Una storia che sa di finzioni spudorate, danni apocalittici e confessioni tragiche
Prima puntata di due
“La gente recita a destra e a manca la commedia del lavoro, recita la
commedia dell’attività mentre in realtà poltrisce soltanto e non fa
assolutamente nulla e di solito, per giunta, anziché rendersi utile provoca
danni enormi”, lessi in un romanzo di Thomas Bernhard. L’austriaco lo scrisse
nel 1986 e oggi, quarant’anni dopo, è ancora più vero, pensai mentre anch’io,
nel mio ufficio, fingevo di lavorare. Eran vent’anni, ormai, che fingevo di
lavorare.
Ero impiegato in un ufficio di cui nemmeno erano chiare le mansioni, un
ufficio in qualche modo preposto all’informazione e alla comunicazione, solo
che dell’attività di quell’ufficio non fregava in realtà assolutamente nulla a
nessuno, e così io fingevo di lavorare dalla mattina alla sera. Non che me ne
stessi a braccia conserte tutto il tempo, sia chiaro. Fingere di lavorare
significa pur sempre fare qualcosa, solo che è qualcosa di completamente
inutile, qualcosa di cui non frega niente a nessuno, qualcosa che se nessuno la
facesse non cambierebbe nulla, assolutamente nulla.
Per fingere di lavorare io ho bisogno di un computer sempre acceso, di
navigare su internet, persino di stampare documenti ogni tanto, e tutto questo
ha un impatto economico e ambientale. Poi c’è l’impatto sociale e per così dire
cognitivo del lavoro che fingo di fare tutti i giorni, contribuendo a
quell’eccesso di informazione e comunicazione che oggi letteralmente
rimbecillisce chiunque, non c’è scampo per nessuno, oggi, al flusso
ininterrotto di idiozie che gente come me immette nel grande tubo
dell’informazione e della comunicazione, e questo prima o poi porterà alla
paralisi cognitiva e sociale, anzi lo sta già facendo, e allora il danno sarà
bello grosso. Senza contare il danno che intanto subisce la mia vita sociale e
psichica, azzerata da un dialogo costante ed esclusivo con una macchina, o
meglio un insieme di macchine.
Così, mentre fingevo di lavorare, lessi quella frase in quel romanzo di
Bernhard e decisi di prendermi una pausa da quel lavoro finto e uscire
dall’ufficio, senza comunicarlo a nessuno, tanto nessuno se ne sarebbe accorto.
Decisi di uscire fuori a vedere coi miei occhi quanto, come intuito da Bernhard
ormai quarant’anni fa, praticamente tutti, oggi, fingano di lavorare, con
l’aggravante, così Bernhard, di recitare la commedia fino al punto di affermare
con solennità il contrario, ovvero che si ammazzano di lavoro: “Certo non li
rimprovero per il fatto che loro, in realtà, fingono soltanto di lavorare e
prendono per il naso il prossimo”, così Bernhard, “ma, mi dicevo sempre, non
dovrebbero affermare a ogni piè sospinto che si ammazzano di
lavoro”.
In strada incontrai uno spazzino, un operatore ecologico come si dice oggi,
e notai che spazzava sempre lo stesso metro quadro, che era già pulitissimo
ovviamente, e allora gli chiesi perché lo facesse, e lui reagì scortese e mi
disse di farmi i fatti miei. Allora gli dissi che con me non doveva fingere,
che avevo letto Bernhard e sapevo che tutti fingevano, anch’io fingo per tutto
il santo giorno, gli dissi, ed ero lì solo per conoscere, capire, per cui le
mie domande erano fini a se stesse e non avrebbero avuto conseguenze per
nessuno. Lui allora posò la ramazza, si accese una sigaretta, aspirò forte il
fumo e poi mi disse che la sua giornata di lavoro era di otto ore, ma se faceva
tutto a velocità normale avrebbe finito di lavorare nel giro di quattro, poi
nella seconda metà della giornata non avrebbe avuto nulla da fare, e allora
avrebbero capito che bastavano la metà degli spazzini, e magari lo
licenziavano, e questo doveva evitarlo assolutamente perché il suo reddito
dipendeva unicamente da quel lavoro che peraltro, così lo spazzino, per buona
parte era già stato affidato alle macchine, quelle enormi e rumorose
spazzatrici che da sole, in un’ora, fanno un lavoro che prima ci volevano
quattro uomini e il triplo del tempo per fare. Lo ringraziai per quella
spiegazione e continuai il mio giro.
