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Marco Marinucci


Angel investor, startupper, kitesurfer e sognatore.
Nel 2007 fonda  Mind the Bridge Foundation di cui è CEO.
Dal 2001 vive stabilmente in California, dove ha lavorato per Google per oltre 7 anni, gestendo le partnership strategiche.
Ha lasciato Google per dedicarsi ad investire in startup attraverso il fondo Mind the Seed.  Vive (felice) a San Francisco
circondato da 3 donne bellissime. Siede anche nel board del fondo di IE Business School (Madrid).
Nel 2013 e’ stato nominato tra i “Primi-Dieci”, le dieci persone di origine italiana che si sono distinte come un esempio di ispirazione per le generazioni future.


Si chiama ICO, ovvero “Initial Coin Offering”. Da oggi non puoi più non sapere di cosa si tratti. Sono l’equivalente delle IPO nel boom delle dot-com o del Bitcoin nel 2015 (se non ti fosse ancora chiaro cosa sono qui trovi un buon sunto).

Le ICO sono il nuovo asso-pigliatutto del 2018. O almeno così sembra, se il buon giorno si vede dal mattino.

Lui si chiama Francesco Nazari Fusetti, è un nativo digitale, già cofondatore (ai tempi era ancora studente al liceo) della rete di ScuolaZoo, la scuola al digitale.

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Da ieri è il primo italiano a concludere, con un successo folgorante, una ICO, raccolta di fondi per AIDCoin, la prima crypto-currency nel mondo non-profit.

Ma andiamo con ordine.
Ho avuto il piacere di conoscere Francesco nel 2012, quando a Novembre viene selezionato per trascorrere qualche settimana alla nostra Startup School a San Francisco. Obiettivo: incubare la sua nuova idea imprenditoriale Charity Stars, una piattaforma sulla quale i VIP del mondo dello spettacolo e dello sport possono aiutare una causa non-profit associandole il proprio brand. Puoi comprare una maglia firmata da Pelè o seguire una gara al Mugello con Max Biaggi, vincendo un’asta i cui introiti vanno a una “buona causa”.
L’idea diventa realtà e, in pochi anni, la rete di Charity Stars cresce sia in offerte che in popolarità. Così tanto che Francesco passa buona parte del suo tempo a Los Angeles, il mondo delle star per eccellenza.
E proprio a Los Angeles viene folgorato lo scorso anno (2017) dall’opportunità rappresentata del Blockchain.

Incontro Brock Pierce, tra i guru del crypto-currency a una cena. La sera stessa compro Blockchain Revolution su Amazon” mi racconta, tra una RedBull e un’altra, quando lo contatto ieri, al termine di una giornata indimenticabile.

E così in 4 mesi, da settembre a oggi, abbiamo messo in piedi il primo progetto di moneta crypto per il mondo charity“.

La visione, concentrata in un white paper, è convincente: il mondo charity continua ad avere lacune enormi di trasparenza, specificatamente sulla tracciabilità nell’uso dei fondi. E questi sono i punti centrali della rivoluzione tecnologica decentralizzata rappresentata dal blockchain. Da quella intuizione parte la corsa forsennata per essere i primi al mondo a offrire una piattaforma e una crypto-currency proprio per il mondo non-profit.

Un po’ perché era importante arrivare prima degli altri, un po’ perché” ammette Francesco “con la volatilità del mondo crypto” (Bitcoin sale e scende più delle montagne russe) “non si sa mai come sarà il domani“.

AIDCOIN TeamMette su un team di 5 esperti di ICO, anche con il supporto del team italiano di EIDOO in Svizzera, la cui ICO aveva raccolto a suo tempo l’equivalente odierno di $83M (Etherium più o Etherium meno…). In 4 mesi girano il mondo per un roadshow che li porta dalla Cina alla Tailandia fino alla Russia (3 volte), Abu Dhabi, Bulgaria, Corea del Sud, per presentare il loro progetto a futuri potenziali singoli investitori.
La storia piace, tanto da realizzare a novembre una prevendita di token di $5M e chiudere la tanto attesa offerta pubblica ieri in meno di 90 minuti. Questo il tempo (record) necessario ad allocare sul mercato i 14333 Ether messi a disposizione. 1500 compratori da ogni angolo del mondo, per un equivalente di circa $16M.

E c’erano almeno altri $6M di richiesta che non siamo riusciti a esaudire perché “oversubscribed””.

Il mondo classico del venture è alla finestra, per un cambio di paradigma che non può passare inosservato: da giugno dello scorso anno, i capitali raccolti tramite ICO hanno ufficialmente sorpassato la raccolta attraverso  Venture Capital.

In Italia, visti i pochi VC presenti, il fenomeno ICO come forma alternativa di financing non dovrebbe influire negativamente, anzi…” replica Fausto Boni, di 360 Capital Partners, VC storico in Italia e tra gli investitori di Charity Stars.

E allora da domani tutti al lavoro per costruire la prima crypto moneta tracciabile per il funding del mondo non-profit.

Tutte le grandi organizzazioni no-profit guarderanno a noi“, assicura Francesco.

Intanto capitale e Red Bull sono assicurati.

Era il lontano novembre 2012 quando invitammo la neonata AdEspresso (uno spin off dell’agenzia web Creative Web) a passare qualche settimana a San Francisco da noi a Mind the Bridge.

L’intraprendente Massimo Chieruzzi, CEO e fondatore di Creative Web e della neonata AdEspresso, iniziava, probabilmente inconsapevole come tanti di noi, la vita del pendolare sul ponte Italia-Silicon Valley…

L’invito a entrare nel prestigioso acceleratore 500 Startups di Dave McClure (con relativo seed investment) convince in modo definitivo Massimo a provare la strada della startup “dual”, con gambe in Italia e testa in Silicon Valley. Ed è proprio a 500 Startups che si consolida l’unione con Armando Biondi, anche lui tra i founder incubati a 500 Startups (ma con un’altra startup, Pick 1). Il duo si intende bene, l’accelerazione porta i suoi frutti e AdEspresso adespressotrova la propria nicchia di mercato che gli permette di scalare, grazie anche ai  3 milioni di dollari di investimento successivamente raccolti.

