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Mercoledì abbiamo presentato a Brussels al Parlamento Europeo il nostro ultimo studio su “StartupCity Hubs in Europe“.

Rimandando alla lettura del report (qui il link per il download) per avere il quadro completo dei dati e dell’analisi, mi limito a segnalare le evidenze principali e alcuni commenti (personali).Report StartupCity cover

 

 

 

 

 

 

  • Il 67% delle scaleup in Europa è concentrato in 48 città, di solito nella capitale. Se si restringe l’analisi, 10 città ospitano il 53% delle scaleup europee.
  • In soli 6 paesi ci sono due poli di similare dimensione: Spagna (Barcellona e Madrid, in questo ordine, Portogallo (Lisbona e Porto), Polonia, Belgio, Svizzera e Cipro
  • In soli 4 paesi il polo principale non è la capitale (Spagna, Italia, Svizzera e Cipro)
  • L’aspetto interessante e allarmante al tempo è che questa concentrazione (ai limiti del mostruoso) dell’economia dell’innovazione e delle startup intorno a pochi hub non riflette la rilevanza che le città che le ospitano hanno oggi, né in termini di ricchezza prodotta (rappresentano il 34% del GDP dei rispettivi paesi) né tantomeno di popolazione (vi abita il 14% della popolazione).
  • La new economy (o l’economia dell’innovazione e delle startup) è costruita sul principio che “Winners take all”. Questi dati mostrano che lo stesso principio tende ad applicarsi anche nella geografia economica. Le attività economiche e la ricchezza prodotta tenderà ad addensarsi su pochi poli, portando a una crescente marginalizzazione delle città di secondo livello (quelle che chiamiamo come “tier-two startup cities” nel report) nonostante queste abbiamo un ruolo importante. Nel report è presente un indicatore (StartupCity Future Growth) che visualizza quali città sono destinate a conquistare terreno e quali invece a perderlo.
  • Generalizzando ed estremizzando, come la industrializzazione ha progressivamente portato a svuotare campagne e paesi a favore delle città, la new economy e le startup potrebbero portare ad ammassare le attività produttive su una o massimo due città per paese.
  • E questo, come ha commentato Isidro Laso Ballesteros della Commissione Europea, può dare spazio a fenomeni di disgregazione e separazione territoriale, a livello sia nazionale che europeo.

Crediamo che questo non sia accettabile  da un punto di vista politico e sostenibile sotto il profilo economico (basta vedere le crescenti tensioni che ci sono oggi in Silicon Valley).

Per questo abbiamo lanciato una iniziativa “StartupCity Europe Partnership” per cercare di supportare attivamente le città di secondo livello a sviluppare piani strategici in tema di startup improntati alla specializzazione (non si può fare tutto, soprattutto se si è piccoli) e alla internalizzazione (bisogna essere parti di reti più grandi, soprattutto se si è piccoli). Per 150 città europee (esclusi i 48 hub principali e le capitali) abbiamo fatto una prima valutazione sulle potenzialità di ripresa (StartupCity Innovation Potential). Tra queste ci sono Torino, Napoli, Bologna, Pisa, Firenze, Palermo, Padova, Reggio Emilia,  Trento, Cagliari, Pavia e Como.

Ultima nota. Molti sindaci erano a Brussels per la presentazione dell’iniziativa. Nessuno dall’Italia.

Diverse testate internazionali hanno dato spazio o si sono interessate all’analisi dei dati. Nessuna dall’Italia.

La sensazione è quella di un paese troppo assorbito dalla contingenza e dall’emergenza per accorgersi e riflettere sui grandi temi di sviluppo (o di decadenza).

E, senza sviluppo e prospettiva, si tenderà sempre a rincorrere e subire la contingenza e l’emergenza. Con sempre meno risorse.

Presentazione SCEP al Parlamento Europeo

Presentazione SCEP al Parlamento Europeo

La settimana scorsa il torpore del piccolo villaggio delle startup italiane è stato turbato dall’annuncio della chiusura di  Mosaicoon.

