Tag "M&A"

Quella appena trascorsa è stata una settimana sofferta per la Silicon Valley. Da Newsweek a TechCrunch fino al Washington Post diversi esponenti del mondo dell’innovazione in questi giorni hanno infatti rimesso in discussione la centralità e la rilevanza della Silicon Valley. Per chi se lo fosse perso, Scott Alexander ne ha parlato ampiamente qui, riportando un po’ tutte le posizioni in gioco. 

Tutto nasce dalla notizia del finanziamento di circa $120M a Juicero, startup impegnata a realizzare una nuova generazione di dispositivi di spremitura a freddo di frutta e verdura, immancabilmente connessi al Wi-Fi ed equipaggiati di lettore QRCode, il tutto corredato di consegna a domicilio dei “produce pack”. Dai 5 agli 8 dollari il costo delle singole bustine, 400 dollari il prezzo del macchinario. Un bell’investimento per una sana e fresca spremuta a domicilio. Peccato che Bloomberg, durante un test, abbia dimostrato di poter ottenere lo stesso quantitativo di bevanda semplicemente “strizzando” le bustine con la mani. 

E il resto della storia è facilmente immaginabile. 

I commenti scaturiti sono stati sferzanti (il titolo del Washington Post non a caso recita “Juicero shows what’s wrong with Silicon Valley thinking”) e c’è chi addirittura ha ripreso a chiamare la Bay Area la “Silly-Con Valley”, espressione che dice già tutto sulla sua capacità di creare innovazioni realmente rilevanti. 

Sullo stesso tema si è espresso anche un Venture Capitalist europeo di Creandum, Carl Fritjofsson, segnalando che, se fino a poco tempo fa la Silicon Valley era considerata la Hollywood della tecnologia (“If you’re an actor, you go to Hollywood. If you’re in tech, you go to Silicon Valley”), oggi ci sono tanti hotspot rilevanti in altre parti dal mondo, dall’Europa a Israele fino alla Cina, dove si stanno affermando role model di innovatori che hanno trovato il successo al di fuori della Bay Area.

Si comincia quindi a porre sul piatto l’eventualità di una “ridistribuzione della centralità”: lo stesso Carl Fritjofsson sostiene che “Silicon Valley has peaked”, ovvero “sta scollinando”.

Nella realtà dei fatti, tuttavia, la Silicon Valley, per quanto possa aver già toccato l’apice, continua a restare sempre un passo avanti rispetto a tutti gli altri hub del mondo. La distanza tra la vetta Silicon Valley e le altre cime resta siderale. Per una serie di ragioni: 

se anche è vero che la Silicon Valley finanzi talvolta innovazioni che non cambiano la storia del mondo, tuttavia è lì che si continua a investire in alcune innovazioni che hanno (e stanno continuando) a cambiare il mondo

il mercato M&A, grande motore che muove tutto la ruota degli investimenti in startup, in SV è di un’altra categoria: il rapporto tra acquisizioni in Silicon Valley e acquisizioni in Europa è di 5:1, come abbiamo riportato nella nostra ricerca condotta con CrunchBase lo scorso settembre che stiamo aggiornando proprio in questo periodo.

E questo ultimo punto dice tanto se non tutto. Perché si sa: nello startup game “no exit, no party”. 


Il BTW di Alberto Onetti
Commenti su startup, innovation, scaleup, entrepreneurship dal Chairman di Mind the Bridge.

Immagine anteprima YouTube

C’è in Europa un dibattito acceso sulla opportunità di stimolare o meno le acquisizioni di startup da parte di aziende più grandi. Anche nello Scaleup Manifesto, appena presentato a Bratislava alla Digital Assembly 2016, il punto è stato toccato (all’interno della sezione 4, Power Innovation), ma di sfuggita, quasi sottovoce (ricordo la discussione piuttosto accesa a Brussels al riguardo).

Mentre negli Stati Uniti acquisire startup è concepito universalmente “cosa buona e giusta”, nel Vecchio Continente sembra ci siano parecchi “cold feet” al riguardo.

E, non credo a caso, questa freddezza si traduce in un divario abissale in termini di risultati. Un recentissimo studio realizzato da Mind the Bridge e CrunchBase, mostra come le aziende americane comprino un numero di startup che è quattro volte superiore quello delle omologhe europee. Sì, 4 a 1. Tanta differenza, troppa.

