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Per una azienda avere un punto di presenza stabile in Silicon Valley è importante: oltre a permettere di intercettare i trend tecnologici e di mercato può permettere sia di accelerare lo sviluppo di prototipi e di business model innovativi che di identificare partner strategici con cui avviare accordi commerciali o fare investimenti/acquisizioni.

Molte grandi aziende hanno un “innovation outpost” nella Bay Area: da punti di presenza molto leggeri (quelli che definiamo “Innovation Antenna” o “Corporate Venture Capital Office“, ossia piccoli gruppi fino a 3 persone spesso ospitati in spazi di coworking o innovation center) a forme più strutturate (“Innovation Lab” e “Innovation R&D Center” che vanno da decine  a centinaia di persone).

Mind the Bridge ha oggi presentato a San Francisco una nuovissima ricerca che risponde a una domanda che in tanti si pongono: quante e quali aziende europee sono realmente presenti in Silicon Valley?

Qui il link per avere accesso al Report che include la lista delle aziende del Vecchio Continente e le persone di contatto per ciascuna.

Di seguito vi riassumo i fatti principali.

  • Quante? Sono 44 le aziende europee che hanno un innovation outpost in Silicon Valley (abbiamo incluso solo quelle che hanno almeno una persona full-time in loco; non sono considerati insediamenti con funzioni esclusivamente produttive e/o commerciali).
  • Quando? Il fenomeno è in crescita: circa il 60% degli outpost è stato avviato dopo il 2010. Oltre un terzo negli ultimi 3 anni.
  • Quali paesi? Germania e Francia guidano il gruppo degli innovation settler. Quasi il 65% degli outpost è stato creato da aziende di questi due paesi. Il regno Unito segue a distanza (11%), mentre i rimanenti 11 outpost rappresentano 6 paesi (Italia, Spagna, Svezia, Svizzera, Olanda e Finlandia).
  • Che settori guardano con maggiore interesse alla Silicon Valley? Automotive, Telecom, Finanza ed Energia sono quelli più rappresentati.
  • Come in Silicon Valley? Le forme scelte sono diverse come spiegato sopra. Quasi metà delle aziende ha optato per una presenza lean (Corporate Innovation Antenna e/o a Corporate Venture Capital Office). L’altra metà ha scelto modalità più strutturate come i Lab e gli R&D Center.
  • E l’Italia? Come detto, l’Italia è presente, sia pure in misura non comparabile a Germania e Francia.  A Luxottica che si è insediata lo scorso anno con un team piuttosto numeroso si è aggiunta ieri Enel. A queste si unisce Unipol che è molto attiva nella Bay Area attraverso la propria partnership con Mind the Bridge. E il nuovo Console Lorenzo Ortona (supportato da Alberto Acito del MISE) è determinato ad ampliare gli spazi di atterraggio per imprese italiane in Silicon Valley. Quindi attendiamoci traffico sul ponte tra Italia e San Francisco.

EU Corp Outposts in SV

Qualche settimana fa Startup Europe Partnership (SEP) ha pubblicato il primo quadro di comparazione dell’ecosistema europeo delle startup visto da una prospettiva un po’ diversa dal solito. Non quella delle partenze (numero di startup, incubatori, acceleratori, …) ma quella degli arrivi (le cosidette “exit”) e di chi sta effettivamente viaggiando e facendosi strada (le “scaleup” e gli “scalers”, ossia le startup che crescono dimensionalmente).
Analisi – va detto – ancora parziale (difficile avere dati esaustivi su un universo in così forte evoluzione) e limitata sia geograficamente (solo cinque paesi per ora mappati, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna) che settorialmente (si concentra per ora sull’ICT, ossia le nuove tecnologie della informazione e comunicazione.

Cosa emerge dai dati? Come di consueto mi limito ad alcuni rapidi commenti, rimandando al report – SEP Monitor è scaricabile qui – per un’analisi più completa.

Il Regno Unito fa gara a parte. Delle 990 scaleups mappate nei cinque paesi 399 vengono da lì. Il doppio di Germania (208) e Francia (205), oltre quattro volte Spagna (106) e Italia (72).

Al di là del numero delle scaleups, il Regno Unito è soprattutto avanti per la quantità di capitali che è riuscita a mettere a loro disposizione. Oltre 11 miliardi di dollari ($11.1B), quasi due volte quanto investito in Germania ($6.6B), quattro volte la Francia ($3.1B), sei volte la Spagna ($1.8B) e quasi trenta volte l’Italia ($0.4B).

