In molti siti della diaspora indiana ultranazionalista circola dall’inizio
di giugno una ricerca dell’ideologo Shantanu Gupta, assai vicino al Bharatya
Janata Party del premier Narendra Modi. “Gupta ha tracciato per mezzo del web
la copertura sulla pandemia di Covid in India da parte di sei media globali
– BBC, The Economist, The Guardian, Washington
Post, New York Times e CNN su un periodo
di più di 14 mesi.” Secondo Gupta, “con 176 titoli ‘Minacciosi, Iperbolici,
Critici o Scettici’, la BBC guida la classifica dei
superdiffusori di panico in termini di volume di titoli prevenuti. Con il 96
per cento dei suoi titoli pubblicati in 14 mesi sotto la categoria ‘Diffusori di
Panico o Fuorvianti”, The Guardian guida la classifica nella
percentuale di titoli prevenuti” (dal sito canadese
https://www.canindia.com/bbc-tops-chart-of-global-panic-superspreaders-amid-indias-covid-waves/).
Su cosa si basa la tesi di Gupta? Sul fatto che tutti questi media “hanno
opportunamente omesso di fare riferimento al numero di casi per milione di
abitanti. Perché se si prendono i casi o le fatalità per milione, l’India è uno
dei paesi che ha agito meglio nella mappa globale”. Su questo punto Gupta ha
assolutamente ragione. Per troppe volte in questa primavera abbiamo ascoltato e
letto cifre drammatiche sui “record” di morti che l’India batteva un giorno
dopo l’altro, fino a diventare “il terzo paese con più morti al mondo” di
Covid. Andiamo a caccia di questi record. Prima di giugno, l’India aveva
ottenuto il suo primato nazionale il 18 maggio di quest’anno con 4.525 morti in
un giorno. Gli USA avevano raggiunto il massimo di questa macabra classifica il
12 gennaio con solo pochi morti in meno, 4.466 in un solo giorno. Il Regno
Unito aveva toccato il top il 20 gennaio con 1.823 morti e l’Italia lo aveva
fatto il 3 dicembre dell’anno scorso con 993 morti in un giorno.
Il problema è che l’India ha un miliardo 392 milioni di abitanti, gli Usa 332 milioni; il Regno unito 68 milioni, l’Italia 60 milioni. Se perciò contiamo il numero di morti per milione di abitanti, il record giornaliero di decessi mostra una classifica ben diversa:
In questa disciplina è saldamente al comando il Regno unito con 28 morti in
un giorno per milione di abitanti; segue l’Italia con 17 morti per milione;
vengono poi gli Usa con 14 morti; e infine l’India con solo 3 morti per milione
di abitanti. Per quanto riguarda i decessi totali per milione di abitanti
dall’inizio della pandemia a giugno, la classifica è quasi la stessa con solo
la posizione di vertice che cambia, perché l’Italia sopravanza il Regno unito:
Italia 2.091 morti per milione di abitanti; Regno unito 1.873; USA 1.836; India
solo 243.
Naturalmente si dirà che le statistiche indiane sono inaffidabili (il che è
verissimo) perché è impossibile censire i morti nelle zone più arretrate o
nelle bidonville. Sappiamo ora che in Perù l’eccesso delle morti è stato circa
il triplo del conto ufficiale dei decessi per covid. Allarghiamoci ancora di
più e moltiplichiamo le statistiche ufficiali indiane non per tre, ma per
quattro. Il punto è che anche a voler quadruplicare i morti di covid indiani,
il bilancio resterebbe sempre inferiore a quello di paesi avanzati e con
redditi pro capite infinitamente superiori, come appunto USA, UK e Italia.
