Categoria "Scaleup"

La settimana scorsa il torpore del piccolo villaggio delle startup italiane è stato turbato dall’annuncio della chiusura di  Mosaicoon.

Ha fatto notizia, la voce si è sparsa di casa in casa e ciascuno nel villaggio ha aggiunto la sua.

Con la stessa passione e disillusione (e competenza) con cui è stata commentata l’uscita dell’Italia dal mondiale, nel villaggio si è dibattuto del caso Mosaicoon.

Il buon Ugo Parodi Giusino è passato da eroe a fellone a colpi di click. “Esperti” – che non hanno mai messo piede a Isola delle Femmine e che non hanno mai gestito aziende tecnologiche con più di cinquanta persone e/o cento mila euro di fatturato – si sono sentiti in obbligo di giudicare il suo operato imprenditoriale.

Ma queste sono le dinamiche del villaggio, del piccolo villaggio delle startup italiane.

La realtà è un’altra.

  • La notizia della caduta di Mosaicoon fa un rumore assordante perché di aziende come Mosaicoon ce ne sono poche.
    • Dai nostri dati (pubblicati la settimana scorsa) le “scaleup” in Italia sono 178 a fine dicembre. Rectius 177.
  • Le scaleup sono startup che sono cresciute. La crescita non le rende tuttavia invulnerabili. Solo dannatamente più difficili da gestire.
    • Un conto è virare una canoa con due persone a bordo, un conto è farlo con una nave da cento persone. Gli spazi e i tempi di manovra sono più ristretti.
  • Al pari delle startup, anche le scaleup falliscono perché lavorano sul fronte dell’innovazione. E per chi lavora su quello spazio, il non riuscirci è la norma.
    • Se l’80-85% delle startup non ce la fa, è ragionevole assumere che una percentuale minore ma sempre significativa delle scaleup faccia la stessa fine.
  • La differenza tra startup e scaleup è che mentre le startup falliscono, di solito le scaleup che “faticano” vengono comprate. Quindi le percentuali di cui sopra sono annacquate.
    • I nostri dati mostrano bene questo aspetto: il 71% delle acquisizioni di startup non restituisce il capitale investito. Solo il 13% delle acquisizioni di startup è veramente lucrativo per chi vende.
  • La vera notizia è che nessuno si è mosso per comprare Mosaicoon.
    • Questo è il limite sostanziale di un ecosistema (italiano ma anche europeo) ancora in ritardo, in cui le acquisizioni di startup di fatto non sono una prassi diffusa per importare talento e innovazione.

M&A Multiple Price Paid/Capital Raised

Credo che la storia di Ugo Parodi Giusino e di Mosaicoon, come tutte le storie di startup, sia una storia di coraggio e successo. Una storia il cui lieto fine non è quasi mai alla fine del film ma durante la proiezione.

L’esperienza di Mosaicoon ha comunque contributo a innalzare il tessuto imprenditoriale di una regione già ricca di talento ma ancora povera di esempi (su scala lievemente diversa vale lo stesso per l’Italia).

Per le cento persone che hanno lavorato a Isola delle Femmine così come per tutti quelli che hanno visto cosa si può fare quando si è mossi da un disegno ambizioso, questa esperienza rimarrà. E, passato il momento, questo fiume di talento corroborato da esperienza imprenditoriale si riverserà nel sistema dando luogo a tante nuove Mosaicoon. Spin-off è il termine se vi piace l’inglese. Fuoco imprenditoriale se preferite l’italiano.

Perché le startup, come le scaleup, non falliscono. Imparano e ripartono in nuove forme.

Il mondo delle startup non si addice a chi ama le storie a lieto fine.

Disclaimer: avevamo selezionato Mosaicoon nel 2015 per SEC2SV in quanto azienda in crescita con un piano di sviluppo internazionale che includeva gli Stati Uniti.

La settimana scorsa avevo pubblicato le mie riflessioni a valle degli Stati Generali sulle startup in Italia che si sono tenuti a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI.

Ne è derivata una discussione tanto ampia quanto interessante che tuttavia non traspare dalla sezione commenti del Corriere (che difatti è praticamente deserta, anche perché oggettivamente inutilizzabile – riporto in calce (*) uno dei tanti “pareri” al riguardo).

