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sabato 19 luglio 2014

La "magia nera" di René Magritte


"C'est un acte de magie noire de transformer la chair de la femme en ciel" (René Magritte)



Per me che abito a Bruxelles,  uno dei migliori modi per rinfrescare la testa (e le idee) nel caldo dell'estate rimane quello di andare al Museo dedicato a René Magritte e sostare davanti a uno dei suoi quadri. 
Magari proprio di fronte a questo, intitolato "La magia nera"



In una loggia aperta su un azzurro di cielo e di mare, una donna nuda, con la testa china, sembra assorta in se stessa. Forse sta meditando o forse sognando.
Il soggetto potrebbe essere tutto qui, un "Nudo di donna" come tanti altri, se il pittore non fosse René Magritte. 
Ma ecco il suo tocco inconfondibile! Gli basta intingere il pennello nell'azzurro dello sfondo per trasformare parte del corpo della donna nella stessa materia del cielo. 
E ora sembra quasi che aspetti le reazioni degli spettatori, come un mago contento del suo incantesimo.
Tanto più che ha dato al dipinto un titolo, "La magia nera", che riassume bene quale sia, secondo lui, il potere della pittura.

"Trasformare la donna in cielo: questo è l'atto di magia":- taglia corto, se deve rispondere a chi gli chiede il significato del quadro.
"La potenza del mistero si manifesta, evocando il mistero degli esseri familiari": afferma. 
Per lui, in effetti, non c'è niente di meglio che raffigurare e  trasformare gli aspetti più conosciuti del quotidiano per provocare uno spiazzamento, una di quelle che chiama  "fratture della realtà". 
Ho già parlato più volte dei dipinti di Magritte (qui è il link), di come gli oggetti della vita di tutti i giorni, visti fuori del loro contesto, vi assumano significati inaspettati e di come le persone rappresentate nei suoi ritratti  si possano rivelare enigmatiche e ambigue.

Quando, nel 1933, dipinge la "Magia nera", Magritte è già ben cosciente dei suoi mezzi di artista. Rientrato a Bruxelles, dopo un soggiorno a Parigi dove ha aderito con convizione al Surrealismo, si è stabilito, con l'inseparabile moglie Georgette, al pianterreno di una casetta di periferia. 
Per vivere disegna manifesti pubblicitari in un atelier che si è costruito in giardino. I suoi quadri, invece, li dipinge a un cavalletto, piazzato vicino alla porta che dà sul cortile. 
Per le riunioni con il gruppo dei surrealisti belgi c'è appena un tavolo  tra la cucina e il salotto dipinto d'azzurro, dove Georgette suona il piano, mentre dall'attaccapanni dell'ingresso è appesa l'immancabile bombetta (della loro casa e del loro armadio rosso ho parlato qui
Magritte, all'epoca, ha già cominciato a costruire la sua vita in modo che, dall'esterno, sembri scorrere entro i binari del più piatto conformismo. 
Completo scuro a doppio petto, capelli dal taglio impeccabile, bombetta e cane al guinzaglio, fanno parte integrante della sua nuova immagine.
Si è convinto che, solo immergendosi fino in fondo entro gli schemi, sarà libero di scardinare, dall'interno, tutte le convenzioni.

"Amour", foto del 1928, Fondation Magritte
Georgette, come sempre, gli è accanto.
Si sono conosciuti tra le giostre di una fiera di paese e si sono rivisti a Bruxelles. Lì si sono innamorati e, giovanissimi, si si sono sposati (della loro coppia ho parlato qui)
Non hanno avuto figli e, forse per questo, sono ancora più uniti.
Lei condivide le sue idee e lo asseconda con ironia, tanto da entrare nella cornice piccolo-borghese, che lui sta costruendo, arricchendola con i suoi improbabili cappellini, i colletti e i guantini di pizzo. 
Ma è anche la prima a scatenarsi negli scherzi fotografici organizzati con gli amici.
Soprattutto, è disponibile a fargli da modella e a nascondere e, insieme, a svelare il suo mistero. Chi se non lei potrebbe prestarsi a essere trasfigurata, da un tocco di "magia nera", in una donna metà celeste e metà terrena? 


