare rifugio in paesi che diventano sempre più ostili nei loro confronti, sempre più indifferenti al loro destino.

Detenzione amministrativa è un termine tecnico, che veste di neutra burocrazia l’aspra realtà della coercizione. Già traumatizzati dal viaggio, i migranti attendono in isolamento la libertà o l’espulsione. C’è un modo meno diplomatico ma forse più accurato di definire la faccenda: carcerazione senza processo.

ESISTONO VARI PRECEDENTI giuridici di accordi che consentono a ricchi stati liberali di gestire le richieste di asilo fuori dai propri confini, come ad esempio quello tra Australia e Nauru e quello tra Uk e Ruanda (recentemente dichiarato illegittimo dalla Corte suprema della Gran Bretagna). Nel 1990 gli Stati Uniti usarono Guantanamo Bay per imprigionare i rifugiati haitiani. Secondo il recente protocollo firmato con l’Italia, lo stato albanese dovrebbe cedere temporaneamente la propria sovranità nelle aree dove verranno realizzati i centri, consentendo al personale italiano (di polizia, sanitario, amministrativo, giudiziario) di esercitare le proprie funzioni.

Per ricevere assistenza dallo stato albanese, i migranti devono essere già deceduti: l’articolo 9 dell’accordo, infatti, prevede che i cadaveri possano sostare negli obitori del paese per 15 giorni. Tutte le spese saranno sostenute dall’Italia mentre la terra è data in offerta, così ha chiarito il premier Rama, con spirito di gratitudine verso Roma che ha accolto gli albanesi che scappavano dall’inferno negli anni Novanta.NEL CASO DI MIA MADRE e mio fratello, la fuga dall’inferno si è fermata a un preciso indirizzo: la casa dell’anziana disabile «signora Caterina», nel quadrante nord di Roma, in un quartiere noto per le simpatie neofasciste. La signora aveva tre figli che non vivevano più con lei e un ampio appartamento di cui mia madre e mio fratello occupavano una piccola stanza.

Due dei figli della donna avevano difficoltà a memorizzare il nome di mia madre, per questo veniva presentata agli ospiti come «la badante albanese», sottolineando: «albanese, ma molto onesta». Mia madre cucinava, puliva, lavava e vestiva la signora Caterina. Di tanto in tanto spolverava anche la piccola statua di Mussolini che la signora teneva accanto al letto. Sostiene che la pagassero molto bene: un milione di lire al mese, una somma che oggi, adattata all’inflazione, potrebbe corrispondere a circa 700 euro. «Per quante ore al giorno?», le ho chiesto mentre preparavo questo articolo. «24 su 24, ma avevo la libera uscita di domenica», mi ha risposto. «Avevi un contratto?». «No, mi fidavo».

MIA MADRE si era affezionata alla signora Caterina. Le due avevano trovato un terreno comune nella condanna unanime degli orrori del comunismo e nella rispettosa considerazione per il Duce: «un politico capace che ha fatto tutto per il bene dell’Italia», usava definirlo l’anziana signora. Mio fratello iniziò a frequentare la scuola più vicina, nel tragitto passava tutti i giorni di fronte a un muro dove campeggiava la scritta «Fuori gli albanesi». Faceva i compiti da solo, giocava con un gameboy di seconda mano e aspettava con ansia la domenica, quando la madre lo portava fuori per un gelato. Si riteneva un bambino fortunato.

POCHI GIORNI DOPO la sua partenza dall’Albania, un’altra nave che trasportava più di 100 migranti, principalmente donne e bambini, veniva speronata dalla guardia costiera italiana nel porto di Otranto. La maggior parte delle persone a bordo morì in mare. Il governo albanese aveva appena firmato un accordo che autorizzava l’Italia a usare la forza per prevenire l’ingresso dei barconi nelle sue acque territoriali. Anche in quell’occasione le autorità espressero gratitudine per l’ospitalità italiana.

A settembre dello stesso anno mi trasferii anche io a Roma, con un visto di studi. Ricordo un giorno alla stazione Termini, quando aiutai una signora anziana a spostare la sua valigia: meno male che c’erano ancora giovani come me, disse lei, «che qui è pieno di albanesi». Ricordo la chiacchierata con un paziente nella sala di attesa di un medico quando mi disse che gli albanesi avevano la violenza nel sangue. E ricordo anche il racconto di un’amica giornalista che quando chiamava il suo direttore per informare di una rapina, uno stupro o un’uccisione, per prima cosa si sentiva domandare se i sospetti per caso fossero albanesi. Altrimenti ci sarebbe stato poco tiro per la notizia.

Gli albanesi, un tempo descritti come «barbari», «criminali» e «ladri» dai media italiani sono diventati oggi i bravi migranti per eccellenza. Molti si sono affermati come cantanti pop, ballerini e star televisive. Si sono integrati, esattamente come tutti i migranti tendono a fare qualche anno dopo il loro arrivo, quando il successo inizia a dipendere più dalla classe sociale che dalla provenienza geografica. Molti sono tornati in Albania e hanno investito lì i loro risparmi. Come mostrano molti studi sull’economia circolare, i migranti spesso tornano nei loro paesi di origine quando le condizioni lo permettono.

TUTTE LE FAMIGLIE albanesi hanno ricordi simili ai miei, di quando venivano presentati come «albanesi, ma gran lavoratori», di quando tentavano di nascondere l’accento, di quando mentivano sulla propria nazionalità per ottenere un posto di lavoro. Tutti sono restii a raccontare le loro storie. Potrebbe sembrare ingrato. O forse è semplicemente doloroso.

I barbari oggi sono altri. Tra le pagine del Secolo d’Italia, giornale vicino a Fratelli d’Italia, i titoli assomigliano molto a quelli che leggevo nel mio periodo in Italia. Ma il bersaglio è cambiato: «I musulmani invadono l’Italia»; «l’Islam è pericoloso e solo gli idioti non lo capiscono»; «l’Italia è già invasa dagli islamici, presto saranno metà della popolazione».

