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mercoledì 6 marzo 2013

Van Cliburn: un americano a Mosca



Ci sono delle storie talmente belle che non  sembrano vere. 
Questa, per esempio: una storia di intrecci tra politica, musica e libertà, che mi ha ricordato un delizioso film di qualche anno fa, "Il Concerto" di Radu Mihaileanu. L’ho sentita citare spesso, in questi giorni, per commemorare la morte di  un grande pianista americano, Van Cliburn, avvenuta il 27 febbraio scorso.

Siamo nel giugno 1958, nel pieno della Guerra Fredda, quando si apre a Mosca la prima edizione del concorso internazionale di piano intitolato a Ciaikovskij. Russia e Stati Uniti sono allora impegnati in una competizione senza esclusione di colpi in ogni campo, compreso quello della cultura. 
Il concorso Ciaikovskij doveva rappresentare una vetrina per mostrare la superiorità del talento dei giovani musicisti sovietici, che, stando alla propaganda, non aveva rivali. Nella giuria sedevano pianisti del calibro di Sviatoslav Richter e Emil Gilels. 

Tutto pareva filare come da programma: nessuno si aspettava sorprese. 
Ma ecco che si arriva alla serata della finale.
Tra i concorrenti  c'è un giovane americano, un texano di appena ventitré anni, Harvey Labarn Cliburn jr. 
Van Cliburn, come preferisce farsi chiamare. 


È altissimo, una specie di gigante con una gran chioma di capelli ondulati e delle mani enormi, che parrebbero più adatte a indossare i guantoni da baseball che a toccare i tasti di un pianoforte. 
Lo sguardo intenso e l'andatura dinoccolata sono quelli di un attore di film western. In realtà suona  il piano fin da bambino e si  dice che abbia un talento prodigioso, già riconosciuto in una delle scuole più prestigiose degli Stati Uniti, la Juillard di New York. 

Quella  sera è molto emozionato.
La sala è gremita, gli sguardi sono tutti su di lui. 
Forse  tra il pubblico c'è chi lo osserva con sospetto: vediamo un po' come se la cava questo odioso capitalista - avranno pensato.
Finalmente tocca a lui a suonare i pezzi che ha scelto: il concerto n.1 di Ciaikovskij e il n.3 Rachmaninov.

Lesibizione termina.
Nella sala, fino ad allora silenziosa e ostile, è come se fosse caduto un fulmine: la sua interpretazione è stata assolutamente  folgorante  per tecnica e  temperamento.
L'eco dell'ultima nota è appena finito; c'è solo un attimo di esitazione. 
Ed ecco che parte un applauso, prima timido e poi sempre più intenso e caloroso. Qualcuno si alza, altri lo imitano e, poco dopo, tutti gli spettatori sono in piedi in una "standing ovation" che dura otto minuti. 
Otto lunghissimi  minuti di un entusiasmo coinvolgente e liberatorio che scioglie ogni ostilità e ogni preconcetto. 
È come una grande onda di emozione che travolge anche gli orchestrali e perfino il pubblico che lo guarda da lontano nei rari televisori in bianco e nero.

La giuria del concorso è commossa.  
"Van Cliburn è stato geniale"- affermerà Richter.
"Suonava e assomigliava a un angelo-  ha spiegato in questi giorni il pianista Andrei Gavrilov- nulla a che vedere con l'immagine del capitalista cattivo descritta dal governo sovietico".
Sarà pure un "nemico", saranno pur bravi i pianisti sovietici,  ma c'è poco da fare: il premio lo merita lui.
I giurati un po' di paura - è innegabile- ce l'hanno tutti. 
Premiare un americano al primo concorso Ciaikovskij proprio facile non è.  

