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giovedì 6 novembre 2014

Petrus Christus: "Sant'Eligio nella bottega di un orefice"



Un viaggio nel tempo? Perché no! 
Tanto più che non c’è nemmeno bisogno di astrusi macchinari da fantascienza. Basta guardare un dipinto come "Sant'Eligio nella bottega dell’orefice” di Petrus Christus (1410 ca-1476), ora al Metropolitan Museum di New York (qui), per essere catapultati d'improvviso nel 1449.


Siamo a Bruges. 
La città è allora la capitale commerciale del Ducato di Borgogna: dal suo porto salpano le navi dirette sia verso il Mediterraneo che verso l'Inghilterra e i paesi anseatici. Dal nord arrivano legname, cereali o pellicce; dal sud, vino tappeti, sete e spezie. 
Grandi banche, come quella dei Medici, vi hanno aperto le loro filiali, mentre nel palazzo dei Van der Bourse si tiene la prima borsa valori del modo. 
Nelle strade strette e lungo i canali si incontrano uomini provenienti da paesi lontani e si sentono parlare tutte le lingue conosciute. 
Si vive di scambi e di commerci: le botteghe espongono, nei banchi aperti sulla strada, le merci più rare e pregiate. 

Una coppia di ricchi fidanzati è appena entrata da un orefice per comprare gli anelli nuziali. 
Seguiamoli pure! La porta è aperta ed è lo stesso pittore che ci invita a entrare, mettendoci sotto gli occhi una miriade di particolari.
Dalla firma che, insieme alla data, ha apposto in primo piano, sappiamo che si tratta di Petrus Christus (ne ho parlato anche qui). 
Allievo e continuatore di Jan Van Eyck, vive a Bruges come un artigiano benestante in contatto con gli esponenti più importanti della borghesia e dell'aristocrazia cittadina. 
Di certo, conosce bene i capi della Gilda degli orefici che gli hanno commissionato il quadro dedicato al loro patrono, Sant’Eligio, per esporlo nella sede della Corporazione. 
Gli orefici di Bruges, all'epoca, sono una vera potenza. 
Alla corte di Borgogna l’oro rappresenta il simbolo stesso del potere: i fortunati visitatori raccontano non solo che i nobili cortigiani sfoggiano gioielli di ogni tipo, ma anche che i soprammobili e, perfino, i servizi da tavola sono d'oro massiccio. 
I borghesi, se pure agiati, non possono di sicuro rivaleggiare con una tale magnificenza, ma hanno imparato dall'esempio dei Duchi che la ricchezza non è una vergogna (anzi!) e che deve essere esibita. Per questo non c'è nulla di meglio dei gioielli: gli orefici lavorano senza sosta e fanno fatica a soddisfare tutte le richieste. 
Nessuna meraviglia che, per il loro dipinto, non abbiano badato a spese e che si siano rivolti all'artista più caro della città. 
E Petrus Christus li ha saputi accontentare da par suo.
La scena sacra, che non tutti avrebbero compreso, è diventata, sotto il suo pennello, uno spaccato di vita quotidiana.
Intanto, ha trasformato la bottega di Sant'Eligio, che la storia ricorda come un orafo diventato vescovo e consigliere dei re merovingi, in una di quelle che si possono vedere comunemente in città e, poi, ha dato al volto del Santo i tratti dell'orefice più famoso di Bruges, Willem van Vuelten, noto per aver creato il preziosissimo anello di nozze della nipote del Duca di Borgogna. 

Niente di più adatto della sua bottega per due fidanzati un po'snob. 
Lei, tutta compresa nel suo ruolo, indossa per l'occasione un prezioso abito di broccato d'oro con un motivo di melograno e uno di quei copricapi a corna con un velo di seta che, al tempo, fanno furore. Con la mano destra indica l'anello che le interessa. 
Lui sfoggia, con una certa altezzosità, una veste di velluto blu foderata di pelliccia con un collo di seta rossa e un berretto decorato da una spilla. 
Sulla camicia di un bianco immacolato, spicca un pesante collare, forse quello del Toson d'oro, la decorazione più ambita dai membri della corte. 
Con un gesto di protezione tiene la mano destra sulla spalla di lei, ma, allo stesso tempo- come ogni gentiluomo che si rispetti- appoggia la sinistra sull'elsa della spada. 

Sulla parete di fondo, proprio dietro le spalle dell’orefice, è appesa, in bell'ordine,  tutta una serie di oggetti, un vero e proprio campionario di quello che la  sua bottega può offrire. 
E ce n'è per tutti i gusti: orecchini, anelli, pietre preziose, ma anche brocche d’argento, pezzi di oreficeria liturgica e perfino un ramo di corallo, indispensabile, all'epoca, per cacciare il malocchio. 

Sul banco di legno, accanto alla bilancia per pesare gli anelli, le monete straniere alludono alla sua attività di cambiavalute, mentre la cintura, posta in bella evidenza, è quella che, secondo la tradizione, deve essere indossata per la cerimonia delle nozze. 
Sulla destra, spicca uno specchio convesso, il cosiddetto "occhio della strega", che, piazzato davanti alla finestra, serve non solo a catturare tutta la luce dei brumosi inverni del Nord, ma anche a sorvegliare discretamente il viavai dei clienti (qui).

