Categoria "Europa"

La settimana scorsa il torpore del piccolo villaggio delle startup italiane è stato turbato dall’annuncio della chiusura di  Mosaicoon.

Ha fatto notizia, la voce si è sparsa di casa in casa e ciascuno nel villaggio ha aggiunto la sua.

Con la stessa passione e disillusione (e competenza) con cui è stata commentata l’uscita dell’Italia dal mondiale, nel villaggio si è dibattuto del caso Mosaicoon.

Il buon Ugo Parodi Giusino è passato da eroe a fellone a colpi di click. “Esperti” – che non hanno mai messo piede a Isola delle Femmine e che non hanno mai gestito aziende tecnologiche con più di cinquanta persone e/o cento mila euro di fatturato – si sono sentiti in obbligo di giudicare il suo operato imprenditoriale.

Ma queste sono le dinamiche del villaggio, del piccolo villaggio delle startup italiane.

La realtà è un’altra.

  • La notizia della caduta di Mosaicoon fa un rumore assordante perché di aziende come Mosaicoon ce ne sono poche.
    • Dai nostri dati (pubblicati la settimana scorsa) le “scaleup” in Italia sono 178 a fine dicembre. Rectius 177.
  • Le scaleup sono startup che sono cresciute. La crescita non le rende tuttavia invulnerabili. Solo dannatamente più difficili da gestire.
    • Un conto è virare una canoa con due persone a bordo, un conto è farlo con una nave da cento persone. Gli spazi e i tempi di manovra sono più ristretti.
  • Al pari delle startup, anche le scaleup falliscono perché lavorano sul fronte dell’innovazione. E per chi lavora su quello spazio, il non riuscirci è la norma.
    • Se l’80-85% delle startup non ce la fa, è ragionevole assumere che una percentuale minore ma sempre significativa delle scaleup faccia la stessa fine.
  • La differenza tra startup e scaleup è che mentre le startup falliscono, di solito le scaleup che “faticano” vengono comprate. Quindi le percentuali di cui sopra sono annacquate.
    • I nostri dati mostrano bene questo aspetto: il 71% delle acquisizioni di startup non restituisce il capitale investito. Solo il 13% delle acquisizioni di startup è veramente lucrativo per chi vende.
  • La vera notizia è che nessuno si è mosso per comprare Mosaicoon.
    • Questo è il limite sostanziale di un ecosistema (italiano ma anche europeo) ancora in ritardo, in cui le acquisizioni di startup di fatto non sono una prassi diffusa per importare talento e innovazione.

M&A Multiple Price Paid/Capital Raised

Credo che la storia di Ugo Parodi Giusino e di Mosaicoon, come tutte le storie di startup, sia una storia di coraggio e successo. Una storia il cui lieto fine non è quasi mai alla fine del film ma durante la proiezione.

L’esperienza di Mosaicoon ha comunque contributo a innalzare il tessuto imprenditoriale di una regione già ricca di talento ma ancora povera di esempi (su scala lievemente diversa vale lo stesso per l’Italia).

Per le cento persone che hanno lavorato a Isola delle Femmine così come per tutti quelli che hanno visto cosa si può fare quando si è mossi da un disegno ambizioso, questa esperienza rimarrà. E, passato il momento, questo fiume di talento corroborato da esperienza imprenditoriale si riverserà nel sistema dando luogo a tante nuove Mosaicoon. Spin-off è il termine se vi piace l’inglese. Fuoco imprenditoriale se preferite l’italiano.

Perché le startup, come le scaleup, non falliscono. Imparano e ripartono in nuove forme.

Il mondo delle startup non si addice a chi ama le storie a lieto fine.

Disclaimer: avevamo selezionato Mosaicoon nel 2015 per SEC2SV in quanto azienda in crescita con un piano di sviluppo internazionale che includeva gli Stati Uniti.

Ieri a Roma in occasione dello Startup Day organizzato dall’AGI abbiamo presentato i dati sull’Italia delle scaleup, ossia sui risultati visibili (leggasi imprese) che ad oggi l’ecosistema delle startup è stato in grado di produrre.

I dati prodotti nell’ambito di Startup Europe Partnership restituiscono una immagine impietosa del Bel Paese, che mostra un ritardo temo incolmabile nei confronti dei principali paesi europei e che è a rischio di sorpasso anche da parte di paesi più piccoli e con minore tradizione industriale del nostro. Corriamo un chiaro rischio di fuga degli imprenditori e delle startup, dopo aver subito per anni quella dei cervelli.

Vi lascio l’approfondimento dei dati e mi concentro su quanto emerso dal dibattito, moderato da Riccardo Luna, che ha seguito la presentazione del rapporto.

Al Tempio Adriano a Roma c’erano difatti tanti protagonisti di questo sistema startup, tanti amici e compagni di tante battaglie nel nome delle startup.

Tutti, come il sottoscritto, in qualche misura tanto frustrati quanto corresponsabili di questo fallimento.

Sì, come ha ben detto Massimiliano Magrini, non è stata una riunione sindacale del movimento startup perché non avrebbe avuto senso.

È stata una analisi collettiva di quanto di giusto non è stato fatto e di quanto si potrebbe ancora fare per far decollare un aereo affossato sulla pista.

È stato il riconoscimento del fallimento di anni di duro lavoro.

Fallimento nel non essere riusciti a spiegare, come ha ammesso Marco Bicocchi Pichi, che le startup non sono importanti per se stesse, ma per il paese.