Il personale raddoppia ogni anno, fino ad arrivare a 40 persone, di cui 30 (tutto lo sviluppo) a Milano e 10 a San Francisco.

Il modello à-la-Funambol, con, in questo caso un “Gran Finale”: l’acquisizione da parte della Canadese Hootsuite, che di funding ha ricevuto 260 milioni di dollari con una valutazione da “unicorno” (il famoso “one billion dollar”).

L’acquisizione di AdEspresso, in cash e azioni (Hootsuite è in pre-IPO) è “undisclosed”. Ma considerando l’ultima valutazione di 20 milioni di dollari e applicando i moltiplicatori tipici di un early investor, il valore dell’operazione non dovrebbe essere lontano dalle 9 cifre. Una happy exit visto che, come riportato su TechCrunch dal CEO di Hootsuite, “everybody is happy”.

Felice eè di certo Armando Biondi, COO di AdEspresso, che oggi ho avuto il piacere di incontrare a … un demo day di 500 Startups!

Di seguito il sunto della nostra conversazione:

Partiamo dalla fine. Una “exit”! La fine di un percorso o l’inizio di una nuova avventura?

Assolutamente un inizio. Questo è davvero uno di quei casi in cui non c’era pressione a vendere/comprare, piuttosto una comunione di intenti e di visione su come il mercato andrà ad evolversi nei prossimi anni. D’altra parte è anche vero che è la fine di una fase. Ma, alla fine dei conti, sono sempre “stepping stones”… in qualche modo… costruisci qualcosa e, se fai un buon lavoro, accedi al livello superiore e hai modo di confrontarti con più risorse, più complessità, più impatto.

La storia di Ad Espresso in 10 righe (o meno).

Una soluzione SaaS per aiutare le persone e le aziende a spendere il loro advertising budget nella maniera più intelligente possibile. Ci sono diverse cose che rendono AdEspresso speciale: a) zero venditori so far; b) un forte focus sulla formazione; c) una grande attenzione al design; d) un modello completamente self-serve; e) il “mid market” come cliente tipo.
La combinazione di questi elementi ci ha portato a diventare di fatto la piattaforma di FBads Optimization più usata e la fonte di informazione indipendente piu attendibile e accreditata su Facebook Ads al mondo.

Modello per le startup Bridge Silicon Valley <> Italia. Ci racconti la vostra esperienza? … gioie e dolori

Tutti i modelli hanno vantaggi e svantaggi, quindi è un po’ difficile generalizzare. Quello che per noi ha funzionato è stato tenere il team di prodotto e il design in Italia, mentre marketing e management stavano negli Stati Uniti. Unire il capitale e il growth mindset della Valley con il talento nostrano e l’attenzione al design. Certo, ci sono complessità: la distanza è una di queste, così come anche il fuso orario. Ma gestendo accuratamente le cose è un modello che può dare molte soddisfazioni… come nel nostro caso.

Un consiglio a chi parte oggi. Modello, location, verticali
Mah, più che un consiglio sul modello/location/verticali, ci sentiremmo di dare un consiglio sull’approccio. Nel senso di non partire con l’idea di fare una startup ma partire con l’idea di risolvere un problema. Se il problema è importante a sufficienza, le persone saranno disposte a pagare per averlo risolto… e, se ci saranno persone a sufficienza, diventerà un modello di business scalabile. La cosa importante è che, nella migliore delle ipotesi, passeranno alcuni anni prima che il potenziale si cominci a realizzare. Altro luogo comune da sfatare: non ci sono scorciatoie.

E noi, allora, brindiamo alla Exit. Mentre gli altri 50 founder intorno a noi, che domani si “gradueranno” da 500 Startup, guardano ad AdEspresso come al loro eroe della giornata.

26 SETTEMBRE 2016 | di

third wave

Si è conclusa questa settimana la maratona di eventi che va sotto il  nome di Startup Europe Comes to Silicon Valley ed è tempo di prime valutazioni.

La prima considerazione è che oggi l’Europa è in grado di fornire progetti imprenditoriali solidi non solo a livello di innovazione prodotto ma anche, in questo caso, solidi a livello di fondamentali del business.

A differenza della Silicon Valley dove la scala viene prodotta tipicamente da un’iniezione di ormoni (capitale) che droga innaturalmente la crescita per accelerarla, i progetti di scala simile creati in Europa sono solitamente cresciuti con risorse proprie, prese dal mercato, vendendo spesso servizi per finanziare la produzione di prodotti.

Il risultato netto è che chi riesce a diventare grande in Europa è sopravvissuto a un ciclo molto più lungo di crescita (mediamente 10-15 anni), con grandissime doti di tenacia e con un grande valore aggiunto: genera cassa e non ha da rendere conto in consiglio di amministrazione a un gruppo di investitori che hanno il tempo contato per realizzare il proprio investimento.

I CEO di queste società sono in una posizione di forza invidiata dalla maggior parte dei loro omonimi in Silicon Valley.

La seconda considerazione è che piattaforme come SEC2SV sono diventate essenziali anche e soprattutto per i giganti della Silicon Valley per mantenere un canale di conversazione aperto con i policy maker europei.

Ne è testimonianza il fatto che questa edizione era supportata da player come Google, Facebook, Dell, Microsoft (+ l’italianissima Facility Live) oltre a un numero di partner “tecnici”.

Immagine anteprima YouTube

Siamo in pieno sviluppo di una nuova fase economica, quella che vede la disruption portata da innovazione tecnologica nelle aree al cuore dell’economia “tradizionale”: i trasporti, la sanità, i sistemi finanziari. Siamo agli inizi di quella che Steve Case, fondatore di AOL (e oggi coinvolto come ambasciatore per le startup nell’amministrazione Obama) chiama la terza onda di sviluppo di internet. Dopo la prima che ha posto le basi per l’infrastruttura di internet e tecnologie mobili, e la seconda  (ancora in atto) dello sviluppo di applicazioni, oggi siamo entrando nella terza onda, quella dell’“internet of everything” dove la connessione non è più un obiettivo ma è scontata come l’energia elettrica. Questo sviluppo richiede però regole diverse delle precedenti. Si passa da una forma di vendita push (creo una applicazione / prodotto e cerco un’audience) a una fase più complicata dove l’integrazione e il dialogo con governi e policy maker diventa il vero collo di bottiglia. Che si sviluppino flotte di droni, self driving car, laboratori per la sequenziamento del DNA  o un nuovo sistema finanziario che rimpiazzerà la borsa attuale, gli imprenditori della terza onda dovranno necessariamente avere canali di comunicazione aperti con gli stakeholder attuali e soprattutto con i policy maker.