È in particolare sull’accesso delle startup al mercato di borsa che il Regno Unito stacca tutti. 12 startup quotate e soprattutto quattro miliardi raccolti attraverso il canale borsistico, il doppio di quanto tutti gli altri paesi hanno fatto messi insieme.

Dati simili, con differenze ancora più marcate, se restringiamo la analisi agli scalers, ossia le startup che hanno raccolto oltre 100 milioni di dollari. Dei 38 mappati, la metà (19) vengono dal Regno Unito, la Germania si ferma a 9, la Francia a 6, la Spagna a 3, l’Italia non è pervenuta.

Come leggere questi dati? Sembrerebbe che Italia ne esca con le ossa rotte. Quinta su cinque paesi. E temo che nel prossimo report, quando mapperemo anche i paesi nordici, scalerà di altre posizioni.

Rendiamocene conto: l’Italia non è più (da tempo) una delle locomotive dell’innovazione europea. I treni sono partiti tempo fa e noi eravamo in altre vicende affaccendati. Eravamo impegnati a discutere su come cambiare tutto senza però cambiare nulla. Discussioni che ahimè non mi sembrano ancora concluse.

Però vedo una luce in fondo al tunnel. Mentre, a livello di sistema paese, eravamo presi in interminabili discussioni, dal basso c’è chi ha iniziato a fare.E ha prodotto risultati significativi. È il popolo delle startup, degli innovatori, degli investitori. È il popolo di chi fa e non passa le giornate a dibattere su cosa gli altri dovrebbero fare. È un popolo silenzioso e operoso che collabora e crede in chi prova a fare. È un popolo che sta in silenzio raccogliendo sempre più adepti. È il popolo che cambierà l’Italia e ci riporterà lentamente in alto nelle classifiche che oggi ci vedono impietosamente nella parte destra del tabellone.

Quindi come leggere i dati?

Siamo indietro perché siamo partiti in ritardo rispetto agli altri paesi e senza supporto istituzionale. Mi sarei stupito del contrario.

Nonostante tutto stiamo giocando la partita. Con il tempo e, magari, con un po’ più di supporto istituzionale – il lavoro che stanno facendo i vari Luna, Firpo, Corbetta, Fusacchia è encomiabile – recuperemo le posizioni perdute. Il lavoro è l’unica strada percorribile.

C’è una luce in fondo al tunnel. E non è un treno che ci sta venendo incontro.

 

Ieri sera sono  stato invitato a partecipare al ricevimento che il Presidente francese Hollande ha dedicato alla tre giorni di “La French Tech” e “Web Investor Forum“. La Francia ha quindi aperto le porte dell’Eliseo alle startup, ribadendo ufficialmente la centralità di questo tema per il presente e futuro dell’economia francese.

In parallelo, le startup inglesi erano accolte dal Primo Ministro David Cameron al numero 10 di Downing Street per la UK Tech Reception.

E l’Italia? L’Italia ha paradossalmente l’opportunità storica di fare molto di più per le startup. Difatti, il prossimo 8 luglio, l’Italia inagurerà ufficialmente con Digital Venice il semestre di presidenza del Consiglio Europeo a Venezia.

E, dopo gli imbarazzi organizzativi, l’Italia sembra sia determinata a cogliere questa opportunità.

Uno dei cinque workshop tematici si chiamerà Startup Europe! e sarà dedicato a identificare le priorità e le linee di intervento per sostenere la crescita del fenomeno startup in Europa.

Perché è importante? Perché è la prima volta in assoluto che, nell’agenda di un evento sotto l’egida dal Consiglio Europeo, viene dato spazio al mondo delle startup. Quindi da Venezia arriva un segnale (politico) forte per il mondo delle startup. Un segnale che sarà ancora più forte se il tema delle startup sarà anche incluso nella Venice Declaration, la dichiarazione che verrà presentata nel prossimo incontro dei Capi di Stato e di Governo a Novembre.

Le startup sono abituate ad arrangiarsi e risolvere i problemi da sole. Ma, per fare il definitivo salto di qualità nel Vecchio Continente e recuperare i gap che ci separano non solo dagli Stati Uniti ma anche da altri paesi (rimando ai dati pubblicati martedì), è necessario che la politica (buona) scenda in campo al loro fianco.