E la prova di ciò è stata che il mondo della politica, invitato a questo incontro, era largamente assente.

Sorge il dubbio che tale assenza certifichi, come ha sottolineato Fausto Boni, l’evidente disinteresse del mondo della politica nei confronti di startup e innovazione. Probabile.

La realtà, meno digeribile da un mondo che ha costruito il proprio manifesto nella capacità di “pitchare” in modo chiaro cosa si vuole fare, è  la nostra incapacità di comunicare alla gente perché le startup sono importanti e a cosa servano. “Se manca una domanda dal paese per le startup, manca la sanzione politica per chi non se ne occupa”, ha detto, senza diplomazia, Antonio Palmieri – “E perché quindi sorprendersi se il mondo della politica non se ne occupa? Fate sentire la vostra voce in modo chiaro, se volete avere una opportunità che qualcuno vi ascolti”. Touché.

Che serve allora?

Una cosa: capitali dal pubblico. Qualche miliardo, come ha proposto Salvo Mizzi, non spiccioli. In questi anni abbiamo migliorato la cornice regolamentare ma manca il quadro. Non si può pensare di giocare con i bastoncini dello Shangai quando gli altri muovono una clave. E non c’è da vergognarsi nel chiederli, ha detto Mauro Del Rio.  Soldi sì, “ma non investiti a pioggia in una logica simil-democristiana, soldi puntati su pochi cavalli vincenti”, ha chiesto Davide Dattoli. Soldi da cui tutti quelli intorno al tavolo non devono trarre benefici. Chiedere investimenti pubblici e farsi pagare management fee per investirli o caricare fee per servizi è semplicemente non corretto e distrugge la fiducia, che è l’altro pezzo che è probabilmente venuto a mancare nel nostro ecosistema, come ha ricordato Gianluca Dettori. E la cosa suona strana visto che il mercato delle startup è costruito sulla fiducia.

Quindi ora o mai più. Perché il tempo, più che i capitali, è la vera risorsa scarsa. Solo così startup e innovazione da emergenza nazionale possono diventare una opportunità nazionale, come ha ricordato Marco Gay.

Altrimenti resteranno solo le buone intenzioni in un paese avviato sulla strada del declino.

È un po’ che siamo silenti e i nostri 24 lettori (uno in meno del Manzoni, giusto per rispetto) potrebbero essersi chiesti dove fossimo finiti.

Siamo stati sotto traccia anche perché stavamo lavorando a qualcosa che consideriamo importante.

“Chi innova non può rimanere uguale a se stesso”, siamo soliti ripetere. E questa è una regola che prendiamo seriamente.

Subito dopo il lancio della piattaforma Startup Europe Partnership al World Economic Forum di Davos (nel lontano gennaio 2014, qui il link al post di annuncio) ci siamo chiesti quale fosse il passo successivo.

E, trascorsi quasi tre anni,  abbiamo capito che per avere un reale impatto è necessario fare un ulteriore salto di rilevanza e di scala.

 

Rilevanza

Se qualche anno fa lavorare con le startup era considerato dalle aziende qualcosa di nuovo, oggi è diventato prassi comune. Un nostro recente studio mostra come la quasi totalità delle principali aziende europee abbiano programmi che coinvolgono startup. Ma non basta. La stessa ricerca evidenzia come siano veramente poche le aziende che concretamente lavorano con le startup (dove per “concretamente” intendiamo accordi commerciali e partnership strategiche, non iniziative con finalità principalmente di marketing). In altre parole:

Sempre più aziende parlano di startup, ma poche ci lavorano concretamente.

Nella nostra esperienza di lavoro con alcune delle ultime abbiamo verificato come i risultati arrivino quando c’è un commitment serio dal vertice. Solo in questo modo lavorare con le startup diventa “everyday job” per l’organizzazione.

Per questo motivo abbiamo lavorato per aumentare la visibilità sul tema startup ai vertici delle aziende. I “SEP Europe’s Corporate Startup Stars Awards”, di cui abbiamo organizzato la seconda edizione lo scorso 18 dicembre a Brussels, sono un esempio al riguardo. Al di là dell’obiettivo di premiare e dare un giusto riconoscimento a chi sta facendo bene, è stata l’occasione per riunire per mezza giornata i vertici di 36 aziende e discutere circa priorità e linee di azione. Ai massimi livelli, che sono poi quelli che contano per fare succedere le cose.

Scala

Il lavoro fatto con i Matching Event di Startup Europe Partnership in questi tre anni ha permesso di “sporcarci le mani” e sperimentare vari format. Avere organizzato oltre 20 matching event internazionali, coinvolgendo oltre 500 startup e 50 aziende da tutta Europa, ci ha consentito di capire ne profondo cosa funzioni e soprattutto cosa non funzioni. Ma soprattutto abbiamo accumulato una quantità importante di dati sui reali tassi di successo nell’interazione tra imprese e startup – che si attestano tra il 2 e il 5% – e sui tempi richiesti per realizzarli – tra i 6 e i 18 mesi, mediamente.

I dati dicono che degli incontri tra startup e impresa meno di uno su venti si traduce in risultati.
E, quando succede, ci vuole oltre un anno per trovare un accordo.

Perciò, oltre a lavorare sulle “best practice” per produrre più risultati (qui una analisi), ci siamo resi conto che dovevamo aumentare i volumi. Di qui, il format rinnovato di Startup Europe Partnership per il 2018 e 2019 (lo abbiamo chiamato 2.0 per marcare il cambiamento) che, tra le altre cose, ruoterà intorno a momenti di aggregazione più ampi e intensi. 4 grandi Scaleup Summit durante i quali riunire, rigorosamente a porte chiuse, il meglio del mondo delle scaleup (le startup early stage non sono generalmente un buon match per le imprese), delle imprese e della finanza (circa 150 entità in tutto).