E mentre, nel dipinto, le pareti del loro piccolo appartamento sembrano aprirsi in uno sfondo infinito di mare e di cielo, il fascino di Georgette consente a Magritte di catturarci nella trappola della sua pittura 



Per chi voglia riscoprire René e Georgette in quella Bruxelles che tanto gli assomiglia, copio da un post precedente un itinerario da percorrere in città:
La prima tappa è il Musée Magritte (qui) anche se Magritte mi pare vi sia  fin troppo “museificato”, con un allestimento troppo “serio” per l’ironia dei suoi dipinti.
Per conoscerlo davvero, è meglio visitare la lora casa di Jette (qui) che ora è  aperta al pubblico. Qui si possono ritrovare non solo l'ambiente che ho descritto, ma anche tutti gli elementi che compaiono nei suoi quadri.
Da prevedere, poi, un passaggio (con birra obbligatoria) nei bistrot preferiti: La Fleur en papier doré (qui), dove si trovavano tutti gli amici surrealisti e il Greenwich (qui), ora interamente restaurato, dove, ogni tanto, Magritte giocava a scacchi,  fumando l’immancabile pipa.
E' visibile, ma solo dall'esterno, anche l'ultima abitazione, la villetta di rue de Mimosas, dove Magritte, insieme a Georgette, è stato  fotografato tante volte nei suoi ultimi anni di vita, quando era diventato ricco e famoso, grazie ai collezionisti americani.
A me  e a mio marito piace, ogni tanto, fare anche una visita al cimitero di Etterbeck, dove riposano insieme e dove, a ricordarli, c'è solo una semplicissima lapide con  la scritta "René et Georgette Magritte" 
A volte cediamo alla tentazione di portare dei fiori, anche se sappiamo che lui- brusco com'era- non li avrebbe graditi e che avrebbe esclamato con il suo inconfondibile accento belga:  “Quel gaspillage! Che spreco!”.





mercoledì 19 febbraio 2014

Uno sguardo nel cielo di René Magritte



"... il cielo è di tutti gli occhi; di ogni occhio è il cielo intero..." (Gianni Rodari)


"Ceci n’est pas un post/ questo non è un post": potrei dire, citando René Magritte.
E sarebbe vero, perché questo non è un post. O, almeno, non di quelli soliti.

È solo che, per spezzare la pesantezza- non solo meteorologica- di queste giornate, mi è venuta voglia di condividere alcune delle immagini di nuvole che ho trovato un mese fa, preparando una conferenza. E che da allora sono rimaste impigliate nelle rete della memoria.
Sono alcune delle tante nubi che popolano i cieli di René Magritte (di questo straordinario artista, che amo tanto, ho parlato più volte qui)

Un pittore capace, nella sua "Infinita ricognizione", di piazzare  due eleganti signori in bombetta a conversare, passeggiando disinvoltamente in mezzo al cielo:


Oppure, in questa "Corde sensibile", dove una spumosa nuvola bianca è appoggiata su una coppa di cristallo, in grado di mescolare l’accostamento surrealista di oggetti apparentemente incongrui, con l'ingenuità di un bambino che si interroghi sulla natura delle nubi:


Nel "Beau monde", le nuvole che trascorrono nel suo cielo, sembrano diventare le protagoniste, insieme all'immancabile mela, del gran teatro del mondo, collocate come sono su un azzurro palcoscenico e inquadrate da due cortine di un sipario altrettanto azzurro:


Invece, nella "Grande famille" un'immensa colomba, fatta di bianche nuvole, si leva in volo da un mare in burrasca e, con la sua apparizione, pare quasi dissipare l'oscurità di un cielo tempestoso, che già trascolora nel rosa:


Mentre nella "Battaglia delle Argonne", in un’alba rosata, dove ancora persiste una falce di luna, la leggerezza di una soffice nuvola bianca contrasta  con la pesantezza di uno scuro macigno, capace di galleggiare nel cielo con la stessa levità di una nube:


Come al solito, con Magritte ogni interpretazione è valida, ogni associazione di idee è consentita. Abbiamo la libertà di vedere nei suoi dipinti tutto quello che vogliamo. Senza alcuna costrizione.
Basta semplicemente lasciarsi andare e accettare la sensazione di totale straniamento che vuole provocare, da quell'ironico "scardinatore delle convenzioni" che è. 
Il suo scopo è, come sempre, quello di farci osservare la realtà con uno sguardo diverso. 
E con occhi (perché no?) pieni della leggerezza delle nuvole. 

