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lunedì 4 novembre 2019

scrive Maurizio Ambrosini, sui migranti


Ecco i veri nodi dell’immigrazione in Italia - Maurizio Ambrosini

Il Rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia disegna un quadro in chiaroscuro, tra progressi e difficoltà. Indica le tematiche che un eventuale nuovo governo dovrebbe affrontare, senza continuare a inseguire aspetti marginali.

Il Rapporto sugli stranieri nel mercato del lavoro
Viviamo giorni d’incertezza di fronte all’evoluzione politica del paese, ma non manca la speranza di una svolta che segni una netta discontinuità nelle politiche migratorie. Per oltre un anno, la discussione sul tema è stata polarizzata sugli sbarchi dal mare e sull’asilo, salvo occasionalmente allargarsi alla cronaca nera. Basta andare a rileggere il contratto su cui nacque il governo Conte-Salvini-Di Maio. Migranti e rifugiati sono sistematicamente confusi e si parla di “flussi migratori” per intendere gli arrivi dal mare. Oggi scarsissimi, ma sempre minoritari anche negli anni scorsi rispetto alle altre modalità d’ingresso: famiglia, studio, lavoro e diverse altre. Senza contare, beninteso, i migranti interni all’Ue (1,5 milioni in Italia), che non hanno bisogno di permessi per insediarsi nel nostro paese.
È dunque importante, nel momento in cui potrebbe nascere un governo diverso, confrontarsi con analisi statistiche, meglio se di fonte istituzionale, che ci restituiscono un quadro più obiettivo e completo dell’immigrazione del nostro paese. Tra queste va annoverato il Rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia, pubblicato dal ministero competente, la cui nona edizione è uscita nei giorni scorsi.
Va ammesso che nemmeno la partecipazione occupazionale degli immigrati sfugge al fuoco delle polemiche. Quando non lavorano, sono bollati come parassiti mantenuti dalle tasse dei contribuenti. Quando lavorano, sono accusati di rubare il pane agli italiani, oppure di essere braccia a disposizione di biechi sfruttatori. Quando intraprendono, si pensa che godano di indebiti vantaggi, di aiuti pubblici, di esenzioni fiscali o altri favoritismi.
Il Rapporto ministeriale aiuta a fare un po’ di chiarezza al riguardo. Il primo dato è che l’occupazione regolare degli immigrati continua a crescere, anche se moderatamente: 2,45 milioni, pari al 10,6 per cento dell’occupazione complessiva. In altri termini, un lavoratore su dieci in Italia è straniero, senza contare quelli che nel frattempo hanno acquisito la cittadinanza italiana a dispetto della regolamentazione più restrittiva dell’Europa occidentale. In generale, il tasso di occupazione degli immigrati è più alto di quello degli italiani, uno dei pochi casi a livello Ocse, e alcune componenti nazionali brillano per operosità: tra i filippini più di otto su dieci sono occupati; cinesi, peruviani, srilankesi e ucraini superano o sfiorano un rapporto di sette su dieci.
In alcuni settori il contributo degli stranieri è particolarmente rilevante: 17,2 per cento del totale in edilizia, 17,9 per cento in agricoltura e nell’industria alberghiera; ma soprattutto 36,6 per cento nei “servizi collettivi e personali”. Qui si colloca, infatti, tra le varie occupazioni del settore, l’ingentissimo fenomeno del lavoro domestico e assistenziale a beneficio delle famiglie italiane: un ambito in cui più di sette lavoratori su dieci sono stranieri, o meglio straniere.

