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lunedì 10 agosto 2015

Tra luce e colore: il viaggio di Delacroix in Marocco




L'11 gennaio del 1832 una spedizione diplomatica guidata dal conte de Marny parte da Tolone a bordo della nave "La Perle" alla volta del Marocco: la Francia ha appena conquistato l'Algeria e il re Luigi Filippo vuole intrattenere col Sultano marocchino rapporti di buon vicinato.
Alla missione partecipa un giovane che non ha niente a che fare con la diplomazia: è un pittore di trentaquattro anni,  già considerato come uno dei principali esponenti del movimento romantico e che solo due anni prima ha fatto discutere tutta Parigi con la presentazione del suo dipinto "La libertà che guida il popolo". 
È Eugène Delacroix (1798-1863)


Quel giovane dagli occhi e dai capelli neri, che si ritrae con un'aria da avventuriero, viene descritto dai suoi compagni di viaggio come "qualcuno che ha del talento, dello spirito e un eccellente carattere
In realtà, dietro quell'aspetto un po' sfrontato, si nasconde un temperamento di ferro, "una passione immensa, raddoppiata da una volontà formidabile", come dirà di lui, qualche anno dopo, Charles Baudelaire.
Delacroix, approfittando di qualche conoscenza, si è imbarcato in quella spedizione con un grande entusiasmo: da un po' di tempo aveva voglia di lasciare Parigi e - lui che in genere preferisce la vita casalinga e il lavoro nel suo studio - ha deciso di intraprendere quel viaggio per visitare quello che chiama "l'Oriente mediterraneo" di cui sognava da anni.

Fin dal loro sbarco a Tangeri, i diplomatici e il loro seguito sono accolti con un susseguirsi di ricevimenti, di cerimonie o di spettacoli equestri. 
Gli spostamenti, però, non sono di tutto riposo: si viaggia in carovana a cavallo a a dorso di cammello e spesso ci si deve accampare dove capita.
Delacroix non si lamenta mai dei disagi: è di una curiosità insaziabile e tutto per lui è fonte di meraviglia.
Appena arrivato, appunta nel suo diario:"Mi sento stordito da quello che vedo: è come se stessi sognando". 
Quel favoloso Oriente, che tante volte aveva immaginato, si rivela ora ai suoi occhi come un mondo di incanti: "il pittoresco qui abbonda - racconta - è un luogo fatto per i pittori...La bellezza è dappertutto, non la bellezza raffigurata nei quadri alla moda, ma qualcosa di più semplice e primordiale".
Le sensazioni che prova sono tante e, da pittore qual è, non ha altro modo per fermarle che riempire, uno dopo l'altro, i piccoli taccuini che ha portato con sé e che non abbandona mai.



In quei piccoli quadernetti (il più grande è alto circa 20 cm) disegna tutto quello che vede e consegna, giorno per giorno, le sue impressioni, descrivendo i paesaggi, le strade sassose, l'abbigliamento degli uomini e delle donne o i particolari delle architetture delle case.
Disegna dappertutto in pagine confuse, in cui accumula piccoli schizzi e scritte che integrano i disegni, in un disordine che tradisce tutta la sua eccitazione.
A volte lascia una pagina bianca, a volte riempie anche i margini, a volte gli capita di tenere il taccuino al contrario.



Non smette di disegnare nemmeno quando è a cavallo: ha trovato la maniera di fissare il taccuino alla sella e, in quella scomoda posizione, continua a scrivere, anche se con una scrittura un po' tremolante e a eseguire i suoi schizzi con la paura di lasciarsi sfuggire anche un solo particolare e il timore che qualcosa, comunque, resti fuori: "Come potrò rendere - scrive- questa strana sinfonia di profumi, questi sentori d'ambra, di chiodi di garofano e di spezie, queste fragranze che si sovrappongono?".
La sera, con calma, completa gli schizzi, dà una risposta alle domande sui nomi o sui luoghi che si era appuntato e colora i disegni ad acquerello.
Oppure traccia su fogli di album più grandi qualche scena che vuole riprodurre con maggior cura, come le corse con i cavalli che lo appassionano e che considera una manifestazione di coraggio e di vitalità


  
Gli abitanti di quei luoghi, con i loro caffettani o i loro turbanti lo esaltano per la loro bellezza pura e senza affettazioni, per la loro fierezza e per la loro dignità. Tanto che gli sembra di riscoprire tra la gente che incontra per strada, più vera e autentica, l'essenza stessa della classicità;
"Qui è bello come ai tempi di Omero - spiega -...Roma è qui" e aggiunge: "mentre camminano per le strade, questi uomini hanno l'aria di consoli romani, di Catone o di Bruto e non gli manca nemmeno l'aria sdegnosa degli antichi padroni del mondo"




Delle donne ammira la bellezza ombrosa e, quando può, disegna i loro voliti, gli abiti o i gioielli



Ma quello che , soprattutto, lo impressiona è la luce, una luce nitida e chiara a cui non era abituato, una luce che rivela la natura dura e aspra del paesaggio del deserto, dove "perfino l'ombra prende dei riflessi turchesi"



Cinque mesi dura il viaggio e sette sono i taccuini che Delacroix riempe (di questi ne sopravvivono ora solo quattro: uno al Musée Condé a Chantilly e gli altri tre al Louvre).
Quando torna a Parigi, teme che i suoi schizzi, spontanei e frettolosi, saranno "come alberi sradicati dal terreno che occupano" e che finiranno per diventare solo l'eco di un ricordo.