Nell'incertezza qualcuno prende il coraggio a quattro mani e decide addirittura di telefonare al segretario del partito, Nikita Khruscev. 
Sarà un colpo di scena. 
"È il migliore?" chiede Khruscev "E allora dategli il premio".
La vittoria, a questo punto, è sua: per Van Cliburn è un trionfo

Tornerà negli Stati Uniti celebrato come un eroe da una parata per le strade di New York e da una copertina su Time. La sua incisione del Concerto di Ciajkovskij entrerà nel libro dei primati per numero di copie vendute. Continuerà a intessere rapporti di pace tra America e Russia;  la sua carriera si svolgerà tra concerti entusiasmanti, ma anche depressioni, apparizioni sempre più sporadiche e ritiri dalla scena. 
In suo onore verrà creato a Fort Worth in Texas uno dei  concorsi pianistici più importanti, intitolato al suo nome, di cui sarà  per anni responsabile artistico.

Ci sono momenti che da soli valgono una vita:  a Van Cliburn quello vissuto a Mosca in una serata di giugno del 1958  ha segnato l'intera esistenza.

Chissà quante volte sarà ritornato col pensiero a quell'attimo di silenzio commosso appena prima dell'applauso e a quei lunghi  minuti di condivisione e di gioia pura  in cui non c'erano più né blocchi contrapposti, né nemici.
Quello che contava era solo la musica.



Ecco qui un video con un piccolo brano del concerto di Ciaikovskij e quello emozionante con le reazioni al concerto di Rachmaninov:



QUI invece è un link a un documentario sul concorso.




domenica 16 dicembre 2012

Paolo Conte: io e l'Avvocato





Proprio in questi giorni tanti  (troppi) anni fa l'Avvocato è entrato a far parte della mia vita.




Un sera, a Bologna, si esibiva- allora non era noto come adesso- con un pianoforte e con un piccolo gruppo di musicisti.
Ero andata là non per ascoltare musica, ma trascinata dall'onda di un innamoramento. 

Ed ecco che nel buio d'improvviso il palco si illumina e Paolo Conte, l'Avvocato, comincia a cantare.
Era - mi ricordo- l'epoca della "Verde Milonga".
Quella voce aspra, dura, arrochita mi trasportava in un altro posto, in un paese di provincia simile al mio, un paese con le drogherie di una volta, con le etichette delle spezie che facevano sognare paesi esotici, con una balera dove immaginare il Sud America, con la solitudine del bar Mocambo.....

A poco a poco il suo mondo diventava il mio. 
I suoi sogni di stelle e di jazz si mescolavano con i miei sogni. 
Quella voce entrava dentro di me, mi cullava con i suoi racconti, mi restituiva atmosfere che avevo vissuto o sognato.

Quella voce non mi avrebbe più abbandonato




chi bu bu du, du du :
http://www.youtube.com/watch?v=vQ2GYuLdkoc&feature=related


 

giovedì 20 gennaio 2011

Viva Verdi !




A volte mi chiedo se la mia non sia l’ultima generazione ad amare la musica di Verdi in modo istintivo, viscerale, indipendente da ogni conoscenza musicale.

G.Boldini,Ritratto di Giuseppe Verdi
Se guardo alla mia passione per le opere di Verdi, mi accorgo che non è nata dalle mie scarse cognizioni di musica, ma da un mosaico di sensazioni e di ricordi che fanno parte della mia storia familiare.
"Aida" è legata alla famiglia dei miei nonni dove le prozie si chiamavano Aida e Anneris (alla toscana) come le eroine verdiane. Il nome di mio padre, Alvaro, era quello del protagonista della "Forza del destino".
"Nabucco" era l’opera che mio zio Armando si ostinava a farci ascoltare nei pomeriggi sonnolenti di Pasqua o di Natale, malgrado noi cugini tentassimo di nasconderci, con silenziosa sveltezza, non appena andava a prendere i dischi dal mobile del salotto.
La "Traviata" era la preferita di mia mamma che, tra sfogo e ironia, usava canticchiare: "Sempre libera degg’io….", quando stirava pile inesauribili di panni, o "Croce e delizia..", mentre preparava i pranzi laboriosi della domenica.