Ieri, a Parigi e a Londra, due paesi hanno mostrato, ai massimi livelli istituzionali, disponibilità di ascolto e supporto. A luglio, a Venezia, c’è la possibilità, da parte dell’Italia, di rilanciare il messaggio a livello europeo. L’inclusione del tema delle startup nella Venice Declaration darebbe un segnale forte e inevequivocabile che l’Europa ha deciso di puntare (sia pure con ritardo) su startup e innovazione per il proprio rilancio.

Sono certo che il Presidente Renzi non si farà sfuggire l’occasione.

Ho rivisto Michele Garufi tre settimane fa ad Heathrow all’imbarco per gli Stati Uniti. Ci eravamo ripromessi di sentirci e,all’indomani dell’annuncio della acquisizione di Eupharmed da parte di NicOx, ho pensato che fosse il momento giusto per farlo.

Michele è fondatore e CEO di NicOx, azienda biotecnologica italo-francese. NicOx è stata fondata da un team italo-americano (Michele Garufi, Piero Del Soldato, ed Elizabeth “Betsy” Robinson) nel 1996 (la leggenda dice che l’idea sia nata nella cucina milanese di Betsy Robinson, una sorta di risposta italiana ai garage della Silicon Valley). Nicox sembrava avviata al lancio del prodotto (Naproxcinod) sul mercato quando la FDA, nel luglio del 2010, ha comunicato la mancata approvazione del farmaco. Da lì, tuttavia, l’azienda è riuscita a risollevarsi riposizionandosi con successo sul mercato oftalmico.

Michele, NicOx è un esempio di come fare impresa in ambito biotech sia estremamente rischioso. Tre anni fa, quando ti avevo intervistato (qui il link), avevi definito il biotech come le “Space Mountains di Dysneyland” dell’industria. Anche il progetto NicOx si era arenato a pochi metri della linea di arrivo. Ci spieghi cosa non è funzionato?

Direi piuttosto che “sembrava essersi arenato a pochi metri dalla finishing line”…  ma ho imparato dallo sport che fin quando non hai finito la gara non puoi mai dire se hai vinto o perso e bisogna lottare fino all’ultimo metro! Quello che ci è successo  è comunque capitato a tantissime società di ricerca ed anche a tante multinazionali. Per noi è stata molto dura perchè riteniamo che la mancata approvazione del nostro farmaco per il trattamento dell’artrosi non sia stata dovuta a dei problemi intrinsechi alla nostra molecola – che del resto era entusiasticamente supportata da tutti gli opinion leaders – ma piuttosto da una non chiara e continua interazione con le autorità regolatorie, che ci ha indotto a non sviluppare e studiare la molecola come invece avremmo dovuto e potuto fare.

Quanti capitali avevate raccolto (ed investito) nello sviluppo del prodotto fino a quel momento?

Tra il 1996 e il 1998, prima della quotazione in borsa, 10 milioni di dollari, all’IPO 30 milioni  di euro, successivamente (tra il 2001 e il Dicembre 2009) circa altri 225 milioni di euro (tra follow-on offering, PIPEs , rights issue, escludendo i 25 milioni di euro di secondario nel 2001 per i VCs). Come vedi quasi 300 milioni di euro, un bel po’ di soldi. A questi devi aggiungere i circa 90 milioni di euro che abbiamo incassato dai vari partners farmaceutici (Astra Zeneca, Merck, Pfizer, Bausch+Lomb, etc ) per accordi di licenza sui nostri prodotti e la nostra tecnologia.

Nicox però è stata in grado di fare “pivoting”? Come è nata quella decisione?

Dalle sconfitte e dalle cattive esperienze si deve sempre, piuttosto che abbattersi, trarre insegnamenti e ripartire … per fortuna la nostra piattaforma di ricerca aveva altri canali interessantissimi e le nostre finanze erano solide …  dopo un periodo di valutazioni attente con il CdA , il management e i principali azionisti, abbiamo deciso per vari motivi – di mercato, scientifici , finanziari – di rifocalizzarci nel campo della oftalmologia, settore con una prospettiva di crescita (sia pan-europea che sul continente americano) e che ha “bisogno” di nuove aziende innovative e di medie dimensioni. Noi, con una realtà e presenza internazionale, potevamo giocarcela da protagonista. E la bontà della nostra scelta sarà definitivamente sancita nel 2016, quando metteremo sul mercato USA un nostro farmaco per il glaucoma (in sviluppo con Bausch+Lomb).

Come rivedi la tua esperienza con NicOx oggi?