Ha fatto notizia, la voce si è sparsa di casa in casa e ciascuno nel villaggio ha aggiunto la sua.

Con la stessa passione e disillusione (e competenza) con cui è stata commentata l’uscita dell’Italia dal mondiale, nel villaggio si è dibattuto del caso Mosaicoon.

Il buon Ugo Parodi Giusino è passato da eroe a fellone a colpi di click. “Esperti” – che non hanno mai messo piede a Isola delle Femmine e che non hanno mai gestito aziende tecnologiche con più di cinquanta persone e/o cento mila euro di fatturato – si sono sentiti in obbligo di giudicare il suo operato imprenditoriale.

Ma queste sono le dinamiche del villaggio, del piccolo villaggio delle startup italiane.

La realtà è un’altra.

  • La notizia della caduta di Mosaicoon fa un rumore assordante perché di aziende come Mosaicoon ce ne sono poche.
    • Dai nostri dati (pubblicati la settimana scorsa) le “scaleup” in Italia sono 178 a fine dicembre. Rectius 177.
  • Le scaleup sono startup che sono cresciute. La crescita non le rende tuttavia invulnerabili. Solo dannatamente più difficili da gestire.
    • Un conto è virare una canoa con due persone a bordo, un conto è farlo con una nave da cento persone. Gli spazi e i tempi di manovra sono più ristretti.
  • Al pari delle startup, anche le scaleup falliscono perché lavorano sul fronte dell’innovazione. E per chi lavora su quello spazio, il non riuscirci è la norma.
    • Se l’80-85% delle startup non ce la fa, è ragionevole assumere che una percentuale minore ma sempre significativa delle scaleup faccia la stessa fine.
  • La differenza tra startup e scaleup è che mentre le startup falliscono, di solito le scaleup che “faticano” vengono comprate. Quindi le percentuali di cui sopra sono annacquate.
    • I nostri dati mostrano bene questo aspetto: il 71% delle acquisizioni di startup non restituisce il capitale investito. Solo il 13% delle acquisizioni di startup è veramente lucrativo per chi vende.
  • La vera notizia è che nessuno si è mosso per comprare Mosaicoon.
    • Questo è il limite sostanziale di un ecosistema (italiano ma anche europeo) ancora in ritardo, in cui le acquisizioni di startup di fatto non sono una prassi diffusa per importare talento e innovazione.

M&A Multiple Price Paid/Capital Raised

Credo che la storia di Ugo Parodi Giusino e di Mosaicoon, come tutte le storie di startup, sia una storia di coraggio e successo. Una storia il cui lieto fine non è quasi mai alla fine del film ma durante la proiezione.

L’esperienza di Mosaicoon ha comunque contributo a innalzare il tessuto imprenditoriale di una regione già ricca di talento ma ancora povera di esempi (su scala lievemente diversa vale lo stesso per l’Italia).

Per le cento persone che hanno lavorato a Isola delle Femmine così come per tutti quelli che hanno visto cosa si può fare quando si è mossi da un disegno ambizioso, questa esperienza rimarrà. E, passato il momento, questo fiume di talento corroborato da esperienza imprenditoriale si riverserà nel sistema dando luogo a tante nuove Mosaicoon. Spin-off è il termine se vi piace l’inglese. Fuoco imprenditoriale se preferite l’italiano.

Perché le startup, come le scaleup, non falliscono. Imparano e ripartono in nuove forme.

Il mondo delle startup non si addice a chi ama le storie a lieto fine.

Disclaimer: avevamo selezionato Mosaicoon nel 2015 per SEC2SV in quanto azienda in crescita con un piano di sviluppo internazionale che includeva gli Stati Uniti.

Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

Caro Ferruccio,
abbiamo letto con attenzione il tuo editoriale e ne condividiamo i messaggi principali.