Si inganna. Il futuro lo smentirà, perché proprio in quei taccuini troverà, da allora in poi, la sua fonte di ispirazione: in quei mesi passati in Marocco la sua visione dell'arte è profondamente cambiata. 
Prima di lui l'Oriente, pur tanto alla moda, era trattato nei dipinti del tempo come un decoro da teatro. 
Grazie ai suoi schizzi Delacroix crea un nuovo vocabolario che conferisce alle sue ambientazioni un nuovo spessore e una profondità fatta di osservazioni di vita vissuta.



E, poi, ci sarà un'altra importante conseguenza: la luce e il colore entreranno prepotentemente nelle sue opere.
Fin dai primi giorni del viaggio, quello che chiamava "il piacere dell'aria e della luce" lo aveva obbligato, già nei suoi schizzi, a schiarire la tavolozza e a inserire il colore. Non tornerà più indietro.
Com'è stato notato, dopo il suo soggiorno in Marocco, nei suoi quadri "il sole caccia, una volta per tutte, le ombre fumose del romanticismo"
Il suo destino d'artista sarà, dunque,  legato a quella luce abbagliante e a quei colori intensi, che studierà nei loro effetti ottici e che cercherà costantemente di riprodurre.
Saranno quei colori che lo faranno diventare, come afferma Cézanne, "la più bella tavolozza di Francia", rendendogli, da pittore a pittore, uno degli omaggi più sentiti e ammettendo che "noi dipingiamo tutti grazie a lui".




mercoledì 17 giugno 2015

L'arte di maritare tre figlie, ovvero "The Ladies Waldegrave" di Joshua Reynolds




Un ritratto di Joshua Reynolds (1723-1792): “The Ladies Waldegrave”, ora conservato a Edimburgo alla National Gallery of Scotland.
Sullo sfondo di una tenda rossa e di un balcone aperto su uno scorcio di paesaggio, tre giovani donne vestite di bianco con le loro parrucche incipriate siedono quietamente intorno a un tavolo intente a ricamare. 
I volti, imbiancati di cipria, sono ravvivati da un tocco di rosso sulle guance. 


Le tre giovani sono sorelle, figlie di Lord Waldegrave e di Lady Maria Walpole: la ventenne Carlotta Maria è quella che tiene in mano una matassa di seta, la diciannovenne Elizabeth Laura avvolge con attenzione il filo, mentre la più piccola, la diciottenne Anna Horatia, è impegnata in un merletto.
Siamo nel 1780 e la madre delle ragazze, Maria, allora Duchessa di Gloucester, con qualche decennio di anticipo sulla Mrs.Bennet di "Orgoglio e pregiudizio" di Jane Austen, ha in testa un pensiero fisso: trovare marito alle figlie. 
In effetti, all'epoca, la concorrenza tra le giovani aristocratiche è spietata e, in più, sulla duchessa di Gloucester pesa un passato non proprio "comme il faut". 
Figlia illegittima di Edward Walpole e della sua chiacchieratissima amante è stata cresciuta nella famiglia del padre. 
Bella, anzi, "l’incarnazione stessa della bellezza", stando alla definizione coniata dallo zio Horace Walpole, è riuscita a fare un bel matrimonio, sposando il più anziano e assai meno avvenente Lord Waldegrave. 
Ma, purtroppo, è rimasta vedova giovanissima con tre figlie piccole da tirar su. 
All'epoca del ritratto, la bella Lady Maria si è risposata, da qualche anno, con il Duca di Gloucester, fratello minore del re, ma il matrimonio è stato osteggiato dalla famiglia reale che, in un primo momento, ha addirittura bandito la coppia dalla corte. 
Anche se i rapporti con il re sono migliorati, qualche ombra è rimasta e in una società dove conta soprattutto la rispettabilità, anche un ombra è di troppo. 

La duchessa sa bene che, nella sua situazione, trovare un buon partito per le tre figlie di primo letto non sarà facile: quella che sta per intraprendere è una vera e propria battaglia e, come in tutte le battaglie, ha bisogno di una strategia. 
Da madre previdente, comunque, ha già in mente un piano e si è procurata anche un alleato nello zio, Horace Walpole. 
I due concordano sul fatto che i balli, le feste, o le scampagnate, insomma, le occasioni "canoniche"di incontro con nobili scapoli, non sono sufficienti: per superare le rivali più agguerrite occorre un'idea in più.