LA MAGGIORANZA degli albanesi sono di origine islamica (tendevo a nascondere anche questo aspetto della mia famiglia). Ma le loro credenziali europee sembrano certe. L’anno scorso l’Albania ha iniziato le trattative per l’accesso all’Unione Europea. Ma che cos’è l’Europa?

«Non un club», secondo Meloni. Forse ha in mente più che altro una «civiltà». Forse persino una civiltà superiore, a giudicare dai titoli dei giornali che sostengono la sua linea. «Come sapete – ha dichiarato la premier alla conferenza stampa che annunciava il protocollo – A me non piace definirlo allargamento, mi piace parlare di riunificazione».

MA RIUNIFICAZIONE è un termine giuridico. Presuppone la ricostituzione di un corpo sovrano precedentemente disgregato (viene in mente la Germania dopo il 1989). Tecnicamente l’unico periodo storico in cui l’Italia e l’Albania appartenevano allo stesso sistema giuridico è quello che va dal 1939 al 1943, quando Vittorio Emanuele III era diventato «Re d’Italia e d’Albania», a seguito dell’occupazione fascista.

«Albanesi e italiani sono una stessa razza», si scriveva nel 1941 in un articolo pubblicato sulla rivista La difesa della razza, un bisettimanale il cui segretario di redazione era Giorgio Almirante. In seguito avrebbe ricoperto il ruolo di capo dello staff del ministero della Cultura nella Repubblica di Salò per poi diventare il leader del Movimento sociale italiano, partito neofascista dove Meloni ha mosso i suoi primi passi. Quando il primo ministro sostiene che non si tratta di allargamento ma di riunificazione, si sta rivolgendo al pubblico europeista illuminato o sta solleticando le fantasie della sua base più nostalgica?

FORTUNATAMENTE per Meloni, gli albanesi sono ancora troppo traumatizzati dal recente passato comunista per voler riaprire le remote ferite coloniali. La storia insegna che il modo in cui il centro coloniale rappresenta una crisi politica plasma la versione che viene proiettata nella periferia. Molti albanesi sembrano convinti del fatto che l’immigrazione sia un problema, nonostante la piaga reale del paese sia invece l’emigrazione (la costante fuga di cittadini).

L’OPINIONE PUBBLICA critica verso l’accordo Meloni-Rama, anche incarnata da intellettuali, ha offerto per lo più un triste spettacolo di ostinata distorsione dei fatti: grandiose celebrazioni dell’eredità greco-romana-cristiana del paese, imbarazzante silenzio sul periodo ottomano e su quello comunista, fino ad arrivare al razzismo puro e semplice. Ma mentre in molti stati europei questi discorsi sono alimentati da politici al governo, in Albania perlomeno si limitano ai commenti sulle reti sociali.
Il primo ministro albanese, dal canto suo, ha firmato l’accordo dichiarando di non voler rivendicare pubblicamente i suoi meriti. Scelta sorprendente, visto che due anni prima durante la trattativa per un accordo simile con la Gran Bretagna ci aveva tenuto a rendere esplicita la sua posizione: «L’Albania non sarà mai la discarica per migranti dei paesi ricchi». Cosa è cambiato?L’AMICIZIA TRA I DUE PAESI, a quanto sembra. Ma la vera amicizia è fondata sulla reciprocità ed è interessante immaginare come Meloni avrebbe risposto se l’Albania avesse fatto una richiesta analoga. Dalle scorse elezioni politiche italiane, un netto aumento degli sbarchi in Italia ha portato all’implementazione di politiche sempre più securitarie.

Qualche settimana fa Meloni ha inviato una lettera al cancelliere tedesco Olaf Scholz in cui esprime il suo sconcerto di fronte alla decisione del governo tedesco di finanziare le Ong impegnate nei salvataggi nel Mediterraneo. Secondo lei queste missioni di soccorso incoraggiano il traffico di essere umani, una tesi che come dimostrano molti studi tra cui uno recente di Harvard, non è fondata su alcuna prova empirica. La Ue, secondo Meloni, deve concentrare i suoi sforzi nella costruzione di «soluzioni strutturali» per i migranti.

LE SOLUZIONI STRUTTURALI, però, necessitano di una diagnosi adeguata del problema e di una valutazione coerente delle alternative. L’immigrazione non è un’emergenza: al contrario, aiuta a contrastare il declino demografico, e i paesi di provenienza beneficiano in ultima stanza degli effetti dell’economia circolare. Ma anche nel caso fosse un’emergenza, la posizione di Meloni è priva di fondamento logico. Il suo slogan «Prima gli italiani» è un principio egoista che non si può generalizzare. Se l’interesse nazionale trionfa sulla solidarietà internazionale, la sua «soluzione strutturale» non fa che perpetuare il problema che vorrebbe risolvere. Forse è proprio questo l’intento: non riformare l’Europa ma demolirla dall’interno. Non creare una nuova cornice per la giustizia cosmopolita ma semplicemente affermare la volontà di potenza delle nazioni, non Kant ma Nietzsche.

È una visione coerente, anche se per niente auspicabile: una narrativa che ruota attorno al concetto di «civiltà», che distingue gli autoctoni da proteggere dai barbari da deportare, una «soluzione strutturale» che punta all’implosione della struttura. Questo è il vero motivo per cui l’unica concreta proposta sulle migrazioni è la rimozione fisica dell’Altro. La detenzione amministrativa già rende i migranti invisibili dietro le sbarre, con lo spostamento fuori dai confini anche le sbarre stesse spariscono dalla vista.

PURTROPPO FUNZIONA. La Germania e l’Austria stanno già valutando soluzioni di gestione extraterritoriale dei migranti. Il nuovo ministro degli Interni britannico James Cleverly ha commentato la sentenza della Corte suprema sugli accordi con il Ruanda sottolineando che «c’è interesse intorno a questo concetto».