Come in questa ultima immagine, che mi ha fatto venire in mente i versi di un poeta, abituato a guardare il mondo (e il cielo) con la stessa profondità mista a candore di Magritte, Gianni Rodari:

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi,
di ogni occhio è il cielo intero.
È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.
Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.
Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.
Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.
Spiegatemi voi dunque,
in prosa o in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.





domenica 16 giugno 2013

"La riproduzione vietata" di René Magritte: il ritratto di Sir Edward James




Un ritratto allo specchio potrebbe essere un soggetto come un altro, se non ci si fosse di mezzo un pittore anticonformista come René Magritte, capace di sabotare dall'interno ogni convenzione e di spiazzarci, inserendo oggetti familiari in contesti assurdi (ne ho già parlato qui e anche qui).
Figuriamoci, poi, se deve ritrarre un personaggio come Sir Edward James (1907-1984), talmente eccentrico da esser definito da Salvador Dalì (uno che sicuramente di eccentricità se ne intendeva) "l'unico autentico matto che conosco".

Dall'incontro tra i due, nel 1937, non poteva che venir fuori un ritratto come "La riproduzione vietata", ora al museo Boymans di Rotterdam:



Un uomo di spalle, vestito elegantemente e con i capelli accuratamente tagliati, è in piedi di fronte a uno specchio.
Tutto è dipinto a piccole pennellate con una precisione quasi fotografica: dalla cornice dorata, alla mensola in marmo di un caminetto, all'abito scuro. Sembrerebbe una rappresentazione esatta, tanto che ci  parrebbe logico, a questo punto, riuscire a vedere nello specchio il volto dell'uomo. 
E, invece, no.
La logica di Magritte, come si sa, non obbedisce alle regole comuni: nell'immagine riflessa l'uomo compare ancora visto di spalle.
Il suo volto, la sua identità, restano nascosti.

C'è da rimanere interdetti, soprattutto quando si vede che il libro sulla mensola, "Le avventure di Gordon Pym" di Edgar Allan Poe, si riflette normalmente nello specchio.
Si prova lo sconcerto di essere davanti a un contraddizione in termini, a un ritratto che nega l’essenza stessa del ritratto: la raffigurazione delle fattezze del personaggio. 
Non solo, ma c'è anche uno specchio che non riflette, ma che ripete, come un'eco, l'immagine della nuca dell'uomo.
Insomma, anche qui, Magritte riesce nel suo intento di scompaginare le carte e scardinare ogni certezza. 
È un gioco che conduce da maestro e con cui si diverte a metterci in trappola, rovesciando ogni aspettativa. 
E non può trovare un complice migliore di un altro anticonformista nato, come il committente del dipinto, Sir Edward James.

Ricco sfondato, figlio di un miliardario americano e di una nobile inglese, che si sussurra appartenga alla numerosa compagnia dei figli illegittimi del re Edoardo VII, ama la vita mondana e i pettegolezzi; vanitoso e narcisista è contento solo quando può ostentare la sua originalità. 
Tra gli amici mescola gli esponenti più in vista dell'alta società a scrittori come Evelyn Waugh, Aldous Huxley o musicisti come Stravinskji. 
Si vanta di essere poliedrico, scrive poesie, finanzia i balletti della troupe di George Balanchine e collabora a un'opera teatrale di Bertold Brecht. 
Ma la sua passione è la pittura surrealista e per questa non bada a spese, tanto da essere il principale finanziatore della rivista “Minotaure” diretta da André Breton e da acquistare forsennatamente dipinti, che vanno da De Chirico, a Dalì, a Max Ernst, fino a formare una collezione imponente.

Nessuna meraviglia che, per farsi ritrarre in un dipinto, destinato niente di meno che alla sala da ballo della sua casa londinese, abbia scelto il più imprevedibile e ironico dei pittori: René Magritte. 
Se il suo intento è di stupire i visitatori, di certo, lo ha raggiunto: Magritte è riuscito nell'impresa di raffigurarlo senza mostrarne il volto.