Nessuno dei miei parenti conosceva la musica, ma tutti conoscevano Verdi. L’amore per le sue opere - un po’ come quello per una squadra di calcio- univa nella mia famiglia le persone più disparate.
Da adolescente, la musica di Verdi è stata una  riscoperta. 
Di sicuro non era quella di cui parlavo o che condividevo nelle serate tra amici, anzi, un po' me ne vergognavo. 
Preferivo sentire i dischi da sola oppure andare a teatro  a Firenze con  qualche  comitiva di sconosciuti melomani. 

Ascoltare Verdi, però, mi piaceva, e tanto: riconoscere le melodie, ritrovare testi  dimenticati, esprimere sentimenti forti, amori, odi, vendette, quelli che nella vita di tutti i giorni non osavo nemmeno dire a parole.
E soprattutto sciogliere, nella commozione del canto a voce spiegata, quei nodi di paure, di complessi, di timidezze feroci, che- a volte- mi offuscavano il cuore.
Poco mi importava delle trame improponibili o dei libretti pieni di vocaboli desueti. 
Poco mi interessava delle voci dei cantanti o delle direzioni d’orchestra.
Quello sarebbe arrivato dopo, molto dopo.

Dapprima c'è stata solo la sensazione liberatoria dell'immedesimarsi, senza remore, nell'amore  della Leonora  nel Trovatore, nella fragilità di Violetta della Traviata, nel dolore del pianto di Rigoletto o nel tradimento di Renato del Ballo in maschera….
E tutto immerso nella musica intensa, languida, fragorosa, potente, dolcissima...la musica di Verdi.
Non sono cambiata. 
Quando sono sola in casa e ho voglia di lasciar libero sfogo alle emozioni so cosa fare: metto  un CD di Verdi e mi abbandono– io che sono stonata e quasi senza voce- alla felicità pura del canto.




Renata Tebaldi, Trovatore. Tacea la notte placida ..:




sabato 1 gennaio 2011

Take five: il jazz





Il jazz è un gusto adulto.

Quando ero adolescente lo trovavo difficile, noioso, destinato a pochi e vecchi intenditori. 
Ascoltavo, ma solo per sbaglio, trasmissioni alla radio in orari improponibili e guardavo, senza troppa attenzione, vecchi filmati in bianco e nero che passavano ogni tanto in TV.
Quanto mi annoiava, il jazz !
Poi il colpo di fulmine, imprevisto e imprevedibile. 
A una di quelle feste che allora usavano con il giradischi e gli LP già predisposti per cadere sul piatto e fare da colonna sonora ai nostri desideri di incontri e di amori ecco "Take Five".
La scoperta.
"Ma cos'è questa musica ?"
"Boh , non so,... è jazz.."
Ma allora questo era il jazz !


Questa musica che ti entrava dentro, diversa da quella che ero abituata ad ascoltare, questo ritmo che non aveva bisogno di parole, caldo, coinvolgente, che  faceva sognare posti diversi, città lontane, che mi  faceva sentire più matura, adulta.
È da allora che lo ascolto e che mi piace.
A poco a poco è entrato nella mia vita di tutti i giorni.
Caso, destino ? 
Il jazz è la grande passione di mio marito, è la musica che  risuona quotidianamente in casa mia, come sottofondo, quella che mi accompagna nei momenti di allegria e in quelli di solitudine.
Se penso a un pezzo, con cui iniziare l'anno nuovo- è inevitabile-  penso a questo, penso al jazz....




mercoledì 17 novembre 2010

Something



Cosa si fa quando Internet non funziona, si è soli in casa e fuori è una giornata fredda e grigia.
Ovvio: si ascolta una canzone. Si ascolta Something.

- Ma lo sai che è la canzone più incisa dei Beatles dopo Yesterday ?
Si, lo so
-  E che Frank Sinatra l'ha definita la migliore canzone d'amore che abbia cantato ?
Vuoi che non lo sappia ?
- Ma lo sai che è stata composta da George Harrison nel 1969 per l'album "Abbey Road"?
Certo che lo so
- Ma lo sai che è stata incisa per Pattie Boyd, al centro di un ardente triangolo amoroso tra George Harrison e Eric Clapton ?