Il dibattito avviene in rete e non sui media tradizionali. Il che – di per sé – è un chiaro segnale della distanza tra questi mondi. Distanza che rende il mondo delle startup ancora per larghi tratti autoreferenziale. E inascoltato.

Per questo credo sia utile riportare qui parte delle riflessioni, per tenere il canale di comunicazione aperto con il resto del mondo, che resta rilevante ed essenziale.

Tra i diversi commenti ricevuti, riprendo quanto ha detto Mauro del Rio, fondatore di Buongiorno, una delle figure storiche dell’ecosistema italiano.

Mauro scrive:

Condivido. In sintesi:

  • per fare partire il settore servono investimenti dimensionalmente paragonabili a quelli di altri mercati, quindi due ordini di grandezza superiori ad oggi;
  • gli investimenti in startup in Italia non ritornano: per questo, e non per ragioni “sbagliate”, ci sono pochissimi investimenti privati;
  • quindi gli investimenti non possono che essere pubblici;
  • meglio se espliciti (quindi trasparenti) piuttosto che impliciti attraverso agevolazioni/tax exemption/etc. (complicati, poco trasparenti)
  • nel momento in cui come industry del venture capital chiediamo importanti investimenti pubblici, non possiamo pensare di beneficiarne direttamente a prescindere dai risultati. Quindi le fee di gestione su investimenti pubblici vanno drasticamente abbattute o azzerate (oggi sono il 2/2,5% all’anno, che sulla vita tipica di un fondo equivalgono al 20-25% del capitale messo a disposizione, valori inaccettabili per un investimento pubblico).

Che succeda tutto questo mi sembra poco probabile. Quindi tra le due ipotesi dell’articolo di Alberto (“ora o mai più”) ahimè propendo per la seconda

Mauro Del Rio

Continuiamo la discussione, anche qui. Perché il mondo delle startup serve all’Italia e al suo futuro e non può essere una nicchia separata dal resto del paese.

(*) Sotto uno dei tanti commenti provenienti dalla rete sulla utilizzabilità del blog su cui scrivo:

P.S. Alberto Onetti il sito del Corriere della Sera è scandaloso. Ero sul tuo post e continuava ad andare sulla home poi ritornava sul tuo post…avanti e indietro…mille volte…. Scrivi pure su Medium e tagga le persone chissà magari rendiamo il tutto un po’ più interattivo e forward looking

Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

Si chiama ICO, ovvero “Initial Coin Offering”. Da oggi non puoi più non sapere di cosa si tratti. Sono l’equivalente delle IPO nel boom delle dot-com o del Bitcoin nel 2015 (se non ti fosse ancora chiaro cosa sono qui trovi un buon sunto).

Le ICO sono il nuovo asso-pigliatutto del 2018. O almeno così sembra, se il buon giorno si vede dal mattino.

Lui si chiama Francesco Nazari Fusetti, è un nativo digitale, già cofondatore (ai tempi era ancora studente al liceo) della rete di ScuolaZoo, la scuola al digitale.

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Da ieri è il primo italiano a concludere, con un successo folgorante, una ICO, raccolta di fondi per AIDCoin, la prima crypto-currency nel mondo non-profit.

Ma andiamo con ordine.
Ho avuto il piacere di conoscere Francesco nel 2012, quando a Novembre viene selezionato per trascorrere qualche settimana alla nostra Startup School a San Francisco. Obiettivo: incubare la sua nuova idea imprenditoriale Charity Stars, una piattaforma sulla quale i VIP del mondo dello spettacolo e dello sport possono aiutare una causa non-profit associandole il proprio brand. Puoi comprare una maglia firmata da Pelè o seguire una gara al Mugello con Max Biaggi, vincendo un’asta i cui introiti vanno a una “buona causa”.
L’idea diventa realtà e, in pochi anni, la rete di Charity Stars cresce sia in offerte che in popolarità. Così tanto che Francesco passa buona parte del suo tempo a Los Angeles, il mondo delle star per eccellenza.
E proprio a Los Angeles viene folgorato lo scorso anno (2017) dall’opportunità rappresentata del Blockchain.