Startup Transatlantic M&As ReportCredo che i numeri di cui sopra aiutino a comprendere l’approccio europeo – da “freno a mano tirato” – sul tema delle acquisizioni di startup. Paradossalmente, il fatto che le aziende europee comprino poche startup (il 44% delle exit europee finisce in pancia ad aziende a stelle e strisce) ci porta a subire il fenomeno. E, ancora più paradossalmente, a bollare le (poche) exit come un fenomeno negativo (e non come il vero motore che alimenta l’industria del venture capital e dell’innovazione in genere).

Un bell’articolo su The Economist aiuta ad inquadrare meglio il problema, aggiungendo ulteriori elementi di riflessione. Rimandandone la lettura, sottolineo alcuni passagggi chiave:

  • Per le startups (e i loro investitori) essere acquisiti da player più grandi è un “badge of success” (oltre che una exit).
  • Ma, se le startup non crescono e diventano grandi aziende, l’ecosistema non si sviluppa.
  • Inoltre, se le grandi aziende comprano tutte i loro potenziali futuri competitor (si parla di “shoot-out acquisitions“), si crea un problema di concorrenza in una “age of superstar firms that dominate global markets“.

 

Servono più exit in Europa. Servono startup europee che crescano e diventino grandi aziende. I due fatti, per quanto possano sembrare in contrapposizione, non lo sono.

Qualche settimana fa Startup Europe Partnership (SEP) ha pubblicato il primo quadro di comparazione dell’ecosistema europeo delle startup visto da una prospettiva un po’ diversa dal solito. Non quella delle partenze (numero di startup, incubatori, acceleratori, …) ma quella degli arrivi (le cosidette “exit”) e di chi sta effettivamente viaggiando e facendosi strada (le “scaleup” e gli “scalers”, ossia le startup che crescono dimensionalmente).
Analisi – va detto – ancora parziale (difficile avere dati esaustivi su un universo in così forte evoluzione) e limitata sia geograficamente (solo cinque paesi per ora mappati, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna) che settorialmente (si concentra per ora sull’ICT, ossia le nuove tecnologie della informazione e comunicazione.

Cosa emerge dai dati? Come di consueto mi limito ad alcuni rapidi commenti, rimandando al report – SEP Monitor è scaricabile qui – per un’analisi più completa.

Il Regno Unito fa gara a parte. Delle 990 scaleups mappate nei cinque paesi 399 vengono da lì. Il doppio di Germania (208) e Francia (205), oltre quattro volte Spagna (106) e Italia (72).

Al di là del numero delle scaleups, il Regno Unito è soprattutto avanti per la quantità di capitali che è riuscita a mettere a loro disposizione. Oltre 11 miliardi di dollari ($11.1B), quasi due volte quanto investito in Germania ($6.6B), quattro volte la Francia ($3.1B), sei volte la Spagna ($1.8B) e quasi trenta volte l’Italia ($0.4B).

È in particolare sull’accesso delle startup al mercato di borsa che il Regno Unito stacca tutti. 12 startup quotate e soprattutto quattro miliardi raccolti attraverso il canale borsistico, il doppio di quanto tutti gli altri paesi hanno fatto messi insieme.

Dati simili, con differenze ancora più marcate, se restringiamo la analisi agli scalers, ossia le startup che hanno raccolto oltre 100 milioni di dollari. Dei 38 mappati, la metà (19) vengono dal Regno Unito, la Germania si ferma a 9, la Francia a 6, la Spagna a 3, l’Italia non è pervenuta.

Come leggere questi dati? Sembrerebbe che Italia ne esca con le ossa rotte. Quinta su cinque paesi. E temo che nel prossimo report, quando mapperemo anche i paesi nordici, scalerà di altre posizioni.

Rendiamocene conto: l’Italia non è più (da tempo) una delle locomotive dell’innovazione europea. I treni sono partiti tempo fa e noi eravamo in altre vicende affaccendati. Eravamo impegnati a discutere su come cambiare tutto senza però cambiare nulla. Discussioni che ahimè non mi sembrano ancora concluse.

Però vedo una luce in fondo al tunnel. Mentre, a livello di sistema paese, eravamo presi in interminabili discussioni, dal basso c’è chi ha iniziato a fare.E ha prodotto risultati significativi. È il popolo delle startup, degli innovatori, degli investitori. È il popolo di chi fa e non passa le giornate a dibattere su cosa gli altri dovrebbero fare. È un popolo silenzioso e operoso che collabora e crede in chi prova a fare. È un popolo che sta in silenzio raccogliendo sempre più adepti. È il popolo che cambierà l’Italia e ci riporterà lentamente in alto nelle classifiche che oggi ci vedono impietosamente nella parte destra del tabellone.