Sono passati cinque anni, forse anche qualcuno in più (se ti ricordi, il primo Venture Camp ospitato da te in Sala Buzzati al Corriere della Sera risale al 2009), e grandi risultati all’orizzonte non se ne intravedono.

L’unica certezza (provata dalla nostra ultima ricerca “Scaleup Europe” di cui a dicembre pubblicheremo il focus sull’Italia) è che il nostro paese ha un gap spaventoso con il resto dell’Europa, senza scomodare Stati Uniti e Silicon Valley.
Non solo nei confronti del Regno Unito, di gran lunga, la locomotiva dell’innovazione in Europa (hanno oltre 10 volte più scaleup di noi), ma anche di Francia e Germania. E, se confrontiamo le dimensioni relative, l’Italia batte il passo anche nei confronti dei paesi scandinavi e di paesi come Belgio, Olanda e Portogallo.

I dati riflettono un’evidenza: siamo partiti tardi e andiamo troppo piano (i dati sugli investimenti che menzioni scoloriscono non solo di fronte al piano Macron, ma anche nei confronti di quanto fatto dalla Francia con Hollande e dalla stessa Spagna).

Però, c’è un però. Che va considerato prima  di buttare via, con la tanta acqua sporca, il bimbo startup nostrano.
Il però è che siamo partiti.

Dietro alla moda, alle dichiarazioni di facciata, ai programmi di marketing di alcune aziende, ai convegni, c’è una Nuova Italia che (pian piano) avanza e inizia a produrre i primi risultati in termini di scaleup, termine strano che usiamo per separare dalle intenzioni di impresa quelle che incominciano a produrre risultati tangibili, ossia occupazione, fatturato e crescita. Dietro ai pionieri Octo Telematics, 7 Pixel, Funambol, Decisyon ci sono ora società come Moneyfarm, Musement, Facility Live, Mosaicoon, Cloud4Wi, Satispay, BeMyEye, Shopfully, Beintoo e Buzzooleche si stanno affermando a livello internazionale.

E dietro a queste, ci sono energia e aria nuova. Che si respira non solo nelle grandi città (la diatriba tra Roma e Milano è stucchevole quanto inutile), ma anche e soprattutto nella provincia, al Sud e nelle Isole. Vediamo questa energia nei ragazzi che arrivano da ogni parte di Italia per partecipare alla nostra School a San Francisco e che non hanno problemi a confrontarsi in inglese con startup di tutto il mondo. Sono sempre di più e sono sempre più motivati e sempre meno propensi a lamentarsi su cosa manca in Italia ma pronti a rimboccarsi le maniche e fare succedere cose (o almeno a provarci).

Questa è la base su cui costruire una nuova Italia. Base che sta emergendo da questa generazione, dopo che le generazioni precedenti avevano – non sappiamo esattamente perché – smarrito la tensione imprenditoriale.

Ma non aspettiamoci da questa base di vedere crescere grattacieli se non buttiamo cemento in quantità. E il cemento si chiama venture capital, merce quanto mai rara alle nostre latitudini.

Ad maiora (almeno si spera),
Alberto Onetti e Marco Marinucci

Quella appena trascorsa è stata una settimana sofferta per la Silicon Valley. Da Newsweek a TechCrunch fino al Washington Post diversi esponenti del mondo dell’innovazione in questi giorni hanno infatti rimesso in discussione la centralità e la rilevanza della Silicon Valley. Per chi se lo fosse perso, Scott Alexander ne ha parlato ampiamente qui, riportando un po’ tutte le posizioni in gioco. 

Tutto nasce dalla notizia del finanziamento di circa $120M a Juicero, startup impegnata a realizzare una nuova generazione di dispositivi di spremitura a freddo di frutta e verdura, immancabilmente connessi al Wi-Fi ed equipaggiati di lettore QRCode, il tutto corredato di consegna a domicilio dei “produce pack”. Dai 5 agli 8 dollari il costo delle singole bustine, 400 dollari il prezzo del macchinario. Un bell’investimento per una sana e fresca spremuta a domicilio. Peccato che Bloomberg, durante un test, abbia dimostrato di poter ottenere lo stesso quantitativo di bevanda semplicemente “strizzando” le bustine con la mani. 