Una soluzione per ottenere il massimo risultato c’è, anche se costosa: commissionare un ritratto delle tre ragazze al più celebre ritrattista del tempo, Joshua Reynolds, ed esporlo a Strawbery Hill, la dimora di Walpole, famosa in tutta Europa per la sua architettura neo-gotica e frequentata da uomini della migliore società
Niente di meglio che appendere alla parete un ritratto che mostri il fascino delle ragazze e la loro disponibilità ad accasarsi in modo confacente, ma che non sia né sfacciato, né troppo esplicito.
Joshua Reynolds, allora artista acclamato e, per di più, Presidente della Royal Accademy of art, sa bene cosa fare. 
Comincia col dispiegare nel dipinto non solo tutta l’abilità acquisita nel corso del un lungo soggiorno in Italia, dove ha studiato i grandi maestri del passato, ma anche la capacità di elaborare, nei suoi ritratti, immagini lusinghiere in grado di  rappresentare gli aspetti migliori dei suoi modelli.
Impiega, poi, ogni sforzo per realizzare una composizione che convinca i futuri corteggiatori che le tre sorelle saranno mogli perfette per ogni gentiluomo

Innanzitutto- dettaglio non da poco- tutt'e tre sono più che graziose.
Nella sua tela, dunque, fa sì le giovani donne incarnino, come meglio non si potrebbe, l'ideale della bellezza dell’epoca. 
Sia pure aiutata da un’abbondante spruzzata di cipria, la loro carnagione appare del candore imposto dalla moda del tempo. 
Il bianco delle vesti allude in maniera discreta (ma non troppo) a un'altra qualità indispensabile per una giovane ammodo: l'illibatezza. 
E, poi, sceglie di non  raffigurare le ragazze in ozio né tanto meno mentre chiacchierano o si dedicano a svaghi sconvenienti, ma di rappresentarle nell'attività più consona a delle giovani tranquille e virtuose quali sono: il ricamo. 
Belle, educate, operose: le qualità richieste a una moglie ci sono tutte. 

Ma, per fortuna, il ritratto, nelle mani di un vero artista, diventa ben di più di un avviso pubblicitario
Da gran pittore qual è, Reynolds avvolge le sue modelle nella luce e nel colore, crea, col suo pennello, contrasti e armonie luminose come il bianco su bianco delle morbide vesti di mussolina contro il candore della pelle e fa del dipinto un capolavoro
Il ritratto, esposto alla Royal Academy nel 1781, è un vero successo, per il pittore e, soprattutto, per Lady Maria che vede avverarsi, poco dopo, le sue più rosee speranze: Carlotta Maria sposerà il cugino Waldegrave, Elizabeth Laura un ricco duca e Anna Horatia un valoroso ammiraglio. 
Insomma, grazie anche alla pittura, il lieto fine sarà degno di un romanzo dell'epoca.





sabato 23 maggio 2015

Suzanne Valadon e Raminou: la pittrice e il gatto




Un gatto rosso tigrato che guarda perplesso, tra una tenda e un mazzo di fiori, in questa tela del 1919, ora in collezione privata. 


Lo stesso gatto, seduto con un atteggiamento regale tra un tappeto variopinto e un drappo di tessuto, in un dipinto del 1920, ora in collezione privata. 


Di questo gatto dall'aria battagliera conosciamo il nome, Raminou. 
Sappiamo poi che la sua padrona è la stessa pittrice che lo ha ritratto: Suzanne Valadon (1865-1938).
Probabilmente i due si sono incontrati, agli inizi degli anni '20, nel quartiere parigino di Montmartre, dove, tra vicoli, piazzette e scalinate, i gatti la fanno ancora da padroni (ne ho parlato qui). 
In realtà, non sappiamo come sia cominciata la loro convivenza, ma sarebbe bello pensare che Raminou non sia stato un viziato micino da salotto, ma un gatto di strada e che, come spesso succede negli innamoramenti, i due si siano scelti per somiglianza,  riconoscendo di avere in comune un' indomabile selvatichezza. 
È vero che del passato di Raminou non abbiamo alcuna notizia; conosciamo bene, invece, la vita randagia e senza regole di Suzanne.