Essere “fluenti” nella lingua del policy making sarà il mantra dei nuovi vincitori che emergeranno dalla terza onda.

unicorn mustangE in questa nuova fase l’Europa, che tende a regolare le industrie più che gli Stati Uniti, avrà una nuova centralità. Che giù si è presa. Non passa giorno in cui le prime pagine dei giornali non siano coperte da esempi di questo complicato processo: Apple e le tasse mancate con l’Irlanda, Facebook e la privacy, You Tube e “the right to be forgotten”, etc.

Oggi Bruxelles è diventato il cento dove si decide il futuro di nuove industrie potenziali o la loro morte.

Siamo in un capitolo nuovo, soprattutto in Silicon Valley dove regge da sempre la regola non scritta del “Government out of the way”.

Oggi questa attitudine che ha portato tanta ricchezza nelle prime 2 onde, diventa sinonimo di miopia, ed è il motivo per cui molti, dai colossi del digitale ai fondi di venture capital, stanno investendo enormi risorse nella creazione di Public Policy Relations (i.e. il fondo A16Z ha un’area dedicata al “Policy and Regulatory affairs” per curare le proprie società in portfolio).

E questo è il motivo per cui piattaforme come SEC2SV diventano oggi uno strumento naturale per coltivare la terza onda. E i surfisti incalliti lo sanno bene: se vuoi stare sull’onda e non esserne travolto, il timing è tutto.

CES 2016

Anche quest’anno la Befana è arrivata a Las Vegas.  Nel 2016 però, al posto della scopa, guidava un drone -taxi con capacità autonome.

Ad aspettarla c’erano, oltre alla popolazione di 170 mila gadget-dipendenti quasi umani, una nuova generazione di robot umanoidi, molti dei quali con delle fattezze molto simili alle domestiche robot della serie dei “Pronipoti” – care alla mia generazione.

Domestiche e Las Vegas a parte, la mia prima partecipazione al CES mi ha trasmesso degli stimoli interessanti.

La quantità di partecipanti d’oltre frontiera (quella USA) sorpassa ampiamente ogni manifestazione simile a cui abbia partecipato.

Gli orientali la fanno da padroni, sia per il numero di curiosi che per le società presenti in forza all’exhibition di Las Vegas.

Molti anche gli europei, in particolare i francesi che, con il supporto istituzionale di Le French Tech, hanno inondato lo spazio di nuove promesse (Area Eureka) di startup made in France.

Sparsi nella galassia di espositori, si trovano anche alcune realtà interessanti dal cuore italiano.

 SENSORIA: 

Con il motto “the garment is the (next) computer” la società basata a Seattle ma con management, ingegneria e capitale gran parte italiano, è da tempo un punto di riferimento per l’innovazione di sensori integrati al clothing. Dopo le sue calze con sensori (che consiglio di provare), magliette e reggiseni cablati, in questi giorni Sensoria è uscita alla ribalta come una della startup più hot nei voti dei venture capital. Proprio al CES ha annunciato un deal con Microsoft che porterà sul cloud migliaia di dati di giocatori di calcio (famosi e meno).
Davide Viganò (co-founder e CEO di Sensoria), sempre molto ricercato dai media locali, sprizza ottimismo da tutti i pori e racconta di essere in fase avanzata per la chiusura di un serie B di finanziamento.

 

AXWAVE:

Con un founder italo argentino (Damian Scavo) e buona parte dello sviluppo italiano, Axwave si è ritagliata in breve tempo uno spazio importante in un’area molto calda: analitiche per la TV. Con suo software brevettato, in 2 secondi è in grado di riconoscere la stragrande maggioranza dei programmi televisivi (cavo o internet) e delle pubblicità associate. Uno Shazam per il video che fa gola non solo a chi vive dei dati TV raccolti però con tecnologia antiquata (Auditel) ma anche ai grandi advertiser che fiutano la possibilità di ri-targettizzare i consumatori in base a quello che sta guardando in background.
Come solo a Las Vegas può accadere, il “booth” di Axwave al CES è effettivamente …una suite del Caesar Palace. Pratica e meno affollata di pubblico (anche se le grosse società fanno la fila per incontrarli).

 

ENERGICA:

Nel mezzo di  un’uscita in borsa (si dovrebbe concludere il 21 gennaio), questa eccellenza tutta italiana si è fatta conoscere già qualche tempo anche nella nostra Silicon Valley, dove la sua Ego si è fatta desiderare da molti centauri locali (io, ammetto, ho avuto l’onere di guidarla sotto il Golden Gate Bridge).
Al CES si fa notare non solo per la suo motore puramente elettrico, ma anche per il suo DNA di materiali d’avanguardia e con pezzi prettamente 3D printed.

 

 

BLUESMART:

Qui la connessione italiana è più laterale visto che i founder sono argentini (ma di origine italiana).
Il successo storico della loro campagna di Indiegogo  ($2.2M) e un’accelerazione con YCombinator li hanno proiettati nella stratosfera delle società più calde del momento.

La loro prima smart-suitcase, oltre ad essere già un best seller, mi ha ripetutamente salvato dal perdere il mio bagaglio (via GPS), oltre a ricaricare laptop e cellulare ormai estenuati da una giornata di lavoro al CES, direttamente dalla batteria incorporata nella valigia (già, ovviamente non potevo fare a meno di possederne una).

Al CES, Diego e friends hanno appena annunciato la produzione di una nuova valigia, questa volta di dimensioni maggiori. Meno male, qui i gadget non ci stavano più.

Era il 2008. La Lehman Brothers aveva appena dichiarato bancarotta, il primo presidente afroamericano della storia veniva eletto in USA, la Cina ospitava per la prima volta i Giochi Olimpici. In Italia il termine “Startup” era pressoché sconosciuto.

