Visualizzazione post con etichetta Mattia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mattia. Mostra tutti i post

giovedì 29 maggio 2014

Note sul processo in videoconferenza - Mattia Zanotti

La catena dei forzati e lo sguardo pubblico
Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta, malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.

La vettura cellulare e lo sguardo panoptico
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che “l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837 della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote foderata di latta…

martedì 29 aprile 2014

con Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò

quello che sta succedendo questi mesi a Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò non può non riguardarci, per tanti motivi.

uno) quattro ragazzi stanno in carcere in condizioni che nemmeno Riina ( solo che Riina, fra le altre cose, ha ammazzato Falcone e  Borsellino e la due scorte, i quattro ragazzi avrebbero danneggiato un mezzo che stava in campagna e non ci sono stati altri danni, se non al prestigio dell'Italia, dice qualcuno);

due) in anni (tanti, troppi) di rassegnazione a qualsiasi misura antidemocratica, la lotta notav è l'unica che dura da anni, non violenta, che argomenta e smonta qualsiasi parte di un progetto senza senso, i pro-Tav hanno una sola motivazione, che si può sintetizzare in una sola frase: "perché sì";

tre) Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò sono i "nostri ragazzi", ingiustamente e troppo a lungo in galera, immagino che avrebbe detto Pertini, per altri i "nostri ragazzi" sono i due marò in galera per omicidio e terrorismo, in India,  sono amati da Napolitano e sono trattati con tutti i riguardi;

quattro) le indagini sono guidate dal pm Rinaudo, che in un paese civile dovrebbe essere a riposo, se non peggio (se solo la metà di quello che è scritto qui è vero, in un'inchiesta che tutti i giornali si sono dimenticati di fare).

Una lettera dei familiari di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò 
In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone arrestate il 9 dicembre con l’accusa, tutta da dimostrare, di aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell’assalto è stato danneggiato un compressore, non c’è stato un solo ferito. Ma l’accusa è di terrorismo perché “in quel contesto” e con le loro azioni presunte “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d’immagine. Ripetiamo: d’immagine. L’accusa si basa sulla potenzialità di quei comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato di terrorismo colposo, l’imputazione è quella di terrorismo vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria di tutti corre spontanea: le stragi degli anni 70 e 80, le bombe sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, che uccideva, che, appunto, terrorizzava l’intera popolazione. Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso i loro siti. E’ forse questa la popolazione che sarebbe terrorizzata? E può un compressore incendiato creare un grave danno al Paese? Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all’improvviso terroristi per danno d’immagine con le stesse pene, pesantissime, di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. E’ un passaggio inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall’alto potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d’immagine. E’ la libertà di tutti che è in pericolo. E non è una libertà da dare per scontata. Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l’isolamento, due ore d’aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro e in alcuni casi l’isolamento totale. Tutto questo prima ancora di un processo, perché sono “pericolosi” grazie a un’interpretazione giudiziaria che non trova riscontro nei fatti. Questa lettera si rivolge: Ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino il loro compito di informare, perché valutino tutti gli aspetti, perché trovino il coraggio di indignarsi di fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, secondo l’accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe stato presente quando è stato fatto.. Agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche spicciolo dall’Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista. Alla società intera e in particolare alle famiglie come le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha bisogno di noi. Grazie I familiari di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò
da qui (pubblicato l’11 febbraio 2014)

Stefano Benni scrive a Mattia
Ecco lo scritto di Stefano Benni per Mattia, in carcere dal 9 dicembre scorso con l’assurda accusa di terrorismo.
Per Mattia da tua madre vengo a sapere del tuo momento difficile. Non ti conosco. Ma ho avuto la tua età e mi sono ribellato, e ho provato rabbia e ho conosciuto, anche se per breve tempo, la prigione militare. Non ho nessuna lezione da darti, se non questa: quando ero chiuso in caserma, leggevo, parlavo con i miei compagni, scrivevo. Tutto, pur di non sprecare il mio tempo, pur di non darla vinta a chi mi aveva privato della libertà. E ci sono riuscito. Non conosco la tua storia, immagino sia quella di molti giovani che vivono in questo paese apparentemente senza anima e senza speranza. Mio figlio ha scelto di lavorare all’estero, nelle emergenze umanitarie. Tu hai scelto di batterti per le cose in cui credi. Finché ci saranno giovani come voi, anche se diversi nelle idee e nelle forme di lotta, mi viene da pensare che questo paese abbia ancora un pezzo di anima e un respiro di speranza. A volte si è più liberi dietro un muro, che in un deserto di indifferenza. Tieni duro Stefano Benni