Entusiasmante, senz’ombra di dubbio, sotto tantissimi aspetti, anche se costellata da momenti di tensione e scoramento come quando la FDA  ha bocciato il nostro farmaco. Ma pensare di essere partiti da delle idee e dai nostri pochi soldi personali di co-fondatori ed arrivare ad avere un farmaco sul mercato statunitense per un’indicazione così nobile come il glaucoma mi rende orgoglioso. Sarebbe il coronamento di una carriera professionale.

Avete annunciato l’acquisizione di Eupharmed. Quali i motivi?

La nostra strategia di espansione europea si basa sul lancio di nuovi prodotti che provengono sia della nostra pipeline di ricerca che da accordi di licenza (in genere con società statunitensi). Talvolta, se in certi paesi sono disponibili aziende con un fatturato e una rete commerciale pre-esistente, ne valutiamo l’acquisizione per avere una più rapida penetrazione del mercato locale. Questo è stato il caso di Eupharmed.

Che valutazione? Dai numeri che ho visto il prezzo è di circa una volta il fatturato? Quanto peserà l’earnout?

La valutazione (3,5 milioni di euro) è stata fatta col supporto di una Banca franco-americana specializzata nel settore (Michel Dyens & Co.). Il fatto che l’azionista di Eupharmed (il Gruppo Petrone di Napoli, esperto del nostro settore) abbia scelto di vendere il 100% del capitale su una base di scambio di azioni Nicox dice molto della fiducia sul nostro piano di crescita. L’earn-out puo’ “pesare” fino a 2.4 milioni di euro (ma sempre in nuove azioni Nicox da emettere al momento del pagamento eventuale dell’earn-out).

Che piani di integrazione ci sono?

Molto semplici. La struttura di Eupharmed è perfettamente sinergica alla nostra e quindi non si prevede riduzione di organico, cosa a cui sia io che il Presidente di Eupharmed teniamo molto, considerando il momento difficile in cui si trova il nostro Paese.

Che consigli daresti ai neoimprenditori in ambito biotech?

Prima di tutto ascoltate e chiedete consigli a chi ha già avuto esperienze, soprattutto per imparare dagli errori che tutti inevitabilmente facciamo. E poi siate:

1) tenaci ma realisti

2) concreti e focalizzati sui vantaggi mirati del vostro farmaco o strumento diagnostico rispetto a quelli già esistenti

3) oculati nell’investire e prudenti nei tempi di realizzazione del progetto (alla fine ci si mette sempre più tempo e si spende di più del previsto per portare a termine un percorso di sviluppo, ma se si è attenti si riescono ad evitare errori dolorosi)

4) da ultimo, affrontate il percorso con entusiasmo, passione e senso etico.

E la storia di NicOx ci mostra come, alla fine, i risultati arrivino.

Per chi volesse saperne di più, NicOx sarà uno dei casi che sono analizzati nel mio nuovo libro (Business Models for Life Science and Biotech Companies) che uscirà con Routledge a febbraio negli Stati Uniti e a marzo in Europa.

Questo weekend ho avuto il piacere di intervistare Philippe Gluntz, un altro degli speakers del Mind the Bridge Venture Camp che si terrà la prima settimana di novembre a Milano (8-9 novembre, Corriere della Sera).

Philippe è stato tra i co-founder di GSI (che, con oltre 500 milioni di fatturato, è diventata l’azienda leader in Europa  nel campo dell’outsourcing delle risorse umane ed è stata venduta ad ADP con un  multiplo di 27 volte dopo otto anni dal LBO) e  COO di Alcatel (dopo aver gestito il mega merger di Alcatel France con ITT telecommunications). Abbandonata l’attività manageriale a 62 anni, si è trasformato in un Business Angel: ad oggi ha investito in 22 start-ups e 5 Venture Funds (è stato decretato come il miglior  BAN in Francia per 5 anni). Ora Philippe è Presidente di Paris Business Angels e di BAE (Business Angels of Europe,  la associazione che riunisce i business angels europei).

In attesa di incontrarlo di persona a Milano, gli ho anticipato qualche domanda.

Philippe, come vedi il mondo startup in Europa? Quali paesi sono più attivi? Come si posiziona l’Italia?

C’è un forte fermento di startups in tutta Europa, specialmente in Regno Unito, Germania e Francia. L’Italia è un pò più indietro ma la nuova regolamentazione che avete lanciato in questi ultimi due anni sembra poter aiutare a recuperare il ritardo.