È proprio nel 2008  a San Francisco che ho incontrato il team di VivaBioCell, una delle ultime exit di startup italiane ad opera di gruppi statunitensi.

VivaBioCell partecipava come finalista, insieme ad altre giovani società, alla prima edizione del Mind the Bridge, una business plan competition (eh già, ai tempi si scrivevano ancora i “business plan”) il cui obiettivo era quello di supportare e dar visibilità in Silicon Valley alle migliori “promesse” di tecnologie made-in-Italy.
Oggi, 8 anni dopo, la società è alla ribalta per una acquisizione multimilionaria (riportati “80 milioni di dollari”) da parte di un gruppo americano.
Poco importa che l’entità della transazione sia stata smentita categoricamente, in primis dagli investitori nell’operazione: dalle nostre conversazioni pare che “gli investitori recupereranno quanto hanno investito, con un earn-out in caso di IPO (strike price fissato ad 80 milioni di dollari)“.

Come spesso accade, i media italiani tendono a gonfiare le attività di M&A delle startup nostrane (questa è la seconda notizia del genere nella stessa settimana dopo Soundtracker). Sarà l’euforia del momento.

2008: premiazione del primo concorso MTB a San Francisco

Quello che conta è che storie come VivaBioCell, nate dalla migliore ricerca italiana che può, ancora, dire la sua nel mondo, servono come l’aria nel panorama sempre più affollato delle startup made in Italy.

Chiediamo a Francesco Curcio, fondatore, di raccontarci la sua storia in 10 domande.

Quando nasce VivaBioCell e da quali premesse?
Nasce nel 2004 per trasferire risultati di ricerca alla pratica clinica e per dare opportunità ai giovani ricercatori.

In cosa consiste l’innovazione apportata da “GMP in a Box” rispetto ai sistemi standard?
Risolve tutti i problemi di sviluppo delle applicazioni dell’ingegneria tessutale: massima sicurezza per il paziente, standardizzazione, scale-up, payor acceptance e in più consente di sviluppare la proprietà intellettuale a supporto del progetto industriale.

Quali possono essere le sue applicazioni pratiche?
Le prime applicazioni cliniche sono la cura dell’osteoartrite, la soluzione di diversi problemi implantologici e di ricostruzione ossea in chirurgia maxillo-faciale e neurochirurgia. Infine, molto importante, l’espansione di cellule da utilizzare nell’immunoterapia dei tumori.

Parliamo di costi: la macchina è pensata per un monouso. Quanto incide questo aspetto sui costi di utilizzo? E in che misura conviene in ogni caso rispetto ai metodi tradizionali?
Abbatte i costi di diversi ordini di grandezza.

Quale è stato il percorso della società dalla nascita dello spin-off a oggi?
È stato un percorso incrementale: è nato vincendo prima alcune competizioni per business plan locali e poi il premio “Mind the Bridge”, è stato finanziato all’inizio dai soci fondatori – tra cui l’Università di Udine -, ha ottenuto finanziamenti del Ministero dell’Università per gli spin off, hanno cominciato a entrare finanziatori istituzionali privati e pubblici, intanto abbiamo sviluppato il percorso scientifico e produttivo basandoci in modo assoluto sulle norme regolatorie e i risultati sono venuti: questo ha permesso di renderci credibili anche a un soggetto importantissimo come NantWorks.

In questi giorni, infine, l’annuncio dell’acquisizione da parte da NantCell, una controllata del gruppo NantWorks: quali saranno a grandi linee i prossimi passi? Il team di VivaBioCell sarà coinvolto interamente?
Il Team sarà tutto coinvolto. Gli obiettivi sono ora di sviluppare la dimostrazione clinica nel più breve tempo possibile e iniziare la commercializzazione delle nostre proposte terapeutiche.

Per far crescere velocemente progetti come il vostro, quanto conta il supporto del privato e quanto quello del pubblico? Che tipo di riscontri avete ottenuto in termini di interesse, partnership, investimenti da ciascun settore?
La fase più difficile è quella dopo la “proof of principle” e prima di avere un fatturato: servono soprattutto compagni di viaggio competenti e con un buon network. Sono privati che possono garantire anche gli investimenti pubblici. Secondo me, in questa fase la cosa migliore è la partnership pubblico/privato. Il pubblico è garantito dal fatto che il privato investe del suo e il privato vede un rischio minore perché parte del costo è sopportato dal pubblico: una vera win-win situation.

Nel 2008 avete vinto la prima competition di Mind the Bridge: cosa vi siete portati dietro da quella esperienza?
Una grande esperienza internazionale: la dinamicità dell’imprenditoria della Bay Area è enormemente stimolante.

Quanto si è fatto in materia di cellule staminali e quanto resta ancora da fare? Quali le problematiche principali?
Parliamo naturalmente di quelle adulte. Certamente si è dimostrato che hanno possibilità terapeutiche importanti. Adesso bisogna renderle accessibili a tutti i malati che ne possono trarre giovamento. Attualmente i problemi sono soprattutto la scarsa standardizzazione della produzione, i costi molto elevati, un bisogno di maggior sicurezza e la difficoltà a renderla una terapia di massa.

Per chiudere. Un consiglio a un ricercatore italiano.
Mai arrendersi: applicando i giusti modelli le cose si possono fare anche in Italia.

Grazie Francesco – in attesa di festeggiare una IPO al NASDAQ, ma con un cuore (tecnologico) made-in-Italy.