Come nell'altro ritratto, che ha eseguito lo stesso anno e che ha intitolato "Il principio del piacere", in cui il viso di Edward James è coperto da un lampo di luce abbagliante, come un flash di una macchina fotografica: di lui rimane visibile solo l'elegante doppio petto e la camicia bianca con tanto di cravatta.

Gli psicologi o gli psicanalisti- va da sé- vi hanno trovato materia per proporre le più diverse interpretazioni (una è qui).
Di certo Magritte le avrebbe accettate tutte, sorridendo con il suo fare sornione. 
Ed Edward James lo avrebbe assecondato, come chi gioca una medesima partita.
Una partita in cui, forse, ha un ruolo anche il libro di Poe, l'autore preferito da entrambi, che compare, con un'evidenza sospetta, sulla mensola di marmo. 
Un autore enigmatico che sa, come pochi, mescolare fantasia e realtà, concretezza e immaginazione, illusione e verità. Come avviene, appunto, nel dipinto.
In fondo- sembra dire Magritte- la pittura non mostra che un’immagine. 
Quello che siamo veramente, la nostra vera essenza, resta nascosta dentro di noi, non si riflette in uno specchio.

Certo che a me questo dipinto ha fatto venire voglia di conoscere meglio quel misterioso personaggio, che si diverte a offrirsi e, nello stesso tempo, a negarsi ai nostri sguardi.
Per scoprire cosa ci sia dietro quell'impeccabile vestito nero, occorre fare un lungo viaggio, fino ad arrivare nel Messico orientale a Las Pozas, vicino a Xilitla, un umida e solitaria cittadina a più di 450 chilometri dalla capitale. 
Ed ecco che là qualcosa si scopre.

Siamo nel luogo, dove Edward James, aiutato da una squadra di artigiani, ha progettato e costruito, "senza abbattere un albero o recidere un fiore", come gli piace ripetere, la sua città di pietra: trentasei edifici di cemento, sparsi in venti acri di foresta. 
Un delirio surrealista con scale che finiscono nel nulla, archi, colonne isolate, porte che si aprono sul vuoto, sentieri tortuosi, guglie altissime che si confondo con le cime degli alberi. 
Un'intera città, aliena e misteriosa, che ricorda le atmosfere neo-gotiche dei racconti di Poe, le stampe di Piranesi e di Escher, se non le architetture Gaudì (qui  e qui sono le immagini; qui la descrizione dello scrittore Pino Cacucci)

Qui James si sente se stesso,  con la libertà di chi vive senza convenzioni, tanto che ha deciso di ritirarsi in questo bizzarro luogo, scaturito dalla sua fantasia, per gran parte dell’anno. 
Ha abbandonato ogni mondanità per dedicarsi solo ai suoi progetti, in compagnia dei suoi animali esotici e del suo serpente, un anaconda, che lo segue come un cucciolo.
Vent'anni di lavoro, fino alla morte nel 1984 e un mare di soldi spesi, come dice lui stesso, nell'intento di "costruire un santuario che sia abitato dalle mie idee e dalle mie chimere". 
Per finanziarlo vende tutti i quadri della sua collezione, compresi i due ritratti di Magritte.

Non ne ha più bisogno, perché è in questo labirinto di cemento, dove ha riposto tutte le sue aspirazioni e  i suoi sogni segreti,  che ci consegna il suo ritratto più vero e profondo.
Ed eccolo che, con un pappagallo in spalla, nel luogo che ama tanto e che lo rappresenta così bene, può finalmente mostrarci il suo volto sorridente e sereno.









sabato 2 marzo 2013

Il ciclo dei mesi: la "Primavera" di René Magritte




Siamo ai primi del mese e, di solito, doveva essere questo il momento di "staccare il foglio" dal calendario che ho scelto per quest’anno: il ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento. 
Di marzo, però, non bisogna fidarsi: è un mese dispettoso, pazzerello e non disdegna nemmeno un pizzico di magia. 
Nel calendario dell’anno scorso, le Très riches heures du Duc de Berry, ospitava nell'azzurro del suo cielo la fata Melusina trasformata in un drago dorato (qui). 
Nel calendario di quest'anno, invece, ha fatto sparire addirittura l'intera scena del mese. 
Ma no! Non è stato un colpo di bacchetta magica, ma un incendio a distruggere, due secoli fa, tutto l'affresco.

