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Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

Francesco Baschieri è stato uno dei nostri primi Alumni: l’ho incontrato per la prima volta a San Francisco nel 2010 quando la sua Spreaker, piattaforma per creare, distribuire e monetizzare podcast e programmi radio in diretta, era incubata nell’allora “Gym” (la fase embrionale del nostro quartier generale) di Mind the Bridge, al Pier 38.

Ne scrissi proprio su questo blog l’anno successivo.

Dover tornare su di lui 8 anni dopo per commentare l’acquisizione da parte di Voxnest, azienda con base a New York che offre soluzioni per podcasting professionale, non può quindi che farmi un immenso piacere. Oltre che dimostrare che l’impegno e la tenacia possono portare a grandi successi anche dopo diverso tempo. Perché fare startup è spesso un percorso ad ostacoli, non sempre lineare.

BaschieriMa torniamo a Francesco. Bolognese, 42 anni, un esordio professionale in Alstom Transport (multinazionale francese che si occupa di treni e impianti ferroviari) prima come progettista software e poi come Project Manager, passa in un’azienda di beni di consumo come Program Manager per poi diventare in breve tempo Direttore Operations presso uno degli stabilimenti. Nel 2007 lascia tutto e co-fonda Waymedia (2007) per poi cederla a un gruppo milanese quando fattura già un milione di euro. Infine la “follia” Spreaker e l’inizio di tutto un altro viaggio, che, passando dalla Silicon Valley e Berlino, lo porterà a New York.

Baschieri facebook

Francesco, cosa significa l’acquisizione da parte di Voxnext?
VoxNest è il risultato di un progetto imprenditoriale ambizioso per creare il più grosso marketplace al mondo di audio parlato (podcast). Di questo progetto Spreker è la piattaforma che porta in dote utenti, tecnologia e competenze.

Difatti tu rimani alla guida?
Sì, io sono il President e CEO e il team di Spreaker guiderà la società. Però portiamo a casa un sacco di competenze e contatti nel mondo media. Ad esempio nel board abbiamo Todd Larsen che è stato presidente di Dow Jones ed executive VP di Time Inc.​ E tra i nostri investitori ci sono figure importanti del media business (che per ora non si possono dire).​ In tutto per ora siamo una trentina di persone, ma stiamo crescendo velocemente.

Guardandoci indietro, come sei arrivato da Bologna a New York?
Attraverso quattro tappe.
La prima tappa è stata a San Francisco con voi di Mind the Bridge: lì è stato il mio primo contatto con gli ​Stati Uniti e ho portato a casa un modo diverso di concepire l’impresa ​ rispetto a quello che avevo imparato in Italia.​
La seconda tappa è stata Berlino: siamo tornati in ​Europa perché aveva più senso per ​lo stadio di sviluppo in cui eravamo. Abbiamo scelto Berlino perché volevamo stare in un hub ​internazionale, anche dopo l’esperienza di​ S​an Francisco e in Italia mancava una simile concentrazione​ di aziende, talento e capitali.​
La terza tappa è stata senza una sede. Abbiamo ​ scelto di diventare una azienda “liquida” spalmata su diverse sedi.​ Io per motivi personali sono tornato in Italia (Venezia) mentre il resto del team era sparso tra Spagna e Italia.
La quarta tappa è stata New York. Prima sono venuto io come testa di ponte e poi, in vista dell’acquisizione, ho spostato la parte commerciale e marketing, mentre in Italia e in Spagna rimane lo sviluppo secondo il modello della dual company che ben conosci. E il piano è di concentrare il grosso dello sviluppo della tecnologia in Italia.

Spreaker team

Come è il tuo rapporto con l’Italia?
Di affetto e riconoscenza, ma con il giusto equilibrio.
Un imprenditore ha un obbligo: quello di massimizzare le chance di successo della propria azienda. L’Italia non è detto che sia sempre il posto ideale ​per fare nascere e crescere una nuova realtà​.
​Se non lo è, allora bisogna rimboccarsi le maniche e andare dove è meglio per la tua azienda.
Poi, una volta trovata la propria strada, c’è spazio per aiutare il proprio paese. Però con un altro cappello. O meglio con il cappello in testa e non con il cappello in mano…

 

Era il 2008. La Lehman Brothers aveva appena dichiarato bancarotta, il primo presidente afroamericano della storia veniva eletto in USA, la Cina ospitava per la prima volta i Giochi Olimpici. In Italia il termine “Startup” era pressoché sconosciuto.

È proprio nel 2008  a San Francisco che ho incontrato il team di VivaBioCell, una delle ultime exit di startup italiane ad opera di gruppi statunitensi.