E il resto della storia è facilmente immaginabile. 

I commenti scaturiti sono stati sferzanti (il titolo del Washington Post non a caso recita “Juicero shows what’s wrong with Silicon Valley thinking”) e c’è chi addirittura ha ripreso a chiamare la Bay Area la “Silly-Con Valley”, espressione che dice già tutto sulla sua capacità di creare innovazioni realmente rilevanti. 

Sullo stesso tema si è espresso anche un Venture Capitalist europeo di Creandum, Carl Fritjofsson, segnalando che, se fino a poco tempo fa la Silicon Valley era considerata la Hollywood della tecnologia (“If you’re an actor, you go to Hollywood. If you’re in tech, you go to Silicon Valley”), oggi ci sono tanti hotspot rilevanti in altre parti dal mondo, dall’Europa a Israele fino alla Cina, dove si stanno affermando role model di innovatori che hanno trovato il successo al di fuori della Bay Area.

Si comincia quindi a porre sul piatto l’eventualità di una “ridistribuzione della centralità”: lo stesso Carl Fritjofsson sostiene che “Silicon Valley has peaked”, ovvero “sta scollinando”.

Nella realtà dei fatti, tuttavia, la Silicon Valley, per quanto possa aver già toccato l’apice, continua a restare sempre un passo avanti rispetto a tutti gli altri hub del mondo. La distanza tra la vetta Silicon Valley e le altre cime resta siderale. Per una serie di ragioni: 

se anche è vero che la Silicon Valley finanzi talvolta innovazioni che non cambiano la storia del mondo, tuttavia è lì che si continua a investire in alcune innovazioni che hanno (e stanno continuando) a cambiare il mondo

il mercato M&A, grande motore che muove tutto la ruota degli investimenti in startup, in SV è di un’altra categoria: il rapporto tra acquisizioni in Silicon Valley e acquisizioni in Europa è di 5:1, come abbiamo riportato nella nostra ricerca condotta con CrunchBase lo scorso settembre che stiamo aggiornando proprio in questo periodo.

E questo ultimo punto dice tanto se non tutto. Perché si sa: nello startup game “no exit, no party”. 


Il BTW di Alberto Onetti
Commenti su startup, innovation, scaleup, entrepreneurship dal Chairman di Mind the Bridge.

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La matematica delle startup è abbastanza semplice. Si fonda su due assiomi:

  1. Qualunque azienda esistente, grande o media o piccola, leader o meno, domani non starà in piedi con il business e i margini con cui campa oggi.
  2. Le sacche di marginalità delle imprese esistenti saranno saccheggiate dalle startup. Queste ultime sono i nuovi barbari, i portatori di “disruption”.

 

A valle di questi due assiomi, due principi di comportamento:

  1. Se sei una azienda, grande o media o piccola, leader o meno, pensa a cambiare e a innovare, prima che sia troppo tardi. Non necessariamente facile, ma rimandare o ignorare il problema è la ricetta per scomparire.
  2. Se sei una startup, vai all’attacco, anche se statisticamente è altamente improbabile che possa tu essere il “disruptor”: di 100 startup avviate, 85 circa muoiono in fase seed o early; di quelle che trovano capitali, un buon 60% non va da nessuna parte; si contano sulle dita di una mano quelle che riescono a raggiungere risultati rilevanti (e per quelle di norma non girano un film).

 


 

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Pochi giorni fa una giornalista di Hong Kong, durante un’intervista, mi ha chiesto:

Che differenza c’è tra startup e scaleup?