Il problema della sovra-qualificazione
Questa grande risorsa per puntellare i difficili equilibrismi a cui tante famiglie sono costrette ha però anche costi sociali e personali non indifferenti: per le lavoratrici straniere, quale che sia il loro livello d’istruzione e la loro esperienza professionale pregressa, il confinamento nel lavoro domestico-assistenziale è un destino a cui non è agevole sottrarsi.
Ma il problema della sovra-qualificazione vale anche per gli uomini: secondo il rapporto, 63 laureati stranieri su 100 sono occupati in posizioni per cui basterebbe un’istruzione inferiore, contro meno di 18 italiani laureati su 100. Più grave è però un altro problema: il lavoro in parecchi casi non affranca gli immigrati dalla povertà. In un quarto dei casi di immigrati in condizioni di povertà assoluta (1,5 milioni), almeno una persona in famiglia ha un’occupazione regolare.
Un’altra seria incognita riguarda le nuove generazioni di origine immigrata: il loro tasso di occupazione nell’Ue è del 69 per cento, in Italia soltanto del 28 per cento. Si profila perciò un allarme per l’integrazione sociale futura dei figli degli immigrati, che nessuno potrà cacciare da quello che ormai è il loro paese.
Il rapporto disegna dunque un quadro in chiaroscuro, di luci e ombre, progressi e difficoltà. Sarebbe di vitale importanza per un nuovo governo mettere a tema i nodi veri della questione immigrazione – quindi, per esempio, quello di nuovi ingressi per lavoro in determinati settori – invece di inseguire aspetti di fatto marginali, ma di elevata redditività propagandistica.
da qui


Quell’umanità perduta nella “guerra” ai migranti - Maurizio Ambrosini

Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di organizzazioni indipendenti è diventato un’attività sospetta. Avremmo invece bisogno di tornare a un mondo in cui accogliere persone e sostenere chi chiede aiuto è solo un’espressione di umanità.

Le conseguenze del caso Sea Watch
Il Parlamento sta per pronunciarsi sul caso Matteo Salvini-Sea Watch e si sa già come andrà a finire. Ma è l’occasione per una riflessione sul rapporto tra azione umanitaria e radicalizzazione politica sul fronte controverso dell’asilo.
In questi giorni, Salvini ha rivendicato i meriti della sua gestione, in termini di quasi azzeramento degli sbarchi e delle morti in mare. In realtà, il crollo degli arrivi deriva principalmente dagli accordi con governo e milizie libiche dell’esecutivo Gentiloni-Minniti. Il ministro dell’Interno del governo Conte ha solo completato l’opera, facendo dell’Italia un paese che di fatto si sottrae sia al diritto di asilo sancito dalla Costituzione, sia a consentire lo sbarco delle persone tratte in salvo, minorenni compresi, come prevede il diritto del mare. La confusione tra rifugiati, migranti economici, clandestini, tutti etichettati come spensierati turisti in viaggio di piacere nel Mediterraneo (“la pacchia è finita”, secondo i tweet di Salvini), è un tratto consolidato della comunicazione governativa sull’argomento. Si può obiettare che qualche micro-sbarco di tunisini continua ad avvenire, che l’inverno già di per sé riduce al minimo gli attraversamenti del mare con mezzi inadatti, ma il quadro non cambia: ha vinto la disumanità. Resta da vedere se questa politica ha migliorato la vita dei cittadini italiani, se ha promosso l’immagine del nostro paese sul piano internazionale. Se ha fatto dell’Italia un paese migliore.
Nel frattempo, la Sea Watch è stata scagionata dalle varie accuse che le erano state rivolte, con sollievo di molti simpatizzanti, malgrado l’aggiunta che siano invece riscontrabili irregolarità amministrative: in sostanza, dubbi sull’idoneità dell’imbarcazione a effettuare operazioni di salvataggio in mare. Il punto richiama però un inquietante scenario complessivo: ormai ogni operazione di salvataggio in mare è oggetto non solo di aspre polemiche politiche, ma anche di approfondite indagini da parte delle autorità inquirenti, con tanto di interrogatori degli equipaggi e dei migranti tratti in salvo, minorenni compresi.
Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di organizzazioni indipendenti è diventato un’attività sospetta, di cui si analizza con acribia degna di miglior causa la scelta di intervenire al posto delle autorità libiche, di dirigersi verso i porti italiani anziché tunisini o maltesi, di trarre in salvo le persone anche se non si è perfettamente attrezzati per farlo. Senza tralasciare la pioggia di accuse preventive da parte di diversi esponenti governativi, non solo il solito Salvini, spacciate subito come certezza che la Sea Watch avesse commesso gravi irregolarità.
È uno spettacolo mai visto prima in un paese a ordinamento liberale. Salvare migranti e richiedenti asilo è diventato un attacco alla sicurezza e alla sovranità nazionale, mentre chi chiude i porti e tiene persone inermi bloccate a bordo per giorni, minorenni compresi, si presenta come difensore della patria: come se fosse in gioco la sicurezza della nazione rispetto a un’invasione nemica. Il fatto che le accuse cadano poi una dopo l’altra, senza neppure arrivare (almeno finora) al dibattimento in aula, ne conferma la loro natura pregiudiziale e politicizzata.
Assistiamo a una pericolosa politicizzazione della solidarietà. Che ha come logica conseguenza gli striscioni appesi in più occasioni da estremisti di destra di fronte a sedi della Caritas per attaccarne polemicamente l’impegno nell’accoglienza. A quanto pare, servire pasti caldi, organizzare corsi di italiano, mettere a disposizione docce e posti letto appaiono gesti eversivi o quanto meno forme di disobbedienza politica all’autorità statale.
Avremmo invece bisogno di fissare un punto, solennemente affermato dalla Corte costituzionale francese in una storica sentenza del luglio scorso: il principio di fraternità vieta di criminalizzare la solidarietà con i migranti, quale che sia il loro status giuridico. Fornire aiuto su basi umanitarie è una scelta che lo stato non può perseguire.