Giulietto Chiesa parla di questa storia:


Appello:
Contro la vendetta di stato, per la giustizia. Con Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, per tutte e tutti noi. 
Anche noi saremo a Torino, il 10 maggio, per far sentire la nostra solidarietà a Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Chiara, Claudio, Mattia, Niccolò. E’ importante ripetere i nomi, è importante scandirli perché stiamo parlando di quattro vite, quattro esseri umani, quattro attivisti No Tav che dal 9 dicembre 2013 sono imprigionati, sparpagliati tra le carceri di Alessandria, Ferrara e Roma, sottoposti a un regime di alta sicurezza (AS2). Per noi come per la popolazione della Val di Susa questi prigionieri sono fratelli e sorelle, parte della comunità che da più vent’anni resiste a una «grande opera» inutile e insensata, macchina mafiogena ed ecocida, meccanismo divorasoldi e divoramontagne imposto al territorio con prepotenza, ottusa arroganza e metodi prettamente autoritari. Per noi prendere posizione è facile, è scontato. Ma anche chi non si è mai informato su questa lotta, e come molti è stato indotto a guardarla con sospetto, dovrebbe allarmarsi per quanto sta accadendo. E’ una vicenda che racconta una storia più grande, che rischia di ingrandirsi ulteriormente e coinvolgere sempre più persone. Tu che leggi, con quale certezza puoi dirti al sicuro? Come dice il motto latino: «de te fabula narratur». Forse questa storia parla già di te. Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò vengono spacciati per terroristi e, a poco più di vent’anni d’età, si trovano a rischiarne trenta di prigione. Il processo inizierà il 22 maggio. Di cosa sono accusati, esattamente? Sono accusati di aver partecipato a una iniziativa durante la quale venne danneggiato un compressore. Cioè un oggetto inanimato. Una cosa, fatta di metallo e fili. Quella notte, non un poliziotto né tantomeno un operaio del cantiere TAV furono sfiorati, nemmeno alla lontana. L’accusa di terrorismo e il regime di alta sorveglianza trovano il loro appiglio nell’art. 270 sexies del codice penale, incartato nove anni fa dentro uno dei tanti «pacchetti sicurezza» propinati a un’opinione pubblica in cerca di facili rassicurazioni. Era il luglio 2005, c’erano stati da poco gli attentati alle metropolitane di Madrid e Londra. Coincidenza: quello stesso anno il movimento No Tav conseguì la sua più importante vittoria sul campo, bloccando e scongiurando l’apertura del cantiere per il cunicolo geognostico previsto a Venaus. In apparenza non c’entra, e invece c’entra, perché nel 270 sexies si legge (corsivo nostro): «Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto [...]» Dato che il movimento No Tav vuole impedire il colossale sperpero del TAV Torino-Lione, ogni iniziativa in tal senso può essere ricondotta a «finalità di terrorismo». Ecco perché nessuno è al riparo da questa accusa. Per due PM e un GIP della procura di Torino, Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò hanno cercato di «danneggiare l’immagine dell’Italia». Proprio così, ripetiamolo: «danneggiare l’immagine dell’Italia». Quale Italia sarebbe stata danneggiata nella sua immagine dai No Tav che stanno per andare a processo? L’Italia che i poteri costituiti vedono «diffamata» dai No Tav è forse quella della dignità, della solidarietà, della partecipazione democratica? O è piuttosto quella di un certo «sviluppo» che serve solo il malaffare, della simbiosi tra partiti e cosche criminali, degli appalti sospetti, del lavoro con molti ricatti e pochi diritti, dei veleni e del biocidio? Quella che stiamo descrivendo è solo la punta più avanzata di una strategia che la Procura di Torino ha avviato da tempo. Attivisti accusati di stalking, ambientalisti accusati di procurato allarme, ragazzi accusati di sequestro di persona, sindaci condannati a pagare cifre astronomiche, mesi di galera per la rottura di un sigillo, processi tenuti in aule-bunker… La pretesa di affrontare un problema politico e tecnico come quello della Torino-Lione attraverso la repressione giudiziaria e poliziesca sta avendo e avrà sempre più conseguenze devastanti. Devastanti non solo per il vivere civile, ma soprattutto per quattro ragazzi che rischiano di passare la loro gioventù in prigione, perché qualcuno ha deciso di schiacciare la resistenza valsusina sotto un tallone di ferro. Se sottoporre i quattro ragazzi al regime di Alta Sicurezza 2 doveva spezzare loro e far vacillare il movimento no tav, possiamo dire con certezza che non è servito. Non è servito l’isolamento imposto ben oltre il periodo delle indagini, contro quel che si legge nell’articolo 33 dell’ordinamento penitenziario e nell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non sono servite la drastica limitazione delle ore d’aria, la censura della posta la riduzione delle visite (permesse solo ai famigliari in senso stretto, quindi non a compagni/e di vita e conviventi). Non è servita nemmeno la criminalizzazione mediatica. Da dietro le sbarre, Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò hanno spedito lettere mai rassegnate, spesso ironiche, provocatorie, briose. Hanno chiesto per sé più repressione, più isolamento e il divieto di mangiare, hanno chiamato a testimoniare per la difesa «mio cugino che mi vuole tanto bene»… Dulcis in fundo, hanno suggerito di aggiungere Dudù il cagnolino di Berlusconi, alla surreale lista di «parti offese» stilata dai PM. Lista che oggi include, senza il minimo intento umoristico, la Commissione Europea, il Consiglio dei Ministri, il III Reggimento Alpini di Pinerolo, i carabinieri di Sestriere, la P.S. di Imperia, la Guardia di Finanza di Torino… Il 10 maggio si va in piazza. A sostegno delle vere «parti offese». Per la libertà di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, e per la libertà di tutti. Per l’aria, l’acqua, il suolo e la salute pubblica della Val di Susa, dell’Italia e del pianeta. Contro l’oscena accusa di terrorismo. A Torino, alle 14, in Piazza Adriano. Noi ci saremo.