Incontro Brock Pierce, tra i guru del crypto-currency a una cena. La sera stessa compro Blockchain Revolution su Amazon” mi racconta, tra una RedBull e un’altra, quando lo contatto ieri, al termine di una giornata indimenticabile.

E così in 4 mesi, da settembre a oggi, abbiamo messo in piedi il primo progetto di moneta crypto per il mondo charity“.

La visione, concentrata in un white paper, è convincente: il mondo charity continua ad avere lacune enormi di trasparenza, specificatamente sulla tracciabilità nell’uso dei fondi. E questi sono i punti centrali della rivoluzione tecnologica decentralizzata rappresentata dal blockchain. Da quella intuizione parte la corsa forsennata per essere i primi al mondo a offrire una piattaforma e una crypto-currency proprio per il mondo non-profit.

Un po’ perché era importante arrivare prima degli altri, un po’ perché” ammette Francesco “con la volatilità del mondo crypto” (Bitcoin sale e scende più delle montagne russe) “non si sa mai come sarà il domani“.

AIDCOIN TeamMette su un team di 5 esperti di ICO, anche con il supporto del team italiano di EIDOO in Svizzera, la cui ICO aveva raccolto a suo tempo l’equivalente odierno di $83M (Etherium più o Etherium meno…). In 4 mesi girano il mondo per un roadshow che li porta dalla Cina alla Tailandia fino alla Russia (3 volte), Abu Dhabi, Bulgaria, Corea del Sud, per presentare il loro progetto a futuri potenziali singoli investitori.
La storia piace, tanto da realizzare a novembre una prevendita di token di $5M e chiudere la tanto attesa offerta pubblica ieri in meno di 90 minuti. Questo il tempo (record) necessario ad allocare sul mercato i 14333 Ether messi a disposizione. 1500 compratori da ogni angolo del mondo, per un equivalente di circa $16M.

E c’erano almeno altri $6M di richiesta che non siamo riusciti a esaudire perché “oversubscribed””.

Il mondo classico del venture è alla finestra, per un cambio di paradigma che non può passare inosservato: da giugno dello scorso anno, i capitali raccolti tramite ICO hanno ufficialmente sorpassato la raccolta attraverso  Venture Capital.

In Italia, visti i pochi VC presenti, il fenomeno ICO come forma alternativa di financing non dovrebbe influire negativamente, anzi…” replica Fausto Boni, di 360 Capital Partners, VC storico in Italia e tra gli investitori di Charity Stars.

E allora da domani tutti al lavoro per costruire la prima crypto moneta tracciabile per il funding del mondo non-profit.

Tutte le grandi organizzazioni no-profit guarderanno a noi“, assicura Francesco.

Intanto capitale e Red Bull sono assicurati.

È un po’ che siamo silenti e i nostri 24 lettori (uno in meno del Manzoni, giusto per rispetto) potrebbero essersi chiesti dove fossimo finiti.

Siamo stati sotto traccia anche perché stavamo lavorando a qualcosa che consideriamo importante.

“Chi innova non può rimanere uguale a se stesso”, siamo soliti ripetere. E questa è una regola che prendiamo seriamente.

Subito dopo il lancio della piattaforma Startup Europe Partnership al World Economic Forum di Davos (nel lontano gennaio 2014, qui il link al post di annuncio) ci siamo chiesti quale fosse il passo successivo.

E, trascorsi quasi tre anni,  abbiamo capito che per avere un reale impatto è necessario fare un ulteriore salto di rilevanza e di scala.

 

Rilevanza

Se qualche anno fa lavorare con le startup era considerato dalle aziende qualcosa di nuovo, oggi è diventato prassi comune. Un nostro recente studio mostra come la quasi totalità delle principali aziende europee abbiano programmi che coinvolgono startup. Ma non basta. La stessa ricerca evidenzia come siano veramente poche le aziende che concretamente lavorano con le startup (dove per “concretamente” intendiamo accordi commerciali e partnership strategiche, non iniziative con finalità principalmente di marketing). In altre parole:

Sempre più aziende parlano di startup, ma poche ci lavorano concretamente.

Nella nostra esperienza di lavoro con alcune delle ultime abbiamo verificato come i risultati arrivino quando c’è un commitment serio dal vertice. Solo in questo modo lavorare con le startup diventa “everyday job” per l’organizzazione.