Le risposte informali
Anche sul fronte opposto avviene un’evoluzione significativa. Quello che chiamavano “l’umanitario” non è mai piaciuto alla gran parte degli intellettuali critici e agli attivisti pro-rifugiati più radicali. Così come non piaceva il volontariato: deboli interventi riparativi che non mettevano in discussione le ingiustizie del sistema. Oggi li vediamo invece schierati in difesa delle Ong, con lo stesso piglio assertivo delle condanne di ieri, così come vediamo gruppi di attivisti impegnarsi in azioni concrete di aiuto, dai corsi di italiano alla fornitura di pasti, che altri definirebbero con il vecchio termine “volontariato”.
Tra l’altro, il decreto sicurezza, producendo un aumento delle persone prive di protezione legale, accrescerà l’esigenza di interventi di aiuto. Le persone comunque rimangono. Hanno un corpo e cercano delle risposte ai loro bisogni. Se mancano le risposte istituzionali, sorgono quelle informali. Si pensi per esempio alla tendopoli romana del centro Baobab, che il governo ha sgomberato nei mesi scorsi. Chi crede che gli immigrati privati del diritto di asilo finiscano per cedere e tornare mestamente in patria, da sconfitti, dimostra di non conoscerli. Rimarranno, più disperati, arrabbiati, depressi. Quindi, più problematici per la società. Ben vengano dunque le iniziative che cercano di far fronte all’emergenza annunciata: in un momento come questo, tutte le energie che promuovono un supplemento di apertura e di accoglienza sono da salutare con favore.
Forse, però, avremmo bisogno di tornare a un mondo normale, in cui salvare vite, accogliere persone, sostenere chi chiede aiuto, non sia un gesto né di destra né di sinistra, ma soltanto un’espressione di umanità.
da qui



Se la sinistra attacca la sinistra - Maurizio Ambrosini

È interessante che per attaccare una sinistra già in difficoltà i grandi commentatori se la prendano con l’apertura e la solidarietà verso gli immigrati. Colgono un argomento che più di altri può trovare consenso e spaccare ancora di più una sinistra incerta e divisa