Ma ci sono anche molte perplessità. Questi accordi sono spesso giuridicamente controversi (c’è una questione di compatibilità con il diritto internazionale e con i diritti umani), inefficienti dal punto di vista amministrativo (le procedure di valutazione dei casi potrebbero allungarsi ancora di più), economicamente dispendiosi (gli stati continuano a coprire tutte le spese) e moralmente dubbie. Violano quello che Kant chiamava un diritto cosmopolita, «il diritto dei cittadini del mondo di provare a fondare una comunità con gli altri».

IL GUAIO È CHE questi progetti continuano a danneggiare anche quando falliscono, anzi proprio in quanto progetti fallimentari. Anche questo è «strutturale». Se agitare lo spauracchio delle migrazioni diventa la condizione per vincere le elezioni, gli avversari politici sfidano i partiti al governo proponendo misure sempre più dure, accrescendo il costo umanitario e incoraggiando l’ostilità verso le corti che rovesciano decisioni politiche problematiche.

Anche se il partito di Meloni appare più moderato oggi che governa il paese, la corsa al ribasso non si fermerà. L’autoritarismo non è qualcosa che c’è o non c’è, è un processo. Considerare l’immigrazione come un problema è il cavallo di Troia che rischia di incendiare la democrazia. La destra ha creato in Europa un’avanguardia della devastazione: provando a sostituire un lungimirante progetto di integrazione con il pericoloso mito di un passato comune, nascondendo lo sfruttamento del lavoro migrante con la criminalizzazione degli stranieri.

L’ALTERNATIVA NON È discutere dei contorni ma rifiutare l’intera cornice, spostando l’attenzione sull’ingiustizia di un ordine globale che forza le persone a lasciare il proprio paese. E rivendicare maggiori diritti per i migranti (diritti politici e sociali) per fornire loro più strumenti per lottare.

La signora Caterina è morta tra le braccia di mia madre pochi mesi dopo averla incontrata. Lei e mio fratello sono poi tornati in Albania. Quando ha saputo dell’accordo con l’Italia mia madre ne è stata entusiasta. «Certo che l’Albania deve accogliere migranti, sono disperati, proprio come lo eravamo noi». Poi le ho spiegato come la «detenzione amministrativa» avrebbe consentito all’Italia di rifiutare quell’accoglienza che in qualche modo era stata offerta a lei. «Allora non è una soluzione – ha asserito – Solo propaganda. Ne abbiamo già vista parecchia in passato».

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giovedì 16 novembre 2023

L'intellettuale - Tersite Rossi

 

Una storia che sa di studio matto e disperatissimo

 

Fino ai primi anni di università, Tommaso non s’era mai posto il problema di cosa fare da grande. Quale lavoro. Per lui il futuro era sempre stato solo e soltanto studio.

Si ricordava ancora bene di quando, da piccolo, sua madre lo portava ai giardini pubblici, sui quali si affacciava l’edificio grigio e austero sede del liceo classico. “Tu studierai lì”, gli aveva detto un giorno. E lui aveva preso nota, senza opporsi. “E poi farai l’università”, aveva aggiunto la donna, allora casalinga, poi operaia per necessità, dato che lo stipendio da impiegato del marito non bastava. E lui aveva preso nota pure di questo, senza opporsi.

Aveva scelto il corso di laurea che meno gli era parso orientato verso una qualche professione precisa, sembrandogli all’opposto multidisciplinare e quasi eclettico: scienze della comunicazione. Mentre studiava e superava gli esami a pieni voti, rifletté che nessuno, né la madre, né il padre, né altri, gli aveva mai indicato la strada da percorrere dopo l’università. Così aveva provato lui, per la prima volta, a immaginarsi lavoratore. Non gli era venuto in mente altro che il giornalismo. Forse perché, in fondo, non gli pareva nemmeno un lavoro.

Dopo essersi laureato con lode, provò a proporsi ad alcune redazioni. Quotidiani locali, per lo più. Anche una radio. Non gli piacque. Non il lavoro di giornalista di per sé, che comunque era precario, sfruttato e sottopagato. Non era questo. Non gli piacque il lavoro in genere. Non gli piaceva dover mandare in giro il proprio curriculum: gli pareva di vendersi. Non gli piaceva l’idea di far parte di un’attività economica: gli pareva volgare. Non gli piaceva l’idea di usare le proprie energie mentali per partorire contenuti effimeri e caduchi: gli pareva uno spreco. Così, alla fine, smise di fare giornalismo. Smise di lavorare del tutto. Tornò dedicarsi a quella che per lui era la sola attività degna d’un uomo: lo studio.

Se lo poteva permettere, per via di un colpo di fortuna. Il padre, proprio mentre lui passava insoddisfatto da una redazione all’altra, aveva ereditato una grossa fortuna da uno zio americano. Molto grossa. “Papà, io a lavorare mi sto sciupando”. “Lo vedo, figlio mio. Lo vedo”. “Papà, io voglio tornare a studiare”. “Va bene, figlio mio. Va bene”.

All’inizio, ci fu ancora bisogno della cornice istituzionale. Quindi s’iscrisse a un dottorato, in Filosofia della comunicazione, e lo portò a termine brillantemente. Dopodiché, nonostante le insistenze di alcuni professori di grosso calibro, Tommaso non provò nemmeno a rientrare nel mondo del lavoro, intraprendendo la prospettata carriera universitaria. Il solo pensiero lo nauseava. Il padre nel frattempo aveva fatto alcuni investimenti azzeccati, e quella di famiglia era diventata una vera e propria fortuna. “Papà, io a lavorare mi sciupo”. “Lo so, figlio mio, lo so”. “Papà, io voglio soltanto studiare”. “Va bene, figlio mio, va bene”.