Per questo motivo abbiamo lavorato per aumentare la visibilità sul tema startup ai vertici delle aziende. I “SEP Europe’s Corporate Startup Stars Awards”, di cui abbiamo organizzato la seconda edizione lo scorso 18 dicembre a Brussels, sono un esempio al riguardo. Al di là dell’obiettivo di premiare e dare un giusto riconoscimento a chi sta facendo bene, è stata l’occasione per riunire per mezza giornata i vertici di 36 aziende e discutere circa priorità e linee di azione. Ai massimi livelli, che sono poi quelli che contano per fare succedere le cose.

Scala

Il lavoro fatto con i Matching Event di Startup Europe Partnership in questi tre anni ha permesso di “sporcarci le mani” e sperimentare vari format. Avere organizzato oltre 20 matching event internazionali, coinvolgendo oltre 500 startup e 50 aziende da tutta Europa, ci ha consentito di capire ne profondo cosa funzioni e soprattutto cosa non funzioni. Ma soprattutto abbiamo accumulato una quantità importante di dati sui reali tassi di successo nell’interazione tra imprese e startup – che si attestano tra il 2 e il 5% – e sui tempi richiesti per realizzarli – tra i 6 e i 18 mesi, mediamente.

I dati dicono che degli incontri tra startup e impresa meno di uno su venti si traduce in risultati.
E, quando succede, ci vuole oltre un anno per trovare un accordo.

Perciò, oltre a lavorare sulle “best practice” per produrre più risultati (qui una analisi), ci siamo resi conto che dovevamo aumentare i volumi. Di qui, il format rinnovato di Startup Europe Partnership per il 2018 e 2019 (lo abbiamo chiamato 2.0 per marcare il cambiamento) che, tra le altre cose, ruoterà intorno a momenti di aggregazione più ampi e intensi. 4 grandi Scaleup Summit durante i quali riunire, rigorosamente a porte chiuse, il meglio del mondo delle scaleup (le startup early stage non sono generalmente un buon match per le imprese), delle imprese e della finanza (circa 150 entità in tutto).

I Summit avranno due caratteristiche:

  • Saranno ospitati presso le grandi borse europee che sono l’altro grande anello mancante (i dati ci dicono che solo il 2% delle scaleup europee ha accesso al canale di borsa e che le grandi IPO avvengono oltre oceano).
  • Avranno dimensione internazionale, coinvolgendo scaleup, imprese e investitori da tutta Europa. Perché uno dei limiti principali di molte iniziative per startup è il loro carattere locale o nazionale, all’interno di un mondo molto più vasto.

La dimensione naturale del mondo delle startup è quella internazionale.
Iniziative di respiro locale non hanno molto senso.

Questo è quanto ci ha tenuto impegnati nell’ultimo periodo. Questo è quanto abbiamo annunciato a Brussels il 18 dicembre alla presenza del mondo delle imprese e della Commissione Europea. Alla fine i risultati – e solo quelli – ci diranno se stiamo procedendo nella giusta direzione.

La buona notizia per l’Italia è che il primo Summit sarà organizzato presso la Borsa Italiana il 15 e 16 marzo prossimi. Questo è il nostro piccolo regalo di inizio anno per il nostro Paese in cui continuiamo a credere, come dieci anni fa quando il ponte di Mind the Bridge ha visto la luce.

Alberto Onetti e Marco Marinucci

Caro Ferruccio,
abbiamo letto con attenzione il tuo editoriale e ne condividiamo i messaggi principali.

Sono passati cinque anni, forse anche qualcuno in più (se ti ricordi, il primo Venture Camp ospitato da te in Sala Buzzati al Corriere della Sera risale al 2009), e grandi risultati all’orizzonte non se ne intravedono.

L’unica certezza (provata dalla nostra ultima ricerca “Scaleup Europe” di cui a dicembre pubblicheremo il focus sull’Italia) è che il nostro paese ha un gap spaventoso con il resto dell’Europa, senza scomodare Stati Uniti e Silicon Valley.
Non solo nei confronti del Regno Unito, di gran lunga, la locomotiva dell’innovazione in Europa (hanno oltre 10 volte più scaleup di noi), ma anche di Francia e Germania. E, se confrontiamo le dimensioni relative, l’Italia batte il passo anche nei confronti dei paesi scandinavi e di paesi come Belgio, Olanda e Portogallo.