Lasciare Marzo senza nessuna immagine, però, non mi piaceva. Ho pensato, allora, che per illustrare questo mese variabile e capriccioso il dipinto più adatto fosse questo di René Magritte:



Qui la"Primavera" prende l'aspetto di una colomba che vola in un cielo chiarissimo, appena solcato di nubi rosa. Il corpo non è ricoperto di piume, ma delle stesse foglie degli alberi che si intravedono nella foresta sottostante. 
Sul parapetto c’è un nido che racchiude tre uova bianchissime.
Pochi elementi che, però, sanno rendere l’atmosfera della bella stagione che si avvicina: un nido, le nuvole rosa del cielo e il verde tenero degli alberi che invade tutto. E poco importa se la colomba non somiglia a nessuna di quelle che vediamo volare nel cielo. 
Marzo, con le sue giornate che diventano improvvisamente più dolci, i suoi cieli chiari e rosati e gli alberi ricoperti di nuove fronde, è rappresentato come meglio non si potrebbe. 

Magritte, come al solito, sa giocare, come nessun altro, con gli elementi più comuni  della realtà, utilizzandoli in maniera incongrua e conferendo loro significati inattesi.
Come  un "saboteur tranquille", un sabotatore tranquillo e sornione, è capace, con la sua pittura, di incrinare ogni certezza. 
La sua vita, che apparentemente obbedisce a tutte le regole, fin dall'abbigliamento con il doppio petto, la bombetta o  l'appartamento ammobiliato "comme il faut" (ne ho parlato qui e qui), nasconde, in realtà, il più straordinario degli anticonformisti. 
Usando le chiavi del surrealismo e dell'ironia è in grado di scardinare dall'interno tutte le convenzioni. 
Al punto che può capitare, nella sua pittura, di non sapere più quali siano i confini del reale. P succedere, per esempio, di scoprire che nei suoi dipinti una banale scala di casa salga verso il nulla, un paesaggio visto dalla finestra non sia altro che un quadro su un cavalletto (ne ho parlato qui) e perfino che una mela non sia più una mela. 
Oppure che una colomba ritagliata come in un collage abbia gli stessi colori di un bosco primaverile.

Insomma, Magritte ci spinge a guardare il mondo con uno sguardo diverso e a cogliere la bizzarria che si nasconde dappertutto.
Basta osservare quello che ci circonda con i suoi occhi per andare oltre i confini dell'apparenza e riscoprire la meraviglia e lo stupore.
Così, se ci lasciamo guidare dal suo sguardo, chissà che non ci capiti, in certi giorni di marzo, di intravedere la sagoma della sua verde colomba che vola tra le chiome degli alberi, sullo sfondo chiaro del cielo. 




Non so se sia per il colore tenero delle foglie o per l'aria  primaverile, ma il dipinto di Magritte mi ha fatto ricordare i versi di questa poesia:

"Ed ecco sul tronco 
si rompono gemme,
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo;
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era"

(S.Quasimodo, Specchio)





sabato 4 giugno 2011

"La condizione umana" di René Magritte




Non è facile  per me commentare un quadro di René Magritte.
Non è solo l'ammirazione che mi lega a questo artista ironico e distaccato, sorridente e irridente, è qualcosa di più: è affetto.
Da quando vivo in Belgio, da quando conosco e amo questo bizzarro paese che tanto gli assomiglia, Magritte  è diventato parte della mia famiglia, un nonno, uno zio, un parente, insomma, che si diverte a sconcertarmi con i suoi dipinti e con i suoi pensieri.

Eppure di lui ho già parlato: ho raccontato del suo amore per Georgette, l”ombra della sua ombra”(qui), o dell' armadio rosso della sua camera da letto (qui).
Ma mi  è  difficile trattarlo come un qualsiasi  altro pittore.

Stamattina, però, la giornata nitida  e il  cielo azzurro chiaro erano  talmente “magrittiani”, che mi hanno trasportato subito dentro  uno dei suoi dipinti, davanti a una  finestra col telaio in legno bianco, uguale  a quella di casa mia.
Allora, sono corsa a cercare il quadro che mi era venuto in mente.
“La Condizione umana”  si intitola.
Eccolo:




Siamo nel 1933, Magritte ha trentacinque anni, da tempo fa parte del gruppo dei Surrealisti belgi. Da poco  ha  tentato di stabilirsi nella capitale artistica d'Europa, a Parigi, prendendo contatti con i surrealisti francesi. Ma ha litigato con il "capo" riconosciuto del movimento, André Breton,  che non capiva le sue scelte.