Quindi come leggere i dati?

Siamo indietro perché siamo partiti in ritardo rispetto agli altri paesi e senza supporto istituzionale. Mi sarei stupito del contrario.

Nonostante tutto stiamo giocando la partita. Con il tempo e, magari, con un po’ più di supporto istituzionale – il lavoro che stanno facendo i vari Luna, Firpo, Corbetta, Fusacchia è encomiabile – recuperemo le posizioni perdute. Il lavoro è l’unica strada percorribile.

C’è una luce in fondo al tunnel. E non è un treno che ci sta venendo incontro.

 

E’ di questa settimana la notizia (Le Monde, TechCrunch, da noi ripresa dal bravo Luca Annunziata e da Stefano Montefiori sul Corriere) che il governo francese ha di fatto bloccato la trattativa per l’acquisto di Dailymotion da parte di Yahoo!.

Dailymotion è un’azienda francese per la condivisione di video (la risposta transalpina a YouTube, con le dovute differenze, visto che vanta 100 milioni di utenti unici al mese contro il miliardo del colosso marchiato Google) di proprietà di France Telecom che a sua volta è partecipata al 27% dallo stato francese.

Di fronte alla offerta di acquisto da parte di Yahoo! (si parla di 200/300 milioni di dollari) è arrivato il veto del governo francese: “Dailymotion è una delle rare aziende francesi che ha avuto sucesso sul Web negli anni recenti. È una gemma, non è in perdita, deve restare francese”, questa la motivazione del diniego. L’unica apertura di disponibilità era relativa ad una joint venture, cosa che non interessa Yahoo!.

Quindi un nulla di fatto che, al di là dell’episodio specifico, riapre il dbattito su un tema più grande su cui ci siamo spesso soffermati (rimando al post “Go west, young entrepreneur“):  l’Europa è in grado di creare  dei campioni nazionali nel campo delle nuove tecnologie? Ma soprattutto è in grado di farli crescere e diventare dei leader mondiali?

I fatti dicono che i “new economy leviathans” sono quasi tutte nel nuovo continente. In Europa sono merce rara. E il ciclo di sviluppo delle nuove tecnologie passa attraverso startup che crescono e vengono acquisite da aziende più grandi.

Quindi da noi mancano le exit domestiche, visto che non abbiamo grandi aziende tecnologiche in grado di comprare gli astri tecnologici nascenti. Bloccare quelle internazionali (come nel caso di Dailymotion) espone al rischio che le aziende nostrane non riescano a fare il grande salto. E non liberino risorse che potrebbero reinvestite nel sostenere nuovi cicli di innovazione.

Però non ci sono controprove e il tema si presta ad un dibattitto ampio e serio. Attendo commenti, suggerimenti ed opinioni.

One Market Plaza San FranciscoOne Market Plaza, San Francisco, California. E’ questo l’indirizzo molto californiano della filiale americana di una azienda italianissima, Neptuny. O forse dovrei dire Moviri, visto che dopo aver venduto Caplan, il suo software per il capacity management, a BMC Software, colosso globale dell’enterprise software che compete con HP, CA e IBM, la società si è data una nuova identità

La notizia della cessione a BMC, annunciata il 5 ottobre scorso, ha avuto una forte risonanza qui negli Stati Uniti, ma paradossalmente sembra essere passata quasi inosservata in Italia. Eppure si tratta di un evento molto importante nel panorama del software e della tecnologia Made-in-Italy, una vera storia di successo tutta italiana in un settore nel quale se ne sono contate ben poche negli ultimi 20 o 30 anni. 
Nata come uno spinoff del Politecnico di Milano, Neptuny ha costruito nel corso degli anni una competenza specifica e molto richiesta nella ottimizzazione delle risorse hardware e software all’interno dei data center, sviluppando un prodotto software, Caplan, per il quale ha trovato clienti tra grosse aziende, prima italiane, poi europee e, più recentemente, americane. Il successo del prodotto, la crescita del volume di affari e il prestigio dei partner della azienda non sono passate inosservate agli operatori del settore, tant’è che BMC ha deciso di avvicinare Neptuny per acquisirne il prodotto e le competenze.

Tale è la qualità di Caplan che BMC, che pure ha più di venti anni di storia nel settore del capacity management, ha deciso di rinnovare completamente la sua offerta in questo settore con il prodotto e il team della azienda italiana, anche nell’ottica delle strategie sul cloud computing.

