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I casi di startupper di stra-successo ventenni (à la Zuckerberg) si contano sulle dita di una mano. Sono l’eccezione, non la regola.

E difatti su questi fanno i film (ops… sorry, no pun intented).

La realtà è che le startup hanno bisogno di esperienza. Ma purtroppo questa esperienza non si compra sul mercato da consulenti o presunti tali (qui i miei 2 cents sul tema).

L’esperienza si fa “sulla strada”, senza scorciatoie.

Facendo startup (e spesso andando a gambe all’aria), lavorando in startup (e vedendo come si fanno le cose e come non si fanno le cose), lavorando in azienda (e capendo come funziona – e come non funziona – il mondo del business, quello che fa i numeri).

Il resto è fuffa o fortuna. Su entrambe non edificherei un palazzo.


Il BTW di Alberto Onetti
Commenti su startup, innovation, scaleup, entrepreneurship dal Chairman di Mind the Bridge.

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Ieri sono stato contattato da una persona via Facebook Messenger (NB1: ricevo messaggi del genere a decine ogni settimana, in varie forme, fenomeno che chiamo “startup harassment”; NB2: ho reso anonima e tagliato parte della conversazione, ma ho tenuto i passaggi principali; mi sono solo permesso di correggere un paio di congiuntivi, non tutti).

“Ciao Alberto
Molto piacere di conoscerla
Volevo parlare con lei riguardo un progetto di start up che abbiamo io e i miei soci…
Potrebbe essere disponibile? Volevo avere info e parlare con lei xk abbiamo bisogno di un supporto e guida”.

 

Ho risposto (sì, rispondo a tutti – o quasi – quelli che mi scrivono) come rispondo a tutti.

“Purtroppo mi manca il tempo e i neuroni per poter esprimere pareri sensati. Come Mind the Bridge abbiamo un programma a San Francisco (Startup School) che si rivolge a startup early stage come la tua. Se di interesse trovi tutte le informazioni sul sito.

In alternativa, ti raccomando di considerare qualche incubatore/acceleratore locale. Nella tua zona c’è …”

 

Il Nostro però non si è dato vinto:
Lei non conosce un consulente che ci segua passo passo?
Abbiamo anche parlato con un avvocato che ci ha detto di fare il marchio e coprire diritti di autore.
Ma vorremmo prima parlare con uno competente come lei. Anche xk abbiamo bisogno di finanziatori.
Anche una Skype con lei sarebbe l’Eden per me. Le pagherò il suo disturbo“.

 

A questo punto mi sono veramente preoccupato. Perché questa conversazione prova come, da un lato, la moda startup si stia diffondendo a macchia d’olio (che, di per sé, non è un brutta notizia). Ma al contempo mostra come molte persone si stiano “buttando” a fare startup senza avere i benché minimi rudimenti. E ho usato il termine “buttare” non a caso, perché queste persone quasi certamente butteranno via tempo e soldi, nella migliore delle ipotesi.

Queste persone (in buona fede) sono in particolare molto esposte al rischio di essere “taglieggiati” da pseudo-consulenti, pseudo-esperti, pseudo-competenti.

Nel video sotto ho esposto il mio pensiero al riguardo. Riassumo i passaggi principali in modo da essere certo di non essere frainteso.

1) Non c’è nessun consulente al mondo che ti possa aiutare ad avviare una startup. Non sto parlando di aspetti tecnici (fiscali, legali). Sto parlando di persone che possano aiutarti a plasmare la tua idea. Quello è un lavoro che devi fare tu in prima persona con i tuoi soci. Non ci sono founder in affitto. Indi non cercarli e, se li trovi, stanne lontano perché quasi certamente butterai via i tuoi soldi.

2) Possono mancarti competenze e risorse, ma queste competenze e risorse non si pagano con denaro. Si pagano con equity, ossia con un pezzo della tua idea. Mi chiederai: come posso convincere persone capaci a lavorare per me gratis, in cambio di promesse  di futura ricchezza e gloria? Con la bontà del tuo progetto. Se non sei in grado di convincere nessuno, vuol dire che quella idea fantastica che hai in mente tanto fantastica non è. Non è che pagando un consulente diventerà migliore.

3) Che fare quindi? Impara, mettiti in gioco, cerca di capire come funziona questo mondo. Esiste solo il provarci. E lo sbagliare. Per ripartire con le idee più chiare. Senza avere paura che qualcuno ti rubi l’idea. Se quello è il costo per imparare, è un buon investimento. Tenerla nel cassetto finché non impari come sfruttarla non è una opzione. Diventerà semplicemente una vecchia idea.