da un’intervista a Erri De Luca
De Luca, il 5 giugno ci sarà l’udienza preliminare per aver istigato al sabotaggio della Torino-Lione. Cosa ne pensa? 
Non chiederò il rito abbreviato perché preferisco un processo aperto con udienze pubbliche. Non so quanti anni di carcere sto rischiando, non mi occupo di queste cose, ma non voglio sconti di pena. E se dovessero condannarmi, ho concordato con il mio avvocato che non ricorreremo in appello. Se dovrò andare in galera, allora ci andrò. 
Ripeterebbe che bisogna sabotare la linea Torino-Lione? 
Che la Tav debba essere sabotata perché inutile e nociva è un mio pensiero che continuerò a ripetere. Invece di “sabotata” potrei dire bloccata o impedita, quello è il concetto. Mi contestano il reato di istigazione alla violenza (istigazione a delinquere, ndr), ma è chiaro che mi processeranno per avere espresso una opinione. In aula difenderò il diritto di parola, perché i giudici intendono il verbo “sabotare” in maniera restrittiva, ovvero come danneggiamento diretto. E invece sabotare nella storia ha sempre avuto un’accezione politica: anche gli operai che bloccavano le catene di montaggio sabotavano, pur senza rompere alcun macchinario. È questo il valore principale della parola sabotaggio in Val di Susa: l’opposizione politica all’opera. 
Quattro persone si trovano in carcere con l’accusa di terrorismo per avere distrutto un compressore di un cantiere in Valsusa. In questo caso il danneggiamento materiale c’è stato, no? 
Dopo aver parlato del lato ridicolo della faccenda, il mio, passiamo al lato serio: vi sono quattro giovani che sono accusati di terrorismo perché avrebbero danneggiato un macchinario, ma non sono stati còlti in flagranza di reato, bensì con flagranza differita, una delle invenzioni giuridiche di questo strano Paese utilizzata dai magistrati che vogliono rimanere comodi. Siamo al delirio...