VivaBioCell partecipava come finalista, insieme ad altre giovani società, alla prima edizione del Mind the Bridge, una business plan competition (eh già, ai tempi si scrivevano ancora i “business plan”) il cui obiettivo era quello di supportare e dar visibilità in Silicon Valley alle migliori “promesse” di tecnologie made-in-Italy.
Oggi, 8 anni dopo, la società è alla ribalta per una acquisizione multimilionaria (riportati “80 milioni di dollari”) da parte di un gruppo americano.
Poco importa che l’entità della transazione sia stata smentita categoricamente, in primis dagli investitori nell’operazione: dalle nostre conversazioni pare che “gli investitori recupereranno quanto hanno investito, con un earn-out in caso di IPO (strike price fissato ad 80 milioni di dollari)“.

Come spesso accade, i media italiani tendono a gonfiare le attività di M&A delle startup nostrane (questa è la seconda notizia del genere nella stessa settimana dopo Soundtracker). Sarà l’euforia del momento.

2008: premiazione del primo concorso MTB a San Francisco

Quello che conta è che storie come VivaBioCell, nate dalla migliore ricerca italiana che può, ancora, dire la sua nel mondo, servono come l’aria nel panorama sempre più affollato delle startup made in Italy.

Chiediamo a Francesco Curcio, fondatore, di raccontarci la sua storia in 10 domande.

Quando nasce VivaBioCell e da quali premesse?
Nasce nel 2004 per trasferire risultati di ricerca alla pratica clinica e per dare opportunità ai giovani ricercatori.

In cosa consiste l’innovazione apportata da “GMP in a Box” rispetto ai sistemi standard?
Risolve tutti i problemi di sviluppo delle applicazioni dell’ingegneria tessutale: massima sicurezza per il paziente, standardizzazione, scale-up, payor acceptance e in più consente di sviluppare la proprietà intellettuale a supporto del progetto industriale.

Quali possono essere le sue applicazioni pratiche?
Le prime applicazioni cliniche sono la cura dell’osteoartrite, la soluzione di diversi problemi implantologici e di ricostruzione ossea in chirurgia maxillo-faciale e neurochirurgia. Infine, molto importante, l’espansione di cellule da utilizzare nell’immunoterapia dei tumori.

Parliamo di costi: la macchina è pensata per un monouso. Quanto incide questo aspetto sui costi di utilizzo? E in che misura conviene in ogni caso rispetto ai metodi tradizionali?
Abbatte i costi di diversi ordini di grandezza.

Quale è stato il percorso della società dalla nascita dello spin-off a oggi?
È stato un percorso incrementale: è nato vincendo prima alcune competizioni per business plan locali e poi il premio “Mind the Bridge”, è stato finanziato all’inizio dai soci fondatori – tra cui l’Università di Udine -, ha ottenuto finanziamenti del Ministero dell’Università per gli spin off, hanno cominciato a entrare finanziatori istituzionali privati e pubblici, intanto abbiamo sviluppato il percorso scientifico e produttivo basandoci in modo assoluto sulle norme regolatorie e i risultati sono venuti: questo ha permesso di renderci credibili anche a un soggetto importantissimo come NantWorks.

In questi giorni, infine, l’annuncio dell’acquisizione da parte da NantCell, una controllata del gruppo NantWorks: quali saranno a grandi linee i prossimi passi? Il team di VivaBioCell sarà coinvolto interamente?
Il Team sarà tutto coinvolto. Gli obiettivi sono ora di sviluppare la dimostrazione clinica nel più breve tempo possibile e iniziare la commercializzazione delle nostre proposte terapeutiche.

Per far crescere velocemente progetti come il vostro, quanto conta il supporto del privato e quanto quello del pubblico? Che tipo di riscontri avete ottenuto in termini di interesse, partnership, investimenti da ciascun settore?
La fase più difficile è quella dopo la “proof of principle” e prima di avere un fatturato: servono soprattutto compagni di viaggio competenti e con un buon network. Sono privati che possono garantire anche gli investimenti pubblici. Secondo me, in questa fase la cosa migliore è la partnership pubblico/privato. Il pubblico è garantito dal fatto che il privato investe del suo e il privato vede un rischio minore perché parte del costo è sopportato dal pubblico: una vera win-win situation.

Nel 2008 avete vinto la prima competition di Mind the Bridge: cosa vi siete portati dietro da quella esperienza?
Una grande esperienza internazionale: la dinamicità dell’imprenditoria della Bay Area è enormemente stimolante.

Quanto si è fatto in materia di cellule staminali e quanto resta ancora da fare? Quali le problematiche principali?
Parliamo naturalmente di quelle adulte. Certamente si è dimostrato che hanno possibilità terapeutiche importanti. Adesso bisogna renderle accessibili a tutti i malati che ne possono trarre giovamento. Attualmente i problemi sono soprattutto la scarsa standardizzazione della produzione, i costi molto elevati, un bisogno di maggior sicurezza e la difficoltà a renderla una terapia di massa.

Per chiudere. Un consiglio a un ricercatore italiano.
Mai arrendersi: applicando i giusti modelli le cose si possono fare anche in Italia.

Grazie Francesco – in attesa di festeggiare una IPO al NASDAQ, ma con un cuore (tecnologico) made-in-Italy.