Dal padre ottenne un assegno mensile e i soldi per comprarsi un appartamento. Nulla di esorbitante. Tommaso viveva con poco. Studiare non era costoso. Terminato il dottorato, s’era convinto di non sapere niente. Aveva giusto approfondito un ramo del sapere, ma s’era accorto di quante lacune avesse riguardo a tutti gli altri. Pianificò a tavolino un piano di studi dettagliato che da lì a dieci anni lo avrebbe portato ad acquisire buoni rudimenti in tutte le principali discipline. Studiava, a casa o in biblioteca, dieci ore al giorno, tutti i giorni eccetto la domenica pomeriggio, quando si concedeva lunghe passeggiate urbane. Non faceva altro. Poi, al terzo anno di questa sua personale università dello scibile, proprio quando il padre stava cominciando a ricredersi sul modello di vita solitaria e improduttiva, e forse insana, che col suo assegno aveva permesso al figlio di scegliersi, Tommaso incontrò Anita.

Accadde, come forse era inevitabile, in biblioteca. Anita preparava la tesi per la sua laurea in scienze politiche, e più volte aveva sogguardato curiosa le attività di quell’ultratrentenne etereo e misterioso che non mancava quasi mai l’appuntamento quotidiano con la biblioteca. Era in età da lavoro, ma non lavorava. Studiava, ma per cosa? Lo aveva sorpreso a volte con in mano libri di storia antica, altre volte di geometria, altre di lettere, altre di astronomia. Alla fine, vinta da una curiosità fattasi irreprimibile, lo avvicinò e glielo domandò. Lui la mise a conoscenza del mastodontico piano di studi nel quale era impegnato, parlandone come fosse la cosa più naturale del mondo. “Perché lo fai?”, gli chiese Anita. “Per amore. E per odio”. “E di cosa?”. “Dello studio. E del lavoro”. Anita ci pensò su, affascinata. “Allora sei un intellettuale”, gli disse. “Un intellettuale?”. “Sì. Ne ho conosciuti tanti finti, ma mai uno vero”. A Tommaso quel titolo non dispiacque. Sorrise ad Anita e prese nota, senza opporsi.

Anita si laureò e poi si trasferì a vivere nell’appartamento di Tommaso. Ai genitori di lui, e in particolare al padre, la ragazza piacque molto, e soprattutto piacque l’effetto che aveva avuto sul figlio. L’assegno mensile venne generosamente rimpinguato e il progetto di vita di Tommaso, che tanto piaceva ad Anita, non fu più messo in discussione dal genitore. Che adesso aveva trovato un modo per uscire dall’imbarazzo quando gli chiedevano cosa facesse il figlio, dando una risposta pronta e fiera. L’intellettuale.

Il cospicuo assegno che Tommaso riceveva dal padre permise anche ad Anita di disdegnare il mondo del lavoro e di diventare l’assistente del compagno. Formarono una straordinaria coppia di studiosi. Anche grazie all’aiuto di Anita, Tommaso portò a termine con grandi risultati il suo piano di studi decennale e a quel punto, alla soglia dei quarant’anni, gli si presentò il problema di cosa fare del resto della sua vita. Fu Anita a indicargli la via. “Un intellettuale non può solo studiare. Deve anche intervenire”. “Intervenire?”. “Sì. Scrivere. Dire la propria”. E Tommaso prese nota, senza opporsi.

Iniziò a scrivere opere di saggistica. Anita leggeva, editava, e poi mandava in giro a riviste e case editrici. Nessuno accettò di pubblicare nulla. Rispondevano che erano testi interessanti, punti di vista originali, che rivelavano una cultura vasta e non comune. Ma non sapevano dove metterli. La loro multidisciplinarietà li rendeva non collocabili. C’era anche qualche problema di metodo, dicevano. Troppi azzardi. “La verità è che non hai agganci, non hai padrini, hai lasciato da troppo tempo l’università e non hai un lavoro, e questo indispone gli editori”, spiegava Anita a Tommaso per non scoraggiarlo. Ma lui non era scoraggiato, solo annoiato. Decisero di cambiare ambito. Sempre di scrivere, si trattava. Ma non saggistica. Narrativa. Tommaso produsse in un paio d’anni tre romanzi e decine di racconti. Visionari e avanti di mezzo secolo, secondo Anita. Criptici, prolissi e inadatti al mercato, secondo gli editori. “Lasciamo perdere la scrittura”, propose a quel punto Anita a Tommaso. “C’è anche un altro modo di intervenire, per un intellettuale: l’impegno politico”. E lui di nuovo prese nota, senza opporsi.

Anita militava da tempo in un certo associazionismo politico radicale. Tommaso iniziò a seguirla nelle riunioni e nelle assemblee. Brillò, inizialmente. Finché si trattò di esporre le sue idee sul mondo e sull’uomo, e sulla vita dell’uomo nel mondo, della quale tanto Tommaso conosceva per averla studiata in ogni disciplina possibile, lasciò tutti a bocca aperta. Quando però si trattò di calare la teoria nella realtà, così complessa e ridondante, Tommaso entrò in crisi. Quando vide che le sue preziose idee dovevano sottoporsi a compromessi ed essere mercanteggiate e sacrificate sull’altare della maggioranza, si oppose. Criticò duramente i militanti, inclusa Anita. Definì ottusi e gretti i loro metodi, noiosi e triti i loro contenuti. Per Anita fu un duro colpo. Qualcosa fra loro si ruppe. E si lasciarono.

Forse fu proprio il dispiacere per quella rottura che portò il padre di Tommaso all’infarto, qualche tempo dopo. Morì, e in meno di un anno lo seguì la moglie. Tommaso ereditò tutto il patrimonio e rimase solo al mondo. Anche se lui solo non si sentiva. C’era sempre lo studio a tenergli compagnia. Giunto al mezzo secolo di vita, azzerò di nuovo tutto il suo sapere. Si accorse che quanto credeva certo era in realtà dubbio, quanto credeva completo era in realtà parziale, quanto credeva terminato era in realtà in mezzo a un guado. Il lavoro da fare era ancora enorme. Il piano di studi che s’impose stavolta fu ventennale.