I Summit avranno due caratteristiche:

  • Saranno ospitati presso le grandi borse europee che sono l’altro grande anello mancante (i dati ci dicono che solo il 2% delle scaleup europee ha accesso al canale di borsa e che le grandi IPO avvengono oltre oceano).
  • Avranno dimensione internazionale, coinvolgendo scaleup, imprese e investitori da tutta Europa. Perché uno dei limiti principali di molte iniziative per startup è il loro carattere locale o nazionale, all’interno di un mondo molto più vasto.

La dimensione naturale del mondo delle startup è quella internazionale.
Iniziative di respiro locale non hanno molto senso.

Questo è quanto ci ha tenuto impegnati nell’ultimo periodo. Questo è quanto abbiamo annunciato a Brussels il 18 dicembre alla presenza del mondo delle imprese e della Commissione Europea. Alla fine i risultati – e solo quelli – ci diranno se stiamo procedendo nella giusta direzione.

La buona notizia per l’Italia è che il primo Summit sarà organizzato presso la Borsa Italiana il 15 e 16 marzo prossimi. Questo è il nostro piccolo regalo di inizio anno per il nostro Paese in cui continuiamo a credere, come dieci anni fa quando il ponte di Mind the Bridge ha visto la luce.

Alberto Onetti e Marco Marinucci

Caro Ferruccio,
abbiamo letto con attenzione il tuo editoriale e ne condividiamo i messaggi principali.

Sono passati cinque anni, forse anche qualcuno in più (se ti ricordi, il primo Venture Camp ospitato da te in Sala Buzzati al Corriere della Sera risale al 2009), e grandi risultati all’orizzonte non se ne intravedono.

L’unica certezza (provata dalla nostra ultima ricerca “Scaleup Europe” di cui a dicembre pubblicheremo il focus sull’Italia) è che il nostro paese ha un gap spaventoso con il resto dell’Europa, senza scomodare Stati Uniti e Silicon Valley.
Non solo nei confronti del Regno Unito, di gran lunga, la locomotiva dell’innovazione in Europa (hanno oltre 10 volte più scaleup di noi), ma anche di Francia e Germania. E, se confrontiamo le dimensioni relative, l’Italia batte il passo anche nei confronti dei paesi scandinavi e di paesi come Belgio, Olanda e Portogallo.

I dati riflettono un’evidenza: siamo partiti tardi e andiamo troppo piano (i dati sugli investimenti che menzioni scoloriscono non solo di fronte al piano Macron, ma anche nei confronti di quanto fatto dalla Francia con Hollande e dalla stessa Spagna).

Però, c’è un però. Che va considerato prima  di buttare via, con la tanta acqua sporca, il bimbo startup nostrano.
Il però è che siamo partiti.

Dietro alla moda, alle dichiarazioni di facciata, ai programmi di marketing di alcune aziende, ai convegni, c’è una Nuova Italia che (pian piano) avanza e inizia a produrre i primi risultati in termini di scaleup, termine strano che usiamo per separare dalle intenzioni di impresa quelle che incominciano a produrre risultati tangibili, ossia occupazione, fatturato e crescita. Dietro ai pionieri Octo Telematics, 7 Pixel, Funambol, Decisyon ci sono ora società come Moneyfarm, Musement, Facility Live, Mosaicoon, Cloud4Wi, Satispay, BeMyEye, Shopfully, Beintoo e Buzzooleche si stanno affermando a livello internazionale.

E dietro a queste, ci sono energia e aria nuova. Che si respira non solo nelle grandi città (la diatriba tra Roma e Milano è stucchevole quanto inutile), ma anche e soprattutto nella provincia, al Sud e nelle Isole. Vediamo questa energia nei ragazzi che arrivano da ogni parte di Italia per partecipare alla nostra School a San Francisco e che non hanno problemi a confrontarsi in inglese con startup di tutto il mondo. Sono sempre di più e sono sempre più motivati e sempre meno propensi a lamentarsi su cosa manca in Italia ma pronti a rimboccarsi le maniche e fare succedere cose (o almeno a provarci).

Questa è la base su cui costruire una nuova Italia. Base che sta emergendo da questa generazione, dopo che le generazioni precedenti avevano – non sappiamo esattamente perché – smarrito la tensione imprenditoriale.

Ma non aspettiamoci da questa base di vedere crescere grattacieli se non buttiamo cemento in quantità. E il cemento si chiama venture capital, merce quanto mai rara alle nostre latitudini.

Ad maiora (almeno si spera),
Alberto Onetti e Marco Marinucci

Per una settimana l’Europa farà base in Silicon Valley. Per capire, confrontarsi, discutere.

Lo farà con una delegazione – quella di Startup Europe Comes to Silicon Valley (SEC2SV) – composta da 100 persone da oltre 20 paesi.

Una delegazione improntata alla diversità e con una forte anima italiana (oltre a quella di Mind the Bridge che organizza SEC2SV su mandato della Commissione Europea con il supporto di EIT Digital).

Ne faranno parte 15 scaleup (ossia startup già “cresciute” e in rapida espansione, in media cinque milioni di fatturato e oltre cinquanta addetti) selezionate attraverso una call europea (Beintoo e Buzzoole, le due italiane scelte quest’anno, cui si aggiunge la britannica Primo fondata dall’italiano Filippo Yacob).