I dati riflettono un’evidenza: siamo partiti tardi e andiamo troppo piano (i dati sugli investimenti che menzioni scoloriscono non solo di fronte al piano Macron, ma anche nei confronti di quanto fatto dalla Francia con Hollande e dalla stessa Spagna).

Però, c’è un però. Che va considerato prima  di buttare via, con la tanta acqua sporca, il bimbo startup nostrano.
Il però è che siamo partiti.

Dietro alla moda, alle dichiarazioni di facciata, ai programmi di marketing di alcune aziende, ai convegni, c’è una Nuova Italia che (pian piano) avanza e inizia a produrre i primi risultati in termini di scaleup, termine strano che usiamo per separare dalle intenzioni di impresa quelle che incominciano a produrre risultati tangibili, ossia occupazione, fatturato e crescita. Dietro ai pionieri Octo Telematics, 7 Pixel, Funambol, Decisyon ci sono ora società come Moneyfarm, Musement, Facility Live, Mosaicoon, Cloud4Wi, Satispay, BeMyEye, Shopfully, Beintoo e Buzzooleche si stanno affermando a livello internazionale.

E dietro a queste, ci sono energia e aria nuova. Che si respira non solo nelle grandi città (la diatriba tra Roma e Milano è stucchevole quanto inutile), ma anche e soprattutto nella provincia, al Sud e nelle Isole. Vediamo questa energia nei ragazzi che arrivano da ogni parte di Italia per partecipare alla nostra School a San Francisco e che non hanno problemi a confrontarsi in inglese con startup di tutto il mondo. Sono sempre di più e sono sempre più motivati e sempre meno propensi a lamentarsi su cosa manca in Italia ma pronti a rimboccarsi le maniche e fare succedere cose (o almeno a provarci).

Questa è la base su cui costruire una nuova Italia. Base che sta emergendo da questa generazione, dopo che le generazioni precedenti avevano – non sappiamo esattamente perché – smarrito la tensione imprenditoriale.

Ma non aspettiamoci da questa base di vedere crescere grattacieli se non buttiamo cemento in quantità. E il cemento si chiama venture capital, merce quanto mai rara alle nostre latitudini.

Ad maiora (almeno si spera),
Alberto Onetti e Marco Marinucci

Per una settimana l’Europa farà base in Silicon Valley. Per capire, confrontarsi, discutere.

Lo farà con una delegazione – quella di Startup Europe Comes to Silicon Valley (SEC2SV) – composta da 100 persone da oltre 20 paesi.

Una delegazione improntata alla diversità e con una forte anima italiana (oltre a quella di Mind the Bridge che organizza SEC2SV su mandato della Commissione Europea con il supporto di EIT Digital).

Ne faranno parte 15 scaleup (ossia startup già “cresciute” e in rapida espansione, in media cinque milioni di fatturato e oltre cinquanta addetti) selezionate attraverso una call europea (Beintoo e Buzzoole, le due italiane scelte quest’anno, cui si aggiunge la britannica Primo fondata dall’italiano Filippo Yacob).

Ma anche aziende più strutturate (dal Bel Paese si contano FacilityLive, Creactives, Domec, Nearit e Checkout Technologies, la nuova creatura di Enrico Pandian, fondatore di Supermercato24) e investitori.

E soprattutto il mondo della politica, perché è fondamentale che chi è chiamato a regolare comprenda come stanno evolvendo tecnologie e mercati: la Commissione Europea (la missione è quest’anno guidata dal Commissario Věra Jourová), il Parlamento Europeo (tra cui gli italiani Brando Benifei e Flavio Zanonato),  tre segretari di stato, regioni (Bavaria, ma anche Sardegna ed Emilia Romagna).

Ad attenderli una settimana intensa di confronto e di incontri ad altissimo livello.