Da tempo scriviamo su queste colonne (e non solo) che, affinché il movimento attuale delle startup in Europa possa iniziare a produrre un reale impatto economico, c’è bisogno di un incremento significativo del numero di acquisizioni di startup da parte di società più mature.
È questo oggi il dato che differenzia sostanzialmente il mondo startup degli Stati Uniti (in particolare la Silicon Valley) da quanto accade in Europa. Non solo non ci sono abbastanza opportunita’ di “exit” in Europa ma oltretutto,  delle poche che si contano tra quelle europee, oltre l’80% avviene con operazioni negli Stati Uniti.
È proprio su queste premesse che si basa la costituzione del programma di Startup Europe Partnershipche abbiamo avviato con la Commissione Europea.È quindi con particolare soddisfazione che riceviamo notizia che oggi si è ufficialmente  conclusa la procedura di acquisizione di Map2App, startup italiana focalizzata nella creazione di app di guide turistiche, da parte del gruppo BravoFly, un gruppo operante nel turismo elettronico di recente quotata nella borsa Svizzera.
Anche se i termini dell’acquisizione non sono stati rivelati (*), si tratta di un caso di “acqui-hire”, ovvero di acquisizione soprattutto del team (“talent acquisition”).Anche se non siamo di fronte ai $19B di Whatsapp, ci sembra comunque significativo che si possano iniziare ad avaere più acquisizioni di Europa su Europa. Ho chiesto allora a Pietro Ferraris, fondatore e CEO di Map2App, di raccontarci come è andata:
        
 
Pietro, ci descrivi Map2App (il prodotto) in 5 righe?
Map2app è una piattaforma web che consente di creare applicazioni mobile per la promozione del territorio in modo semplice, veloce e a costi estremamente contenuti.
Map2app è il modo più semplice per creare e gestire guide turistiche per smartphone (iPhone e Android) ed è attualmente utilizzata da tour operator, uffici del turismo, organizzatori di eventi, portali turistici, editori e portali web in oltre 20 paesi. In 2 anni, grazie a Map2app, sono state prodotte oltre 500 app, che sono state scaricate oltre 1.000.000 di volte. Il nostro lavoro è quello di consentire anche alle realtà più piccole di promuovere il proprio territorio in maniera moderna e funzionale.
E la storia di Map2App in 5 righe?
Abbiamo iniziato a lavorare a Map2app a fine del 2011 e abbiamo creato l’azienda nel 2012. Volevamo mettere chiunque in condizione di promuovere il proprio territorio attraverso una app, che fosse bella, utile, personalizzata e a un costo che potesse competere con la stampa di mappe e brochure. Abbiamo sviluppato il prodotto tra Bologna e San Francisco e alla fine del 2012 siamo andati live con Map2app. A San Francisco abbiamo trovato advisors, un seed round e i primi clienti. A Bologna abbiamo trovato i programmatori e iniziato a dialogare con diverse realtà italiane interessate a quello che stavamo creando. Nel 2014 abbiamo incontrato Bravofly (Volagratis in Italia), dapprima siamo stati loro fornitori e nell’ultimo trimestre del 2014 abbiamo iniziato a valutare la possibilità di una acquisizione.
Cosa implica l’acquisizione?
Per Map2app è un’incredibile opportunità per far crescere il prodotto più rapidamente all’interno di un’azienda che da oltre 10 anni si occupa di far viaggiare milioni di turisti. Map2app come piattaforma per la creazione di guide turistiche continuerà ad esistere ed anzi verrà migliorata e potenziata e oltre a questo lavoreremo ad una serie di altri progetti interni in ambito mobile.
La vostra esperienza in Silicon Valley: sweet or sour?
Sweet AND sour!
È un’esperienza che consiglio vivamente a qualunque “startupper” in quanto in Silicon Valley scopri molto in fretta se e quanto la tua azienda ha le gambe lunghe.
È molto semplice ricevere feedback da professionisti di altissimo livello e c’è una concentrazione incredibile di persone eccezionali. Alcune ti aiuteranno e altre ti diranno che la tua idea non decollerà mai. Entrambi motiveranno in modo estremamente convincente la propria opinione e metteranno a dura prova le tue idee e convinzioni. La Silicon Valley in un qualche modo ti tempra come imprenditore e ti fa crescere molto rapidamente… anche se hai già 34 anni e un’altra azienda alle spalle. I continui feedback – diretti e indiretti – e la presenza di almeno altre 10 aziende che fanno più o meno quello che fai tu a pochi blocks da dove ti trovi ti fanno tirare fuori il meglio di te e ti spingono a migliorare, cambiare e imparare. È un luogo che ti insegna il valore del network e dell’aiuto reciproco e che offre incredibili opportunità… ma anche una competizione serrata e una velocità a cui accadono e cambiano le cose che non tutti tollerano bene.
È anche un luogo in cui – che tu stia mangiando un burrito, bevendo una birra, leggendo un ebook in metropolitana o passeggiando per la strada – c’è sempre qualcuno a meno di 5 metri che sta parlando di app, web, stock options, pivoting, angels, marketplace, disruption, vision, mission, etc. etc. …e anche questo, alla lunga, può stancare.
3 cose che vuoi condividere con altri startupper?
1) Qualcuno molto saggio ha scritto: fare una startup è come cavalcare un leone. Tutti ti guardano e pensano: “come è coraggioso!” Tu invece pensi: “come sono finito qui sopra e soprattutto come faccio a evitare di farmi sbranare?” Ecco, è una frase molto vera secondo me. Fare una startup non è un gioco, è una cosa pericolosa, estremamente stressante e con un impatto fortissimo sulla propria vita. Quello che all’inizio è un bel sogno di tre amici diventerà – ve lo garantisco – il pensiero che occupa il 99% del vostro tempo nei successivi X anni. Siete pronti a questo?
2) San Francisco è meravigliosa ma attenzione a non innamorarvi dell’idea di creare a tutti i costi una azienda all’estero “perché in Italia è tutto uno schifo”. Come sempre accade in questi casi, nulla è semplice come ve lo raccontano e il diavolo sta nei dettagli. Quando si crea una società ci sono centinaia di dettagli a cui badare. Prima di prendere una decisione su dove creare la vostra società parlate con qualcuno che l’ha fatto in prima persona per capire pro e contro. Ci sono sempre dei contro. In primis il fatto di “giocare fuori casa”, ovvero essere degli outsider in competizione con altre startup che in quel posto hanno un network radicato.
3) Non fatelo per i soldi. È una motivazione sbagliata, esistono modi più semplici e veloci per fare soldi, con tassi di successo estremamente più elevati e lavorando meno di 12 ore al giorno (nei giorni buoni). Creare una startup, trovare il prodotto giusto, veicolarlo correttamente sul mercato e arrivare a una exit (acquisition, acqui-hire o IPO che sia) è un processo lungo e faticoso e con un tasso di successo paragonabile a quello di vincere X-Factor. Le probabilità non sono dalla tua parte, questo è sicuro. I soldi forse, dopo alcuni anni, arriveranno anche ma la motivazione deve essere più nobile, deve esserci l’urgenza di creare qualcosa che non c’è, di risolvere un problema, di creare qualcosa di bello. Solo queste motivazioni possono darti quella resilienza, forza d’animo e ottimismo necessari ad andare avanti anche nei momenti bui (e ce ne saranno, credimi).