La domanda mi ha preso un po’ alla sprovvista. Ho iniziato a darle dei parametri. Le scaleup si distinguono dalle startup per:

  • capitale raccolto (come SEP identifichiamo la soglia a un milione di dollari)
  • fatturato (le startup sono prevalentemente “pre-revenue” o con fatturati minimi, mentre le scaleup devono produrre volumi di ricavi in grado di portarle al break-even o al profitto)
  • dipendenti (le scaleup hanno di solito una forza lavoro che va oltre il gruppo dei founder)

Ma a un certo punto mi sono fermato. E le ho detto che la domanda aveva poco senso.

Startup e scaleup non sono la versione moderna delle piccole e grandi imprese.

Non ci sono piccole startup e grandi startup. Ci sono startup che trovano una propria strada (business model scalabile) e crescono diventando scaleup. E ci sono startup (la maggioranza) che non trovano questa strada e si dissolvono (“crash and burn” nel gergo anglosassone).

Le startup che non crescono e diventano scaleup semplicemente chiudono.

Il mondo delle startup è binario. O cresci o chiudi. Non c’è spazio per soggetti di nicchia.

Perché una startup è fatta per crescere, non per restare piccola.


Il BTW di Alberto Onetti
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Non vorrei perdere il controllo.

Mi capita molto spesso di parlare con i fondatori di startup quando sono in procinto di ricevere un nuovo finanziamento. Quasi sempre (sia che si tratti di startup nelle prime fasi che scaleup che hanno già raccolto qualche milione), il discorso scivola su un tema: il rischio di perdere il controllo dell’azienda.

Non vorrei andare sotto il 50%“.

Il 51% è visto come la soglia salvezza. La Maginot per rimanere padroni a casa propria.

L’illusione del controllo, dico io.

La realtà è che nel momento in cui accetti soldi da venture capital stai implicitamente accettando di non avere più il controllo della tua azienda. Qualunque sia la percentuale della tua startup che stai cedendo.

In quel momento entri in un percorso di crescita esponenziale. I soldi che ricevi vanno investiti e devono produrre i risultati (milestone, in gergo) che hai promesso di ottenere nel momento in cui hai accettato il finanziamento. Punto.

Nel momento in cui i soldi finiscono (perché finiscono, l’obiettivo era investirli, non metterli sotto il materasso), se avrai raggiunto le milestone prefissate non avrai problemi a trovarne altri (assumendo che il tuo progetto resti interessante, il mercato potrebbe nel frattempo cambiare) e rimarrai in sella (o in controllo). Se avrai mancato gli obiettivi prefissati sarai alla mercé di chi dovrà darti altri soldi (assumendo che li trovi). In quel momento, che tu abbia il 10% o il 90% poco cambia. Conti poco e niente, non hai alcun potere di controllo se non quello di decidere di chiudere baracca e burattini.

Vuoi essere in controllo? Smetti di pensare alle quote dell’azienda e concentrati su due sole cose:

  • conseguire i risultati che hai promesso ai tuoi investitori
  • cercare di non avere bisogno di altri soldi, per quanto possibile (ricordati che le startup sono fatte per investire a monte e raccogliere a valle)

Come nel calcio, se sei una punta e non segni, non aspettarti di continuare a giocare. Qualunque cosa ci sia scritto sul tuo contratto.


 

Il BTW di Alberto Onetti
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Al posto del carbone, 830mila dollari: è quanto hanno trovato nella calza della befana i ragazzi di Buzzoole, la scaleup di influencer marketing guidata da Fabrizio Perrone. Un’iniezione di capitale che si inserisce in un processo di crescita che dal 2013, anno della sua nascita, non si è mai arrestato.

A scommettere su di loro un fondo di Venture capital russo, IMPULSE (secondo le indiscrezioni dietro le quinte ci sarebbe il miliardario Roman Abramovič) e il venture svizzero R301, guidato da Alessandro Rivetti e Nader Sabbaghian.

Nel 2016 le campagne sostenute dai brand attraverso la piattaforma sono più che raddoppiate, per un totale di 80mila contenuti, il 23% dei quali totalmente virale, e circa 2 milioni di interazioni. A oggi in Buzzoole lavorano una cinquantina di persone, distribuite tra Napoli, Roma, Milano e Londra.

