Quando alcuni giorni fa dicevo agli insegnanti partecipanti al Seminario organizzato da Libera-Roma e FLC-CGIL Lazio sulla “violenza giovanile” che la domanda fondamentale da porsi di questi tempi è se sia possibile, e come, formare i più giovani a relazioni nonviolente, in un contesto storico permeato non solo dalle guerre ma dal bellicismo, ossia l’ideologia di guerra, dilagante (mostrando anche i dati dell’aumento stratosferico delle spese militari negli ultimi dieci anni, specie in rapporto agli investimenti per l’istruzione) non potevo immaginare che appena qualche giorno dopo il neo segretario generale della Nato, Mark Rutte, avrebbe confermato clamorosamente le mie parole.
Giovedì 12 dicembre, alla Fondazione
Carnagie Europe di Bruxelles, Rutte diceva che ormai “è ora di passare a una
mentalità di guerra”, aggiungendo che non è
sufficiente l’obiettivo del 2% del Pil da dedicare alle spese militari dei
Paesi membri della Nato, ma è necessario aumentarlo
ulteriormente – nonostante essi coprano già il 55% della spesa militare globale
(a fronte del 12% della Cina e del 4% della Russi, dati SIPRI) – recuperando
ulteriori risorse a questo scopo “dalle pensioni, dalla sanità e dalla
previdenza sociale”. Rutte non è nuovo a queste dichiarazioni, se possibile più
violentemente oltranziste di quelle del suo predecessore Stoltenberg: già ad inizio dicembre aveva intimato
ai ministri degli Esteri dei paesi Nato di avere, rispetto alla guerra in
Ucraina, “meno idee su come organizzare il processo di pace” e dare “più aiuti militari”.
Un’ossessione bellicista da “cattivo
maestro” indirizzata a modificare la “mentalità” pacifista dei
popoli europei, particolarmente radicata nel nostro Paese grazie ad una
importante tradizione di educatori di pace – da Maria Montessori ad Aldo
Capitini, da don Lorenzo Milani a Danilo Dolci, da Alex Langer a Gianni Rodari
– ed all’implicita pedagogia pacifista svolta dall’Articolo 11 della
Costituzione, che nel “ripudio della guerra come mezzo di risoluzione della
controversie internazionali” ha indicato a generazioni di italiani la strada
della ricerca e della costruzione di mezzi alternativi e nonviolenti per
affrontare i conflitti. Ne sono
conferma sia il Rapporto del Censis 2024, secondo il quale circa
il 70% degli italiani è contrario all’aumento delle spese militari e il 66,3%
ritiene i paesi occidentali (Usa in testa) come “principali responsabili delle
guerre in corso in Ucraina e in Medio Oriente”, che la recente ricerca Demopolis per
la Caritas, secondo la quale l’80% degli italiani considera le guerre “avvenimenti evitabili” nei quali la
“Comunità internazionale” dovrebbe “intervenire con la mediazione politica
senza l’uso della forza”.
Quanto poi le spese militari siano già
impattanti sull’economia e la società italiane lo certifica anche la
nuova Controfinanziaria del Rapporto Sbilanciamoci che, appoggiandosi
alla metodologia dell’Osservatorio sulle spese militari italiane Milex, ne denuncia un aumento nel 2024 del 5,5%
rispetto al 2023, assestandosi a 28,1 miliardi di euro, indicando la strada
virtuosa della loro sensibile riduzione, con tagli – a cominciare da quelli ai
nuovi sistemi d’arma e ai programmi militari del Ministero delle Imprese e del
Made in Italy (!) – e risparmi che garantirebbero maggiori entrate per circa
sette miliardi e mezzo di euro, da destinare subito ai programmi di sicurezza
sociale dei cittadini. Invece, come indica Rutte, la strada già intrapresa è
quella di una gigantesca riconversione militare delle
risorse civili, all’interno della progressiva ristrutturazione di una economia
di guerra che fa esplodere gli extraprofitti dell’industria bellica.
Ma affinché questo sia politicamente
accettabile è necessario, dunque – secondo i vertici Nato – lavorare al
cambiamento radicale di mentalità dei popoli europei, rendendo non la pace, ma
la guerra e la sua preparazione legittime e auspicabili. Il
meccanismo propagandistico utile allo scopo, che da tempo è in atto anche nel
nostro Paese, non è certo nuovo ma è stato codificato anche
dal gerarca nazista Hermann Goering nel
colloquio nel carcere di Norimberga con lo psicologo statunitense Gustave Gilbert (Norimberg Diary, 1947): “Ovviamente, la gente comune non vuole la
guerra: né in Russia, né in Inghilterra e neanche in Germania. È scontato. Ma,
dopo tutto, sono i capi che decidono la politica dei vari Stati e, sia che si
tratti di democrazie, di dittature fasciste, di parlamenti o di dittature
comuniste, è sempre facile trascinarsi dietro il popolo. Che abbia voce o no,
il popolo può essere sempre assoggettato al volere dei potenti. È facile. Basta
dirgli che sta per essere attaccato e accusare i pacifisti di essere privi di spirito
patriottico e di voler esporre il proprio paese al pericolo. Funziona sempre,
in qualsiasi paese”.
Ecco, il compito dei pacifisti oggi – già
ampiamente sottoposti da governi e media alle accuse di Goering – è organizzare l’obiezione di coscienza e la disobbedienza
culturale, prima ancora che civile, rispetto a questa nuova offensiva
bellicista, affinché stavolta essa non funzioni. Ed essere buoni maestri fino
in fondo: esempi credibili, anche per i più giovani.
Nessun commento:
Posta un commento