Nei giorni immediatamente successivi all’annuncio, ho avuto modo di rivolgere alcune domande a Fabio Violante, fondatore e AD di Neptuny, ora passato in BMC e Paolo Bozzola, dal 2005 in azienda come responsabile della attività di consulenza e, dal 1 ottobre, AD di Moviri:

1) Quanto importante è questo accordo con BMC per Neptuny e più in generale per il mondo del software in Italia?

Fabio: “Questo accordo ha una portata straordinaria per Neptuny, per il mercato del software e per tutti i giovani imprenditori italiani. La nostra storia è iniziata nel 2000 nell’acceleratore del Politecnico di Milano, e quindi con forti radici accademiche, ma si è sviluppata attorno ad un mix di visione, capacità pragmatica di eseguire, e ascolto continuo dei clienti e del mercato. Dagli inizi ad oggi abbiamo fatto parecchia strada, diventando un player importante sul mercato globale con un prodotto come Caplan, riconosciuto da analisti e clienti come superiore alla concorrenza. In questo rappresentiamo un esempio di azienda privata, che ha avuto il coraggio di reinvestire in prodotto le risorse economiche generate attraverso la consulenza (più del 30% del fatturato annuo dal 2000 fino ad oggi investito in R&D) per crescere oltre i limiti del mercato italiano e mirare a obiettivi ambiziosi. Con tempo e determinazione, i risultati ci hanno dato ragione. E se ci siamo riusciti noi, non c’è motivo per cui altri, facendo leva su risorse e persone giuste, non possano fare altrettanto. Questa acquisizione da parte di BMC testimonia il fatto che in Italia si può investire in aziende hi-tech di valore.”

Paolo: “Di recente si sente sempre più spesso della “fuga di cervelli” all’estero. A loro dico: l’innovazione e l’hi-tech sono possibili in Italia, a Milano. E’ possibile portare un po’ di silicio in pianura padana. Ci sono le competenze, ci sono le infrastrutture, c’è il capitale umano. Quindi: scriveteci, stiamo cercando talenti per ingrandire il nostro team e portare tecnologia italiana nel mondo. Non c’è una sola ragione per cui non si debba imporre il nostro modello di creatività e qualità, dominante in altri settori, anche nel business del 21 secolo che è indubbiamente rappresentato dal software.

2) Esiste un segreto del successo di Neptuny? Cosa ha fatto la differenza per l’azienda in un mercato così competitivo come quello dell’Enterprise Software?

Fabio: “Certamente alcuni fattori hanno fatto la differenza: l’attenzione costante alla richiesta del mercato, invece che chiudersi in un ufficio a creare soluzioni che non hanno un immediata applicazione; la cura nella selezione delle persone e lo sviluppo della squadra; l’investimento nel marketing in internet e sui media fatto in maniera professionale; l’attenzione alla protezione e gestione della proprietà intellettuale; il focus, fin dagli inizi, alla creazione di una azienda che fosse sostenibile a lungo termine, built-to-last, piuttosto che built-to-sell, che e’ poi l’unico modo di destare l’interesse di investitori seri come BMC. Comunque, il lavoro duro 24h su 24 che, più di mille parole e pretese, è forse l’unica chiave per il successo.”

Paolo: “Non esiste un segreto, ma credo alcuni elementi che hanno contribuito alla ricetta di successo. Il primo è la qualità delle persone. Siamo stati maniacali nel selezionare una squadra di talento, ne siamo gelosi e rappresenta il miglior asset dell’azienda. Il secondo è la qualità del lavoro: crediamo che sia meglio essere i primi della classe in una nicchia di mercato piuttosto che uno qualunque dei fornitori generalisti di servizi IT in un mercato più vasto. Quello del SW è un mercato senza barriere all’ingresso che premia il numero 1, e forse lascia dello spazio agli altri. Se vogliamo, con un irrispettoso paragone, è l’approccio “Ferrari” portato al software.”

3) Evidentemente si è chiuso un ciclo per Neptuny. Ne inizia un altro per Moviri. Cosa c’è nel futuro della azienda?