Quell’accusa di terrorismo - Giorgio Agamben 
Il processo contro quattro imputati per condotte e atti di terrorismo che sta per iniziare a Torino nel carcere delle Vallette è un’occasione per riflettere sul processo di grave involuzione del diritto e delle istituzioni che è seguito all’attentato dell’11 settembre 2001. È ormai evidente che il reato di terrorismo, definito nel modo più generico possibile, non serve a combattere le organizzazioni terroristiche internazionali, ma è utilizzato invece in politica interna per criminalizzare delle attività politiche che col terrorismo non hanno nulla a che fare…

Appello per la liberazione dei corpi e del dissenso politico 
Foucault, in una lezione tenuta nel 1978 al Collège de France, scrive che oggi l’arte del governare “ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza”. Se questo è il piano dentro il quale ci muoviamo, oggi stiamo assistendo ad un salto di qualità dei dispositivi di sicurezza. Osserviamo una complessiva e sottile involuzione autoritaria della società italiana ed europea, dove il conflitto viene patologizzato e interiorizzato e vige la repressione di ogni politica affermativa e di ogni pratica di autonoma gestione di corpi, relazioni, territori. In particolare, ci allarma e ci preoccupa il clima di controllo di un neocapitalismo particolarmente violento nei confronti degli attivisti del movimento No Tav in Val di Susa. Quattro giovani, Claudio, Chiara, Mattia e Niccolò, sono da dicembre in carcere accusati di terrorismo. Altri 54 attivisti No Tav sono sotto processo per i fatti relativi alle manifestazioni del 27/6 e del 3/7/2011, attualmente in corso presso la IV Sezione del Tribunale di Torino, in condizioni in cui, come denunciato pubblicamente dagli avvocati della difesa, si consta “l’oggettiva impossibilità di garantire, nelle attuali condizioni, un sereno e concreto esercizio del diritto di difesa”. Anche in altre città italiane (Bologna, Milano, Padova, Roma, Treviso, Napoli) negli ultimi mesi sono state emesse ordinanze di “divieto di dimora”, “arresti domiciliari”, “obblighi di firma” destinati a coloro che, più di altri, hanno manifestato dissenso politico. Noi vediamo nell’esplicarsi di tali durezze fuori misura, il volto di un potere che ha cambiato natura: lontano e dittatoriale, repressivo e dunque “esterno” rispetto alle culture, ai corpi, ai volti, ma contemporaneamente vicino e “intimo”, capace di effettuare un’integrale cattura dell’anima, reclamando di volerla orientare attraverso dispositivi ambientali ed economici che favoriscono l’adesione alla “norma” oppure, viceversa, pronto a espellere, imprigionare, scartare qualsiasi elemento che alla “norma” non voglia adeguarsi. Un’intera valle e tutta la sua popolazione da quasi venti anni resistono al destino stabilito dalle logiche dello sfruttamento intensivo neoliberista, sordo a ogni desiderio, insensibile ai bisogni della vita e al rispetto dell’ambiente, interessato solo alla razionalizzazione capitalistica dell’esistenza, al calcolo di investimenti in grandi opere inutili ed irragionevoli che debbono essere il più possibile soltanto una fonte di denaro. Di fronte alla fermezza con cui la decisione unilaterale sulla sorte della Val di Susa viene da decenni presentata come una funzione che sottomette tutti i comportamenti agli interessi economici, le comunità hanno messo in gioco i propri corpi, diventando un modello di testarda resistenza alle ragioni del capitalismo-finanziario per il Paese nella sua interezza e anche oltre i confini nazionali. Siamo in presenza di regole oscene che autorizzano a imprigionare quattro ragazzi poiché “l’azione terroristica è idonea ad arrecare danno d’immagine all’Italia” e, aspetto particolarmente significativo, siamo di fronte alla pubblica rivendicazione del lato indecente di questa repressione, con la complicità dei principali media e di buona parte del milieu intellettuale italiano (con poche, ma significative, eccezioni). Per queste ragioni noi firmando chiediamo l’immediata liberazione degli attivisti imprigionati dietro accuse strumentali e gigantesche. Pensiamo che la moltitudine che si solleva in Val di Susa trasgredisca solo la logica imperante del “capitale umano”. Questi giovani mettono in gioco le proprie vite, rifiutando l’idea della libertà come libera accettazione di una scelta obbligata; hanno sottratto la propria libertà al calcolo, per affidarla alla manifestazione di un’idea. Non c’è politica che non cominci da lampi come questi, vogliamo ricordarlo. Essi sono i lampi dell’intelligenza e del coraggio imprendibile dell’umanità, gli unici capaci di far tremare la presunta solidità del biopotere contemporaneo. Noi dunque pensiamo che l’avvenire della politica stia nella fedeltà a questi lampi cui chiunque può partecipare, purché sia disposto a mettere davvero in gioco se stesso.