Nata in una famiglia poverissima, ha dovuto cavarsela da sola, fin da bambina.
Montmartre dove si è trasferita con la madre, si è adattata, da subito, all'atmosfera di quel quartiere vivace, che mescola casette, botteghe e orti, ai caffè e ai cabaret frequentati da artisti e da borghesi in cerca di emozioni
Sfrontata e sicura di sé, già a dodici anni ha fatto tutti i mestieri, da pasticcera, a fiorista a trapezista da circo. 
Quando circola per la strada, con il suo fisico perfetto, gli occhi azzurri, la pelle di porcellana e i capelli che gli ammiratori definiscono "del colore del cognac" non passa, certo, inosservata. 
I primi a notarla sono gli artisti che hanno i loro studi a Montmartre. A quindici anni comincia a fare la modella per un maturo pittore, Puvis de Chavannes, con cui presto divide non solo l'atelier, ma anche il letto. 
Non è l’unico: da allora le sue relazioni amorose faranno scandalo, dalla storia con Renoir, al tentativo di suicidio per Toulouse Lautrec, alla passione per Eric Satie. 
Ma lei delle chiacchiere se ne infischia e non cambia il suo modo di essere. 
Piuttosto, cambia nome: al lezioso Marie Clémentine, con cui è stata battezzata, sostituisce il più esotico Suzanne, suggerito dalla scherzosa definizione di "Susanna tra i vecchioni" coniata per lei da Toulouse Lautrec a proposito delle sue frequentazioni  di artisti non più giovani. 
Nel 1883 mette al mondo un figlio, che alleva orgogliosamente da sola e a cui dá il suo cognome finché non  sarà riconosciuto, qualche anno dopo, dal giornalista spagnolo Miguel Utrillo. 
E continua intrepida ad andare avanti. 
Per qualche tempo sembra trovare pace nel matrimonio con un ricco agente di cambio. Ma dieci anni di vita tranquilla sono troppi per lei. 
Si annoia e "la noia è come una lebbra": scrive a un'amica. 
Ha voglia di riprendersi la vita e lo fa davvero, nel 1914, quando scappa con un uomo di venti anni più giovane di lei, André Utter, elettricista e pittore a tempo perso. 
Con lui e con il figlio, Maurice Utrillo, anche lui pittore, che, con le sue vedute di Montmartre, guadagna molto più di lei, forma quello che i più malevoli definiscono un "trio infernale", per cui eccentricità, eccessi e notti passate a bere sono un'abitudine. 

Un'esistenza fuori dagli schemi, la sua, in cui, fin dall'inizio, l’unico punto fermo, è stata la pittura: "da sempre ho voluto dipingere per riuscire a fermare la vita"- dice di se stessa. 
E lo ha fatto, trovando la maniera  che più le assomiglia, partendo da quelli che considera i suoi punti di riferimento, Gauguin e Van Gogh.
Negli atelier dei suoi amanti, poi, ha cercato sempre di catturare qualcosa della loro tecnica e del loro modo di dipingere: "ho avuto grandi maestri, da cui ho preso il meglio- ammette- ma da sola ho creato me stessa e ho detto ciò che avevo da dire".
Di tutti gli artisti che ha conosciuto il misogino e caustico Degas, è l'unico che non ha cercato di sedurla, ma che, invece, l'ha incoraggiata, convincendola a dedicarsi esclusivamente alla pittura: "sei dei nostri- pare le abbia detto- e devi pensare solo a lavorare". 
Lui che detesta, come Suzanne, ogni "buonismo" di maniera, le ha fatto il complimento di definire i suoi dipinti "cattivi" per le loro linee dure, i colori stridenti, le superfici piatte, le forme sottolineate da contorni neri e per il loro realismo quasi brutale. 
A Suzanne quella definizione piace e ha continuato a lavorare, con quella stessa "cattiveria", dipingendo tutto quello che ha intorno, a cominciare dai gatti (i suoi primi soggetti) e passando, poi, ai ritratti, ai nudi di donna, alle nature morte.

Dal 1919, il suo modello preferito è Raminou. 
Per lui recupera tutta l'energia e la vivacità della sua pittura come in questo dipinto del 1920 intitolato "Louison e Raminou", ora in collezione privata, in cui il verde dell'abito della donna sembra scelto apposta per far risaltare il rosso del pelo del gatto.


O come in questo con "Miss Lily Walton"del 1922, ora in collezione privata, dove il protagonista  è sempre lui, tanto che, nella stanza scura e ingombra, spicca sulle ginocchia della malinconica modella come l'unico elemento di vita. 


Oppure, quando è raffigurato da solo, come in questo dipinto del 1922, ci guarda imperscrutabile con i suoi occhi dorati dello stesso giallo del panno, su cui è sdraiato. 


Sembra che  Suzanne in quel gatto dall'aria indomita abbia ritrovato un po' se stessa
Ma anche Raminou si sente bene con lei, tanto che, stando a qualche testimonianza dell'epoca, lo si scopre a partecipare, completamente a suo agio, alle innocue quanto chiacchierate eccentricità  della sua padrona, come quella di mangiare caviale tutti i venerdì per onorare il digiuno canonico, o di girare per Montmartre a bordo di una carretta tirata da un asino.  

Intanto gli anni passano e, nel 1932, in questa tela in collezione privata, troviamo un  Raminou vecchio e malandato, che ha perso un po' della sua fierezza, mentre si riposa accoccolato al sole, su un tavolo da giardino.



Sarà il suo ultimo ritratto. 
Anche Suzanne, ormai pittrice nota e apprezzata, si ritira dalle battaglie della vita per offrirsi un'esistenza più regolare e serena.
Forse con un po' di rimpianto per quel periodo, in cui aveva condiviso con Raminou pittura e vita quotidiana, ritrovando in quel gatto tigrato un riflesso del suo stesso desiderio di  libertà. 