- Figurati se non lo so!
E ora vuoi farmi ascoltare, per favore.

venerdì 12 novembre 2010

JacquesBrel: la chanson des vieux amants


Ci sono  sempre  dei  versi, nelle canzoni di un cantante che amiamo, che ci rimangono dentro.

Sono tante le parole di Jacques Brel che mi emozionano. Alcune le sento davvero come parte di me.  
Sono nella « Chansons des vieux amants ». 
E non sono quelle dello struggimento, del rimpianto o del ricordo di un amore vissuto a lungo, pur tra bugie, viltà e tradimenti. 

"Il nous fallut bien du talent pour être vieux sans être adultes":   (c'è voluto del talento/ per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti).
queste sono le parole. 

Anch'io mi chiedo come sia riuscita e riesca ancora, a vivere insieme esperienza e immaturità, paura e attesa del futuro, certezza dell'età e sensazione di una giovinezza inesauribile.
Voglia di vivere, di provarmi, di non sentirmi mai arrivata, né nella mia vita di coppia, né nella mia stessa vita.
C'è voluto del talento ? Forse.


Bien sûr nous eûmes des orages
Vingt ans d'amour c'est l'amour folle
Mille fois tu pris ton bagage
Mille fois je pris mon envol
Et chaque meuble se souvient
Dans cette chambre sans berceau
Des éclats des vieilles tempêtes
Plus rien ne ressemblait à rien
Tu avais perdu le goût de l'eau
Et moi celui de la conquête
Mais mon amour
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l'aube claire jusqu'à la fin du jour
Je t'aime encore tu sais je t'aime
 Moi je sais tous tes sortilèges
Tu sais tous mes envoûtements
Tu m'as gardé de pièges en pièges
Je t'ai perdue de temps en temps
Bien sûr tu pris quelques amants
Il fallait bien passer le temps
Il faut bien que le corps exulte
Finalement finalement
Il nous fallut bien du talent
Pour être vieux sans être adultes
O mon amour
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l'aube claire jusqu'à la fin du jour
Je t'aime encore tu sais je t'aime
Et plus le temps nous fait cortège
Et plus le temps nous fait tourment
Mais n'est-ce pas le pire piège
Que vivre en paix pour des amants
Bien sûr tu pleures un peu moins tôt
Je me déchire un peu plus tard
Nous protégeons moins nos mystères
On laisse moins faire le hasard
On se méfie du fil de l'eau
Mais c'est toujours la tendre guerre
O mon amour...
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l'aube claire jusqu'à la fin du jour
Je t'aime encore tu sais je t'aime.


e in italiano Petra Magoni e Ferruccio Spinetti,Musica nuda:



giovedì 26 agosto 2010

Serge Gainsbourg, La javanaise




 Una sera di luglio..... la ragione si smorza e l'istinto prevale. 
E allora viene la nostalgia di uno di quegli amori estivi, intensi e urgenti, durati il tempo di una canzone. 
È la sera giusta per "La javanaise"......

Chi sa racconti pure che non è una canzone composta di getto, ma, anzi, scritta su commissione per Juliette Gréco. 
E  che la javanaise non é nemmeno un ballo: è la java quella che si danzava al  " bal musette"   con la musica dell'accordéon.
E magari insista che è stata scritta in omaggio a una canzone di Boris Vian, "La java javanaise", come puro esercizio linguistico, con la ripetizione della lettera "v": avoué, bavé, vous, vent.....

Poco importa. 
Se la si ascolta cantata dalla voce impastata di un Serge Gainsbourg sudato, impudico e, forse, ubriaco, la Javanaise perde tutti gli orpelli, arriva all'essenziale e si rivela per quello che è: il ricordo di un amore di una sensualità lancinante e disperata.
Chapeau !