Ma anche aziende più strutturate (dal Bel Paese si contano FacilityLive, Creactives, Domec, Nearit e Checkout Technologies, la nuova creatura di Enrico Pandian, fondatore di Supermercato24) e investitori.

E soprattutto il mondo della politica, perché è fondamentale che chi è chiamato a regolare comprenda come stanno evolvendo tecnologie e mercati: la Commissione Europea (la missione è quest’anno guidata dal Commissario Věra Jourová), il Parlamento Europeo (tra cui gli italiani Brando Benifei e Flavio Zanonato),  tre segretari di stato, regioni (Bavaria, ma anche Sardegna ed Emilia Romagna).

Ad attenderli una settimana intensa di confronto e di incontri ad altissimo livello.

Si parte oggi con un Policy Hack: lo spirito di innovazione creativa proprio degli hackathon verrà applicato per trovare soluzioni regolamentari in ambiti quali Open Data, Fintech, Enterprise Data Transfers, Smart Cities. I risultati verranno ridiscussi a novembre a Tallinn in Estonia durante lo Startup Nations Summit (SNS).

In serata tavola rotonda con Věra Jourová, Commissario Europeo alla Giustizia, Tutela dei Consumatori e Pari Opportunità.

Martedì workshop presso Google e LinkedIn per discutere i rischi associati alle nuove tecnologie (“fake news”), ma anche per comprendere come le stesse possano aumentare il “civic engagement”. Nel pomeriggio analisi dello stato ed evoluzione delle relazioni politiche e barriere regolamentari tra Stati Uniti ed Europa presso K&L Gates.

Mercoledì è il giorno dell’European Innovation Day, la conferenza che si è affermata negli ultimi anni come il momento di confronto tra Europa e Stati Uniti in Silicon Valley. Attese oltre 500 persone nella cornice del Computer History Museum di Mountain View: sul palco si alterneranno speaker del calibro di Steve Westly (già direttore finanziario della California e in corsa per la poltrona di governatore) e Oona King (baronessa inglese oggi chiamata da YouTube  per gestire il tema spinoso della parità di genere). Verrà anche presentato il recentissimo rapporto sulle acquisizioni di startup, prodotto da Mind the Bridge e Crunchbase con il supporto dello studio legale Orrick.

In parallelo per le 15 scaleup una tre giorni di “cura steroidea”: nella cornice del Mind the Bridge Innovation Center, da domenica a martedì, verranno infatti sottoposte a un intenso mentoring da parte di imprenditori e investitori della Silicon Valley (del livello di Sukhinder Singh Cassidy, una delle prime GM di Google e tra le donne più influenti della valle) oltre che supporto 1:1 su tematiche legali (IP, visa, apertura di una sede negli Stati Uniti, …). Per loro mercoledì mattina ci sarà un “Investor Summit” dedicato e a porte chiuse, all’interno del quale incontreranno venture capital della Bay Area.
Giovedì e venerdì ulteriori incontri presso imprese (quali Microsoft, VMware, …) e investitori (come Andreessen Horowitz), ma anche outpost di aziende europee (Orange, Capgemini…) e università (Berkeley).

Per una totale immersione nelle diverse componenti dell’ecosistema della “Valle del Silicio”.

sec2sv cocktail party

SEC2SV Welcome Cocktail presso l’Americano di San Francisco

Era il 2012 quando D-Orbit faceva il suo ingresso nella nostra Startup School a San Francisco. E contrariamente a molti progetti arenatisi nel giro di qualche anno dopo il boom iniziale, in questi 6 anni l’azienda ha continuato piano piano a conseguire piccoli-grandi traguardi. Fino a che quest’anno, il 23 giugno alle 6.00 italiane, i suoi fondatori Luca Rossettini e Renato Panesi si sono potuti finalmente abbracciare, non senza un filo di commozione, assistendo dal Centro di controllo missione di Fino Mornasco alla buona riuscita del lancio in orbita del loro primo satellite.

D-Sat sarà infatti il primo satellite nella storia che sarà rimosso in maniera diretta e controllata alla fine della sua missione grazie a un sistema propulsivo intelligente (D-Orbit Decommissioning Device – D3) dedicato e integrato a bordo. Questo dimostra che tutti i satelliti lanciati da ora in poi potrebbero rientrare in maniera diretta a fine vita o in caso di avaria, mitigando sostanzialmente l’incremento esponenziale dei detriti spaziali. Ma non si fermerà a questo: durante il suo lungo viaggio, D-Sat effettuerà una serie di esperimenti e raccoglierà dati in un’orbita eliosincrona di 500 km di altitudine per poi rientrare e autodistruggersi al di sopra dell’oceano, lontano da aree abitate.

La prova del nove per D-Orbit, un test di affidabilità della sua tecnologia prima della sua commercializzazione. Ma per capire meglio cosa sia successo in questi anni e quali saranno le prossime mosse di D-Orbit abbiamo incontrato nuovamente Renato Panesi.