In una foto del 1919 Raminou è sulle ginocchia di Suzanne, tra Maurice Utrillo (a sinistra) e André Utter





sabato 28 marzo 2015

Vincent prima di Van Gogh: la nascita di un artista




Un gruppo di donne, curve sotto il peso dei pesanti sacchi che portano sulle spalle, avanzano faticosamente nella neve: sono le "sclôneuses", le operaie che trasportano i residui ancora utilizzabili del carbone estratto dalle miniere.
Vincent Van Gogh le ha viste nel freddo inverno che ha trascorso nel Borinage e le raffigura così, qualche anno dopo, in questo disegno rifinito ad acquerello, ora al Kröller-Muller Museum di Otterlo.


Quando, nel dicembre del 1878, è arrivato nel Borinage, la regione belga delle miniere di carbone, quella che tutti chiamano il"paese nero", Van Gogh ha venticinque anni. 
Inquieto e introverso ha già cercato di intraprendere vari mestieri, senza mai sentirsi soddisfatto. Suo nonno e suo padre sono tutt'e due pastori protestanti: la religione occupa un posto importante nella sua famiglia e nella sua vita, tanto che, a un certo punto, ha pensato di diventare anche lui pastore o di fare il missionario. 
Dopo un tentativo fallito di frequentare la Facoltà di teologia di Amsterdam, sè iscritto a una scuola di evangelizzazione a Bruxelles  ma, troppo indisciplinato e distratto per finire il corso, ha scelto di trasferirsi, da subito, nel Borinage, dove stanno cercando un predicatore-catechista per una piccola comunità protestante. 
Il Borinage non è un paese facile. Quasi tutti lavorano nelle miniere per un salario miserabile, con un orario lungo e pesante:  i più non sanno né leggere né scrivere. 
Van Gogh sa che avrà a che fare con la miseria, ma solo quando visita una miniera (la Fosse de Marcasse) e scende fino in fondo, dopo cinque piani di gallerie, si rende conto davvero della fatica dei minatori che, ricoperti della polvere scura del carbone, scavano, con i loro picconi, sdraiati o accucciati in quel pozzo nero, dove- come  scrive al fratello Theo- il cielo appare lontano come  una minuscola stella. 
Quello che prova è una grande compassione che abbraccia tutti: sia gli uomini, costretti a faticare in quelle condizioni penose, che i cavalli da tiro, obbligati a trascinare carrelli di carbone e a vivere nelle tenebre a 700 metri di profondità. 
Proprio di questi cavalli, sfiancati dalla fatica, si ricorderà, più tardi, in un disegno ora al museo Van Gogh di Amsterdam:



Al Borinage Van Gogh si sente isolato.
La gente non si trova  a suo agio  con quel predicatore rosso di capelli, venuto dall'Olanda, che parla un francese gutturale e non capisce il loro dialetto. 
I più lo giudicano un esaltato perché vuole vivere come loro e, pur avendo i soldi per permettersi qualche comodità, è andato a stare in una specie di stamberga a Wasmes regalando ai poveri ogni suo avere. 
Quando un'esplosione di grisou nella miniera di Framieres  provoca più di cento morti, Van Gogh è tra i primi a soccorrere i feriti e a solidarizzare con le richieste di migliori condizioni di lavoro.
Però, malgrado tutta la sua buona volontà, non riesce a comunicare con quella gente, di cui apprezza tanto la dignitá e alle sue prediche, in una piccola sala di paese, non ci va quasi nessuno. 
Van Gogh continua ma ha sempre meno fiducia in se stesso.
Intanto, riprendendo una passione che ha manifestato fin da piccolo, riempie di schizzi l'album da disegno che ha portato con sé, cercando di fissare tutto quello che vede: dal paesaggio segnato dalle macchie nere dei mucchi di carbone, ai pozzi delle miniere, alle ciminiere.
Tutte immagini che gli affollano la mente e che riprenderà, qualche anno dopo, nei suoi disegni e negli acquerelli, come questo, ora al museo Van Gogh di Amsterdam, dove raffigura i minatori spossati che tornano dal lavoro e si concedono una pausa nei campi:



Nel giugno del 1879 il suo contratto di catechista scade e non è più rinnovato. 
Van Gogh  è alla disperazione: non sa più cosa fare della sua vita ed è sempre più inquieto. 
Neanche in famiglia si sente compreso: il padre si offre di trovargli un'occupazione qualsiasi e, poi, esasperato dai suoi rifiuti, minaccia addirittura di rinchiuderlo.
Allora ritorna al Borinage e lì, nella solitudine, comincia a intravedere un'altra possibilità.
Si é accorto che le emozioni e i sentimenti che non riesce a esprimere a parole, come la sua solidarietà per quella gente povera e sfruttata, li può tradurre in linee, colori e disegni, insomma, in pittura. 
Si confida, in una lunga lettera, col  fratello Theo: è cosciente di non avere un talento innato per il disegno, ma chiede di mandargli manuali e riproduzioni delle opere di Millet per farne delle copie  
E, poi, si butta a corpo morto a copiare, a correggere i suoi schizzi, facendo e rifacendo esercizi. Compra carta, matite, inchiostro e copia i quadri di Millet, ma anche le incisioni che trova pubblicate nelle riviste e i modelli di anatomia e di prospettiva nei manuali. Non si stanca mai di riempire dei suoi disegni quello che chiama il suo atelier, un angolo della camera in affitto che divide con i figli di un minatore.
Il fratello Theo lo incoraggia, gli manda tutto il materiale e anche un piccolo sussidio finanziario.