Paolo: “Continuità. Quando un approccio è vincente non c’è bisogno di cambiarlo ma solo di ingegnerizzarlo e farlo, se possibile, crescere ancora di più. Rimane l’azienda di esperti di IT Performance Optimization che ha creato la success story con BMC, rimane l’azienda che usa la ricerca del Politecnico di Milano con un occhio di riguardo all’innovazione ed al mercato per fare, a Milano, “cose da Silicon Valley”. Moviri si sta ora focalizzando sul mercato della televisione digitale interattiva e dei new media, attraverso soluzioni che analizzano il comportamento ed i gusto degli utenti per effettuare raccomandazioni “intelligenti” agli utenti. E’ una disciplina affascinante che necessita di coniugare matematica teorica, ingegneria spinta, acume di business. E vincono tutti: gli utenti che hanno un’offerta interessante di contenuti video “personalizzata”, gli operatori che hanno un meccanismo per aumentare il gradimento ed i consumi, l’IT che beneficia di una soluzione pacchettizata e “chiavi in mano” in grado di operare su volumi di dati notevoli, in modo affidabile, e senza nessun problema di performance o affidabilità.”

Photo credit RTH Photos

Settimana scorsa avevamo avanzato qualche
P1-AU756_techhi_NS_20100415221706.gifsullo stato della economia americana all’indomani della grande crisi. Sul volo di rientro dal mio ultimo viaggio in Silicon Valley (giusto prima di infilarmi nella nube vulcanica o ancora peggio ad Heathrow) trascrivo un pò di appunti che mi sono annotato nei vari incontri che ho avuto con imprese, venture capital e banche nella settimana appena trascorsa.  Quali sono le principali novità che ho trovato rispetto all’inizio dell’anno?
1) La riapertura delle quotazioni in borsa (IPO): si prevede che circa un centinaio di imprese si quoteranno quest’anno tra NASDAQ e NYSE. Solo questa settimana sono state 7 le aziende che hanno esordito sui listini di borsa. Questa è una buona notizia: “the capital market is going to open up“, ridando liquidità agli investimenti fatti dai venture capital. Da attendersi tuttavia valutazioni più basse rispetto al passato.
2) Un aumento degli M&A: le grandi imprese stanno ritornando a fare shopping. Motivi? La crescita dei prezzi di borsa che si è registrata nel 2009 e in questo primo scorcio dell’anno ha rialzato le valutazioni (il cosiddetto “market cap“)  e quindi hanno maggiori munizioni per fare investimenti. Come sopra, anche questo sosterrà l’industria del venture capital fornendo delle exit per le imprese in portafoglio e riavviando così il ciclo degli investimenti sulle start-up. Anche in questo caso, i prezzi saranno più bassi.
3) Una ripartenza del venture capital anche se su basi diverse: l’industria del venture capital è uscita abbastanza a pezzi dalla crisi (“a handful of venture capital left“): alcuni fondi hanno chiuso, molti hanno regstrato perdite ingenti, per quasi tutti i fondi a disposizione per gli investimenti sono limitati. Tuttavia, come detto in precendenza, il riavvio di IPO e M&A dovrebbe ridare fiato al settore. Tuttavia le logiche di investimento (valutazioni, tagli di investimento, ruoli) sono destinate a cambiare.
Quindi: gli ingranaggi che muovono la ruota della corporate america stanno riprendendo a girare.
Lo testimoniano i dati sugli utili e sull’occupazione delle imprese high tech. Google ha annunciato una crescita degli utili del 37% in Q1, mentre Intel del 44%. E con gli utili si riprende ad assumere. Cisco, dopo avere assunto 2.100 dipendenti nel trimestre appena concluso, prevede di crescere di altre 2.000/3.000 unità. Lo stesso vale per gli altri new tech behemoths, ma anche per le startup emergenti come Twitter e Linkedin. I dati riportati in figura (che mostrano gli annunci di lavoro su Dice.com) visualizzano molto bene il cambio di passo, sia pure limitato ai settori high tech.
In ogni caso, una serie di buoni segnali  su cui costruire un po’ di ottimismo.