Per Magritte l'anticonformismo, la libertà, non era nel condurre una vita fuori dagli schemi. 
Era invece  quella di forzarli, di abbatterli gli schemi, ma dall'interno.
Per questo è tornato a Bruxelles, a Jette, ad abitare in un piccolo appartamento a pianterreno, in un quartiere piccolo borghese, a vestirsi in giacca e cravatta e ad ascoltare, nel salotto buono, la moglie Georgette che suona il piano, tenendo l'immancabile  cane accucciato ai suoi piedi.

Non è ricco, all'epoca, Magritte e con i quadri non guadagna: ha creato un'agenzia di pubblicità, disegna manifesti e locandine. 
È nel laboratorio in fondo al giardino che elabora le sue immagini più famose, la colomba della Sabena o gli omini in bombetta di "Golconda" che piovono misteriosamente dal cielo sopra Bruxelles.
Quel laboratorio lui non lo ama affatto; lo chiama Dongo, in atto di spregio, dal nome di Fabrizio del Dongo, il protagonista della "Certosa di Parma'" di Stendhal, un autore e un romanzo che detesta.
Ma non si sente condizionato dalle difficoltà economiche.
Non si sente prigioniero.
Anzi, è là che si sente libero, è in quel quartiere tipicamente belga dove vive, dove i vicini lo descrivono come un "uomo cortese e silenzioso", dove porta a passeggiare il cane, attento solo a non disturbare, conformista in tutto, perfino nel taglio dei capelli, nell'abito a doppio petto, nella cravatta.

La sua libertà è tutta  nelle conversazioni con  gli amici, nelle foto  in cui amano giocare a travestirsi.
La sua libertà è nella piccola stanza da pranzo, il luogo dove abitualmente dipinge, al cavalletto, davanti alla finestra  col telaio in legno bianco.

La finestra, appunto, è uno dei suoi temi favoriti. Uno di quei motivi che, secondo l’estetica surrealista, trae dalla vita quotidiana, staccandoli dal loro contesto e facendogli assumere un senso diverso.
Qui ci ha piazzato davanti  un cavalletto con un quadro senza cornice.
Il paesaggio dipinto nella tela è lo stesso che si intravede fuori dalla finestra, anzi si sovrappone  completamente, tanto che non si capisce dove finisca l'uno e cominci l'altro.
Non si capisce quali siano i confini tra pittura e realtà.

Lo stile è quello suo solito, preciso, minuzioso, come una fotografia.
Ma non è una fotografia.
Ed è qui la sua prima trappola, il suo primo inganno. 
Non ci può essere differenza tra realtà e pittura, perché si tratta di un dipinto, dove tutto è irreale, sia il paesaggio dietro la finestra che quello sulla tela.
Sono tutt'e due inganni, tutt'e due finzioni.
Una fotografia che non è una fotografia, un paesaggio reale che non è un paesaggio reale.

La stanza del  dipinto è vuota, manca ogni presenza umana.
Cosa vuol dire?: si chiedono i critici. 
Forse- pensano-  vuole alludere alla nostra solitudine di fronte al mondo ed è per questo che lo ha intitolato “La condizione umana”.
Oppure vuol dire che noi non possiamo scappare da quello che ci circonda, perché siamo noi stessi a  creare il nostro universo, al di fuori e dentro la stanza, al di qua e al di là della finestra.
O può significare che è  l'artista il creatore.
Teorie complesse? Forse troppo.
Come  diceva Magritte, spesso spazientito per l’eccesso di commenti e per i tentativi di comprensione e decodificazione dei suoi quadri: “In fondo dipingo solo quello che vedo, sono solo immagini”. 

Sì, ma immagini di un altro mondo, un mondo che va oltre le barriere del familiare. 
Enigmi che non sono il frutto di allucinazioni provocate deliberatamente, ma di una contemplazione e di un'osservazione  minuziosa della realtà quotidiana.