Renato Panesi - D-Orbit

Ciao Renato e ben ritrovato. Sono cambiate un po’ di cose dall’ultima volta in cui ci siamo visti, mi sa. Ci vuoi raccontare?
Eh, direi proprio di sì. Innanzitutto a livello aziendale. Ti basti pensare che siamo partiti a marzo 2011 con 4 persone e oggi siamo in 32 suddivisi in quattro sedi, di cui due in Italia: una presso l’incubatore dell’Università di Firenze (l’ufficio amministrativo) e una a Fino Mornasco, la sede operativa principale inaugurata a luglio del 2016 con 2500 mq. È qui che abbiamo il grosso della nostra forza lavoro. Tutto il ramo software si trova invece nella nostra sede in Portogallo, che abbiamo aperto dopo aver vinto una startup competition locale e grazie al supporto di Caixa Capital che conosci bene. Nata come software house, oggi D-Orbit Portugal è una società autonoma che vende anche ad altri clienti, tra i quali l’Agenzia Spaziale Europea (ESA). In più abbiamo aperto un ufficio commerciale a Washington DC. Insomma non siamo più una startup, ma un’azienda solida che si regge sulle proprie gambe.

Per fare tutto questo immagino vi siate dedicati a una intensa attività di fundraising…
Oltre a 2 milioni di euro ottenuti grazie a un bando Horizon2020 vinto due anni fa e 200mila euro ottenuti in Portogallo, a oggi abbiamo raccolto 5 milioni di euro in equity mentre il resto è arrivato dai contratti di vendita. L’attività di fundraising comunque va avanti per espandere la squadra commerciale e la nostra presenza negli Stati Uniti, nonché per rinforzare il comparto tecnico e la produzione.

D-Sat 1E oggi finalmente il grande successo. Ci vuoi parlare della missione D-SAT? In cosa consiste?
Dal punto di vista tecnico, D-Sat è un CubeSat da tre unità, progettato, costruito e operato da D-Orbit. Lo abbiamo lanciato il 23 giugno alle 6.00 ora italiana dal Satish Dhawan Space Centre, in India, a bordo di un razzo PSLV: i vari satelliti a bordo si sono separati correttamente circa 30 minuti dopo la partenza e si sono inseriti nell’orbita polare prevista. D-Sat grazie alla sua orbita polare e al contributo della rotazione della Terra, riesce a coprire tutto il mondo. In particolare sull’Italia abbiamo 4 finestre di visibilità al giorno, tipicamente 2 la mattina e 2 la sera a orari variabili ma compresi nelle fasce 9-12 e 20-23. Ora, Il primo successo della  missione non è stato tanto la riuscita del lancio, quanto l’essere riusciti a comunicare con il satellite fin da subito. Un buon contatto dura circa 10 minuti e noi siamo riusciti al primo passaggio a impostarlo, a impartire ordini e a ricevere informazioni. L’health-check, che riguarda il funzionamento di tutti dispositivi e sottosistemi di bordo, dal gps alle batterie, dal sistema avionico all’alimentazione e alla fotocamera, è andato a buon fine. Abbiamo anche ricevuto le prime immagini ed è stato tutto molto emozionante. In seguito, sono iniziati gli esperimenti.

North Africa

Immagini dalla missione D-Sat: North Africa


Quale è l’obiettivo della missione?
Innanzitutto dimostrare che è possibile far rientrare un satellite sulla terra attraverso un dispositivo propulsivo intelligente che può essere adattato a ogni tipo di satellite. Il suo motore a combustibile solido è progettato per eseguire una manovra ad alta potenza per rimuovere rapidamente un satellite dalla sua orbita. La sua unità di controllo indipendente e il suo sistema di comunicazione integrato garantiscono che il sistema possa essere attivato e controllato da terra anche se il satellite dovesse smettere di funzionare a causa di un malfunzionamento. In secondo luogo compiere una serie di esperimenti di raccolta dati in orbita.

Ci vuoi spiegare meglio questo ultimo punto?
Certo. D-Sat include tre esperimenti: SatAlert, realizzato in collaborazione con l’Università di Firenze, è un servizio di instant messaging che entra in funzione nel tipico scenario di emergenza in cui le centrali operative di agenzie di protezione civile devono comunicare istruzioni in aree colpite da disastri naturali che hanno compromesso le infrastrutture di telecomunicazione terrestri. DeCas-Debris Collision Alerting System, sviluppato con Aviasonic, monitora invece il footprint generato dai detriti che si formano quando un satellite viene a contatto con gli strati alti dell’atmosfera in fase di rientro e ne analizza la distribuzione, cosa molto utile ad esempio per la gestione del traffico aereo soprattutto in caso di detriti di grandi dimensioni. Atmosphere Analyzer intende infine analizzare dati atmosferici nella bassa ionosfera, regione compresa tra gli 80 km e 150 km poco studiata perché normalmente inaccessibile tanto da satelliti quanto da palloni stratosferici.

D-Orbit sat

Avete lanciato anche una campagna di crowdfunding, con quale scopo?
Creare awareness in generale sul problema dei detriti spaziali e finanziare il prolungamento della nostra missione per continuare a raccogliere dati (lo sviluppo del dispositivo è stato infatti autofinanziato mentre i sensori di bordo ci sono stati forniti dalle Università e dai partner degli esperimenti). La missione dimostrerà che la nostra tecnologia è flight-proven e a garanzia della scalabilità tecnologica su satelliti di classi superiori abbiamo utilizzato componenti conformi a standard NASA ed ESA più severi.

Quale è l’aspetto di tutta la missione di cui vai più fiero?
Il team: al di là dei senior advisor, le persone del team hanno un’età media al di sotto dei 30 anni e  una grande passione. L’ingegneria aerospaziale non è un percorso che si sceglie senza una passione precisa, quasi una scelta di vita, e non capita a tutti gli ingegneri di costruire un satellite e inviarlo in orbita, per giunta così giovani. Temevamo di poter perdere molte persone lunga la nostra strada, perché per lavorare in una startup occorre la mentalità giusta che non è facile trovare. Stiamo invece sperimentando il contrario e continuiamo a ricevere cv ogni giorno.