Nel marzo del 1880, in un inverno ancora glaciale, van Gogh intraprende un viaggio verso il Pas-de-Calais, prima in treno e poi a piedi, per tre giorni e tre notti, sfidando la pioggia e il vento, per conoscere un pittore che  ammira, Jules Breton.
Arrivato al suo studio è talmente impressionato che non osa nemmeno bussare alla porta e torna indietro. 
Poco importa che l'incontro non ci sia stato: quel viaggio ha rappresentato per lui una sorta d'iniziazione e, alla fine, la decisione è presa. 
Le incertezze e le esitazioni del suo carattere appassionato e inquieto sono finite:  d'ora in avanti si dedicherà solo alla pittura.
Nell'ottobre del 1880 van Gogh lascia definitivamente il Borinage, con la sua valigia piena di schizzi e di disegni ancora goffi e maldestri e le mente piena delle emozioni che ha vissuto.
È passato poco più di un anno e mezzo, un periodo breve, eppure fondamentale per la sua vita. 
In quel paese freddo e senza colori, van Gogh ha trovato finalmente la sua strada.






L'inizio della carriera di Van Gogh e la sua nascita artistica è raccontato in una bella mostra, "Van Gogh au Borinage. La naissance d'un artiste", che si tiene al BAM di Mons, centro del Borinage e capitale europea della cultura 2015, dal 25.01 al 17.05.2015 (qui qui)





martedì 11 novembre 2014

Il marinaio e l'infermiera: "Il bacio di Times Square"




Dalle foto di baci nascono sempre delle storie. 
Anche se spesso non sono- come si potrebbe immaginare- storie d'amore. 
Dopo il famosissimo bacio, fotografato da Roberto Doisneau a Parigi all'Hotel de Ville e contestato da due "falsi" innamorati (qui), eccone un altro, altrettanto famoso e altrettanto discusso:


Siamo a New York, in Times Square, il 14 agosto del 1945, in quello che sarà ricordato come il V-J Day: il presidente Truman ha appena annunciato alla radio la resa del Giappone che segna, di fatto, la fine della seconda guerra mondiale. 
Dopo quasi cinque anni di un conflitto durissimo l'entusiasmo è alle stelle e, nell'euforia generale, molti scendono in strada. 
C'è chi applaude, chi canta, chi urla: un giovane marinaio dell'US Navy festeggia a modo suo, baciando con foga un'infermiera in uniforme, in un gesto tipico di due innamorati. 

La foto sarà pubblicata nella rivista "Life" il 27 agosto del 1945 e, con il titolo di "V-J Day in Times Square", farà il giro del mondo. 
Sarà riprodotta migliaia di volte fino a diventare un'icona, un'immagine di culto. 
Tanto che, nell'agosto del 2010, sempre in Times Square, centinaia di zelanti volontari si presteranno a ripetere quel bacio leggendario. 
Una foto straordinaria: il simbolo dell'uscita da un incubo e della ripresa della vita. 
O, almeno, così parrebbe, perché, in realtà, intorno a quel bacio, definito dai più sentimentali come "uno dei più romantici di tutti i tempi", si intrecciano storie e verità diverse.

La prima è quella del fotografo, Alfred Eisenstaedt (qui) che chiarisce che i due della foto non erano affatto innamorati: 
"Stavo camminando in mezzo alla folla- racconta- alla ricerca di foto da scattare. Ho visto un marinaio che veniva nella mia direzione, abbracciando e baciando tutte le donne- giovani o vecchie- che incrociava. Ho notato anche che in mezzo alla folla c'era un'infermiera. Mi sono concentrato su di lei e, come speravo, il marinaio si è avvicinato, l'ha rovesciata  all'indietro e l'ha baciata. Se non fosse stata un'infermiera, se avesse portato degli abiti scuri, non avrei scattato la foto. Il contrasto tra la veste bianca e quella nera del marinaio, ha dato alla foto tutta la sua intensità”. 
Insomma, per scattare quell'immagine  è bastato avere occhio e capacità di cogliere il momento. 
Nessun teatrino come quello che Robert Doisneau aveva dovuto organizzare per il suo “Bacio". Ma nemmeno un gesto d'amore.
A Eisenstaedt è stato sufficiente fissare col suo obbiettivo l'incontro casuale tra due sconosciuti, per trovare già tutto: l'ambientazione, l'espressività, il contrasto dei colori e, soprattutto,  un bacio così travolgente da aver l'aria di un passo di tango.  