Si parte oggi con un Policy Hack: lo spirito di innovazione creativa proprio degli hackathon verrà applicato per trovare soluzioni regolamentari in ambiti quali Open Data, Fintech, Enterprise Data Transfers, Smart Cities. I risultati verranno ridiscussi a novembre a Tallinn in Estonia durante lo Startup Nations Summit (SNS).

In serata tavola rotonda con Věra Jourová, Commissario Europeo alla Giustizia, Tutela dei Consumatori e Pari Opportunità.

Martedì workshop presso Google e LinkedIn per discutere i rischi associati alle nuove tecnologie (“fake news”), ma anche per comprendere come le stesse possano aumentare il “civic engagement”. Nel pomeriggio analisi dello stato ed evoluzione delle relazioni politiche e barriere regolamentari tra Stati Uniti ed Europa presso K&L Gates.

Mercoledì è il giorno dell’European Innovation Day, la conferenza che si è affermata negli ultimi anni come il momento di confronto tra Europa e Stati Uniti in Silicon Valley. Attese oltre 500 persone nella cornice del Computer History Museum di Mountain View: sul palco si alterneranno speaker del calibro di Steve Westly (già direttore finanziario della California e in corsa per la poltrona di governatore) e Oona King (baronessa inglese oggi chiamata da YouTube  per gestire il tema spinoso della parità di genere). Verrà anche presentato il recentissimo rapporto sulle acquisizioni di startup, prodotto da Mind the Bridge e Crunchbase con il supporto dello studio legale Orrick.

In parallelo per le 15 scaleup una tre giorni di “cura steroidea”: nella cornice del Mind the Bridge Innovation Center, da domenica a martedì, verranno infatti sottoposte a un intenso mentoring da parte di imprenditori e investitori della Silicon Valley (del livello di Sukhinder Singh Cassidy, una delle prime GM di Google e tra le donne più influenti della valle) oltre che supporto 1:1 su tematiche legali (IP, visa, apertura di una sede negli Stati Uniti, …). Per loro mercoledì mattina ci sarà un “Investor Summit” dedicato e a porte chiuse, all’interno del quale incontreranno venture capital della Bay Area.
Giovedì e venerdì ulteriori incontri presso imprese (quali Microsoft, VMware, …) e investitori (come Andreessen Horowitz), ma anche outpost di aziende europee (Orange, Capgemini…) e università (Berkeley).

Per una totale immersione nelle diverse componenti dell’ecosistema della “Valle del Silicio”.

sec2sv cocktail party

SEC2SV Welcome Cocktail presso l’Americano di San Francisco

Quella appena trascorsa è stata una settimana sofferta per la Silicon Valley. Da Newsweek a TechCrunch fino al Washington Post diversi esponenti del mondo dell’innovazione in questi giorni hanno infatti rimesso in discussione la centralità e la rilevanza della Silicon Valley. Per chi se lo fosse perso, Scott Alexander ne ha parlato ampiamente qui, riportando un po’ tutte le posizioni in gioco. 

Tutto nasce dalla notizia del finanziamento di circa $120M a Juicero, startup impegnata a realizzare una nuova generazione di dispositivi di spremitura a freddo di frutta e verdura, immancabilmente connessi al Wi-Fi ed equipaggiati di lettore QRCode, il tutto corredato di consegna a domicilio dei “produce pack”. Dai 5 agli 8 dollari il costo delle singole bustine, 400 dollari il prezzo del macchinario. Un bell’investimento per una sana e fresca spremuta a domicilio. Peccato che Bloomberg, durante un test, abbia dimostrato di poter ottenere lo stesso quantitativo di bevanda semplicemente “strizzando” le bustine con la mani. 

E il resto della storia è facilmente immaginabile. 

I commenti scaturiti sono stati sferzanti (il titolo del Washington Post non a caso recita “Juicero shows what’s wrong with Silicon Valley thinking”) e c’è chi addirittura ha ripreso a chiamare la Bay Area la “Silly-Con Valley”, espressione che dice già tutto sulla sua capacità di creare innovazioni realmente rilevanti. 