Ambienti, situazioni di tutti i giorni che assumono un significato differente, che diventano spiazzanti. 
Gli oggetti più banali, i mobili del salotto, una finestra, un camino, una carta da parati, un cavalletto che  diventano il luogo dell'imprevedibilità, della fantasia, dell'immaginario.
E ogni interpretazione è  lasciata a chi guarda ed è valida anche quella che l'artista non si è mai sognato di  dare.

È così che Magritte ci restituisce la nostra libertà di sensazioni e di pensieri.
È così che forza gli schemi, che ribalta le nostre idee.
In questo intreccio di senso e di non senso, usando l'ironia come un grimaldello per scardinare i luoghi comuni, le espressioni abusate. 
Il tutto con l'abito scuro, la pipa e la bombetta.
E alla fine, sorridendo, ci strizza l'occhio, facendoci capire che in fondo tutto è un gioco e che si è solo divertito con noi, come in una di quelle partite a scacchi che amava tanto.

Bella mossa, René: scacco matto!




Per chi voglia ritrovare Magritte nella sua Bruxelles:
la prima tappa è il Musée Magritte (qui) anche se Magritte mi pare qui  fin troppo “museificato”, con un allestimento troppo “serio” per l’ironia dei suoi dipinti.
Per conoscerlo davvero è meglio visitare la casa di Jette (quidove ha vissuto più di vent'anni, che ora è  aperta al pubblico. Qui si possono ritrovare non solo il suo ambiente, ma anche tutti gli elementi che compaiono nei suoi quadri.
E' da prevedere, poi, un passaggio (con birra obbligatoria) nei suoi bistrot preferiti: La Fleur en papier doré (qui), dove si trovava con gli amici surrealisti e il Greenwich (qui),ora interamente restaurato, dove, ogni tanto, giocava a scacchi,  fumando l’immancabile pipa.
E' visibile, ma solo dall'esterno, anche la sua ultima abitazione, la villetta di rue de Mimosas, dove è stato  fotografato tante volte nei suoi ultimi anni di vita, quando era diventato famoso grazie ai collezionisti americani.
E, poi,  a me  e a mio marito piace, ogni tanto, fare una visita al cimitero di Etterbeck, dove riposa con Georgette. 
A volte cediamo alla tentazione di portare dei fiori, anche se sappiamo che non li gradirebbe e che esclamerebbe con il suo inconfondibile accento belga:  “Quel gaspillage! Che spreco!”.









sabato 7 novembre 2009

Ritratti: Georgette e René Magritte




Tra queste tre immagini si dipana una storia d'amore, quella di Georgette e René e un percorso artistico, quello di Magritte.

La prima è del 1922: si sono appena sposati a Bruxelles nella chiesa di Rue Royale. Lei porta la catenina con la croce al collo, quella che indosserà sempre e che André Breton, a Parigi, le rimprovererà come segno di conformismo.
Ha la fede alla mano sinistra e tocca  - con un gesto di tenerezza protettrice- la guancia di René.
È bellissima e  radiosa. 
I capelli sono morbidi, con qualche ciocca  che sfugge all'acconciatura e il sorriso è appena accennato.

Lui ha l'aria più riservata, quasi timida:  un fiore (un garofano) e un fazzolettino nel taschino della giacca e una camicia bianca col colletto con le punte dure. 
Non si guardano: tutt'e due fissano l'obbiettivo.
Il legame, fortissimo,  si intuisce dalla posa, dalle espressioni, da quella di fidente abbandono di lui e  dall'abbraccio di lei.
D'ora in avanti lei farà parte della sua vita, sarà la modella delle sue foto e della sua pittura.


La seconda, L'ombre et son ombre, è del 1932.
Tutt'e due sono in posa, in piedi, con una tenda scura sullo sfondo. 
Anche questa volta non si guardano, ma fissano l'obbiettivo davanti a loro. Georgette è in primo piano; i capelli sono lisci, lo sguardo sembra inquieto.
Questa volta  lui è nascosto dietro di lei,  la rassicura, posandole una mano all'altezza del gomito e sembra spingerla in avanti, verso la luce.
È  un'immagine in posa ma, allo stesso tempo, un'immagine intima che rende manifesta la relazione fusionale che c'è nella coppia.
Ognuno dei due non è soltanto l'ombra dell'altro, ma, come nel titolo voluto dallo stesso Magritte, è l'ombra della sua ombra.