Il BTW di Alberto Onetti
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La matematica delle startup è abbastanza semplice. Si fonda su due assiomi:

  1. Qualunque azienda esistente, grande o media o piccola, leader o meno, domani non starà in piedi con il business e i margini con cui campa oggi.
  2. Le sacche di marginalità delle imprese esistenti saranno saccheggiate dalle startup. Queste ultime sono i nuovi barbari, i portatori di “disruption”.

 

A valle di questi due assiomi, due principi di comportamento:

  1. Se sei una azienda, grande o media o piccola, leader o meno, pensa a cambiare e a innovare, prima che sia troppo tardi. Non necessariamente facile, ma rimandare o ignorare il problema è la ricetta per scomparire.
  2. Se sei una startup, vai all’attacco, anche se statisticamente è altamente improbabile che possa tu essere il “disruptor”: di 100 startup avviate, 85 circa muoiono in fase seed o early; di quelle che trovano capitali, un buon 60% non va da nessuna parte; si contano sulle dita di una mano quelle che riescono a raggiungere risultati rilevanti (e per quelle di norma non girano un film).

 


 

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Pochi giorni fa una giornalista di Hong Kong, durante un’intervista, mi ha chiesto:

Che differenza c’è tra startup e scaleup?

La domanda mi ha preso un po’ alla sprovvista. Ho iniziato a darle dei parametri. Le scaleup si distinguono dalle startup per:

  • capitale raccolto (come SEP identifichiamo la soglia a un milione di dollari)
  • fatturato (le startup sono prevalentemente “pre-revenue” o con fatturati minimi, mentre le scaleup devono produrre volumi di ricavi in grado di portarle al break-even o al profitto)
  • dipendenti (le scaleup hanno di solito una forza lavoro che va oltre il gruppo dei founder)

Ma a un certo punto mi sono fermato. E le ho detto che la domanda aveva poco senso.

Startup e scaleup non sono la versione moderna delle piccole e grandi imprese.

Non ci sono piccole startup e grandi startup. Ci sono startup che trovano una propria strada (business model scalabile) e crescono diventando scaleup. E ci sono startup (la maggioranza) che non trovano questa strada e si dissolvono (“crash and burn” nel gergo anglosassone).

Le startup che non crescono e diventano scaleup semplicemente chiudono.

Il mondo delle startup è binario. O cresci o chiudi. Non c’è spazio per soggetti di nicchia.

Perché una startup è fatta per crescere, non per restare piccola.


Il BTW di Alberto Onetti
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Oggi segnalo un report molto interessante dal titolo “Unlocking UK Productivity – Internationalisation and Innovation in SMEs” realizzato da Goldman Sachs e 10,000 Small Businesses. Il report si concentra su un aspetto chiave rappresentato dal contributo (o rectius dal limitato contributo) delle piccole medie imprese inglesi alla crescita economica del paese.

Tema centrale anche alle nostre latitudini, dove le piccole e medie aziende abbondano ma restano piccole. E, come spesso ripeto, non c’è nulla di cui compiacersi su una piccola impresa. Una piccola impresa è una azienda che, per un motivo o per l’altro, non è riuscita a crescere. E, quindi, un qualche problema deve averlo avuto.

La ricerca fornisce dati e raccomandazioni molto interessanti. Da leggere.

Mi limito a segnalare un punto centrale che emerge dall’analisi. Innovazione e internazionalizzazione sono elementi chiave per la crescita (e la sopravvivenza) di ogni impresa. Le PMI che non crescono tendono a non dare peso a entrambe. E la ragione principale dietro a questo andamento a marce ridotte è dettata dalla “SMEs’ low growth ambition. Nel Regno Unito solo il 17% delle piccole medie imprese ha una “growth aspiration“, contro il 27% negli Stati Uniti.

Molte aziende non ambiscono a crescere. E ciò ne frena le potenzialità di sviluppo e di produttività. Per molte ne sancisce purtroppo spesso la condanna a morte. Perché, in molti business, restare piccoli non è una opzione praticabile.

Meditate imprenditori, meditate.