Come la crisi attuale sta impattando gli investimenti ?

La crisi della finanza pubblica ha ridotto i fondi a disposizione. Fare fund raising è più difficile (in Francia gli investimenti in venture capital sono calati del 50% quest’anno). Inoltre in Francia sono stati ridotti gli incentivi fiscali per chi investe in aziende innovative.

Qual è il tuo giudizio sul crowdfunding?

Il crowdfunding potrebbe portare ad una disintermediazione degli investimenti. Ma la “equity part” del crowdfunding è al momento ancora limitata (sono prevalenti altri modelli di crowdfunding) e bisogna vedere come i diversi regolatori nazionali decideranno di disciplinarla, visto il profilo di rischio associato a questi investimenti. I Business Angels devono continuare a fare il loro mestiere ma essere disponibili a valutare modelli di “co-investment” con electronic crowdfunding platforms.

 Cosa non ti piace delle tante startup che si presentano a te in cerca di capitali?

Troppe «me too», ossia imitazioni di aziende di successo senza grandi elementi di differenziazione.

Qual è l’errore tipico di un angel investor?

Ci si eccita troppo di fronte all’idea senza dedicare il giusto tempo a fare una seria due diligence dell’azienda e soprattutto del team. Quest’ultimo è chiave, visto che nella stragrande maggioranza dei casi le startup non riusciranno a dare esecuzione al proprio progetto di business. E se il team non è di qualità, non c’è speranza di fare pivoting, ossia di aggiustare il tiro.

Quali sono gli investimenti in cui hai avuto i maggiori ritorni?

Sono riuscito a fare 5x in due anni con una IPO in ambito cleantech (senza revenue).

E quello peggiore?

Di quelli ce ne sono purtroppo tanti. 8 dei miei 22 investimenti sono andati a gambe all’arie e altri si aggiungeranno alla lista. Per altri ci sono potenzialità, ma la exit è ancora lontana.

Quale messaggio vuoi lasciare agli angels italiani? 

Passate tanto tempo con il team per capire se c’è reale disponibilità all’ascolto. Se stanno solo cercando il tuo denaro, meglio lasciarli andare.

Potete incontrare Philippe  il prossimo 8 e 9 novembre al Mind the Bridge Angel Investing Global Forum. Di seguito i link all’agenda e per le iscrizioni.


E’ di questa settimana la notizia (Le Monde, TechCrunch, da noi ripresa dal bravo Luca Annunziata e da Stefano Montefiori sul Corriere) che il governo francese ha di fatto bloccato la trattativa per l’acquisto di Dailymotion da parte di Yahoo!.

Dailymotion è un’azienda francese per la condivisione di video (la risposta transalpina a YouTube, con le dovute differenze, visto che vanta 100 milioni di utenti unici al mese contro il miliardo del colosso marchiato Google) di proprietà di France Telecom che a sua volta è partecipata al 27% dallo stato francese.

Di fronte alla offerta di acquisto da parte di Yahoo! (si parla di 200/300 milioni di dollari) è arrivato il veto del governo francese: “Dailymotion è una delle rare aziende francesi che ha avuto sucesso sul Web negli anni recenti. È una gemma, non è in perdita, deve restare francese”, questa la motivazione del diniego. L’unica apertura di disponibilità era relativa ad una joint venture, cosa che non interessa Yahoo!.

Quindi un nulla di fatto che, al di là dell’episodio specifico, riapre il dbattito su un tema più grande su cui ci siamo spesso soffermati (rimando al post “Go west, young entrepreneur“):  l’Europa è in grado di creare  dei campioni nazionali nel campo delle nuove tecnologie? Ma soprattutto è in grado di farli crescere e diventare dei leader mondiali?

I fatti dicono che i “new economy leviathans” sono quasi tutte nel nuovo continente. In Europa sono merce rara. E il ciclo di sviluppo delle nuove tecnologie passa attraverso startup che crescono e vengono acquisite da aziende più grandi.

Quindi da noi mancano le exit domestiche, visto che non abbiamo grandi aziende tecnologiche in grado di comprare gli astri tecnologici nascenti. Bloccare quelle internazionali (come nel caso di Dailymotion) espone al rischio che le aziende nostrane non riescano a fare il grande salto. E non liberino risorse che potrebbero reinvestite nel sostenere nuovi cicli di innovazione.

Però non ci sono controprove e il tema si presta ad un dibattitto ampio e serio. Attendo commenti, suggerimenti ed opinioni.