Sullo stesso tema si è espresso anche un Venture Capitalist europeo di Creandum, Carl Fritjofsson, segnalando che, se fino a poco tempo fa la Silicon Valley era considerata la Hollywood della tecnologia (“If you’re an actor, you go to Hollywood. If you’re in tech, you go to Silicon Valley”), oggi ci sono tanti hotspot rilevanti in altre parti dal mondo, dall’Europa a Israele fino alla Cina, dove si stanno affermando role model di innovatori che hanno trovato il successo al di fuori della Bay Area.

Si comincia quindi a porre sul piatto l’eventualità di una “ridistribuzione della centralità”: lo stesso Carl Fritjofsson sostiene che “Silicon Valley has peaked”, ovvero “sta scollinando”.

Nella realtà dei fatti, tuttavia, la Silicon Valley, per quanto possa aver già toccato l’apice, continua a restare sempre un passo avanti rispetto a tutti gli altri hub del mondo. La distanza tra la vetta Silicon Valley e le altre cime resta siderale. Per una serie di ragioni: 

se anche è vero che la Silicon Valley finanzi talvolta innovazioni che non cambiano la storia del mondo, tuttavia è lì che si continua a investire in alcune innovazioni che hanno (e stanno continuando) a cambiare il mondo

il mercato M&A, grande motore che muove tutto la ruota degli investimenti in startup, in SV è di un’altra categoria: il rapporto tra acquisizioni in Silicon Valley e acquisizioni in Europa è di 5:1, come abbiamo riportato nella nostra ricerca condotta con CrunchBase lo scorso settembre che stiamo aggiornando proprio in questo periodo.

E questo ultimo punto dice tanto se non tutto. Perché si sa: nello startup game “no exit, no party”. 


Il BTW di Alberto Onetti
Commenti su startup, innovation, scaleup, entrepreneurship dal Chairman di Mind the Bridge.

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La matematica delle startup è abbastanza semplice. Si fonda su due assiomi:

  1. Qualunque azienda esistente, grande o media o piccola, leader o meno, domani non starà in piedi con il business e i margini con cui campa oggi.
  2. Le sacche di marginalità delle imprese esistenti saranno saccheggiate dalle startup. Queste ultime sono i nuovi barbari, i portatori di “disruption”.

 

A valle di questi due assiomi, due principi di comportamento:

  1. Se sei una azienda, grande o media o piccola, leader o meno, pensa a cambiare e a innovare, prima che sia troppo tardi. Non necessariamente facile, ma rimandare o ignorare il problema è la ricetta per scomparire.
  2. Se sei una startup, vai all’attacco, anche se statisticamente è altamente improbabile che possa tu essere il “disruptor”: di 100 startup avviate, 85 circa muoiono in fase seed o early; di quelle che trovano capitali, un buon 60% non va da nessuna parte; si contano sulle dita di una mano quelle che riescono a raggiungere risultati rilevanti (e per quelle di norma non girano un film).

 


 

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Pochi giorni fa una giornalista di Hong Kong, durante un’intervista, mi ha chiesto:

Che differenza c’è tra startup e scaleup?

La domanda mi ha preso un po’ alla sprovvista. Ho iniziato a darle dei parametri. Le scaleup si distinguono dalle startup per:

  • capitale raccolto (come SEP identifichiamo la soglia a un milione di dollari)
  • fatturato (le startup sono prevalentemente “pre-revenue” o con fatturati minimi, mentre le scaleup devono produrre volumi di ricavi in grado di portarle al break-even o al profitto)
  • dipendenti (le scaleup hanno di solito una forza lavoro che va oltre il gruppo dei founder)

Ma a un certo punto mi sono fermato. E le ho detto che la domanda aveva poco senso.

Startup e scaleup non sono la versione moderna delle piccole e grandi imprese.

Non ci sono piccole startup e grandi startup. Ci sono startup che trovano una propria strada (business model scalabile) e crescono diventando scaleup. E ci sono startup (la maggioranza) che non trovano questa strada e si dissolvono (“crash and burn” nel gergo anglosassone).

Le startup che non crescono e diventano scaleup semplicemente chiudono.

Il mondo delle startup è binario. O cresci o chiudi. Non c’è spazio per soggetti di nicchia.

Perché una startup è fatta per crescere, non per restare piccola.


Il BTW di Alberto Onetti
Commenti su startup, innovation, scaleup, entrepreneurship dal Chairman di Mind the Bridge.

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