Team D-Orbit

Il Team di D-Orbit

Le difficoltà incontrate?
Le lentezze burocratiche sono state per noi le vere difficoltà, perché in realtà abbiamo sempre avuto un forte appoggio da tutti gli stakeholder, dagli investitori alle istituzioni, sia italiane, sia europee, fino alle banche, con Unicredit in prima fila. Purtroppo a volte i processi richiedono tempo per via delle lungaggini burocratiche che abbiamo nel nostro paese e le settimane diventano mesi.

Come e quando è previsto il rientro del satellite?
Stiamo valutando, di sicuro non prima di settembre per via della durata degli esperimenti. Il giorno preciso dipenderà dalla quantità e qualità dei dati che raccoglieremo. Questi esperimenti hanno risvolti concreti e ad alto valore di utilità sociale, ed è per questo che sono per noi così importanti. Il rientro sarà controllato lungo una traiettoria decisa da noi. Dal punto di vista ingegneristico, affinché il rientro abbia successo, diverse operazioni in sequenza dovranno andare tutte bene: non si tratterà dunque soltanto della sola manovra di rientro. Essendo di piccole dimensioni e pesando circa 5kg, D-Sat si incendierà del tutto e si disintegrerà sopra un’area non popolata ma fino a 60/70km di quota dovremmo continuare a ricevere messaggi.  

Prossimi step?
Aspettiamo il prossimo round di investimento per ampliare la squadra commerciale, aumentare la presenza negli Stati Uniti, rinforzare la squadra tecnica e comprare i materiali e i macchinari che ci occorrono. Il nostro primo obiettivo è di riuscire a installare un sistema di questo tipo nella maggior parte dei nuovi satelliti da lanciarsi d’ora in poi, in maniera progressiva e riuscendo a conquistare una fetta rilevante del mercato entro il 2025. E poi c’è la nostra vision di lungo periodo: non solo rimuovere i detriti ma trasportare cose e persone nello spazio.

Immagini da D-Sat: Coast of Alicante, Spain

Immagini da D-Sat: Coast of Alicante, Spain

Quella appena trascorsa è stata una settimana sofferta per la Silicon Valley. Da Newsweek a TechCrunch fino al Washington Post diversi esponenti del mondo dell’innovazione in questi giorni hanno infatti rimesso in discussione la centralità e la rilevanza della Silicon Valley. Per chi se lo fosse perso, Scott Alexander ne ha parlato ampiamente qui, riportando un po’ tutte le posizioni in gioco. 

Tutto nasce dalla notizia del finanziamento di circa $120M a Juicero, startup impegnata a realizzare una nuova generazione di dispositivi di spremitura a freddo di frutta e verdura, immancabilmente connessi al Wi-Fi ed equipaggiati di lettore QRCode, il tutto corredato di consegna a domicilio dei “produce pack”. Dai 5 agli 8 dollari il costo delle singole bustine, 400 dollari il prezzo del macchinario. Un bell’investimento per una sana e fresca spremuta a domicilio. Peccato che Bloomberg, durante un test, abbia dimostrato di poter ottenere lo stesso quantitativo di bevanda semplicemente “strizzando” le bustine con la mani. 

E il resto della storia è facilmente immaginabile. 

I commenti scaturiti sono stati sferzanti (il titolo del Washington Post non a caso recita “Juicero shows what’s wrong with Silicon Valley thinking”) e c’è chi addirittura ha ripreso a chiamare la Bay Area la “Silly-Con Valley”, espressione che dice già tutto sulla sua capacità di creare innovazioni realmente rilevanti. 

Sullo stesso tema si è espresso anche un Venture Capitalist europeo di Creandum, Carl Fritjofsson, segnalando che, se fino a poco tempo fa la Silicon Valley era considerata la Hollywood della tecnologia (“If you’re an actor, you go to Hollywood. If you’re in tech, you go to Silicon Valley”), oggi ci sono tanti hotspot rilevanti in altre parti dal mondo, dall’Europa a Israele fino alla Cina, dove si stanno affermando role model di innovatori che hanno trovato il successo al di fuori della Bay Area.

Si comincia quindi a porre sul piatto l’eventualità di una “ridistribuzione della centralità”: lo stesso Carl Fritjofsson sostiene che “Silicon Valley has peaked”, ovvero “sta scollinando”.

Nella realtà dei fatti, tuttavia, la Silicon Valley, per quanto possa aver già toccato l’apice, continua a restare sempre un passo avanti rispetto a tutti gli altri hub del mondo. La distanza tra la vetta Silicon Valley e le altre cime resta siderale. Per una serie di ragioni: 

se anche è vero che la Silicon Valley finanzi talvolta innovazioni che non cambiano la storia del mondo, tuttavia è lì che si continua a investire in alcune innovazioni che hanno (e stanno continuando) a cambiare il mondo

il mercato M&A, grande motore che muove tutto la ruota degli investimenti in startup, in SV è di un’altra categoria: il rapporto tra acquisizioni in Silicon Valley e acquisizioni in Europa è di 5:1, come abbiamo riportato nella nostra ricerca condotta con CrunchBase lo scorso settembre che stiamo aggiornando proprio in questo periodo.

E questo ultimo punto dice tanto se non tutto. Perché si sa: nello startup game “no exit, no party”. 