4) BONUS: Se stai per creare una startup significa  stai per investire i prossimi anni della tua vita, tutte le tue energie e probabilmente gran parte delle tue risorse finanziarie in questa avventura. Pertanto scegli con grande accortezza i tuoi compagni di viaggio. Se un giorno arriverai in porto sarà stato solo merito del tuo equipaggio.

Grazie Pietro, congratulazioni e benvenuto nel club ristretto delle startup italiane con Exit.

(*) Per full-disclosure, il sottoscritto è tra gli investitori con MTS Fund in Map2App.

Da che mondo è mondo,  la pubblica amministrazione è naturalmente associata a  burocrazia e procedure farraginose.

Eppure, una delle più grandi opportunità di creazione di posti di lavoro  può venire proprio dallo sforzo proattivo di creazione di un’ondata innovativa nella PA grazie alle nuove tecnologie. È quanto viene definito  “creative disruption”.

In realtà  questo movimento di E-Government esiste negli Stati Uniti (e non solo) da qualche anno: esperienze come Code for America, Data.Gov e DataSF hanno aperto veri e propri nuovi canali di innovazione, basati sui seguenti pilastri:

– migliorare l’efficienza dello status quo (non dovrebbe essere complicato);

– apertura e trasparenza dei dati “civici” (siano essi relativi a salute, trasporto o educazione);

–  “wisdom of the crowd” e “Open Source“(se la competizione è aperta a migliaia di innovatori, possono succedere cose meravigliose)

È su questi presupposti che si inserisce l’evento “La Nuova PA: Digitalizzazione e Smart Cities, Efficienza e Vantaggi condivisi” a cui avrò il piacere di partecipare questo fine settimana.

L’host dell’iniziativa è E-GlobalService (EGS), un gruppo che da anni è attivo nella gestione di servizi in outsourcing per società pubbliche, private ed enti in generale e che oggi, più che mai, vuole associarsi con la creazione di innovazione nella PA.
Con Benedetta Arese Lucini #1 di Uber Italia e Luca de Biase (Il Sole 24Ore) parleremo di come il trasporto pubblico sarà drasticamente differente nell’immediato futuro (a San Francisco in meno di 2 anni autobus e taxi sono stati totalmente rimpiazzati da servizi come Uber e Lyft) e, soprattutto, qual è il ruolo dell’amministrazione pubblica nel gestire tali transizioni in maniera più indolore possibile.

Si parlerà anche di strumenti che possano portare trasparenza nell’ambito delle scelte di “procurement” (bandi di fornitura) e delle proposte civiche. Da NYC e Washington DC ci sarà Nick Mastronardi, senior economist di Amazon e fondatore di Polco, una piattaforma di partecipazione pubblica al processo decisionale politico e dell’amministrazione civica.

Il cuore della 2 giorni sarà però il Bootcamp chiuso al pubblico in cui EGS, con il supporto della Fondazione Mind the Bridge e sotto l’egida di Startup Europe Partnership, farà scouting dei progetti più’ interessanti nell’ambito delle smart city, procurement e smart pricing.

A che scopo? EGS ha l’obiettivo di investire, acquisire o integrare nella propria offerta i prodotti di 3 delle migliori startup selezionate.

E, in una pletora di eventi “educativi” nel mondo delle startup, una iniziativa concreta con un commitment reale di business è decisamente degna di attenzione.

Per chi volesse seguire l’evento in diretta, questo è il link allo streaming.

Signor Presidente,

 

la sua visita in Silicon Valley è particolarmente apprezzata.

Siamo onorati che abbia accolto l’appello che, insieme al nostro amato Console Generale in San Francisco, Mauro Battocchi, le abbiamo rivolto in occasione dello scorso Italian Innovation Day (qui il video, al min. 6.18), l’appuntamento che organizziamo da anni per comunicare alla comunità della Silicon Valley un’immagine dell’Italia che vada oltre agli ambiti “food & fashion”, ma che invece valorizzi anche l’ingegno e la creatività tecnologica di cui siamo ricchi, ma che abbiamo spesso difficoltà a valorizzare ed esportare.

 

Signor Presidente, il suo viaggio rappresenta per noi Italiani in Silicon Valley (ben 5.000) una dimostrazione di un cambio di rotta del sistema paese. Vogliamo immaginare che questo viaggio sia il simbolo di un’Italia rinnovata, che individui, come priorità nazionale, innovazione, cultura digitale e mondo delle startup, nell’obiettivo di riavviare un ciclo virtuoso di crescita.

 

Signor Presidente, la invitiamo ad utilizzare bene l’opportunità offerta da questo suo viaggio per aprire un canale di comunicazione diretto e privilegiato con questa comunita’ che troverà ad accoglierla. Rappresentano il meglio dell’essere italiani (creativi, socievoli e amati) mischiato con il meglio della professionalità della Silicon Valley (innovativi, puntigliosi e di successo).
Li metta in un advisory board, li ascolti per avere un confronto, disinteressato e aperto, nelle sue decisioni strategiche.

Questa è una comunità che ha tanto da dare al paese che la ha formata. E’ rappresentata da una prima generazione, che ha creato le basi per lo sviluppo del mondo dei microprocessori e dei computer, ma anche da una nuova generazione, quella del popolo delle startup. Una nuova generazione che si sta facendo strada in Silicon Valley, ricavandosi uno spazio nella Serie A del mondo dell’innovazione.

 

Questa è la comunità che è stata, allo stesso tempo, ispirazione e supporto alle attività di Mind the Bridge Foundation. Con i nostri programmi di supporto alle startup, oggi, dopo 7 anni, abbiamo “laureato” più di 350 imprenditori alla nostra Startup School, filtrato e supportato migliaia di startup, raccontato la storia di questa “altra Italia” a decine di migliaia di persone nel mondo.