C’è un genere letterario che va di moda di questi tempi: sparare sulla sinistra e sui suoi errori. Il gioco funziona ancora meglio se a farlo è qualche intellettuale o comunicatore che può vantare un curriculum una qualche militanza a sinistra, sottraendosi all’accusa di parzialità ideologica.
Naturalmente uno degli argomenti preferiti dai neo-fustigatori della sinistra in declino è l’immigrazione, con la contrapposizione tra ultimi e penultimi, tra poveri italiani e poverissimi immigrati. Sono di questo tenore gli argomenti sviluppati dal noto giornalista Federico Rampini nel suo recente libro La notte della sinistra, e ripresi con grandi elogi da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Le due illustri penne del giornalismo italiano convergono su alcuni dei più inossidabili luoghi comuni della xenofobia di sinistra, o sedicente tale.
Il primo è l’idea che i lavoratori nazionali fragili subiscano la concorrenza degli immigrati arrivati clandestinamente, e che il problema sia un’immigrazione senza controllo. In realtà, a essere senza controllo non sono i modesti ingressi dall’Africa (circa 350.000 persone tra rifugiati e richiedenti asilo su circa sei milioni di immigrati, irregolari compresi), ma eventualmente le migrazioni interne all’Ue. Dalla Romania o dalla Bulgaria chiunque può entrare in Italia senza bisogno di permessi e mettersi a cercare lavoro, regolare o in nero. Nel Regno Unito l’hanno intuito e hanno cercato di porvi rimedio con la Brexit, ma non è neppure detto che ci riescano.
Riprendendo il vecchio cliché dell’esercito industriale di riserva, i due giornalisti accusano la sinistra di aver assecondato la fame di braccia da sfruttare del capitalismo più spietato. In realtà sono le chiusure formalmente rigide delle frontiere a creare le condizioni dell’immigrazione irregolare, che poi si trova a lavorare in nero. Senza contare il fatto che in buona parte, forse in prevalenza stando alle sanatorie, gli immigrati non autorizzati trovano lavoro non nei campi o nei cantieri edili, ma nelle famiglie italiane.
In terzo luogo, Rampini e Cazzullo rivalutano il noto slogan salviniano «aiutiamoli a casa loro», citando il drenaggio dei medici africani a vantaggio della sanità britannica. Ne concludono che l’emigrazione è dannosa per i Paesi di origine. Qui bisogna distinguere: il brain drain esiste, e ci ricorda che le migrazioni sono di tanti tipi diversi. Le persone che in patria hanno lavori e salari inadeguati partono nella speranza di migliorare le condizioni di vita della propria famiglia. Di fatto i migranti aiutano casa loro in modo pervasivo grazie al denaro che mandano alle famiglie in patria: 642 miliardi di dollari nel 2018 secondo le stime della Banca mondiale. Un fenomeno che supera di gran lunga il valore degli aiuti pubblici allo sviluppo. Inoltre l’immigrazione in Italia come in Europa è prevalentemente europea (e femminile), non proviene dai Paesi più poveri del mondo, non riguarda i più poveri dei Paesi di provenienza.
È interessante che per attaccare una sinistra già in difficoltà i grandi commentatori se la prendano con l’apertura e la solidarietà verso gli immigrati. Colgono un argomento che più di altri può trovare consenso e spaccare ancora di più una sinistra incerta e divisa. Un serio esame di sociologia delle migrazioni però non lo passerebbero.