Ma allora per l’India la pandemia è stata forse tutta rose e fiori come ci
ha ripetuto l’ineffabile Modi per circa un anno, e come sostiene ancora oggi
Gupta? Per niente affatto. Vallo a raccontare alle famiglie che si sono
rovinate per comprare al mercato nero le bombole d’ossigeno, alle ignominie cui
si sono dovute abbassare per riuscire a far ricoverare i loro cari in un’unità
con i ventilatori, ai milioni di lavoratori precari rispediti a casa a piedi,
senza un soldo e senza un sussidio. Se è vero che il covid non ha colpito
l’India con più violenza che altri paesi, è però altrettanto vero che una
virulenza simile, o anche minore, ha messo in ginocchio il sistema sanitario
indiano in modo molto più catastrofico, per non parlare dell’impatto sociale.
Le cifre che ci venivano prodigate con tanta munificenza per testimoniare la
“tragedia” del covid in India dicevano in realtà tutta un’altra storia:
raccontavano la diseguaglianza inumana di quella società e lo stato infame in
cui versa il sistema sanitario pubblico indiano, sottofinanziato, con personale
sottopagato e mancante di qualunque strumentazione adeguata.
L’India è solo l’esempio più macroscopico di come si possa far dire ai numeri
qualunque cosa, e spesso anche il contrario di quello che essi in realtà
dicono. Perché in questo anno e mezzo siamo stati sommersi, sepolti e
asfissiati da una “valanga di numeri”, come l’ha chiamata il filosofo canadese
Ian Hacking. Hacking si riferiva alla passione per le statistiche, e per la
statistica, che colse l’Europa nell’800, dopo le guerre napoleoniche e con la
rivoluzione industriale. Nel suo bellissimo The Taming of Chance [1],
Hacking ci racconta il doppio percorso per cui la statistica è diventata
nell’800 uno dei principali strumenti di governo e, nello stesso tempo, ha
prodotto una colossale rivoluzione epistemologica nella scienza: si pensi solo
alla meccanica statistica, alla teoria dei gas, con l’apparire di nuovi
sconvolgenti concetti (entropia prima, interpretazione probabilistica della
meccanica quantistica poi). Non solo, ma è per mezzo di questa “valanga di
numeri” che compaiono le “scienze umane”: la sociologia non sarebbe nemmeno
pensabile senza i dati statistici: Durkheim non avrebbe potuto scrivere il suo
fondamentale studio sul Suicidio senza la mole di informazioni
fornite dai censimenti. L’immagine che noi oggi abbiamo dell’essere umano
deriva in gran parte da quali numeri era possibile contare per gli umani
(mettendo in disparte tutto ciò che non è contabile, censibile).
Ovviamente le statistiche, cioè i numeri, sono state l’utensile principale
per mettere in atto quella che Michel Foucault chiama la “biopolitica”, per cui
a chi governa è indispensabile sapere quanto lunga sarà la vita media di chi
nasce in un certo anno, a che età si sposerà, a seconda del grado d’istruzione,
quanti giovani potranno essere chiamati alle armi, quanti operai saranno
disponibili, per quanti anni lo stato dovrà pagare un vitalizio, e così via. Ma
una disciplina non può essere uno strumento di governo senza diventare un’arma
della politica. A loro volta le armi della politica diventano poste in gioco
della stessa, per cui la manipolazione delle statistiche nasce insieme alle
statistiche stesse, fino all’indimenticabile, lapidaria massima di Mark Twain,
“Ci sono tre tipi di menzogne: le menzogne, le dannate menzogne e le
statistiche” (Chapters from my Autobiography, 1906).
A sua volta, tutto questo processo ha reso indispensabile raffinare una
nuova arte, quella dell’uso retorico dei numeri, per arrivare a una vera e
propria “retorica del numero”. Tutto il grande show mediatico cui abbiamo
assistito negli ultimi 17 mesi ha dispiegato questa retorica del numero in
tutta la sua potenza, potenza d’insegnamento, di minaccia, di convinzione, di
dissuasione, di distorsione: è quindi l’occasione per guardarla un po’ più da
vicino questa retorica. E innanzitutto: “Cosa è un numero? È una parola tra le
altre, che fa parte integrante della lingua? O è un puro oggetto scientifico di
natura extralinguistica?” si domandava Jacques Durand nel primo pionieristico
testo sull’argomento (“Rhétorique du nombre”, Communications,
n. 16, 1970, pp. 125-132).