Il BTW di Alberto Onetti
Commenti su startup, innovation, scaleup, entrepreneurship dal Chairman di Mind the Bridge.

Immagine anteprima YouTube

Per una azienda avere un punto di presenza stabile in Silicon Valley è importante: oltre a permettere di intercettare i trend tecnologici e di mercato può permettere sia di accelerare lo sviluppo di prototipi e di business model innovativi che di identificare partner strategici con cui avviare accordi commerciali o fare investimenti/acquisizioni.

Molte grandi aziende hanno un “innovation outpost” nella Bay Area: da punti di presenza molto leggeri (quelli che definiamo “Innovation Antenna” o “Corporate Venture Capital Office“, ossia piccoli gruppi fino a 3 persone spesso ospitati in spazi di coworking o innovation center) a forme più strutturate (“Innovation Lab” e “Innovation R&D Center” che vanno da decine  a centinaia di persone).

Mind the Bridge ha oggi presentato a San Francisco una nuovissima ricerca che risponde a una domanda che in tanti si pongono: quante e quali aziende europee sono realmente presenti in Silicon Valley?

Qui il link per avere accesso al Report che include la lista delle aziende del Vecchio Continente e le persone di contatto per ciascuna.

Di seguito vi riassumo i fatti principali.

  • Quante? Sono 44 le aziende europee che hanno un innovation outpost in Silicon Valley (abbiamo incluso solo quelle che hanno almeno una persona full-time in loco; non sono considerati insediamenti con funzioni esclusivamente produttive e/o commerciali).
  • Quando? Il fenomeno è in crescita: circa il 60% degli outpost è stato avviato dopo il 2010. Oltre un terzo negli ultimi 3 anni.
  • Quali paesi? Germania e Francia guidano il gruppo degli innovation settler. Quasi il 65% degli outpost è stato creato da aziende di questi due paesi. Il regno Unito segue a distanza (11%), mentre i rimanenti 11 outpost rappresentano 6 paesi (Italia, Spagna, Svezia, Svizzera, Olanda e Finlandia).
  • Che settori guardano con maggiore interesse alla Silicon Valley? Automotive, Telecom, Finanza ed Energia sono quelli più rappresentati.
  • Come in Silicon Valley? Le forme scelte sono diverse come spiegato sopra. Quasi metà delle aziende ha optato per una presenza lean (Corporate Innovation Antenna e/o a Corporate Venture Capital Office). L’altra metà ha scelto modalità più strutturate come i Lab e gli R&D Center.
  • E l’Italia? Come detto, l’Italia è presente, sia pure in misura non comparabile a Germania e Francia.  A Luxottica che si è insediata lo scorso anno con un team piuttosto numeroso si è aggiunta ieri Enel. A queste si unisce Unipol che è molto attiva nella Bay Area attraverso la propria partnership con Mind the Bridge. E il nuovo Console Lorenzo Ortona (supportato da Alberto Acito del MISE) è determinato ad ampliare gli spazi di atterraggio per imprese italiane in Silicon Valley. Quindi attendiamoci traffico sul ponte tra Italia e San Francisco.

EU Corp Outposts in SV

Lo chiamano “deep tech“: sono quei nuovi ambiti che includono, tra le altre cose, intelligenza artificiale (AI, artificial intelligence), machine learning e big data. In poche parole, nuove applicazioni tecnologiche che si fondano su basi scientifiche (matematica, ingegneria, fisica, …) profonde.

Per l’Economist la nuova Europa passa da qui. Nel Vecchio Continente ci sono le competenze di base. E sono di ottimo livello. Ossia del deep tech abbiamo la profondità.

Ci manca, se mi passate il termine, l’altezza, ossia la capacità di volare alto, di immaginare e realizzare applicazioni di business di  impatto.

Dobbiamo lavorare sui sistemi educativi per affiancare agli aspetti tecnici la dimensione imprenditoriale. Dobbiamo diffondere nei nostri studenti l’attitudine imprenditoriale, la “new entrepreneurial ambition“.

Perché l’andare in profondità conta. Ma l’altezza la si ottiene pensando in modo trasversale.

Al posto del carbone, 830mila dollari: è quanto hanno trovato nella calza della befana i ragazzi di Buzzoole, la scaleup di influencer marketing guidata da Fabrizio Perrone. Un’iniezione di capitale che si inserisce in un processo di crescita che dal 2013, anno della sua nascita, non si è mai arrestato.

A scommettere su di loro un fondo di Venture capital russo, IMPULSE (secondo le indiscrezioni dietro le quinte ci sarebbe il miliardario Roman Abramovič) e il venture svizzero R301, guidato da Alessandro Rivetti e Nader Sabbaghian.

Nel 2016 le campagne sostenute dai brand attraverso la piattaforma sono più che raddoppiate, per un totale di 80mila contenuti, il 23% dei quali totalmente virale, e circa 2 milioni di interazioni. A oggi in Buzzoole lavorano una cinquantina di persone, distribuite tra Napoli, Roma, Milano e Londra.

Per comprendere meglio le potenzialità di questo mercato e quali saranno le prossime mosse di Buzzoole alla luce del nuovo finanziamento, abbiamo fatto due chiacchiere con il CEO, Fabrizio Perrone.

Fabrizio, tanta acqua è passata sotto “il ponte” dalla prima volta che ci siamo incontrati a Napoli.