Ma, allora, chi sono i due protagonisti? Se lo chiedono in così tanti che "Life, a distanza di anni, quando la foto è diventata ormai mitica, pubblica un appello per ritrovarli. 
Il successo va al di là delle aspettative: di presunti marinai "baciatori" e infermiere baciate se ne presentano non due, ma quindici (tre donne e dodici uomini) e ognuno narra la sua storia. 
La donna viene, da subito, identificata con Edith Shain, un’infermiera di un vicino ospedale che si era già fatta viva, scrivendo al fotografo, in tempi non sospetti. 
E l’uomo? Come fare a riconoscerlo tra tanti candidati? 
Il tempo passa e l'impresa sembra impossibile, almeno finché non si pensa di far ricorso a  prove scientifiche. 
In effetti, è proprio un medico legale, che, nel 2007, in base  a tutta una serie di analisi e misurazioni da far impallidire i poliziotti di "CSI", individua il protagonista della foto in Glenn Mc Duffie, un arzillo ex marinaio in pensione (qui). 
L'uomo, che aveva rivendicato il suo ruolo in tribunale, sottoponendosi perfino alla macchina della verità, può finalmente godersi il suo quarto d'ora di celebrità, rilasciando interviste, apparendo in televisione e ripetendo il bacio, nella stessa posizione della foto, ogni volta che glielo chiedono. 
"Per un po'- grazie  a quell'immagine, ha avuto la vita più glamour di qualsiasi altro ottuagenario":- ha ammesso la figlia.

Tutti contenti dunque? Nemmeno per idea! 
Perché a confondere le carte arrivano, nel 2012, due scrittori che hanno passato addirittura vent'anni, a confrontare foto, interviste  e i ricordi sempre più appannati dei testimoni, e che pubblicano un libro, in cui ricostruiscono, punto per punto, l'accaduto. 
Alla fine emerge un’altra verità. E stavolta sembra quella definitiva (qui)
Intanto, l’uomo non è affatto quello proposto dal medico legale, ma un altro marinaio, George Mendosa, riconosciuto con sicurezza dai suoi vecchi  commilitoni. 
La donna della foto, invece, all'epoca non  era esattamente un'infermiera, ma un'assistente odontoiatrica, Greta Zimmer, che aveva indossato l'uniforme per il suo primo giorno di lavoro. 

Tutto sistemato! L’uomo e la donna sono stati identificati e, finalmente, si può stare tranquilli. 
E, invece, no!  Perché in questa ingarbugliata vicenda, nemmeno il bacio è quello che sembra. 
Dalle dichiarazioni della donna riportate nel libro risulterebbe- almeno stando a quanto sostiene il blog femminista "Crates and Ribbons" (qui)- una verità, non proprio "politicamente corretta". 
"Non l'ho nemmeno visto arrivare- racconta Greta Zimmer- e ancora prima di rendermene conto mi sono trovata afferrata come in una morsa. Ed è così che mi ha baciato"
Basta questo per far ipotizzare che quel bacio tanto celebrato nasconda, addirittura, un'aggressione sessuale: il marinaio, in preda all'entusiasmo e, forse, anche ai fumi dell'alcol- si sarebbe  imposto con la forza a una donna riluttante. 
Insomma, su quel gesto, diventato simbolo di gioia e di libertà, ci sarebbe molto da ridire. 

Peccato! 
Forse su certe immagini, che  sono entrate così profondamente nei sentimenti e nell’immaginazione sarebbe meglio non investigare troppo. 
E  lasciare che i più romantici, o i più ingenui, continuino a commuoversi e, magari, a pensare che, in fondo, anche quel bacio non sia che  "l'apostrofo rosa tra le parole t'amo".







lunedì 6 ottobre 2014

Gli Apostoli mancanti: l'"Assunzione della Vergine" di Mantegna nella cappella Ovetari




La matematica non è (o non dovrebbe essere) un'opinione, nemmeno per gli artisti. 
In effetti, proprio un numero sbagliato è alla base di una storia che riguarda l'"Assunzione della Vergine", eseguita da Andrea Mantegna tra il 1453 e il 1457 per la cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani di Padova.


L'affresco è una delle poche parti superstiti della decorazione della cappella, quasi tutta distrutta da un bombardamento nel 1944 (qui è un link) 
La scena è delimitata da un arco dipinto decorato con motivi di candelabre e cornucopie derivati dall'antichità classica: in alto è raffigurata la Madonna Assunta, circondata da angeli festanti, mentre in basso è collocato un gruppo compatto di otto Apostoli che guardano verso il cielo.
Otto? Ma non dovrebbero essere dodici? 
Contiamo meglio! No,no... sono proprio otto. 
Di sicuro, i numeri non tornano. 