Per comprendere meglio le potenzialità di questo mercato e quali saranno le prossime mosse di Buzzoole alla luce del nuovo finanziamento, abbiamo fatto due chiacchiere con il CEO, Fabrizio Perrone.

Fabrizio, tanta acqua è passata sotto “il ponte” dalla prima volta che ci siamo incontrati a Napoli.

Sì, ci avevate selezionati nel 2014 allo Startup Expo in occasione di Go Global Now, l’evento che avevate organizzato nel capoluogo campano all’interno dei progetti SEP Matching Event e “From Vesuvio to Silicon Valley”. A quel tempo Buzzoole aveva solo un anno di vita e ancora non immaginavamo tutto quello che poi sarebbe successo. Voi avevate visto giusto, assegnandoci un posto alla vostra School a San Francisco.

Da allora cosa è cambiato per Buzzoole?

Quasi tutto, a parte il nome e il board (ride, ndr): scherzo, a noi founder [Fabrizio Perrone, CEO, Gennaro Varriale, CTO, Luca Pignataro, Art Director, Luca Camillo, System Engineer, ndr] si sono aggiunte tante validissime persone – oltre 50 – che ci hanno permesso di crescere molto velocemente. Non ultimo Gianluca Perrelli che da settembre 2016 riveste il ruolo di Managing Director.

board buzzoole

Anche i riconoscimenti non sono mancati, soprattutto a livello internazionale.

Sì, nel 2013 siamo stati nominati come “la startup più innovativa nell’ambito dei big data, real time e predictive analysis” da SAP e l’anno successivo ci siamo qualificati tra le prime 8 startup su oltre 24.000 selezionate da tutto il mondo all’Intel Business Challenge Europe. A fine 2016 stati selezionati per l’Unilever Foundry Startup Street e per il Global Entrepreneur Programme di UK Trade&Investment e oggi siamo proprio all’interno del programma Unilever Foundry. Nel frattempo abbiamo aperto nuove sedi a Milano, Roma e Londra, oltre a quella storica di Napoli. E grazie al nuovo finanziamento contiamo di aprirne almeno altre due a breve, una delle quali in Russia.

Tanti riconoscimenti. E a livello di fundraising?

Dopo il primo seed da 180mila euro abbiamo chiuso 2 round per 1.2 milioni di euro guidato da Digital Magics e R301. E ora stiamo festeggiando la convertible note da 830mila dollari chiusa nei primi giorni del 2017 con il fondo russo Impulse VC e la venture firm svizzera R301.

Sembra insomma che quello dell’influencer marketing sia un mercato molto richiesto ultimamente. Buzzoole in buona sostanza come funziona?

Buzzoole è una piattaforma di Influencer Marketing in grado di connettere i brand ai giusti influencer della rete grazie all’utilizzo dei big-data, con l’obiettivo di stimolare le conversazioni intorno alle loro campagne. In breve abbiamo sviluppato un algoritmo proprietario basata sulla raccolta e l’analisi di big-data che permette di attribuire a ciascun influencer della rete e per ciascun topic di discussione un determinato valore di influenza. Sulla base di questi indici, Buzzoole indirizza i brand nella selezione e nel coinvolgimento degli influencer più in target assistendoli nella gestione dell’intera campagna e consentendo loro di monitorare in real-time la performance delle attività.

logo buzzoole

Come riuscite a coinvolgere gli influencer nelle campagne dei brand?
Noi proponiamo le campagne dei brand agli influencer volontariamente iscritti in piattaforma. Sta a loro decidere se aderire o meno, in linea con il loro apprezzamento per il singolo brand o settore merceologico. Molto spesso chi aderisce a una campagna è un utente che già produce contenuti per quel brand e che in ogni caso ne produrrebbe perché appassionato. Noi interveniamo per proporre un avvicinamento dell’utente al brand, coinvolgendolo nelle campagne e premiandolo per ogni contenuto prodotto attraverso un sistema di gamification che permette di accumulare crediti Buzzoole a titolo di ricompensa, spendibili su portali e-commerce.