Insieme alla strada e agli edifici con gli alti tetti caratteristici di Bruges, lo specchio riflette anche due passanti che si danno una certa aria di raffinatezza portando con loro un rapace addestrato per la caccia.
Un quadro nel quadro, una sorta di scatola cinese, con cui Petrus Christus, citando lo specchio inserito dal suo maestro Jan Van Eyck nel "Ritratto degli Arnolfini", intende dar prova di tutta la sua abilità, ma che gli serve anche a costruire il suo gioco di prestigiatore 
In effetti, l’illusione è tale che abbiamo l'impressione che quello specchio potrebbe riflettere anche noi, se non ci sbrigassimo a spostarci. 
Insomma, siamo caduti nella trappola!
Petrus Christus, lontano le mille miglia dalla sintesi e dalla definizione matematicamente rigorosa dello spazio della pittura italiana, è riuscito ad abbattere ogni confine tra realtà e finzione e a ricreare il mondo reale, grazie alla minuziosità dei suoi dettagli, resi ancor più nitidi dalla lucentezza della pittura a olio.
Restituendo a pieno l'apparenza- o, per così dire, la pelle- delle cose, costruisce la sua illusione e cancella ogni limite di tempo e di spazio, fino a trasportarci, in un'uggiosa giornata di novembre, dalla nostra sedia di fronte allo schermo di un computer alla Bruges di sei secoli fa. 

Che vi dicevo? E' bastato solo lasciarsi andare al suo gioco di specchi, di dettagli e di colori perché la pittura compisse, ancora una volta, la sua magia.








martedì 23 agosto 2011

Michelangelo: la Madonna di Bruges




Quando accompagno a Bruges gli amici che vengono a trovarmi in Belgio, spero sempre che non abbiano letto guide o testi di storia dell'arte, perché mi piace godermi la loro meraviglia, quando entrano nella chiesa di Nostra Signora (Onze-Lieve-Vrouwekerk) e sono attratti, immediatamente, dalla bellissima Madonna in marmo dell'altare in fondo alla navata destra.

Si ha, subito, l'impressione che la scultura, alta poco meno di un metro e trenta, abbia una forza e una potenza che prescinde dalle sue dimensioni. Sembra che domini l'ambiente circostante; che non abbia niente a che fare con le statue che l'attorniano; che sia, insomma, un'opera straordinaria e, in qualche modo, aliena.
Si sente, da subito, che siamo di fronte a un'opera eccezionale, a un capolavoro.
Si capisce che siamo davanti a Michelangelo:



La Madonna siede sul trono, che tradizionalmente simboleggia la "Sedes sapientiae".
È avvolta in una veste dagli ampi panneggi, di un marmo così levigato da apparire quasi traslucido.
La veste forma, con il mantello che le copre la testa, una specie di ellissi che la racchiude e che ne esalta l'isolamento e, insieme, la monumentalità.
È una giovane bellissima.
Il volto ovale e aggraziato, ha lineamenti raffinati e regolari, come quello di Maria nella Pietà di San Pietro a Roma.

Ha la dignità di una vera "Regina del Cielo".
Non guarda il bambino, non sorride: sfugge lo sguardo dello spettatore, in un raccoglimento pensoso e malinconico. Sembra assorta nella premonizione della sorte sua e del figlio.

Conosce già il doloroso destino che li attende.

Ha il dono divino del sapere. E sa che quel destino non può evitarlo: sa che le sarà imposta la sofferenza dell’accettazione consapevole.
Sul fermaglio del mantello la testa di un cherubino è simbolo della sua "intelligenza chiara" o del dono della profezia.
C’è un libro nelle sue mani: e lì, nelle Sacre Scritture, c'è la conferma della sua sorte.


Non c'è alcun rapporto di tenerezza con il Bambino; non lo tiene né abbracciato, né in grembo, come si usava nelle raffigurazioni tradizionali.
Ognuno dei due sembra solo.

Il Bambino, alto e robusto, è in piedi, quasi senza sostegno, entro le ginocchia aperte della madre che ricordano la posa del parto e rievocano il titolo di "Mater Dei", secondo un'antica iconografia bizantina.

Sembra che esca, già grande, dal grembo materno e muova, con una certa solennità, i primi passi per offrirsi al mondo. Nello stesso tempo, pare che abbia paura e si voglia ritrarre, cercando ancora, con la mano, la protezione della madre, quasi invocando col gesto, di essere trattenuto.

Nelle due mani unite c'è l'unico punto di contatto tra madre e figlio: c’è l'espressione di un affetto irriducibile; forse c’è già la nostalgia per una fusione perfetta ed esclusiva, ma ormai irrimediabilmente perduta.
E c’è insieme, l’abbandonarsi a una separazione e a un destino segnato.

È straordinario come Michelangelo sia riuscito a liberare dal marmo, con maestria e potenza di esecuzione, un intreccio così luminoso di sentimenti e, insieme, di motivi iconografici complessi.
E per questo questa scultura non lascia indifferenti, attrae e suscita emozioni.

