Qualche mese fa avevamo discusso sul fatto che i dottorati in Italia avessero un taglio troppo accademico (ovvero fossero il primo passo per diventare professore universitario) e un legame troppo debole con il mondo dell’impresa. “Faccio il dottorato per fare una startup” avevo provocatoriamente (ma non troppo) intitolato il post. I nostri ricercatori faticano a vedere le opportunità di sfruttamento commerciale dei propri risultati di ricerca, come anche confermato dalla Mind the Bridge Survey 2011 “Startups in Italy -Facts and Trends” che è stata presentata venerdì scorso in occasione del Venture Camp: i dati mostrano come meno del 20% degli imprenditori di nuova generazione (gli startuppers, appunto) esca da laboratori o centri di ricerca universitari.
Eppur forse qualcosa si muove. Oggi (o forse ieri, visto che sono in volo per la California e avrò superato le ore 24 italiane quando questo post verrà pubblicato) viene data notizia dell’accordo tra Rettori e Confindustria per un maggiore coinvogimento delle imprese nella proposta e nel finanziamento dei dottorati ed una collaborazione nel deposito dei brevetti. Circa quest’ultimo aspetto, in Italia si registrano 12 brevetti per milione di abitanti, contro i 53 degli Stati Uniti. Segno di un sistema di ricerca che tende a trascurare l’applicazione pratica del proprio lavoro.
Il fatto che ci sia stato un riconoscimento della necessità di consolidare i ponti tra università ed impresa e lo si sia fatto partendo dai dottorati è già un primo passo significativamente positivo .Ovviamente non sarà irrilevante che tipo di seguito operativo verrà dato a questo accordo.
Categoria "Patent"
La chiamano la “patent war”, guerra dei brevetti.
Mai come in questi giorni ha riempito le prime pagine di giornali, le conversazioni in Silicon Valley e le notti insonni di un esercito di avvocati esperti in Intellectual Property.
Il tema, in versione semplificata, e’ il seguente: i cosiddetti “patent trol” (ovvero soggetti che, in maniera puramente opportunistica, cercano di beneficiarsi dell’acquisizione di brevetti, non per interessi di sviluppo del mercato, ma per pura speculazione) stanno dilagando creando un effetto domino di azioni legali senza precedenti.
Nell’ordine: Samsung apre un azione legale contro Apple, Apple con HTC, Oracle contro Google. Pare perfino i famosi “Angry Birds” siano sotto tiro per violazione di proprieta’ intellettuale.
Le denunce di appropriazione di tecnologie coperte da un brevetto si propagano a tutti i livelli dell’ecosistema.
Le basi delle denunce sono spesso infondate. Come riportato da un’accurata analisi di NPR, almeno il 30% dei brevetti depositati in USA fanno riferimento a invenzioni che sono già in essere. Ovvero, senza valore.
Chi ha però le spalle ampie abbastanza per coprire spese legali ingenti, ha l’opportunità di riportare grossi ritorni finanziari, spesso basati su patteggiamenti multi-miliardari tra le parti, accettati dalla parte “offesa” pur di non rischiare il blocco produttivo di un prodotto di punta (vedi l’I-Phone)
Esistono interi business (Intellectual Ventures e’ un esempio) focalizzati sull’acquisizione di un numero più alto possibile di brevetti, al puro scopo di trarne giovamento non dalla messa in opera dell’invenzione, ma dal potenziale recupero di compensi da proprieta’ intellettuale infranta da terze parti.
E’ evidente che il sistema attuale di brevetti in USA sia da riformare. Anche l’FTC (l’equivalente della nostra associazione dei consumatori) sta indagando sul caso.
Nel frattempo, la corsa insensata ad accaparrarsi più brevetti possibili, avanza senza sosta. In giugno una coalizione (con Apple e Microsoft) acquista un pacchetto di brevetti dalla moribonda Nortel per un totale di 4.5 miliardi di dollari. In risposta, Google, acquista da IBM piu’ di 1000 brevetti per una somma imprecisata (ma, c’e’ da scommetterci, con una $B davanti). Miliardi di dollari con cui si sarebbero potute costruire le prossime You Tube, Android o Facebook. Decisamente, un pessimo uso di risorse.
Gli emendamenti in atto al Congresso (The America Invents Act, H.R. 1249 & S. 23) non aiuteranno a risolvere il problema. E, con l’aria che tira di questi tempi a Washington, ci sarà da attendere tempi migliori per riforme sostanziali.
Nel frattempo, chi guadagna da questa inefficienza di sistema? Decisamente gli studi legali, occupati a trattare casi che si aggirano sempre nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari.
Chi ci perde? Gli innovatori, le startup la cui capacita’ di sviluppo e creazione è limitata da montagne di potenziali “brevetti” ambigui e da studi legali non alla portata di un business nascente.
Esistono poi le posizioni estreme di chi, come Vivek Wadhwa, va dicendo da tempo che, solo abolendo del tutto la costrizione dei brevetti, si possono porre le condizioni per uno sviluppo innovativo piu’ fluido.
Ed io, in particolare per il mondo del software, mi trovo totalmente d’accordo.