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sabato 5 febbraio 2011

Fernand Khnopff, Ritratto di Marguerite







Una donna, giovane, vestita di bianco, sullo sfondo di una porta chiusa. 
È vista di fronte e non sembra poggiare per terra, perché l'immagine è volutamente tagliata in basso, in modo che non si vedano i piedi.
È completamente vestita: anche le mani sono coperte dai guanti.
Porta un corpetto stretto, chiuso al centro da una cucitura evidente, il colletto dell'abito è rialzato, i capelli sono raccolti.
Ci appare avvolta nel vestito come in una corazza, algida e inaccessibile. 
Niente di lei si intravede se non il volto, girato di tre quarti, che sembra voglia sfuggire al nostro sguardo.
Immobile e statica, in una posa che la irrigidisce, è completamente assorta nei suoi pensieri.

È il ritratto di Marguerite Khnopff. 
La data è il 1887. 
Il pittore è il fratello, Fernand, uno degli esponenti più noti del Simbolismo belga.
Quello che Khnopff e i pittori simbolisti vogliono esprimere nei ritratti non è l'apparenza, ma lo spirito della persona, tanto da definirli dei veri e propri paesaggi dell'anima. 
Per loro i simboli devono essere espliciti: la porta chiusa, il corpetto stretto, cucito, l'abito bianco evocano una purezza inviolabile e inviolata. 

È così che Khnopff vuole rappresentate la figura ideale di una donna disincarnata, “angelica”, asessuata: uno dei tipi femminili dell'immaginario degli artisti simbolisti, insieme e in contrasto, con quello della “femme fatale”, attraente e pericolosa.

Ma, come succede con tutti i capolavori, il dipinto rivela molto di più di quello che il pittore si era proposto.
Fin dalla prima volta che l'ho visto, al Museo di Bruxelles, mi è parso che la donna rappresentata, Marguerite, nascondesse una sofferenza inespressa, un dolore tacito.
Suggestione, forse, perché quando si legge la storia di Fernard Khnopff si apprende del legame ossessivo che lo lega alla sorella. 
È lei che ritrae sempre anche nella veste di personaggi storici o mitici.
È lei che raffigura nei disegni e che riprende nelle fotografie. 
È con lei che stabilisce una relazione morbosa, così stretta da escludere il resto del mondo.

La pesantezza di questo legame la si avverte nella malinconia e nella sensazione di un silenzio obbligato, di un riserbo imposto che avvolge la figura.
Certo il pittore cerca di depurare, quasi di censurare,  il groviglio di sentimenti in un'immagine raffinata, studiata.
Cita il precedente della “Dama in bianco” di Wishtler nella figura femminile che contrasta con lo sfondo geometrico delle porte sovrapposte o nel gioco sottile delle tonalità grigie e bianche, appena ravvivate da pochi tocchi di beige e dall'oro del medaglione a lato della porta.

Ma, al di là dei riferimenti, quello che si percepisce è la sensazione di un'ambiguità, di un disagio, per cui sentiamo nella donna del ritratto, qualcosa che tocca la nostra sensibilità, i nostri sentimenti, che supera la nostra indifferenza di spettatori e ci colpisce nel vivo, dritto al cuore.



….e quando il cuore viene colpito, si cerca il conforto di un'amica capace di leggere dentro il volto, dietro le parole, oltre quella porta chiusa. Inaspettato e sorprendente, ecco cosa mi ha raccontato:


Cara amica,
il silenzio obbligato, il riserbo imposto e l'ambiguità: questo vedo nella splendida raffigurazione che mi stai donando. Sono per me gli aspetti decisivi attorno a cui il pittore si muove, delineando un ritratto che fa emergere sensi solo apparentemente convergenti.

Il colore bianco simboleggia la purezza ma può essere anche il non-colore espressione di un vuoto da riempire di fantasie, emozioni o paure. La luce pervade il dipinto, ma lo sguardo della ragazza ci racconta di un pensiero cupo, di qualcosa che succede al di là del visibile.
È un racconto per assenza, più che un racconto per presenza. La porta è chiusa, ma che mondo nasconde quella porta? Il vestito bianco ed accollato copre quello che si intuisce un corpo snello, due seni adolescenziali. Quale il mondo sotto il vestito?

Il braccio infilato dietro la schiena, la posizione ingessata e statica, l'assenza anche di un'ipotesi di movimento mette la giovane in una sorta di 'esposizione' alla vista dell'altro. Un manichino esibito a cui è stata tolta l’anima. Ben diversa da quella “Dama in bianco” di Wishtler con i capelli sciolti, le braccia mollemente affiancate ad un corpo su cui poggia un vestito bianco e che esprime nello sguardo limpido un senso di pace.

Il vestito di Marguerite pare invece ‘ scolpito’ su un corpo sequestrato. Il senso del sequestro lo dà quello sguardo privo di speranza. Fosse triste, farebbe pensare al rimpianto di qualcosa che poteva essere e non è stato, pare invece uno sguardo vuoto di chi non può immaginare nient’altro che la prigionia.
E chi è il carceriere se non il fratello/pittore/padrone che si è impossessato dell’anima e dell’eros di Marguerite?

La scelta di infilarle lunghi guanti di pelle, così arbitraria e provocatoria in questo dipinto, pare essere stato il modo di sequestrare anche la più piccola parte di pelle della sorella. Pelle di animale al posto della pelle di un corpo vivo.
E sul viso, unica parte scoperta, un “burqa” psichico: l’immobilità e la disperanza.
Come se il pittore volesse dire: il corpo vero, quello vivo, lo conosco e lo possiedo solo io. Gli altri ne ammirino il simulacro!
Incesto? Probabilmente, no! L’agito del fantasma incestuoso fa scorrere distruttività ma anche energia, a cui ci si può sottrarre con un grido disperato proveniente dal profondo del corpo. Se d’incesto si trattasse con ogni probabilità il dipinto avrebbe tradito una forza erotica che qui è completamente assente.
Più probabilmente un clima incestuale, dove il fantasma rimane tale, non viene agito ma tutta la relazione è invasa e parassitata dall'ombra del dominio del fratello che in nome del possesso sequestra l’anima.
Roberta