venerdì 12 febbraio 2016

Insegnanti meritevoli: un premio troppo soggettivo - Maria De Paola


l bonus per i bravi docenti
Tra le novità introdotte dalla “Buona scuola” vi è un bonus da corrispondere ai docenti più meritevoli. Sembrerebbe una iniziativa lodevole poiché nel settore pubblico è di cruciale importanza distinguere tra lavoratori che svolgono con impegno il proprio lavoro e lavoratori che sfruttano la “posizione protetta” per fare poco; permetterebbe di offrire servizi migliori. Tuttavia, il metodo stabilito dalla legge per individuare “il merito” rischia di creare più danni che benefici.
Bisogna innanzitutto chiarire che riuscire a premiare i meritevoli non è affatto facile. L’insegnamento è un’attività complessa di cui non è agevole misurare né il contributo fornito dai docenti (tempo dedicato a preparare le lezioni e a correggere i compiti, la disponibilità verso gli studenti e altro ancora) né l’effetto prodotto sulla preparazione degli studenti. Quest’ultima dipende dalla qualità dell’insegnamento, ma anche da molti altri fattori quali impegno, abilità, ambiente familiare, condizioni sociali. Inoltre, la preparazione degli studenti può essere misurata in diversi modi, attraverso la valutazione dei docenti, con il ricorso a test standardizzati, facendo riferimento al successo nelle successive fasi formative oppure sul mercato del lavoro.
I metodi di valutazione
Tutti questi aspetti rendono ardua l’impresa di distinguere un insegnante meritevole da uno che lo è di meno. D’altra parte, poiché si tratta di un’impresa importante molti paesi hanno provato a intraprenderla.
Di solito si tratta di sistemi incentivanti che legano la retribuzione dei docenti a qualche misura ben specificata di performance, ad esempio i risultati ottenuti dagli studenti in test standardizzati. Sistemi di questo tipo sono stati introdotti negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi. Si tratta di meccanismi imperfetti che, come fatto notare in molti studi, possono indurre i docenti a “insegnare per il test” e a trascurare altre importanti attività formative. Insegnare per il test può rappresentare un miglioramento se si fa riferimento a quei docenti che ex-ante facevano molto poco (è meglio insegnare a rispondere al test piuttosto che non insegnare affatto), ma può essere peggiorativo se si considerano gli insegnanti che ex-ante svolgevano efficacemente il proprio lavoro. Si tratta, quindi, di sistemi che possono creare benefici. ma anche costi e per capire se è il caso di utilizzarli bisogna ponderare diversi aspetti. In ogni caso, hanno però il vantaggio di basarsi su criteri oggettivi che non lasciano spazio all’arbitrarietà e permettono scelte chiare. Legando le mani a chi queste scelte deve compierle, ne facilitano il compito eliminando pressioni e influenze di vario tipo.
Criteri italiani
Al contrario, il sistema introdotto in Italia è fondato su elementi fortemente soggettivi. Il bonus verrà, infatti, corrisposto in base ai criteri individuati da un comitato di valutazione istituito presso ogni scuola. Tra quelli da utilizzare per la valutazione, la legge menziona la qualità dell’insegnamento, il successo formativo e scolastico degli studenti, le innovazioni didattiche e le responsabilità assunte. Trattandosi di una pluralità di fattori, è evidente che si delega al comitato di valutazione la scelta di cosa debba intendersi per “merito”. Ne segue che pesando in maniera diversa i fattori menzionati nella legge è possibile favorire alcuni a discapito di altri.
La composizione del comitato di valutazione (imposta in sede di dibattito parlamentare) peggiora ulteriormente la situazione. Il comitato è presieduto dal dirigente scolastico ed è composto da tre docenti, un componente esterno, due rappresentanti dei genitori (scuola dell’infanzia e primaria) oppure un rappresentante dei genitori e un rappresentante degli studenti (scuola secondaria).
Il fatto che i docenti siano valutati da colleghi non aiuta a creare un clima di serenità e imparzialità. Vi è il rischio che ciascun docente cerchi di influenzare le decisioni del comitato con comportamenti non certo utili al buon funzionamento della scuola o che comunque ciascuno si senta condizionato dal timore di ripicche e ritorsioni. La presenza di rappresentanti degli studenti e dei genitori non pone problemi meno gravi poiché si tratta di soggetti che solitamente non dispongono di sufficienti competenze e che potrebbero voler premiare insegnanti non troppo esigenti e disposti a dare buoni voti anche a studenti non particolarmente meritevoli.
Vi è quindi il rischio di esiti molto negativi, come quelli sperimentati in Portogallo, dove nel 2006-07 è stato adottato un sistema simile al nostro. Secondo uno studio di Pedro S. Martins (2009) questo sistema ha portato addirittura a un peggioramento della performance degli studenti agli esami esterni e a una “inflazione” dei voti assegnati dai docenti.
Si tratta di risultati non sorprendenti. È vero che le valutazioni soggettive vengono utilizzate nelle imprese private, ma lì a valutare è spesso l’imprenditore stesso (o una persona da lui delegata) che in caso di scelte sbagliate paga direttamente un costo. Nel settore pubblico l’uso di questi metodi è molto più problematico poiché spesso non ci sono sistemi efficaci per imporre un costo a chi effettua valutazioni non dettate dall’interesse comune, ma ispirate da convenienze e preferenze personali.

venerdì 16 maggio 2014

Quelle stazioni lastricate d’oro - Marco Ponti

In un viaggio da Nord a Sud Italia si incontrano diverse nuove stazioni ferroviarie. Sono spesso progettate da archistar, ma la loro funzionalità e utilità suscitano più di un dubbio. Mentre mancano del tutto controlli e sanzioni per eventuali costi impropri. Cosa farà l’Autorità dei trasporti?