Il cinquantesimo anniversario della scomparsa del mitico Coppi mi suggerisce il titolo; lo spunto mi viene dato invece dai commenti che erano stati fatti ad un mio precedente post in cui descrivevo alcune situazioni tipiche che connotano la nostra cultura imprenditoriale. In quella occasione mi ero riproposto di ritornare sull’argomento ed un commento in particolare meritava un supplemento di riflessione. Il commentatore (imprenditore nel campo dell’informatica) segnalava un problema abbastanza diffuso nel nostro tessuto imprenditoriale: in Italia ci sono molte microaziende che fanno le stesse cose, sul medesimo territorio, proponendo prodotti/servizi simili. Tali imprese hanno dimensioni “troppo grandi per essere redditizie e troppo piccole per avere credibilità e per gestire efficacemente le richieste di mercato e bilanciare i costi fissi”.
La risposta al problema descritto sembrerebbe, a livello teorico, abbastanza banale: si chiama “aggregazione”. Eppure, nonostante la soluzione sia sotto gli occhi di tutti, la sua applicazione pratica avviene di rado. Il commentatore dice di aver valutato collaborazioni o integrazioni con 5-6 aziende concorrenti, con lo scopo di ottimizzare costi e risorse. “Discussioni: infinite. Risultato: nessuno. Ognuno preferisce essere padrone di una piccola azienda, piuttosto che socio in una azienda molto più grande. Noi abbiamo dovuto assumere tre persone da settembre, e altre tre dovremo assumerle nei prossimi mesi, pur sapendo che in altre aziende come la nostra, qui a due passi, ci sono risorse già formate e competenti, che non hanno lavoro. Domani però la situazione potrebbe ribaltarsi ed essere in difficoltà sia noi, perché abbiamo troppo personale, sia gli altri perché non riescono a far fronte al carico di lavoro. Così facendo, resteremo ognuno al timone della propria barchetta, a costo di accompagnarla in fondo al mare”, conclude amaramente il commentatore.
Che fare, quindi?
E’ evidente come la frammentazione sia una soluzione difficilmente vincente. Non solo nei settori ove ci sono alti costi fissi di produzione, la dimensione e le connesse economie di scala sono fondamentali per competere. Quasi ovunque alla dimensione aziendale è associata anche quella “credibilità” che è requisito necessario per potere penetrare clienti importanti e fare quindi un salto di qualità a livello aziendale (ciò è segnalato dallo stesso commentatore che lamenta come “alcune aziende, potenziali nostre clienti, tra le più grandi della zona, abbiano fatto importanti investimenti, affidandosi a fornitori più visibili e credibili, proprio in virtù delle proprie dimensioni, pur proponendo prodotti, servizi e tecnologie almeno comparabili con i nostri”). Inoltre la stessa innovazione richiede investimenti che solo in presenza di una massa critica aziendale possono essere possibili.
Ma se i limiti di un modello di tante piccole imprese sono evidenti e noti, perché sono così rare esperienze di aggregazione? Qual è l’ostacolo?
Non credo sia un problema di natura finanziaria. Non mi convince la spiegazione che non si fanno acquisizioni perché mancano le risorse. Le risorse volendo ci sono (lo testimoniano i dati sugli investimenti immobiliari), mancano piuttosto la convinzione e la capacità di fare progetti imprenditoriali ambiziosi (spesso ci si nasconde dietro alla piccola dimensione perché non si crede a sufficienza nella bontà del proprio progetto o per limitare le complessità dello stesso). Inoltre, se fosse un problema di risorse, sarebbero diffusissime forme di aggregazione di tipo non gerarchico (come accordi, consorzi, …) che invece faticano a decollare.
Credo che il problema resti principalmente di natura culturale. Nel nostro paese resta forte il mito del mettersi in proprio (che è una buona cosa, in quanto rappresenta il motore dell’attività), ma al contempo del non dover rispondere a nessuno. Ciò si traduce nella scarsa disponibilità a condividere decisioni e a realmente delegare responsabilità. E, in assenza di questa attitudine mentale, si fatica a crescere e ad avere successo.
Questo modo di fare è diffuso  sia dentro le aziende, ove si fatica a contornarsi di persone in grado di far fare il salto di qualità all’impresa (rimando sul punto al post di Vittorio Viarengo) e non si delegano responsabilità e compiti, così come tra le aziende (, ove ciascuna tende a replicare quanto che già fanno altri e raramente condividere progetti e iniziative. Lo stesso atteggiamento permea anche la pubblica amministrazione: ospedali ed università sono buoni esempi al riguardo.
Tutto ciò porta ad avere tanti “padroni”, tanti “condottieri”, tanti “presidenti” di iniziative spesso impalpabili o che, una volta avviate, faticano ad assumere un ruolo di primo piano o di passare al livello successivo. Perché per fare il salto di qualità è richiesta l’aggregazione e il coinvolgimento di terzi. E quando ci si mette insieme ad altri, qualcuno, anzi tutti, devono fare un passo indietro. E qui spesso il meccanismo si inceppa.
Come avevo già segnalato in altri post, le cose stanno cambiando, ci sono molti esempi virtuosi, da cui si deve partire. Ma la base  culturale è questa. E i cambiamenti culturali si muovono su assi temporali lunghi.