Entrai in un bar e dentro c’era un sacco di gente, prendevano il caffè,
chiacchieravano, l’unico che lavorava era il barista ma anche lui, pensai, in
realtà fingeva, e glielo dissi, tu stai fingendo di lavorare, e lui mi guardò e
sorrise, perché era così che fingeva di lavorare, sorridendo continuamente a
tutti anche se non aveva assolutamente nessun motivo di sorridere a tutti,
perché se non lo avesse fatto, così pensava, supposi, avrebbe perso clienti e
quindi, alla lunga, il lavoro che fingeva di fare tutto il giorno e dal quale
dipendeva il suo reddito. Sorrise e mi disse che no, non era così, che lui si
ammazzava di lavoro tutto il giorno. Allora gli spiegai cosa facevo lì,
Bernhard eccetera, e allora lui mi servì il caffè e poi, mentre lo sorseggiavo,
mi disse che sì, era vero, il suo lavoro non serviva assolutamente a nulla,
così quel barista, testuale, assolutamente a nulla, disse, perché la gente il
caffè poteva farselo a casa la mattina e non era necessario prenderne così
tanti durante il giorno, se le persone bevevano tutti quei caffè dentro bar
come il suo era perché sentivano invincibile il bisogno di prendersi una pausa
dai loro lavori completamente inutili, così il barista, testuale, completamente
inutili, disse, perché prendere una pausa da un lavoro che si finge di fare è
il modo migliore per fingere di fare un lavoro, così il barista, e alla fine
anche fingere di lavorare è logorante, anzi, lo è molto di più che lavorare
davvero, e così venivano nel suo bar e bevevano caffè che potevano farsi a casa
la mattina prima di uscire o potevano evitare del tutto di bere, lo pagavano
cento volte di più del suo valore e in più gli faceva male, perché bere tutto
quel caffè distruggeva lo stomaco, disse, e aggiunse che anche il suo era
distrutto, perché, a forza di fingere di lavorare pure lui tutto il giorno col
caffè sempre a portata di mano, ne beveva più di tutti e il suo stomaco ormai era
una poltiglia, così il barista, testuale, una poltiglia, disse. Finii di bere
il mio caffè, pagai, lo ringraziai e uscii.
Camminai fino alla biblioteca comunale, che aveva sede in un palazzo
storico, magnifico, costruito con un gusto estetico che oggi manca
completamente, il gusto di quando si lavorava davvero e non per finta, pensai.
Andai dal bibliotecario e gli chiesi cosa stesse facendo, e lui mi disse che
non stava facendo niente. Lo ringraziai per avermi risparmiato la commedia del
lavoro e lui mi spiegò che aveva letto Bernhard, che quel romanzo lo aveva lì,
il suo ultimo, grandioso romanzo, il suo testamento letterario, disse. Prese il
libro da un’altissima pila di libri, una pila di libri che dava l’impressione
di essere lì impilata da secoli, e aprì alla pagina dove l’austriaco rifletteva
sulla commedia del lavoro, e me la lesse ad alta voce, riflessioni che avevano
ormai quarant’anni e oggi erano ancora più attuali, disse il bibliotecario. La
gente non leggeva più niente, disse poi sempre ad alta voce, in quel luogo
silenzioso dove la sua voce rimbombava come una cannonata, e così il suo lavoro
non serviva più, le biblioteche non servivano più, perché la gente ormai
leggeva solo i post sui social network, non era nemmeno lettura quella, così il
bibliotecario, nemmeno lettura, disse, solo scrolling, così il bibliotecario,
scrolling, disse, e questo perché ormai la gente non aveva più nemmeno le
capacità cognitive necessarie a leggere libri, perché quello stesso scrolling
le aveva devastate con l’effetto di un’esplosione nucleare, così il
bibliotecario, un’esplosione nucleare dentro i nostri cervelli, anche il suo e
il mio, disse, non pensassimo noi di esserne immuni, eravamo tutti contagiati,
così il bibliotecario, testuale, contagiati, disse, e poi tornò a far niente.