Il giorno d’autunno che arrivò a ultimarlo, dopo due decenni di sforzi immani, Tommaso aveva settant’anni e uno stato di salute ormai compromesso. Guardò fuori dalla finestra del suo studio, circondato dai suoi libri. E sorrise. Non perché aveva finito. Da tempo aveva capito, e accettato senza crucci, che nemmeno quel piano di studi ventennale lo avrebbe mai portato a esaurire lo scibile. Sorrise perché il passo successivo, stavolta, sapeva qual era e lo aveva deciso lui, senza prendere nota da nessuno. Senza rimpianti, diede un colpo alla sedia dove s’era alzato in piedi e s’impiccò.

Sulla scrivania aveva lasciato un biglietto. “C’è chi vive per lavorare, senza mai farsi domande. Io ho vissuto per studiare, facendomene infinite. Il traguardo è lo stesso: morire ignoranti. Ma il percorso è diverso. E il percorso è più importante del traguardo”.

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venerdì 27 ottobre 2023

“Racconti insoliti” - David Albahari

La neve

Sta nevicando. È aprile, e nevica. I fiocchi di neve sono grandi e si sciolgono con un fremito, come se fossero vivi. Qualcuno sostiene che la bellezza del tempo risieda nella sua imprevedibilità. Intende, naturalmente aggiungendo, il tempo meteorologico, perché l’altro è prevedibile e non potrebbe esserlo di più. Segue una marea di proteste, una discussione alla quale tutti partecipano. Gli occhi si allargano, le guance si gonfiano, le labbra a volte si ricoprono di bolle di saliva. Le sedie scricchiolano, le suole sfregano contro il pavimento, le mani svolazzano nell’aria, le fronti si accigliano. E poi, quando l’orologio da parete suona sei volte, tutti tacciono. La neve sta ancora cadendo.

Il lettore

Il lettore che si perde in un punto del libro e si ritrova in un altro, ma completamente cambiato. Si guarda a lungo nello specchietto, si tocca i baffi che prima non aveva, si accarezza i capelli lunghi fino alle spalle. Va bene, sta bene così, fuori dal libro. Il libro è sul tavolo, è aperto. Un uomo si avvicina e lo chiude. Quando si guarda di nuovo allo specchio, il lettore in esso non vede niente.

Un gatto

Un uomo è sceso in cortile a gettare la spazzatura e vicino all’ultimo gradino vede un gatto morto. È sdraiato su un fianco, le gambe rigide e gli occhi spalancati. L’uomo posa il  secchio e rientra nell’appartamento a prendere un vecchio giornale. Quando torna con il giornale in mano, il gatto non c’è più. L’uomo getta uno sguardo all’indietro, strizza gli occhi, si accovaccia e si alza di nuovo. Poi vede il titolo “Cinquantatreesimo giorno di bombardamenti”, si agita e inizia a leggere.

Il monte

Da dove ci troviamo, in cima, possiamo vedere un uomo a piè del monte, sul sentiero. Ci abbiamo messo due ore per salire in vetta perché a Nela la gamba fa un po’ male e Vesna è sempre stanca, ma quell’uomo certamente non ha bisogno di così tanto tempo. Stendiamo una tovaglia di plastica sull’erba, tiriamo fuori panini e mele dagli zaini. Beviamo succo di mirtillo. Quando appare, l’uomo è più vecchio di quanto immaginassimo. Ma non ha il fiato corto.

La nave

L’estate passa in fretta. Non ci siamo nemmeno abbronzati ed è già tempo di jeans e magliette con le maniche lunghe. Sono seduto sulla roccia, porto un filo d’erba alla bocca e lo addento. L’amarezza mi pizzica la bocca. Il mare è calmo, silenzioso. Quando chiudo gli occhi, vedo una nave.

Walser

Robert Walser pensa che parlare sia faticoso, dico. Nessuna conversazione mi ha mai stancato, dice mia moglie, e ripete: mai. Il valore delle parole, leggo, la determinazione del loro effetto, sarà dimenticato da chi parla piuttosto che da chi è taciturno. Mia moglie si raddrizza all’improvviso,: stai dicendo che, quando parlo, spreco solo parole? Non è la mia opinione, rispondo, ma quella di Walser, non ho detto niente. Quando parli, continua mia moglie, poi le tue parole sono mielate come quel silenzio, e quando parlo io è un battito di ali nel vuoto, ecco cosa viene fuori, no? Meravigliosa è la libertà spirituale del solitario, dico, è di nuovo di Walser. Bene, ribatte mia moglie, allora che Walser ti prepari una cena solitaria. Più tardi, in cucina, mangiando pane spalmato con un sottile strato di margarina, comincio a capire il peso della tentazione solitaria.

Il cielo

Quando Jakov Baruh morì, il cielo si mosse. Era notte, e a un certo punto la disposizione delle costellazioni cambiò, come se il cielo sopra di noi fosse un’enorme proiezione che qualcuno, chissà come, avesse sostituito con un’altra. Anche il sarto ha detto di averlo visto, e che poi, nella vetrina del suo negozio, una candela decorativa si sia accesa da sola. Subito dopo, quando il cielo si mosse, il fabbro sentì suonare la sua incudine anche se non c’era nessuno nell’officina. Il postino si svegliò improvvisamente dal suo sogno e vide che le sue dita erano macchiate di ceralacca. Al capezzale, perché solo allora era andato a riposare, il poeta trovò un foglio con una poesia scritta da una mano sconosciuta. Soltanto Matilda, la vedova di Jakov, non si era accorta di nulla. Si svegliò solo quando i raggi del sole penetrarono dalla finestra, sentì il freddo della mano di Jakov e seppe, ancor prima di vedere la sua bocca aperta, che Jakov era morto. Le bastava. Lei comunque non sapeva niente del paradiso.