Potrebbe essere terminato il lungo braccio di ferro per il controllo di Cadbury, il quasi bicentenario colosso alimentare di Birmingham. L’ultima offerta presentata da Kraft sembra avere ricevuto il gradimento da parte del board di Cadbury. L’altro candidato all’acquisizione (la statunitense Hershey, la Ferrero si era fatta da parte prima di Natale) non sembrerebbe in grado di replicare.
Un pezzo della storia industriale del Regno Unito passa in mano straniera. Come è stata accolta la notizia oltremanica? Il lungo volo per San Francisco mi ha consentito di leggere molti commenti.
A parte le reazioni sdegnate degli eredi che hanno dichiarato che George Cadbury (lo storico fondatore) certamente si starà rivoltando nella tomba al solo pensiero che la propria azienda venga acquisita da un gruppo americano che “makes cheese to go on hamburgers” e quelle, di facciata, del governo inglese che ha affermato che vigilerà che questa operazione non coprometta i livelli di occupazione e di investimento nel Regno Unito, i commenti restano generalmente positivi.
“Good, it is a sign of UK openess” è quello più diffuso. L’orientamento non quindi è quello della difesa a spada tratta dei “campioni nazionali”. Sembra piuttosto prevalere la consapevolezza che le dimensioni di molti business (tra cui quello alimentare) sono ormai globali e ragionare in termini di proprietà nazionale non ha molto senso.
Certamente, non mancano i rischi legati alla trasferimento della proprietà delle proprie aziende all’estero. Quando gli headquarter lasciano un paese, spesso l’R&D ed altre attività ad alto valore aggiunto tendono a seguirli, con ricadute negative per la capacità produttiva e di innovazione del paese.
Ma la via per evitare che questo accada non quella di alzare barricate, sacrificando, in nome della bandiera nazionale, opportunità di sviluppo che possono generare valore.
La risposta deve invece essere quella di porre le condizioni affinché le attività a valore aggiungano non vengano trasferite altrove, ma rimangano al proprio interno. Cioè investire nella direzione di aumentare la qualità della ricerca e l’eccellenza delle risorse umane, che sono, alla fine, i reali driver delle scelte di investimento così come quelle di disinvestimento. Questo deve essere il ruolo di un governo:  non cercare di  gestire e influenzare il “corporate traffic”, ma creare le condizioni affinché questo non diventi “one way only

Leggendo l’ultimo post di Marco Marinucci, mi sono ritornate in mente le parole di Bill Young, CEO di Monogram Bio, azienda di South San Francisco (la “culla del biotech” come ricordano i cartelli stradali) specializzata nel valutare l’efficacia dei trattamenti farmaceutici per pazienti affetti da HIV.
Ci siamo rivisti un paio di settimana fa, un venerdì mattina a colazione (alle 6.30 della mattina al Marriott di San Mateo, le giornate nella valle iniziano piuttosto presto). Mi capita di incontrarmi con lui con una certa regolarità  in quanto Monogram Bio è uno dei casi che analizzerò nel mio libro sui business model delle aziende life sciences che dovrebbe uscire in America nella prossima primavera (dico dovrebbe, perchè sono un pò in ritardo). Bill mi stava raccontando del fatto che erano stati appena acquisiti da LabCorp. Ne parlava con grande orgoglio e con una assoluta naturalezza, nonostante tecnicamente quella successiva fosse la sua ultima settimana di lavoro e si apprestasse a rimanere “unemployed” e ad abbandonare la valle (nessuno può permettersi di vivere a lungo nella Bay area senza lavorare).
Nella mentalità  della Silicon Valley l’acquisizione rappresenta la meta per una azienda e per tutte le persone che vi lavorano, dal CEO all’ultimo dei dipendenti. Resta un obiettivo nonostante a questa faccia di solito seguito una ampia ristrutturazione aziendale, che porterà  all’uscita di gran parte del management e di molti dei dipendenti. “Folle”, diremmo noi. “So what?”, dicono loro. Rappresenta la conclusione di un percorso professionale ma anche l’opportunità  per avviarne uno nuovo, magari in una startup.In questa prospettiva l’acquisizione rimette in circolo innovazione e crescita economica su basi rinnovate. Ovviamente, le opportunità  non sono necessariamente per tutti non si manifestano esattamente il giorno dopo: ci saranno persone che rimarranno a piedi per un certo tempo. Tuttavia il gioco è più spesso a somma positiva che negativa.
Preparati ad una nuova ondata di startup nel campo biotech” mi dice Bill tra un sorso di caffè e l’altro (sì, perchè il caffe americano è molto, troppo lungo, nulla da cui noi italiani dobbiamo prendere esempio in questo  caso). Roche ha difatti comprato lo scorso marzo Genentech, la più grande azienda biotech al mondo, guarda caso con base a South San Francisco (nel caso vi foste in precedenza chiesti perchè South San Francisco dichiari di essere la culla del biotech). Grande acquisizione (quasi 50 miliardi di dollari, la più grande mai avvenuta nel mondo delle biotecnologie), imponente ristrutturazione. Molta gente in uscita, una fiumana di nuove startup in entrata. Questo è forse il vero segreto della Bay Area e della sua capacità  di avviare sempre nuovi cicli di innovazione.

(altro…)