E non tornano nemmeno quando la committente, Imperatrice Ovetari, nel 1457, riesce, finalmente, vedere l'affresco terminato.
Ci mancava solo questa- avrà pensato- come se non bastassero tutti i grattacapi che ha avuto fin da quando, una decina d'anni prima, nel 1448, rimasta vedova, ha dovuto adempiere alle volontà  del marito, che, nel testamento, le ha lasciato una cospicua cifra con il compito di provvedere alla decorazione della cappella di famiglia
Il soggetto è già stato stabilito: le storie di san Giacomo e di san Cristoforo alle pareti e l'Assunzione di Maria nel fondo dell'abside.
Forse Imperatrice Ovetari, all'inizio ha creduto di cavarsela velocemente, assegnando l'esecuzione a due squadre di pittori: da una parte due maestri veneziani già affermati, Antonio Vivarini e il cognato Giovannni d'Alemagna, dall'altra due giovani e agguerriti padovani: Nicolò Pizzolo e Andrea Mantegna, all'epoca appena diciassettenne. 
La doppia commissione, però, invece di agevolarla, le ha complicato la vita. E non di poco.
Intanto, ci si è messo di mezzo il destino con la morte prematura di Giovanni d'Alemagna, la conseguente rinuncia di Vivarini e l'obbligo di sostituirli con altri due pittori, Bono da Ferrara e Ansuino da Forlì
Ma anche con i due padovani le cose non sono andate lisce: avrebbero dovuto andare d'accordo visto che entrambi erano stati a bottega da Francesco Squarcione, dove avevano condiviso l'amore per l'antichità classica e per le complesse ambientazioni prospettiche, ma invece erano nati subito dei contrasti. C'è da dire che tutt'e due hanno un caratterino che definire difficile è un eufemismo. 
Nicolò Pizzolo era già noto, in città, come un insolente attaccabrighe, ma anche Andrea Mantegna, più giovane di lui di dieci anni, si è rivelato un tipetto da prendere con le molle. Non appena ricevuta la commissione per la cappella è andato a vivere da solo e si è impelagato in una causa brigosissima col suo maestro e tutore, Squarcione, reclamando compensi mai ricevuti e- come se non bastasse- ha preso a litigare continuamente con Pizzolo. 
Mantegna è ambizioso e ha voglia di affermarsi. Sicuro di sé e dei suoi mezzi, ha cominciato a metter bocca su tutti i lavori della cappella. Pizzolo, che, di certo, non è abituato ad avere pazienza, non ci ha pensato due volte ad andare per vie legali e a richiedere un arbitrato che stabilisse non solo la suddivisione dei compiti, ma addirittura quella dei materiali. Insomma, sono andati avanti per un po' con una tensione che si tagliava con il coltello come due- per così dire- "separati sui ponteggi", finché Pizzolo è morto assassinato e Mantegna ha continuato praticamente da solo. 
Se Imperatrice Ovetari non ha protestato per la durata dei lavori che, secondo il contratto, dovevano finire in due anni è perché, in fondo, è stata contenta di vedere fiorire, come d'incanto, sulle pareti della sua cappella quello che già tutti considerano un capolavoro. Gli episodi delle vite dei Santi, ambientati con una rigorosa prospettiva matematica e arricchiti da tutta una serie di citazioni dall'antico, provocano l'effetto, insieme solenne e monumentale, di grandi sculture dipinte.
Di certo, ha provato la soddisfazione di avere puntato su un giovane che si è rivelato un vero portento. La fama di Mantegna, intanto, si è diffusa in tutto il nord Italia. Grazie al matrimonio con la giovane Nicolosa Bellini, figlia di Jacopo e sorella di Giovanni, si è legato con la bottega più prestigiosa di Venezia; le commissioni fioccano e ora sta per essere nominato niente di meno che pittore di corte dei Gonzaga a Mantova, dove è riuscito a strappare uno stipendio di tutto rispetto e condizioni di lavoro invidiabili.
Forse- pensa Imperatrice- ormai non ne può più della cappella Ovetari e con gli Apostoli ha un po' tirato via.

Anche lei, con tutta probabilità, è stanca, ma non vuole essere nemmeno presa in giro. È vero che con l'Assunzione si dovrebbe chiudere un decennio di lavori, in cui ha sopportato di tutto, complicazioni, tensioni, liti, strascichi giudiziari, perfino la morte e l'assassinio di due dei "suoi" pittori, ma ora basta: ha pagato per dodici Apostoli e dodici devono essere.
Non gli resta che andare in tribunale.
Il giudice, tanto per andare sul sicuro, si affida al parere tecnico di due artisti, Pietro Maggi da Milano e Giovanni Storiato. 
I due constatano che quattro Apostoli mancano effettivamente  all'appello, ma, tuttavia danno ragione a Mantegna: lo spazio della parete di fondo della cappella, occupata anche dalla finestra, è decisamente troppo stretto e il pittore ha fatto quello che poteva. 
Ci è voluta tutta la sua maestria e la sua abilità prospettica, per stiparvi dentro otto apostoli, mantenendo l'equilibrio e l'armonia della scena
Gli altri proprio non ci stavano: fare di meglio era impossibile.
Imperatrice Ovetari si deve rassegnare. 
I numeri sono numeri- è vero-  ma anche la matematica, alle volte, deve cedere il passo alle ragioni dell'arte.