I risultati si vedono: questa comunità oggi è vibrante e quanto mai affamata di successo. Questo ponte, una volta labile e lontanissimo, oggi e’ diventato un autostrada a sei corsie. Il fatto che la Commissione Europea abbia chiamato una organizzazione come la nostra a guidare un progetto come Startup Europe Partnership, volto a creare casi di successo di startup in Europa, è testimonianza che il lavoro che abbiamo fatto in questi anni va nella direzione giusta.
Non le nascondiamo che essere stati indicati, prima a Davos dalla Vice Presidente Kroes e, successivamente, a Brussels direttamente dal presidente Barroso, come l’organizzazione che possa coordinare un progetto di tale rilevanza e portata per l’Europa, ci abbia riempito di orgoglio come cittadini che, se pur residenti negli Stati Uniti, si sentono fortissimamente italiani.

Crediamo, dal nostro osservatorio e dalla nostra esperienza, di poter dare molte indicazioni “tecniche” su cosa sia utile fare in Italia nel campo degli investimenti (ad esempio, un matching fund per il venture capital), del mercato del lavoro (flessibilità) e delle agevolazioni fiscali (detassazione per investimenti ed acquisizioni in startup). Se vorrà, siamo a sua disposizione.

 

Oggi vorremmo chiedere la sua attenzione e il suo supporto non su aspetti tecnici, ma per un tema che, come Fondazione Mind the Bridge, ci sta da tempo a cuore: l’educazione all’imprenditorialità.

 

Al riguardo, alcuni programmi già esistono e vanno solo supportati e consolidati.

Quindi le chiediamo di sostenere istituzionalmente e concretamente i programmi che espongono i giovani laureati e i ricercatori italiani al meglio della Silicon Valley (come il programma Fulbright BEST), o che portano giovani imprenditori a passare un mese della loro vita a San Francisco (come la nostra scuola di startup), o che mettano a confronto manager di grandi imprese con giovani startupper (quali i programmi di Intra-preneurship). Su questo fronte, il ponte è aperto. Per fare la differenza, dobbiamo solo muovere più persone. Perchè ogni persona che arriva qui torna in Italia trasformata e diventa, a sua volta, un agente positivo di cambiamento.

 

Il tassello che però oggi ancora manca è inserire l’educazione ai temi dell’imprenditorialità nella prima età scolare (scuole elementari e medie). Dobbiamo dare ai nostri giovani uno spirito imprenditoriale e fare in modo che questo diventi parte integrante del loro percorso di educazione e crescita. Con l’obiettivo di dare loro una prospettiva diversa, una attitudine al fare e all’individuare e cogliere le opportunità invece che attendere soluzioni calate dall’alto.

 

Signor Presidente, noi oggi vogliamo quindi chiederle di fare un passo in più. Lei, giustamente, ha messo, al centro del suo processo di riforma, l’educazione e la scuola. In questo contesto, il passo ulteriore è inserire l’imprenditorialità nei programmi scolastici. Da insegnare in modo innovativo, da “imprenditori madrelingua”.

Questo passo metterebbe l’Italia all’avanguardia a livello internazionale, non nell’immediato, ma nel prossimo futuro. Ma dal dopodomani si parte per impostare i progetti per l’oggi e il domani.

 

Noi, come Mind the Bridge Foundation, abbiamo la passione, l’esperienza e i contenuti che servono per portare avanti un programma che apra a questi temi le masse di studenti dagli 8 ai 13 anni. L’italia può diventare il case study su cui costruire programmi simili a livello europeo.

 

Noi crediamo che l’imprenditorialità sia un motore sociale fondamentale. Noi crediamo fortemente nel suo valore non solo per la crescita economica ma, anche e soprattutto, per il suo impatto sociale travolgente. E’ l’ingrediente che determina quel senso di positività virale che lei respira qui in ogni acceleratore di startup o in ogni spazio di co-working.

E’ nostro dovere fare in modo che le nuove generazioni nel nostro paese nascano e crescano con una attitudine al “can-do”.
Attitudine che oggi sembra essersi persa in Italia. Attitudine che è il vero segreto della Silicon Valley.

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Marco Marinucci, Alberto Onetti
San Francisco  19/9/2014

Siamo alla quinta edizione dello showcase degli innovatori italiani in Silicon Valley, l’Italian Innovation Day.Immagine anteprima YouTube

Da 5 anni facciamo del nostro meglio per cercare di migliorare la percezione del made-in-italy tecnologico in USA concentrandoci sulla selezione, la preparazione e soprattutto il “packaging”  dei progetti che mettiamo davanti ad un audience. Quello che deve sembrare “naturale” e’ invece frutto di giorni, notti, settimane di preparazione.

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Eh si perche’ sono loro i nostri biglietti da visita.  La potenzialita’ dei loro progetti oggi ma, soprattutto, la loro abilita’ (presunta) di tradurre, domani,   questa potenzialita’ in un’impresa di successo.

Dopo Stanford e Berkeley, si ritorna quest’anno al prestigioso Computer History Museum. Dopo le edizioni precedenti, concentrati a raccontare il passato e presente dell’innovazione italiana, oggi ci focalizzeremo sul futuro.

E dopo lo strabiliante successo della prima Makers Faire, European Edition tenuta a Roma (40 mila persone), oggi il futuro dell’innovazione italiana ha un nome e indirizzo. E cosi’, con il supporto di Riccardo Luna (curatore della Makers Faire) e della Camera di Commercio di Roma, abbiamo distillato un assaggio di quello che questo movimento potra’ produrre per l’Italia.

Da gioielli stampanti 3D con il segno della propria voce, a calze e tessuti che memorizzano ogni nostro movimento, ad auto fai-da-te,  a schede che rendono intelligenti la nostra vecchia auto o la macchina del caffe’. C’e’ molta aspettativa da quel pezzo di Italia che riesce a coniugare le nuove tecnologie con l’inventiva, manualita’ e senso dell’estetico che rappresentano il vero valore aggiunto dell’Italia nel mercato ultra competitivo dell’innovazione.