Lo ringraziai e uscii.
https://tersiterossi.substack.com/p/la-commedia-del-lavoro-1
La commedia del
lavoro (2)
Seconda e ultima puntata
Mi allontanai dal centro urbano. Giunto in periferia, mi fermai nei pressi
del grande cantiere di un palazzo e mi misi a discorrere con uno degli operai,
intento a gettare del cemento. Gli chiesi se anche lui stava fingendo di
lavorare, anche se già avevo visto che stava fingendo, non c’era alcun dubbio
che stesse spudoratamente fingendo. Lui si guardò attorno furtivo e poi, a
bassa voce, mi disse che non era colpa sua, il lavoro che gli avevano affidato
era quello, che per pietà non lo denunciassi al padrone, altrimenti per lui era
finita, così l’operaio, finita per sempre, disse. Gli dissi di stare
tranquillo, che ero solo un passante che aveva letto Bernhard e voleva la
conferma che più o meno tutti, oggi, fingano di lavorare. Allora lui si
tranquillizzò, posò la pala e mi disse che era quel palazzo, di per sé, a
essere completamente inutile, così l’operaio, testuale, completamente inutile,
disse, perché di edifici ce n’erano già ovunque a centinaia, sarebbe bastato
ristrutturarli anziché costruirne di nuovi, peraltro orribili, mentre quelli di
una volta erano esteticamente pregevoli, realizzati da individui che non erano
alienati dal loro lavoro, così l’operaio, testuale, individui che non erano
alienati dal loro lavoro, disse, e di conseguenza il frutto del loro lavoro era
bello, e confortevole, e sensato, mentre di quel palazzo che stavano
costruendo, come delle altre centinaia di palazzi che venivano costruiti in quella
città, tutto era insensato, dalle vetrate lucide e glaciali, al numero infinito
di piani, ai controsoffitti che celavano brutture orripilanti, alle tonnellate
di ferro e cemento, al sistema di aria condizionata, soprattutto il sistema di
aria condizionata era un’aberrazione mostruosa, così l’operaio, testuale,
un’aberrazione mostruosa, disse, un infinito reticolo di canaline da cui
sarebbe fuoriuscita aria tossica che avrebbe inquinato inesorabilmente le menti
di chi avrebbe abitato quegli uffici, dove un mucchio di gente avrebbe finto di
lavorare proprio come stava facendo lui ora, causando solo danni enormi e
irrimediabili, così l’operaio, testuale, danni enormi e irrimediabili, disse,
danni apocalittici, aggiunse. Poi tornò a gettar cemento e io me ne andai.
Continuai a camminare e raggiunsi la zona industriale. Mi avvicinai a uno
dei tanti capannoni, dove andavano e venivano rapidi innumerevoli muletti,
trasportando imballi d’ogni genere. Qui pare lavorino con grande lena, pensai,
e in realtà la grande lena è tutta finzione. Lo dissi al tizio in giacca e
cravatta, probabilmente un dirigente, che in quel momento stava varcando il
cancello d’ingresso. Lui mi guardò e mi chiese se ero uno di quegli attivisti o
peggio un sindacalista. Io gli risposi di no, che avevo semplicemente letto
Bernhard eccetera, e che volevo solo sapere la verità, niente di più. Allora
lui mi disse che dentro quel capannone veniva stoccato ogni tipo di merce, era
un centro di stoccaggio per il commercio elettronico, ma quello che stava per
dirmi, disse, valeva per qualsiasi altro stabilimento industriale, così quel
dirigente, testuale, qualsiasi altro stabilimento industriale, disse. Tutto il
sistema produttivo, disse, si basava su una domanda artificiale, drogata per
così dire, e di conseguenza ogni tipo di merce, in realtà, veniva prodotta in
quantità eccessiva, e gran parte di quelle merci, senz’altro la maggioranza di
quelle che loro stoccavano nel loro capannone, era completamente inutile, oltre
che prodotta in modo pessimo, dozzinale, per fare in modo che tutto si rompesse
nel giro di poco tempo e la gente ne comprasse ancora, e ancora, e ancora, in
un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo devastato, così il
dirigente, testuale, un ciclo infinito dal quale l’intero pianeta stava uscendo
devastato, disse, un ciclo che stava trasformando il pianeta, aggiunse, in
un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo aperto, così il
dirigente, testuale, un’enorme, stratificata, nauseabonda discarica a cielo
aperto, disse. Poi fermò uno dei muletti e ordinò all’operaio che lo stava
guidando di aprire l’imballaggio che trasportava. L’operaio obbedì e il
dirigente estrasse dall’imballaggio un albero di Natale e mi chiese,
semplicemente: “Lo vede?”, e lo ripeté: “Lo vede?”. E io gli dissi che sì, lo
vedevo, lo vedevo benissimo, non l’avevo mai visto così bene, gli dissi. Poi lo
ringraziai e me ne andai.