Tav, sabotaggi, ragion di Stato – Maria Matteo 
Leggere le carte dei pubblici ministeri non è uno sport dei più appassionanti. Tuttavia a volte nelle argomentazioni proposte con grazia e stile da inquisitori, appare l'ordine di un discorso, che i più credono sepolto sotto le macerie della Bastiglia. Il discorso del potere che ri-assume nella sua interezza l'assolutismo della regalità. È assoluto, perché sciolto da ogni vincolo, perché nega legittimità ad ogni parola altra. Lo fa con la leggerezza di chi sa che l'illusione democratica è tanto forte da coprire come nebbia fitta un dispositivo, che chiude preventivamente i conti con ogni forma di opposizione, che non si adatti al ruolo di mera testimonianza. Corollario di questo dispositivo la delega politica all'apparato giudiziario delle questioni che l'esecutivo non è in grado di affrontare. L'abolizione per un vizio formale della legge sulle droghe in vigore da ormai otto anni, la dice lunga sul ruolo suppletivo del potere giudiziario rispetto a quello politico. Questa decisione, come già quella sul porcellum elettorale, toglie le castagne dal fuoco sia al parlamento che all'esecutivo, incapaci di prendere decisioni su questioni di grande importanza come la legge che definisce le regole elettorali. La delega alla magistratura della questione No Tav, ha in se ben di più della rinuncia a legiferare su alcuni temi di un parlamento senza una maggioranza definita. Provate a immaginare. Immaginate che il governo dichiari che chi si oppone alla Torino Lyon è un terrorista. È lecito ritenere che persino i quotidiani più asserviti agli enormi interessi che si raggrumano intorno alle grandi opere non oserebbero avallare tout court una tesi così espressa. Quando lo fa la magistratura l'operazione passa inosservata. O quasi. È successo a Torino con l'arresto e il rinvio a giudizio di quattro No Tav accusati di terrorismo. Leggere le carte della Procura diventa un esercizio indispensabile per cogliere la genealogia di un meccanismo disciplinare, che va ben oltre il singolo procedimento penale. Si scopre che la mera professione di opinioni negative sugli accordi per la realizzazione della nuova linea ad alta velocità tra Torino e Lyon crea il “contesto” sul quale viene eretta l'impalcatura accusatoria che trasforma il danneggiamento di un compressore in un attentato. Un attentato con finalità terroriste. Qualcuno in piemontese potrebbe commentare: “esageruma nen! – non esageriamo!”. La prima impressione è che la Procura abbia dilatato un episodio banale, per mandare un segnale forte al movimento No Tav, ma che, secondo il buon senso, la loro accusa non abbia gambe per camminare. Attenzione. Il teorema dei due PM, Antonio Rinaudo e Andrea Padalino, affonda le radici in un insieme di norme che danno loro amplissimo spazio di discrezionalità. Vediamo come…

mercoledì 12 marzo 2014

Stefano Benni scrive a Mattia

Ecco lo scritto di Stefano Benni per Mattia, in carcere dal 9 dicembre scorso con l’assurda accusa di terrorismo.
Per Mattia
da tua madre vengo a sapere del tuo momento difficile. Non ti conosco. Ma ho avuto la tua età e mi sono ribellato, e ho provato rabbia e ho conosciuto, anche se per breve tempo, la prigione militare. Non ho nessuna lezione da darti, se non questa: quando ero chiuso in caserma, leggevo, parlavo con i miei compagni, scrivevo. Tutto, pur di non sprecare il mio tempo, pur di non darla vinta a chi mi aveva privato della libertà. E ci sono riuscito.
Non conosco la tua storia, immagino sia quella di molti giovani che vivono in questo paese apparentemente senza anima e senza speranza. Mio figlio ha scelto di lavorare all’estero, nelle emergenze umanitarie. Tu hai scelto di batterti per le cose in cui credi. Finché ci saranno giovani come voi, anche se diversi nelle idee e nelle forme di lotta, mi viene da pensare che questo paese abbia ancora un pezzo di anima e un respiro di speranza. A volte si è più liberi dietro un muro, che in un deserto di indifferenza. Tieni duro
Stefano Benni