Noi non ce ne rendiamo conto, ma siamo martellati dai numeri usati in un
registro per così dire “extra-aritmetico”: Le mille e una notte, 2001
Odissea nello spazio, Fahrenheit 451, Il settimo
sigillo, Ocean 11, l’agente 007, la bevanda 7-Up, i negozi
7-Eleven, 666 “numero della Bestia”.[2] In politica, l’uso retorico dei
numeri deriva dal fatto che numeri e statistiche — anche da fonti ufficiali—
non sono uno specchio della realtà, ma la deflettono riflettendola. Proprio per
la sua natura solo in parte linguistica, il numero produce un effetto di
convincimento irrazionale. Se mi si dice che in un disastro sono morte migliaia
di persone, posso crederci o meno e rimanere scettico, se invece mi si dice che
sono morte 12.324 persone, devo prendere o lasciare, e se prendo, devo
crederci in toto. Il numero detiene così una forza persuasoria
assimilabile a quella di una foto (che “vale più di mille parole”). Nello
stesso tempo il numero decontestualizza, assolutizza.
Siamo martellati a tal punto dai numeri da non accorgerci del lato
arbitrario e superfluo di tante informazioni. Quando durante la pandemia
sentivamo per esempio il 30 gennaio che in Malesia in un giorno si era
registrato un record di 5.298 nuovi casi, nessuno di noi si chiedeva perché
questa cifra ci fosse comunicata: come mai in precedenza non ci avevano mai
riferito l’andamento giornaliero di nuovi casi di tubercolosi, quando ogni anno
nel mondo muoiono circa 1,7 milioni di persone per questa malattia? Oppure,
ogni anno muoiono di incidenti stradali nel mondo quasi 1,4 milioni di persone.
Perché la tv non c’informa ogni sera sui decessi stradali nelle Filippine o in
Cile? Al contrario, con la seconda ondata di Covid, nessuno ha più nominato i
morti nelle case da riposo, che sono letteralmente scomparse dai mass media.
Eppure gli anziani continuavano a morirci alla grande. Ma non si sono più
sentiti i singhiozzi ipocriti sulla “strage dei vegliardi” né le lacrime da
coccodrillo sui “nostri nonni lasciati soli a morire”.
Quindi il primo strumento della retorica del numero è la scelta di quali
numeri usare, e quali non usare. Dichiarare l’ammontare assoluto di decessi,
invece del tasso relativo alla popolazione, è un esempio lampante di quest’uso
retorico del numero. Mai né le nostre tv né i nostri giornali hanno usato i
numeri relativi, ma sempre le cifre assolute. Un esempio meno letale, ma
altrettanto grave, è la manipolazione sulle statistiche del lavoro (con i vari
curiosi stratagemmi per addomesticare il tasso di disoccupazione).
Poi ci sono le figure vere e proprie della retorica che qui non abbiamo né
modo né spazio per analizzare. Con i numeri si può usare l’antitesi:
“700.000 euro di multa per un debito inevaso di 1,2 euro”, “cade da 80 metri:
indenne”, “uccide per 20 euro”; la tautologia: “il 2021 non è il
2001”; la ripetizione: “in 12 giorni, con 12 flaconi, 12 anni di
meno sul vostro viso”; l’enumerazione: “paghi uno, compri due”
(pubblicità di un negozio di scarpe), “uno, due, tre, quattro, cinque, ecco
cinque creme da gelato Mont-Blanc”, “1 offerta eccezionale, 2 stili di vita, 3 vantaggi”;
l’accumulazione: “920 tonnellate a 920 km/h”.[3] Vi sono poi le figure retoriche
miste di numeri e parole. La lista è lunga.