Ci si confrontera’ con la comunita’ locale dei makers, nella loro terra di origine. Non solo. L’editore della rivista Make magazine, tra i moderatori all’evento, mettera’ in palio un’intervista a tutta pagina per il progetto che riterra’ piu’ promettente.
Con Invitalia  (Arcuri) e Italian Business Investment Initiative (Napolitano) si parlera’ anche dell’Italia come una opportunita’ di investimento. Ne sa qualcosa Luzco (CEO di Seagate) attirato da investimenti in Italia  (strettamente low-tech) e soprattutto Enrico Moretti, autore del best seller The Geography of Jobs che moderera’ il panel.
Si parlera’ anche di Europa, con la testimonianza di come l’Irlanda (5 mil di cittadini residenti contro di 50 milioni di emigrati all’estero) stia concentrando le proprie risorse (con successo) per l’attrazione di investimenti in casa propria  e soprattutto della nascente Startup Europe Partnership, con la testimonianza di alcuni dei founding partners.

Concluderemo, e’ scontato, con una nota sulla Grande Bellezza: un Oscar, un buon presagio per una giornata di “celebration” del made-in-Italy.

Solo qualche giorno fa il presidente francese, in una visita speciale a San Francisco dedicata al lancio di Tech-Hub francese in Silicon Valley, lo diceva bene: “Qui in Silicon Valley  si inventa ogni giorno il nostro futuro. E quindi, non possiamo non esserci”. Speriamo che anche i nostri policy maker la pensino nello stesso modo. Presidente Renzi, l’aspettiamo a braccia aperte.

Sono di ritorno dalla mia prima partecipazione al tanto celebrato World Economic Forum di Davos e provo a cimentarmi nella non semplice impresa di riordinare le idee.
La prima impressione che si ha all’arrivo a Davos è di essere circondati da un’atmosfera surreale. I poteri del mondo sono riuniti in una miriade di sale conferenze, sparse in altrettanto innumerevoli hotel e centri conferenze.
L’appena inaugurato Intercontinental Hotel (foto a lato), costruito, come molte altre strutture, per accogliere al meglio per una settimana all’anno i leader del pianeta, si erige nella parte nord del paese e, nella sua rotondità e colonne di fumo, ricorda una versione chic di un bunker di guerra.

Eppure, se non fosse per la presenza pervasiva di auto blu e telecamere e una sottile presenza dei servizi di sicurezza, Davos non si distinguerebbe dai tipici villaggi svizzeri, quieti ed eleganti allo stesso tempo.
Nessuno direbbe che dietro queste colonne di fumo siano riuniti i responsabili di buona parte delle fortune della maggioranza dei paesi del pianeta.
Sarà per inclinazione professionale ma la prima cosa che noto, guardando i programmi in agenda (tutti strettamente ad invito personale e con procedure complicate di check-in), è la centralità dei temi relativi all’innovazione e alla tecnologia.

Ne è testimonianza che, nel giorno di apertura dell’evento, storicamente dedicato a top economisti, prende la scena Mark Benioff  founder di Salesforce, l’impresa, con sede (guarda caso) a San Francisco, leader in software CRM e responsabile di aver coniato il termine SaaS (“software-as-a-service) .
Gli incontri che si svolgono contemporaneamente hanno più o meno tutti la struttura di un “workshop”: ospiti seduti informalmente in tavoli rotondi stile matrimonio, guidati a discutere su temi strategici, a seguito di brevi interventi “scalda-audience” preparati da leader della materia. A conclusione dell’incontro i moderatori della discussione, raccolgono gli input giunti dai vari gruppi-tavoli per poi redarre un documento, ad uso strettamente “interno”, visto che i workshop sono strettamente “off the record”. Spesso il “documento” prende le forme grafiche, come quello in figura…
Il tema di uno di questi incontri a cui ho il piacere di partecipare e’ l’imprenditorialita’ europea: ovvero come sviluppare e mantenere ecosistemi innovativi, fautori di benessere e posti di lavoro.
Il tema è particolarmente caldo. Se ne parla dentro e fuori del forum. Gli articoli come questo su TechCrunch (“Why Silicon Valley can’t find Europe“) o questo panel a DLD 14 fanno capire come il tema della competitività Europea (o mancanza di competitività Europea) sia in cima alle priorità dei policy makers.

Nello stesso giorno, il lancio dello Startup Europe Partnership, motivo principale della mia presenza al Forum, viene ripreso dalla stampa di mezza Europa (TC, The Next Web, IDG, Repubblica, etc.) come uno spunto che possa riattivare le acque melmose dell’innovazione made-in-EU.
All’interno dell’incontro, la discussione scorre fluida, a volte densa, a volte al limite dell’effimero, ma pur sempre enormemente stimolante.
Si discute in particolare del gap macroeconomico e culturale dei sistemi Europa verso gli Stati Uniti. Ironicamente (o strategicamente?) una grande parte dei partecipanti seppur di origini europee, sono residenti negli USA.
Il livello e la diversità dei partecipanti rimane strabiliante.

Al mio tavolo conto, tra gli altri, un cardinale irlandese, il CEO di Akamai, il presidente dell’Estonia, il numero 2 di Telefonica, un professore emerito di Harvard Business School, il CEO di Soundcloud e il responsabile Europa di una primaria società di consulenza.
La frase che risuona forte e chiara è: “Ci hanno insegnato a minimizzare i rischi. Dovremmo imparare, invece, a minimizzare i rimorsi”.

Come a dire, l’approccio al rischio è in buona parte funzione del nostro contesto socio-culturale e va ben oltre gli aspetti prettamente imprenditoriali.

Il presidente Estone si alza e racconta, in un inglese madrelingua, l’esperienza dell’Estonia, oggi un modello di esportazione di tecnologia e talento (un successo tra tutti, Skype), di semplificazione burocratica e apertura internazionale. Tra una considerazione erudita e una battuta, si lascia scappare:

“Per la costituzione di una nuova impresa, da noi oggi ci vogliono 15 minuti, quando in paesi come  l’Italia, per procedure della stessa complessità, ci vogliono ancora 15 mesi…”

Poi si risiede e ritorna a interagire con il mondo via Twitter (nota, lui personalmente, non uno scrittore-ombra).

Lasciamo stare il riferimento, evidentemente esagerato. Ma lascia pensare che, a livello internazionale, l’associazione tra Italia e burocrazia continua ad essere funesta.

Meditate gente…