IL FENOMENO DEL GOLD PLATING
Il fenomeno noto in linguaggio regolatorio come gold plating ha origini nella prima esperienza americana di regolazione economica dei monopoli naturali negli anni Trenta: quel regolatore aveva posto limiti al saggio di interesse sul capitale investito tramite il controllo delle tariffe (Rate of Return Regulation), si era generato così un ovvio incentivo a investimenti inutili, o inutilmente costosi, visto che il dispositivo ne garantiva la remunerazione. Da qui il nome.
Ma ovviamente l’incentivo a un uso inefficiente delle risorse si genera anche nel caso di finanziamenti pubblici per investimenti fatti sostanzialmente “in solido”, situazione che si verifica in Italia per le Ferrovie dello Stato. Non sembra infatti che sia in atto alcun controllo “terzo” ex-ante, né alcuna sanzione ex-post per costi impropri delle opere, se non forse per un’unica audizione parlamentare sui costi straordinariamente elevati delle infrastrutture per l’alta velocità, conclusa con la molto generica costatazione della “eccezionalità del caso italiano” rispetto agli altri paesi europei.
Ora, che il problema abbia dimensioni potenzialmente estese risulta anche da una semplice osservazione sulle stazioni Fs più recenti, fatta in termini intuitivi, mancando ognicontabilità accessibile sui costi e i ricavi aggiuntivi che quelle opere generano (una contabilità che qualsiasi privato terrebbe con estrema cura). Che poi motivazioni artistiche o “mecenatistiche” possano giustificare spesa pubblica a fondo perduto non sembra un argomento molto convincente, data l’autoreferenzialità della situazione e la totale assenza di verifiche contabili: per esempio, quanta spesa in più di quella necessaria viene giustificata con motivazioni artistiche? E d’altra parte anche l’esperienza diretta in valutazioni di questo tipo fatte all’estero da chi scrive conferma la fattibilità e l’opportunità dell’analisi per gli investimenti pubblici…


martedì 13 maggio 2014

Perché l’Expo è un grande errore - Roberto Perotti

Oggi Expo 2015 è alla ribalta per l’inconfondibile odore di Tangentopoli che emana, e per l’affanno con cui si sta avvicinando all’evento. Niente di questo dovrebbe sorprendere.
È impensabile che non girino mazzette in un affare da 14 miliardi…

venerdì 15 novembre 2013

Una seria politica per i rifugiati è possibile - Carlo Devillanova e Francesco Fasani

MIGRANTI, METAFORE RELIGIOSE E CANALI DI INGRESSO
È banale, e per questo ancora più triste, constatare che la tragedia di Lampedusa e i suoi oltre 300 morti evidenziano per l’ennesima volta il fallimento delle politiche di gestione deiflussi migratori verso l’Europa. (1) Più complessa e controversa è l’attribuzione delle responsabilità.
Il 3 ottobre 2013, mentre diventava evidente la misura della catastrofe, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, additava le responsabilità degli scafisti, invocando il presidio delle frontiere per “stroncare il traffico criminale di esseri umani”. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ipotizzava addirittura un disegno divino per attribuire la responsabilità all’Europa: “Spero che la divina provvidenza abbia voluto questa tragedia per far aprire gli occhi all’Europa” . (2) Proseguendo con le metafore religiose, e senza voler in alcun modo minimizzare il ruolo di Europa e scafisti in queste morti, sarebbe forse più efficace iniziare a rimuovere le travi che albergano nei nostri occhi, indipendentemente dal fatto che quelle negli occhi degli altri siano pagliuzze, travi o intere foreste.
Se invece passiamo al linguaggio dell’economia, dobbiamo parlare di scelte e incentivi. Su quelle barche che cercano di approdare sulle nostre coste viaggiano sia immigrati “economici” che potenziali rifugiati. I primi vengono in Europa a cercare un lavoro e migliori condizioni di vita, i secondi cercano riparo da persecuzioni personali o da conflitti. In entrambi i casi, si tratta del risultato della sostanziale assenza di plausibili canali di accesso regolare in molti paesi europei e, in particolare, in Italia.
Degli immigrati “economici” si è già detto molto, anche su questo sito. Il punto cruciale è che gli immigrati che si trovano già in Italia senza documenti hanno una probabilità di diventare stranieri legalmente residenti (grazie a sanatorie o a un uso improprio del decreto flussi) assai più elevata di chi resta nel proprio paese di origine ad aspettare la chimera di un ingresso legale. (3) Difficile stupirsi, quindi, se molti di loro decidono di venire in Italia irregolarmente, spesso rischiando la vita...