Da questo breve excursus si vede che i numeri non sono né
una parola come le altre, né un segno completamente extralinguistico, ma il
loro uso ricorda curiosamente, per chiudere il cerchio, l’uso delle parole
hindi nei giornali indiani in lingua inglese, giornali farciti di termini
locali che evidentemente dicono un significato inesprimibile in inglese. Queste
“intrusioni” hindi costituiscono un solecismo esotico rispetto all’inglese
standard, ma nello stesso tempo un rinvio a un patrimonio locale comune: è
indubbio che nella coscienza popolare i numeri hanno un fascino esotico. Questo
esotismo è dovuto alla conoscenza imperfetta che il pubblico ha
dell’aritmetica. Quanto spesso ho dovuto correggere i giornalisti che
lavoravano con me perché negli articoli che mi sottoponevano confondevano i
milioni con i miliardi? Una confusione comprensibile, e per due ragioni.
1) Perché la probabilità di guadagnare un miliardo di euro è per loro pari
a quella di guadagnarne un milione: cioè zero, e quindi le due cifre si
confondono nel comune regno dell’impossibilità. Questa impossibilità era ben
sfruttata da un tabloid israeliano che titolava a tutta pagina: “Il bilancio
dello stato: 4,360,000,000,000 Shekels”, invece di scrivere “4,360 miliardi”,
proprio perché nessun “lettore popolare” è in grado di cogliere il valore reale
di quella sfilza di zero.[4]
2) Perché nessuno di noi esseri umani farà a tempo a contare fino a 3
miliardi (supponendo che ogni numero venga contato in un secondo): se viviamo
meno di 95 anni e 47 giorni, a 3 miliardi saremo già morti; e cioè le cifre di
cui parliamo, quando per esempio diciamo che l’India ha 1,390 milioni di
abitanti, restano per noi viventi puramente astratte. Questo confondere le
migliaia con i milioni e i milioni con i miliardi ha giocato un ruolo
importantissimo nella retorica del numero pandemico.
Resta da chiedersi lo scopo di quest’uso dei numeri. Non c’è dubbio alcuno:
il panico delle popolazioni è stato un obiettivo dichiarato, per niente
nascosto. Intendiamoci, non voglio dire che l’epidemia non dovesse essere
temuta: i negazionisti ricorrono anch’essi a una loro peculiare “retorica dei
numeri” (avrete notato che anche Gupta, citato all’inizio, combatteva la
retorica dei numeri “colonialista” con un’altra retorica dei numeri).
Piuttosto, a mio parere le autorità di tutto il mondo hanno ritenuto che se non
avessero instillato un panico duraturo nelle loro popolazioni, queste non
avrebbero accettato con tanta remissività le misure di lockdown e di
limitazione delle libertà personali che il contenimento dell’epidemia
richiedeva. Un panico mediatico ben amministrato e ben dosato era, ed è, molto
meno costoso e intrusivo di misure di polizia. E a questo scopo l’efficacia
retorica dei numeri è impareggiabile.
NOTE
[1] Cambridge
University Press 1990. Edizione italiana: Il caso domato (a
cura di Simona Morini), Il Saggiatore 1994.
[2] Alcuni esempi
sono tratti da Allen H. Merriam, “World and Numbers: Mathematical Dimensions of
Rhetoric”, The Southern Communication Journal, n. 55 Summer 1990,
pp. 337-354.
[3] Attualizzo i
titoli che Durand riprendeva da France Soir alla fine degli
anni ’60.
[4] Itzhak Roeh and
Saul Feldman, “The rhetoric of numbers in front-page journalism. How numbers
contribute to the melodramatic in the popular press” (1984), Walter de
Gruyter, Berlin / New York | Published online: November 12, 2009,
pp. 347-368. https://doi.org/10.1515/text.1.1984.4.4.347