Una storia non scritta

Di tutte le storie che non ho scritto, ricordo quella in cui un ragazzo e una ragazza sono seduti su una panchina del parco, si tengono per mano e tacciono. Nient’altro è successo in quella storia; tutto era in perfetto silenzio. Il mio sforzo di scrittore avrebbe dovuto concentrarsi sulla descrizione di quella perfezione, anzi, sulla perfetta descrizione della perfezione, perché nessun’altra ne sarebbe degna. Il silenzio conteneva tutto, sia il loro passato che il loro futuro, i giorni trascorsi nella penuria, i giorni di abbondanza, il calore del cuscino condiviso, il parto difficile, la separazione e l’incontro, e il lento allontanarsi, e la casa al margine della città, dove il buio era più fitto, e i fiori nell’aiuola sotto la finestra, e la corda con cui il giovane si impiccò quando scoppiò la guerra, e il pianto di lei, le unghie con cui si grattava il viso, e le parole, incerte e scivolose, con le quali cercava di spiegare al bambino quello che non riusciva a spiegare nemmeno a se stessa: il silenzio che è il germe di tutto ciò che ci circonda. Il bambino la guarda e tace.

L’esploratore

Ogni bianchezza è fredda, pensa l’esploratore, indipendentemente dal fatto che davanti a me ci sia sabbia o neve.

Il cerchio

Zdravko e Vera si sono conosciuti al concerto dei Bijelo Dugme. Si trovarono, del tutto per caso, se qualcosa al mondo avviene per caso, uno accanto all’altra in una folla che si accalcava in tutte le direzioni, e i loro occhi si incrociarono all’istante quando entrambi cantarono: “Sei così, piccola mia, quando ti bacia un bosniaco”. Zdravko sorrise e tese la mano, che Vera accettò, e poi Zdravko si chinò e le baciò le labbra leggermente arricciate. Non ci separeremo mai, disse Vera più tardi quella sera, cioè quella notte, perché era mezzanotte passata e loro erano sdraiati nel letto di Zdravko, e così fu per i successivi dieci anni, fino allo scoppio della guerra. Decisero di lasciare Sarajevo, non senza dolore nel cuore e con ferme promesse a Sead e Jasmina, i loro testimoni di nozze, che sarebbero sicuramente tornati non appena questa “stupidaggine” fosse finita. Vissero prima per un anno a Ruma, con il fratello di Zdravko, poi andarono a Zrenjanin, dalla sorella di Vera, dove nacque il loro primo figlio. Si trasferirono a Belgrado, affittarono un appartamento a Karaburma. Zdravko vendeva sigarette e cambiava marchi tedeschi per strada, e Vera lavorava tutti i pomeriggi in una delle boutique vicino a Zeleni Venac. Lasciava il bambino alla zia di Zdravko, una zitella che condivideva un appartamento di due stanze a Nuova Belgrado con tre gatti grassottelli. Passarono altri due anni, la “follia” di Sarajevo finì, anche se non si era fermata in alcun modo; “la ragione si perde facilmente e difficilmente si ritrova”, scrisse Zdravko in una lettera a Sead; e così, visto che nacque il loro secondo figlio, decisero di cercare un posto più tranquillo (ed economico). “La vita è diventata troppo preziosa per noi per sprecarla così”, scrisse Zdravko nella stessa lettera, “dobbiamo ricominciare da zero”. Trascorsero un anno a Niš, dove viveva lo zio di Vera, ma non riuscirono a sentirsi a loro agio in una città che sembrava loro ricostruita innumerevoli volte e mai terminata, fatta di parti che minacciavano continuamente di sgretolarsi. Si trasferirono a Kruševac, dove la sorella di Vera si unì a loro, e dopo un anno passato sentendosi come se stessero sprofondando costantemente in un’oscurità fluida, si diressero a Ćuprija, su invito della migliore amica di Vera dai tempi della scuola. Lì scoprirono da soli la luce e lì nacque il loro terzo figlio. Il giorno prima che cadessero le prime bombe su Ćuprija, nella primavera del 1999.

Un’ombra

Il ragazzo, sul ponte, vede un’altra ombra accanto alla sua. Quando si guarda indietro, vede che è solo. Molti anni dopo, sullo stesso ponte, si accorgerà che la sua ombra non c’è più, ma allora rimarrà indifferente.

Cartoline

Mio padre viaggiava spesso. Ci inviava cartoline da ogni posto in cui era stato. Scriveva lo stesso testo su ognuna – cinque frasi e una firma ornata – e lo leggevamo ogni volta come se ci fosse completamente sconosciuto. D’altronde la seconda frase, “Questa è una bella città”, ad esempio, aveva significati diversi sulle cartoline di Vienna e Madrid, mentre la quinta frase, “Non vedo l’ora di vedervi”, suonava vera sulla cartolina di Mosca ed estremamente poco plausibile sulle cartoline di Venezia. Lo stesso si può dire per la prima frase “Sono seduto in una stanza d’albergo”, che sicuramente, scritta ogni volta in una stanza diversa, non potrà mai essere la stessa, né potrebbe la passeggiata accennata nella terza frase, “Farò una passeggiata prima che arrivi il buio”, che portava sempre a nuove strade. Tuttavia, la quarta frase, “Nel silenzio, le parole si appesantiscono, il cuore arde come una pigna secca”, ci lasciava nel dubbio; nessuna immagine poteva cambiarla. Non sapevamo, cioè, se il silenzio cambia di luogo in luogo e se ogni fuoco è lo stesso, non importa dove brucia, ma nostro padre, quando glielo chiedemmo, non volle dirci nulla.


David Albahari (1948 — 2023) è stato uno scrittore, traduttore e accademico serbo di origine ebraica che ha scritto principalmente romanzi e racconti, spesso di carattere autobiografico. È mancato, dopo una lunga malattia, il 30 luglio 2023. Viene giustamente considerato uno dei Nobel mancati e ricordato da molti intellettuali come un grande scrittore.

Traduzione di Božidar Stanišić, revisione di Claudia Bettiol


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venerdì 8 settembre 2023

Pettirossi - David Albahari

 

 

Scrittore, traduttore e accademico serbo di origine ebraica, David Albahari è mancato il 30 luglio 2023. Per ricordarlo, lo scrittore Božidar Stanišić ha tradotto per Meridiano 13 alcuni suoi racconti. Questo è Pettirossi, pubblicato nella raccolta La pellegrina e nuovi racconti (1997).