Continuai a camminare e arrivai in campagna. Lì si produceva cibo, e nessun
lavoro è più necessario della produzione di cibo, eppure anche lì fingevano di
lavorare, pensai. M’imbattei in un contadino che stava vendemmiando e glielo
dissi, gli parlai di Bernhard eccetera, della mia volontà di sapere solo la
verità, gli dissi, nient’altro che la verità. E quello ammise che sì, in effetti
era così, fingevano pure loro. M’indicò l’uva che stava vendemmiando e mi disse
che non era più nemmeno cibo, quello, che se fosse stato cibo avrebbe potuto
offrirmelo e avrebbe potuto mangiarne anche lui, ma non era più cibo, quello,
ripeté, perché era velenoso innanzitutto, pieno di pesticidi, roba tossica
all’inverosimile, e poi perché serviva a produrre vino, non a sfamarsi,
producevano uva, disse, ma non per sfamare la gente, solo per produrre vino.
Eppure tutti mangiamo, gli dissi, e lui rispose che sì, era vero, tutti
mangiamo, ma il cibo che mangiamo, oggi, è tutto quanto tossico senza
eccezioni, così il contadino, testuale, tutto quanto tossico senza eccezioni,
disse, e non è più nemmeno cibo, perché ha un grado di sofisticazione che non
lo si può più nemmeno chiamare cibo, disse, e quindi quando lo ingeriamo non
stiamo mangiando, disse, ma ci stiamo soltanto avvelenando. Oggi si produce
cibo non per sfamare la gente, aggiunse, ma per fare soldi, monocolture della
vite, della mela, di qualsiasi cosa, solo per fare soldi, non per sfamarsi. Il
fatto che con quel cibo prodotto solo per fare soldi la gente si sfami, o
meglio abbia la sensazione di sfamarsi mentre si avvelena, è un aspetto
incidentale, così il contadino, testuale, meramente incidentale, disse, un
effetto collaterale di questa gigantesca, ottusa fabbrica di soldi a mezzo
cibo, monocolture il cui prodotto è destinato in gran parte alle bestie, così
il contadino, a tutte le bestie ammassate dentro stalle enormi in tutto il
mondo, disse, miliardi di capi di bestiame allevati per produrre carne del
tutto priva di proprietà nutritive, inevitabilmente tossica anch’essa, che non
serve a sfamare la gente ma a fare soldi che servono a comprare altro cibo
tossico e altra roba inutile, e così via in una catena apparentemente eterna
che stritola il mondo e che però prima o poi finirà per spezzarsi, e allora
tutta quanta questa gigantesca finzione del lavoro inutile e dannoso crollerà
in mille pezzi con un boato assordante, così il contadino, tutta quanta questa
finzione crollerà in mille pezzi con un boato assordante, disse, insieme a
tutto il resto, aggiunse. Io annuii gravemente, lo salutai e tornai sui miei
passi.
Rientrai in ufficio, dove la mia assenza non aveva prodotto alcun effetto e
dove nessuno si era nemmeno accorto della mia assenza. E lì, indaffarato,
ricominciai a fingere di lavorare.
Le frasi
di Thomas Bernhard sono tratte da “Estinzione”, Adelphi 1996 (traduzione di
Andreina Lavagetto).