Sì, ci avevate selezionati nel 2014 allo Startup Expo in occasione di Go Global Now, l’evento che avevate organizzato nel capoluogo campano all’interno dei progetti SEP Matching Event e “From Vesuvio to Silicon Valley”. A quel tempo Buzzoole aveva solo un anno di vita e ancora non immaginavamo tutto quello che poi sarebbe successo. Voi avevate visto giusto, assegnandoci un posto alla vostra School a San Francisco.

Da allora cosa è cambiato per Buzzoole?

Quasi tutto, a parte il nome e il board (ride, ndr): scherzo, a noi founder [Fabrizio Perrone, CEO, Gennaro Varriale, CTO, Luca Pignataro, Art Director, Luca Camillo, System Engineer, ndr] si sono aggiunte tante validissime persone – oltre 50 – che ci hanno permesso di crescere molto velocemente. Non ultimo Gianluca Perrelli che da settembre 2016 riveste il ruolo di Managing Director.

board buzzoole

Anche i riconoscimenti non sono mancati, soprattutto a livello internazionale.

Sì, nel 2013 siamo stati nominati come “la startup più innovativa nell’ambito dei big data, real time e predictive analysis” da SAP e l’anno successivo ci siamo qualificati tra le prime 8 startup su oltre 24.000 selezionate da tutto il mondo all’Intel Business Challenge Europe. A fine 2016 stati selezionati per l’Unilever Foundry Startup Street e per il Global Entrepreneur Programme di UK Trade&Investment e oggi siamo proprio all’interno del programma Unilever Foundry. Nel frattempo abbiamo aperto nuove sedi a Milano, Roma e Londra, oltre a quella storica di Napoli. E grazie al nuovo finanziamento contiamo di aprirne almeno altre due a breve, una delle quali in Russia.

Tanti riconoscimenti. E a livello di fundraising?

Dopo il primo seed da 180mila euro abbiamo chiuso 2 round per 1.2 milioni di euro guidato da Digital Magics e R301. E ora stiamo festeggiando la convertible note da 830mila dollari chiusa nei primi giorni del 2017 con il fondo russo Impulse VC e la venture firm svizzera R301.

Sembra insomma che quello dell’influencer marketing sia un mercato molto richiesto ultimamente. Buzzoole in buona sostanza come funziona?

Buzzoole è una piattaforma di Influencer Marketing in grado di connettere i brand ai giusti influencer della rete grazie all’utilizzo dei big-data, con l’obiettivo di stimolare le conversazioni intorno alle loro campagne. In breve abbiamo sviluppato un algoritmo proprietario basata sulla raccolta e l’analisi di big-data che permette di attribuire a ciascun influencer della rete e per ciascun topic di discussione un determinato valore di influenza. Sulla base di questi indici, Buzzoole indirizza i brand nella selezione e nel coinvolgimento degli influencer più in target assistendoli nella gestione dell’intera campagna e consentendo loro di monitorare in real-time la performance delle attività.

logo buzzoole

Come riuscite a coinvolgere gli influencer nelle campagne dei brand?
Noi proponiamo le campagne dei brand agli influencer volontariamente iscritti in piattaforma. Sta a loro decidere se aderire o meno, in linea con il loro apprezzamento per il singolo brand o settore merceologico. Molto spesso chi aderisce a una campagna è un utente che già produce contenuti per quel brand e che in ogni caso ne produrrebbe perché appassionato. Noi interveniamo per proporre un avvicinamento dell’utente al brand, coinvolgendolo nelle campagne e premiandolo per ogni contenuto prodotto attraverso un sistema di gamification che permette di accumulare crediti Buzzoole a titolo di ricompensa, spendibili su portali e-commerce.

Non si tratta di “marchette” per i brand?

No, nel modo più assoluto. Se un influencer fa una “marchetta” oggi e la ripete anche domani, alla fine l’utente si accorge che non è più attendibile e autorevole sul topic in questione e lo abbandona. Per questo motivo noi ingaggiamo influencer già attivi e appassionati di determinati topic, con mente critica e forte personalità, che difficilmente produrrebbero contenuti soltanto perché retribuiti. Tutto questo è confermato anche dall’analisi dei nostri dati: il 23% dei contenuti prodotti nelle campagne risulta totalmente “virale”, cioè pubblicato “in più” o dagli stessi influencer coinvolti oppure dai rispettivi follower, in maniera totalmente spontanea e gratuita.

Il nuovo finanziamento come verrà utilizzato? Quali sono le prossime mosse per Buzzoole?

La convertible note ci servirà sicuramente a portare avanti il programma di espansione internazionale. Ovviamente, data la partnership con IMPULSE, nutriamo grande aspettative verso la Russia, che mostra uno dei mercati a più alto tasso di crescita in termini di investimenti in social media e la mancanza di un big player di riferimento. Seguiranno Francia, Spagna e India.

È notizia di questi giorni il programma Erasmus Startup in Campania con borse di studio per la mobilità internazionale. Che consigli dareste a chi sta cominciando o comunque è ancora in fase early-stage?

Si tratta sicuramente di una grande opportunità. Il confronto con il mercato internazionale e con le regole dei big player è un appuntamento obbligato per un progetto che intende crescere, perciò prima questo avviene meglio è. Se potessimo tornare indietro useremmo certamente questi fondi per un’esperienza all’estero, possibilmente in Silicon Valley. Chissà, magari proprio alla School di Mind the Bridge, che consente di fare un buon reality check della propria idea e business plan nel posto più avanzato al mondo. Non necessariamente per restarci, ma per confrontarsi e tornare indietro rafforzati.