 

Anche oggi, a colazione, proprio come ieri, mio figlio di nove anni appoggia lentamente il panino nel piatto, gli occhi gli si chiudono, le labbra si stringono, le guance si gonfiano, e lui incomincia a piangere. Piange, mi ha detto ieri, perché la primavera, anche se marzo sta per finire, non è ancora arrivata. Ha paura, mi ha detto, che i cicli ecologici di cui studia a scuola verranno sconvolti, e che non ci sarà abbastanza erba per i conigli né abbastanza conigli per i coyote. Ha anche paura, mi ha detto, che questa primavera, sempre ammesso che arrivi la primavera, non sarà in grado di interrare i semi di girasole nel nostro cortile sul retro, annaffiarli e vederli spuntare dal terreno e crescere.

Cerco, come ho provato ieri, di calmarlo con storie sull’inevitabilità dei cambiamenti della natura, su come ogni cosa abbia il proprio tempo, così com’è scritto nei libri antichi. Gli dico che dovrà imparare molte cose nella vita, ma che la pazienza forse è la più importante di tutte. Chi non impara ad avere pazienza, dico, prima o poi si farà del male, poi con la propria temerarietà farà del male; e infine, con la sua impulsività, farà del male agli altri.

Il ragazzo mi guarda. Dai suoi occhi pieni di lacrime capisco che non mi crede. Nemmeno io credo a me stesso (come da ragazzo, quando non sempre mi fidavo di mio padre). L’inverno è davvero così lungo che si sta lentamente, ma senza alcun dubbio, trasformando nell’ “inverno della nostra insoddisfazione”. Alla neve, che lo scorso ottobre ci aveva dato tanta gioia, e che ci godevamo mentre scricchiolava sotto i nostri piedi, ora diamo la colpa per ogni fallimento, anche il più piccolo, soprattutto per quelli che attribuiamo alla “vita in un paese straniero”. In effetti daremmo qualsiasi cosa solo per veder spuntare il primo gambetto di bucaneve. Sempre che qui crescano e sappiano come orientarsi sotto gli strati di neve.

Forse per questo, dice mia moglie, a causa di quella bianchezza immutabile, tutti i nostri conoscenti dalla “patria” parlano costantemente di un ritorno. Quando li si ascolta, si potrebbe pensare che nel posto lontano da dove veniamo non faccia mai freddo, che non nevichi mai, che le strade non gelino mai sotto i colpi di piogge ghiacciate.

L’inverno laggiù non dura mai così a lungo, dice il ragazzo, ne sono certo. E la primavera sembra primavera, aggiungo. Non devi preoccuparti che se strizzi gli occhi o sbadigli, la perderai di vista.

Mia moglie smette di imburrare il pane tostato, guarda prima me, poi il ragazzo, e dice: Cos’è questo? Complotto maschile?

Il ragazzo non risponde. Perso tra due lingue, non è più sicuro di nessuna delle due. Si asciuga con il dorso della mano la lacrima rimasta e si porta il panino alla bocca.

Anch’io taccio, anche se non a causa della lingua. Taccio per le immagini che mi perseguitano, per la precisione con cui ora, da qualche parte dentro di me, vedo ogni momento della mia vita, per la comprensione di cui non ho più bisogno, per la determinazione che ormai non posso più raggiungere. Nostalgia è un sostantivo femminile, dice mia moglie, ricordatevelo.

Non so cosa ciò significhi per te, dice il ragazzo, ma so esattamente dove sono tutti i giocattoli che non abbiamo portato.

E io so dove sono i miei libri, aggiungo.

Mia moglie posa il pane e il coltello sul piatto. E ora dovrei dire, dice lei, che so dove sono i miei mestoli, non è vero?

Penso che siano rimasti in cucina a Zemun[1], risponde il ragazzo.

Se pronunci solo un’altra parola, dice mia moglie a denti stretti, vedrai che ne ho portati comunque alcuni.

Colui che fugge dalla verità, dico, in realtà ritorna alla verità.

Come fai a sapere questo, ribatte lei, sei diventato un saggio cinese?

Questa è l’area degli stregoni indiani, rispondo. Forse potrei trasformarmi in uno dei loro totem.

Vorrei essere una tartaruga, dice il ragazzo.

Vedi, mi dice mia moglie, a causa delle tue storie nostro figlio non vuole più essere un essere umano ma un rettile.

Le tartarughe sono anfibi, rispondo agguerrito.

Dopotutto, cosa c’è che non va nelle tartarughe? Una volta la gente pensava che il mondo intero si poggiasse sulle loro spalle. Conosco persino la storia di un naufrago che viaggiò sulla corazza di una tartaruga gigante per giorni, finché l’animale non lo portò sulla terraferma. Dopotutto, quando li tenevamo nell’acquario, tu le nutrivi, cambiavi loro l’acqua e pulivi il loro piccolo castello.

Perché nessuno di voi voleva farlo, dice mia moglie. Sì, risponde il ragazzo, ma quando eravamo in gita a Čortanovci[2] e quando ci siamo imbattuti in una tartaruga giù alla sorgente, tu l’hai tenuta tra le braccia per tutto il tempo e le sussurravi qualcosa all’orecchio.

L’ho fatto, dice mia moglie, solo perché quando hai voglia di sussurrare, allora devi sussurrare.

Poco importa di chi sia l’orecchio.

Il ragazzo e io ci scambiamo uno sguardo.

Suppongo che, come me, abbia un presentimento: che la storia dell’orecchio e del sussurro sia davvero rivolta a me, ma poiché a differenza di me non si è ancora impigliato nella rete dei significati impliciti, è libero di tornare alla sua colazione. Io, invece, non riuscendo a ricordare il momento in cui le labbra di mia moglie hanno toccato i lobi delle mie orecchie, spingo via il piatto di prosciutto e formaggio, e mi alzo.

Cosa c’è, chiede mia moglie, hai perso improvvisamente l’appetito?

Non l’ho perso, dico, mentre dalla finestra guardo gli spessi strati di neve e ghiaccio, ma darei comunque qualsiasi cosa per una sola brioche salata da quel fornaio al mercato. 

E il burek, dice mia moglie, ti ricordi quando andavamo a prendere il burek la sera e lui imprecava mentre ce lo porgeva dalla finestrella sulla porta?

Ancora una volta il mondo si trasforma in un menù. Ogni volta che ci troviamo di fronte ai ricordi sembra che tutta la nostra vita sia costituita da ciò che ci è sprofondato nello stomaco. Non riusciamo più a ricordare tanti volti, la maggior parte dei luoghi sono sbiaditi come vecchie cartoline, eppure ricordiamo bene tutti i crauti con carne affumicata, gli arrosti di maiale, i burek, gli strudel di noci e di papavero.

E chissà per quanto ancora avremmo impastato quella massa di ricordi, se una coppia di pettirossi non fosse atterrata sul vecchio salice del cortile. Li mostro a mio figlio. Gli ricordo come la scorsa primavera ed estate, dopo ogni pioggia, cavavano spessi lombrichi dalla terra umida. Non verrebbero, gli dico, se non fossero sicuri che quegli stessi deliziosi bocconcini presto saranno lì ad aspettarli.

Il ragazzo per un attimo è soddisfatto. Poi torna serio. E se invece, chiede, si sbagliassero?

Lo consolo e dico che la natura non inganna mai. Gli prometto che, se l’inverno dura, compreremo vermi e lombrichi e daremo da mangiare ai pettirossi, proprio come con i granelli nutrivamo i passeri durante i mesi invernali.

Questo lo calma. Si mette il berretto in testa, si carica lo zaino in spalla e se ne va a scuola. Dalla finestra lo vedo fermarsi sotto il salice e guardare i pettirossi. Le sue labbra si muovono, dice loro qualcosa. Posso immaginare come li conforta ora, come si sente, come se fosse ancora una volta il padrone degli eventi nel mondo che lo circonda.

Un giorno dovrò dirgli che questo “inverno della nostra insoddisfazione” può durare molto più a lungo e che lo scioglimento della neve e del ghiaccio non deve segnarne la fine. L’amaro è un sapore che va sentito, non importa se uno vive ad Alberta o in Serbia. Ed è per questo che con voce alta vorrei invitarlo a continuare a imparare quel linguaggio non umano di animali e piante, a non cercare amici migliori. A differenza di noi, non sanno che esiste il bene e il male, la ricchezza e la perdita, il potere e la supremazia. Per loro l’inverno è solo un aspetto del mondo, uguale a tutti gli altri, e non c’è scienza migliore di quella, figliolo.

E, come se cogliesse i miei pensieri, si gira e mi saluta.

Traduzione dal serbo: Božidar Stanišić

[1] Zemun è la maggiore municipalità della città di Belgrado. Sorge alla confluenza del fiume Sava nel Danubio e ha una popolazione di circa 166 000 abitanti. (N.d.T.)

[2] Čortanovci è un insediamento in Serbia, nel comune di Inđija, nel distretto di Srem. (N.d.T.)

In ricordo di David Albahari, di Božidar Stanišić

David Albahari (1948 — 2023) è stato uno scrittore, traduttore e accademico serbo di origine ebraica. Ha scritto principalmente romanzi e racconti che sono spesso di carattere autobiografico. È stato un membro dell’Accademia delle arti e delle scienze serba (SANU).

Nasce il 15 marzo 1948 in una famiglia di origine ebraica a Peć. Studia letteratura e lingua inglese a Zagabria e pubblica la sua prima raccolta di racconti, Tempo di famiglia nel 1973. Diventa popolare con il suo quarto libro Descrizione della morte, per il quale ha ricevuto il Premio Andrić nel 1982.

Nel 1991 diventa presidente dell’Unione dei comuni ebraici della Jugoslavia e inizia a occuparsi anche dell’evacuazione della popolazione ebraica da Sarajevo. Nel 1994 si trasferisce con la famiglia a Calgary, in Canada, e torna in Serbia nel 2012.

Durante i suoi cinquant’anni di esistenza come letterato serbo ha ottenuto non solo il riconoscimento indiviso della critica, ma anche un numero piuttosto elevato di lettori. È un fenomeno interessante: tra i lettori in Serbia (come anche in ex Jugoslavia) è difficile trovare un lettore che non abbia un’opinione manifesta sull’opera di Albahari: da un lato, ci sono diversi estimatori della sua prosa, per i quali rappresenta un vero scrittore di culto, mentre dall’altro, c’è un gruppo un po’ più ristretto di lettori per i quali la marcata complessità delle sue opere creano una resistenza piuttosto forte.

Ha pubblicato dodici raccolte di racconti, tredici romanzi e tre libri di saggi, per i quali ha ottenuto diversi premi letterari.

Le opere di Albahari sono state tradotte in francese, tedesco, inglese, ebraico, polacco, italiano, macedone, sloveno, albanese, slovacco, ungherese e diverse altre lingue.

È mancato, dopo una lunga malattia, il 30 luglio 2023. Viene giustamente considerato uno dei Nobel mancati.

Opere di David Albahari tradotte in italiano:

La morte di Ruben Rubenović, introduzione di Milorad Pavić, traduzione di Silvio Ferrari, Hefti, Milano 1989.

Il buio, traduzione di Augusto Fonseca, Besa, Nardò 2006.

Goetz e Meyer, traduzione di Alice Parmeggiani, Einaudi, Torino 2006

L’esca, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, Rovereto 2008

Zink, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, Rovereto 2009

Ludwig, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, Rovereto 2010

Sanguisughe, traduzione di Alice Parmeggiani, Zandonai, Rovereto 2012

https://www.labottegadelbarbieri.org/goetz-e-meyer-david-albahari/

 

 

QUI la recensione di Goetz e Meyer, di David Albahari, sulla bottegadelbarbieri