La terza è  del 1965 nella nuova casa di Rue des Mimosas, che hanno appena comprato: lui è un pittore affermato ed espone in tutte le gallerie del mondo.
Il matrimonio ha subito una crisi e per un momento  -per una tentazione o un tradimento di lui-  si è incrinato. 
Ma ora la coppia si è ricomposta e posa, di nuovo insieme, di fronte alle porte finestre che si aprono su quell'interno "comme il faut" che Magritte vuole come suo sfondo: i tappeti, i soprammibili, la lampada, lo specchio con la cornice dorata.
Lui, come al solito, è vestito in pantaloni e giacca scuri e tiene tra le mani il cappello a bombetta e un ombrello.
Lei ha gli occhiali, l' abito e le scarpe bianche. Tra i due uno degli immancabili cani.
Sembrano una coppia normale, comune: lui ha l'aria di un professionista, un notaio o  un avvocato.
La trasformazione in una banale coppia "borghese" è perfettamente riuscita. Solo alcuni particolari (chi mai si vestirebbe in casa con bombetta e ombrello?) tradiscono l'ironia e il travestimento.
E lei, complice ancora una volta, lo asseconda, completamente, come sempre.

È l'ultima foto, ma non l'ultima immagine che  ho di loro.
Ieri sono andata con Thomas al cimitero di Etteberck.
Abbiamo percorso i  vialetti con le lapidi in pietra scura o in marmo e con i consueti mazzi di fiori.
Ci siamo fermati di fronte ad una tomba, semplicissima, senza nessuna segnalazione che   la distinguesse dalle altre.
Sulla lapide, solo una scritta  "Georgette et  René Magritte".







Forse troppo romantica per loro, ma per me inevitabile
Jacques Brel, La chanson des vieux amants:
http://www.youtube.com/watch?v=B7oNGtr8QFQ



mercoledì 12 agosto 2009

L'armadio di Magritte




Bruxelles non è solo la Grand Place, è anche Magritte.
E Magritte non è solo il suo museo,  ma anche  la sua casa e il suo armadio rosso. 

Ma perché l'armadio e, soprattutto, perché rosso? È una lunga storia.

All'inizio del loro matrimonio René e Georgette si stabiliscono in un piccolo appartamento a pianterreno di una tipica casa belga a Jette, un quartiere periferico di Bruxelles.
Qui René ha il suo atelier (nel giardino) dove, per sopravvivere, disegna manifesti pubblicitari;  qui vivranno per venti anni, qui si riuniranno i surrealisti belgi e qui dipingerà i quadri più famosi.  
La modella prediletta è  Georgette.
Tutti gli elementi dell'arredo della casa, però, trovano posto nei suoi dipinti: dal camino uscirà una locomotiva a vapore, la finestra  diventerà un cavalletto, la balaustra  della scala si aprirà sul  nulla....

Qui René perfezionerà la sua più grande invenzione: la sua vita. Tutta legata alle apparenze piccolo borghesi, il vestito scuro, la giacca, la cravatta, la camicia bianca, la bombetta, l'ombrello e i capelli tagliati con la sfumatura alta.
Tutti dettagli che, a poco a poco, definiscono la sua apparenza: quello è il vero anticonformismo, non quello ostentato o di facciata, ma quello che consite nel rompere le convenzioni dall'interno. 

Così nell'arredamento della casa, tipico degli anni '20 del Novecento (il legno intagliato, i soprammobili, il lampadario, l'inevitabile pianoforte)  emergono elementi dissonanti, che scardinano  tutto.
Sono quelli a farci capire che in realtà siamo in uno  scenario teatrale: quando entriamo  in salotto scopriamo che  le pareti sono  azzurro vivo, come i cieli dei suoi dipinti. 

E nella camera, con il letto dalla tradizionale  la testata in ferro battuto  e  la classica porta bianca, scopriamo il particolare più sfacciato.
È l'armadio  di un rosso scarlatto, che ci fa finalmente  comprendere che René ci sta prendendo in giro e  ci  sta strizzando l'occhio.
Sta lì per vedere se  ci siamo cascati, se abbiamo capito,  per poi abbandonarsi, finalmente,  alla sua ironica risata liberatoria.




http://www.magrittemuseum.be/