Non si tratta di “marchette” per i brand?

No, nel modo più assoluto. Se un influencer fa una “marchetta” oggi e la ripete anche domani, alla fine l’utente si accorge che non è più attendibile e autorevole sul topic in questione e lo abbandona. Per questo motivo noi ingaggiamo influencer già attivi e appassionati di determinati topic, con mente critica e forte personalità, che difficilmente produrrebbero contenuti soltanto perché retribuiti. Tutto questo è confermato anche dall’analisi dei nostri dati: il 23% dei contenuti prodotti nelle campagne risulta totalmente “virale”, cioè pubblicato “in più” o dagli stessi influencer coinvolti oppure dai rispettivi follower, in maniera totalmente spontanea e gratuita.

Il nuovo finanziamento come verrà utilizzato? Quali sono le prossime mosse per Buzzoole?

La convertible note ci servirà sicuramente a portare avanti il programma di espansione internazionale. Ovviamente, data la partnership con IMPULSE, nutriamo grande aspettative verso la Russia, che mostra uno dei mercati a più alto tasso di crescita in termini di investimenti in social media e la mancanza di un big player di riferimento. Seguiranno Francia, Spagna e India.

È notizia di questi giorni il programma Erasmus Startup in Campania con borse di studio per la mobilità internazionale. Che consigli dareste a chi sta cominciando o comunque è ancora in fase early-stage?

Si tratta sicuramente di una grande opportunità. Il confronto con il mercato internazionale e con le regole dei big player è un appuntamento obbligato per un progetto che intende crescere, perciò prima questo avviene meglio è. Se potessimo tornare indietro useremmo certamente questi fondi per un’esperienza all’estero, possibilmente in Silicon Valley. Chissà, magari proprio alla School di Mind the Bridge, che consente di fare un buon reality check della propria idea e business plan nel posto più avanzato al mondo. Non necessariamente per restarci, ma per confrontarsi e tornare indietro rafforzati.

È da qualche hanno che ripeto: più delle startup servono le scaleup. In altre parole: non bastano i tentativi di innovazione. Ci vogliono anche imprese che inizino a crescere creando fatturato ed occupazione.

Perché di questo abbiamo bisogno nel Vecchio Continente. Di aziende innovative che portino crescita e lavoro. Non solo nel proprio paese ma in tutta Europa.

Gli esempi al riguardo sono fortunatamente sempre più numerosi. Uno recente viene da Awingu, startup (rectius scaleup) belga tra le 15 che abbiamo selezionato per SEC2SV (Startup Europe Comes to Silicon Valley) 2016.

Awingu ha sviluppato una piattaforma web-based che consente un facile accesso a file, applicazioni e software offrendo così una soluzione concreta alle richieste di mobilità. Il tutto in una logica di BYOD (ovvero Bring Your Own Device): ossia utilizzare al lavoro il tuo tablet, smartphone, computer senza necessità di passare tra diversi oggetti, chiavi d’accesso e sistemi operativi.

Fondata nel 2011 dal serial entrepreneur Kristof De Spiegeleer, Awingu è decollata nel 2014 quando Walter Van Uytven è diventato CEO e Michel Akkermans (ex Clear2Pay) chairman. 18 milioni di capitale raccolti, oggi fattura oltre 3 milioni di euro (triplicato rispetto all’esercizio precedente, solo il 15%  in Belgio, il resto in Europa e USA) e ha 35 dipendenti. E continua a crescere.

awingu

Walter mi ha scritto due giorni fa (il giorno della Befana, le startup non vanno in ferie) chiedendomi se potessi aiutarlo a trovare un channel manager/director per l’Italia.

Qui il link per applicare alla job description.  A questa figura seguiranno probabilmente altre due assunzioni in Italia.

Piccole scaleup crescono. L’Europa passa da qui.