Ma come è arrivata a Bruges?
No. Stavolta non è stato per un furto, né per un'esportazione clandestina: questa è l'unica opera venduta fuori dall'Italia da Michelangelo stesso e a caro prezzo.
Bruges, agli inizi del Cinquecento, è uno dei centri più ricchi d'Europa, grazie al mercato della lana e al commercio. 
È in stretta relazione d'affari con Firenze, tanto che i Medici vi hanno aperto un'importante filiale del loro Banco.

Jean e Alexandre Mouscron, (all'italiana Moscheroni), due ricchi mercanti di tessuti, sono in contatto di lavoro con il fiorentino Jacopo Galli, banchiere, grande collezionista e amatore d'arte. Ed è forse, Galli a indicare Michelangelo, di cui conosce bene il pessimo carattere, ma anche le straordinarie qualità, come lo scultore più adatto per eseguire una Madonna destinata alla loro cappella funebre.
Michelangelo, all'epoca trentenne, è a Firenze, dove lavora, giorno e notte, dietro un tramezzo di legno appositamente costruito, a sbozzare un gigantesco pezzo di marmo per ricavare la statua di un David.
È un'opera difficile, una committenza pubblica di prestigio, a cui molti, prima di lui, hanno rinunciato. Lui, invece, si è ostinato, capendo che è quella può essere l'occasione giusta per costruire la sua fama di scultore "eroico" e geniale.
Tutta la città è incuriosita e aspetta, con ansia, il risultato. Michelangelo lo sa e ha dichiarato che tutto il suo tempo sarà occupato nel David.
Di sicuro il daffare è tanto, ma la cifra record di 4.OOO fiorini, che i ricchi fiamminghi gli hanno offerto, è una tentazione irresistibile.

Accetta, dunque, il lavoro: non si sa se esegua appositamente una scultura, oppure ne riadatti una che già ha fatto, forse per i Piccolomini di Siena.
Di certo tratta tutta la faccenda con una riservatezza degna di un libro giallo. Nel gennaio del 1506 scrive al padre che la Madonna in casa sua, non deve "essere fatta vedere a persona".
Da lì, altrettanto segretamente, ad agosto, la fa trasportare a Livorno e trasferire nelle Fiandre, via mare. Nessuno l'ha vista, tanto che nelle biografie di Michelangelo se ne parlerà appena e in maniera confusa, descrivendola, addirittura, come un tondo o un bronzo.

A Bruges, invece, se ne parlerà, eccome, fin dal 1508, quando viene collocata nella cappella dei Mouscron, in cattedrale, con tutti gli onori. Là rimane, fino all'epoca delle conquiste napoleoniche, quando viene trafugata e trasferita in Francia, per poi tornare a Bruges, nella chiesa dove ora si trova.
Quando la si vede, però, non importa conoscerne la storia.

C’è qualcosa di profondo in noi che viene toccato. Michelangelo ha fermato il momento in cui, nel figlio e, soprattutto, nella madre, il sentimento di gioia che accompagna il ricevere e il dare la vita si trasforma nella percezione della condizione umana, nella consapevolezza dell'incombere ineludibile dell’ombra della fine.
Ha saputo fissare nel marmo “il sentimento tragico della vita”.







sabato 19 marzo 2011

Bruges: il beghinaggio.





Se l´immagine del viaggio in Marocco è stata quella di Essaouira, quella del ritorno non può essere  che quella del beghinaggio di Bruges.
Emozioni e mondi totalmente differenti.

I beghinaggi in Belgio e in Olanda sono piazze o cortili circondati da piccole abitazioni omogenee.
Qui abitavano le beghine: donne sole, non sposate, vedove o vittime di violenza che si ritiravano in luoghi protetti per vivere, lavorare e pregare in comunità, difese dall'insicurezza dell'esterno.



Quello di Bruges è uno dei miei luoghi dell´anima. 
La calma, le sottili sfumature al passaggio delle stagioni, il silenzio sono capaci di un delicato incanto, di una malia irresistibile. 

Tornata dalla luce e dalla varietà di emozioni del Marocco, continuamente sollecitata dai colori, dal rumore dalle gente che circonda, che chiede, dal richiamo dei muezzin, dalle donne velate, dai negozi, dalle merci esposte, dalla miseria, dai carretti sovraccarichi tirati da asini stanchi, dalle moto, dal vento e dalla polvere, ho capito quanto in realtà avessi bisogno di questo mondo più rarefatto, più ovattato, più discreto.

Ho capito, rientrando  in Belgio, quanto questo paese che non è il mio, ma in cui abito da vent'anni, questo paese piatto, di canali, di silenzi, di colori spenti, di nebbie e di piogge sia diventato importate per me.
Certo non è l'Italia e non ho lo stesso senso, a volte, doloroso, di amore e di appartenenza.

Ormai, pero', è in questo strano paese diviso, lacerato, ironico, surreale, che - tornata da un viaggio entusiasmante e faticoso - mi sento finalmente arrivata a casa.






Belgitudine :
Jacques Brel, Le plat pays: