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sabato 20 dicembre 2014

L'"Adorazione del Bambino" di Paolo Uccello nella chiesa di san Martino a Bologna




La scena notturna di un presepe, racchiusa da una cornice dipinta a punte di diamante, in un affresco staccato, di più di due metri per tre, attualmente collocato nella prima cappella a sinistra della chiesa di San Martino a Bologna:



Un dipinto, particolarmente adatto a questi giorni pre-natalizi non solo per il soggetto, ma anche perché la sua scoperta ha l'aria di un piccolo prodigio. 
Sì, perché questo affresco, di cui nessun testo riportava l'esistenza e che non figurava in nessun documento, è ricomparso all'improvviso, come un'apparizione. 
C'è da immaginarsi la sorpresa degli operai che lavorano nella sagrestia di san Martino, quando, nel 1977, una caduta dell’intonaco lascia intravedere la figura di un Gesù Bambino. 
Si capisce subito che intorno a quella figura c'è dell'altro e si decide immediatamente di rimuovere l’intonaco che copre il resto dell'affresco: il lavoro di restauro è lungo, ma, alla fine, si riesce a riportare alla luce l'intero dipinto. 
Anche se i danni sono irreparabili e una parte dell'affresco è perduta, quello che rimane lascia tutti stupefatti e si rivela di una qualità talmente alta che un grande studioso come Carlo Volpe può attribuirlo, con sicurezza, a uno dei protagonisti della pittura del Quattrocento, Paolo Uccello (1397-1475).


In basso, al centro, un Gesù Bambino, robusto come un piccolo Ercole, tiene nella mano destra una sfera con l’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, i simboli tradizionali dell’eternità di Dio.
Lo vegliano un bue dal massiccio corpo geometrico e un asinello legato al palo da una corda.
A destra, si intravede, a mala pena, San Giuseppe, mentre la Madonna inginocchiata prega con le mani giunte. 
Dietro di loro, un muro semidistrutto allude al crollo del paganesimo e al superamento della cultura antica.
A sinistra, sono raffigurati i committenti, probabilmente dei notabili, forse dei magistrati, come farebbe pensare il fatto che indossano la guarnacca, il lungo abito rosso foderato di pelliccia, tradizionalmente riservato ai giudici e ai notai.

Il tetto della capanna, in cui è ambientata la scena, è sorretto da un tronco d’albero non lavorato che sembra quasi nascere dal corpo del Bambino, e che si incrocia con una delle due travi a formare una croce, un simbolo che prefigura la futura Passione di Cristo. 



In alto, sullo sfondo di un cielo nero, illuminato a mala pena da una sottile falce di luna, tre personaggi, in abito quattrocentesco, i tre Magi, sono così assorti nella loro discussione da non accorgersi di quello che succede. 
Solo uno indica verso l’alto, ma la cometa, che forse era raffigurata nella parte mancante dell'affresco, non è così splendente da rischiarare il cielo.

Tutta la scena è di una tale essenzialità che all'epoca- sull'intonaco è incisa una data che è stata letta come 1431 o 1437- probabilmente rappresenta un vero choc per gli spettatori bolognesi, abituati agli scintillii dei fondi oro, ai dettagli lussuosi e alla ricchezza dei polittici collocati sugli altari delle chiese.
I più aggiornati vi avranno visto l'influenza delle novità elaborate a Firenze, anche se solo pochi avranno riconosciuto il nome del pittore. 
Tanto più che, anche nel panorama fiorentino, Paolo Uccello è un artista a parte (ne ho parlato qui)
Quando dipinge l'affresco bolognese, ha una quarantina d’anni ed è abituato a cercare lavoro fuori Firenze, dove è nato e dove ha avuto la sua prima formazione accanto a Lorenzo Ghiberti: è stato a Padova, a Venezia e ha finito da poco gli affreschi del Duomo di Prato. 
Insomma, ha lasciato la città negli anni cruciali, proprio quando trascorreva la folgorante meteora di Masaccio e cominciavano a fermentare le nuove idee che avrebbero cambiato il modo di fare pittura e di vedere il mondo. 
Pur rimanendo amico degli artisti della sua generazione, soprattutto di Donatello, è rimasto, una voce fuori dal coro, anche per colpa di quello che Vasari definisce il suo "ingegno sofistico e sottile" che lo porta ad appartarsi in solitarie elucubrazioni. 
Vasari, del resto, lo descrive come un originale, un uomo timido, introverso, amante degli animali, soprattutto gli uccelli (e da questo gli deriva il soprannome), ma con una passione ossessiva per quella prospettiva con più punti di fuga già teorizzata negli scritti medioevali e che diventerà il centro di tutte le sue ricerche artistiche

Così anche in questo affresco moltiplica i punti di vista e trasforma la scena in un'astratte costruzione di pure linee geometriche.
Il suo Presepe, di un estremo rigore intellettuale, senza alcuna concessione all'emozione o alla distrazione, invita piuttosto a una meditazione sul significato della nascita di quel Bambino che stringe tra le mani il segno dell’infinito.
Mentre i tre Magi che discutono tra di loro, persi nell'oscurità della notte e ancora ignari della cometa che farà loro da guida, sembrano riflettere, nella loro incertezza, la sua e le nostre inquietudini.







Una poesia di Edmond Rostand mi ricorda molto i Magi sperduti di Paolo Uccello:
LA STELLA
Perdettero la stella una sera; come è possibile perdere
La stella? Per averla troppo a lungo fissata.
I due re bianchi, ch’eran due sapienti di Caldea,
tracciarono al suolo dei cerchi, col bastone.
Si misero a calcolare, si grattarono il mento.
Ma la stella era svanita come svanisce un’idea,
e quegli uomini, la cui anima aveva sete d’essere guidata,
piansero innalzando le tende di cotone.
Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri,
si disse: ” Pensiamo alla sete che non è la nostra.
Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali”.

E mentre sosteneva il suo secchio per l’ansa,
nello specchio di cielo in cui bevevano i cammelli
egli vide la stella d’oro che danzava in silenzio.

sabato 18 gennaio 2014

"D'arie e di nubi": gli studi di Antonio Basoli



"I nuvoli si dimostrano alcuna volta ricevere i raggi solari e illuminarsi in modo di dense montagne e alcuna volta i medesimi restare oscurissimi..." (Leonardo da Vinci, De'nuvoli)


Ancora una volta torno a parlare di nuvole e di pittori innamorati di queste incostanti abitanti dei cieli. Dopo le nubi delle coste inglesi di Constable (qui), la nuvola innamorata di Correggio (qui) e l’aereo autoritratto di Mantenga (qui), è la volta delle nuvole dei cieli di Bologna, ritratte in un taccuino di due secoli fa. Non molto diverse da quelle che vedo passare anche oggi dalla mia finestra.

Antonio Basoli (1774-1848) è stato uno dei protagonisti della vita artistica bolognese di inizio Ottocento: scenografo, vedutista, incisore raffinato, illustratore di testi letterari e di repertori tratti dall'antichità, pittore da cavalletto e ricercato decoratore d’interni per una committenza aristocratica e borghese. 
Per tutta la vita si è dedicato, con dedizione ed entusiasmo, all'insegnamento nell'Accademia di Belle Arti di Bologna, come professore di architettura e di ornato, ma non hai mai cessato di disegnare, spinto da un'acuta curiosità per tutto quello che lo circonda.
Uno dei suoi soggetti preferiti è, appunto, Bologna: nelle sue stampe, nei suoi dipinti, nei suoi album di disegni, la ritrae  non solo nei suoi monumenti ma in ogni dettaglio della vita quotidiana, con le sue strade, i suoi portici, le sue botteghe.
Fino a spingersi a indagarne i mutevoli aspetti del cielo.

Un piccolo taccuino (di appena 11x 18 cm) raccoglie i suoi “Studi d'arie e di nubi diverse nelle varie ore del giorno tratte dal vero coi rispettivi colori nel 1815 e colorite nel 1845
Quarantacinque fogli di cieli e di nuvole, numerati e classificati, in ognuno dei quali segna con esattezza la pur minima variazione dei colori, annotando a matita una serie di numeri.
Come nel caldo e dorato tramonto di questo primo foglio.


Nella pagina a fronte di ogni schizzo riporta l'ora delle osservazioni e  per ogni numero, scrive le tinte corrispondenti. Qui, ad esempio, la “gran luce delle nubi un poco più rosse e mezzo gialle” corrisponde al numero 2, il “verde” al numero 7, o il “turchino schietto” al numero 9.

Quando raffigura i tramonti disegna in un altro foglio- sempre dallo stesso punto di vista- anche “l’aria opposta alla calata del sole", come qui, dove definisce una a una tutte le sfumature delle "nuvole che cominciano nell'orizzonte lacca e turchino", fino a degradare in un "celeste chiaro":


Non siamo ancora all'epoca, in cui i pittori vanno per la campagna per dipingere all'aria aperta con tanto di tavolozza e cavalletto. 
Icielo, che Basoli non si stanca mai di osservare, è probabilmente quello che vede dalle finestre di casa sua. Di quella casa, che si è comprato in Borgo Paglia, il più vicino possibile all'Accademia di Belle Arti e dove vive da solo, tra le sue librerie sovraccariche di libri.

Ed è un cielo che rappresenta in tutti i suoi cambiamenti, seguendo il variare del tempo, dai giorni sereni, a quelli più tempestosi, quando- "dopo una pioggia"- la "macchia della nube diventa sempre più scura e color piombo":


O quei cieli puliti e sgombri grazie all'"aria di vento", che fanno risplendere le nubi bianche e rosate "tutte più chiare":


Oppure è un cielo dalle tinte più fredde, quando l'"orizzonte si converte in nebbia", di prima mattina, non appena  comincia a diffondersi la luce:


Gli anni passano e svaniscono veloci come nuvole.
Con l'andare del tempo Basoli si allontana sempre meno volentieri dalla sua amata Bologna, fino a decidere di non spostarsi più.
La città, la casa diventano, poco a poco, tutto il suo mondo, tanto da rifiutare offerte prestigiose di lavori in Italia e all'estero.
Nel 1837, dopo un’aggressione subita per strada, in cui perde la vista di un occhio, rinuncia anche alla sua attività di decoratore per dedicarsi, sempre di più, alla pittura.

Nel chiuso delle sue confortevoli stanze, la sua immaginazione vola per viaggiare lontano: risalgono a questo periodo le sue opere più fantasiose, come gli acquarelli monocromi con le "Vedute panoramiche di tutto il globo", o le invenzioni dell'”Alfabeto pittorico” che gli assicurano la fama anche fuori d'Italia.

Nel 1845 ha da poco compiuto settant'anni ed è un artista noto e rispettato, ma non ha perso né la curiosità, né la voglia di studiare. Anzi è proprio in questo periodo che ricomincia a osservare l'aspetto del cielo e che riprende in mano il taccuino con i disegni di nuvole, colorando- come annota nel frontespizio- gli schizzi che fino ad allora aveva lasciato incompiuti. 
E continua a indagare, oltre la sua finestra, con la minuziosità di un tempo.
È proprio allora che  aggiunge gli ultimi due fogli, cercando, ancora una volta, di riprodurre il variare dei colori  "dell’aria serena nelle ore del tramonto”: 



E, come al solito, osservando anche le sottili sfumature dell'"aria opposta al tramonto", per definire sulla carta il "turchino", il "più cenerino", il "color piombo" o "l'azzurro nebbioso" che vede alternarsi nel cielo:

Due paesaggi essenziali di una sintesi che ricorda le stampe giapponesi. 
Il colore è  più fluido, come se fosse fatto della stessa sostanza dell'aria.
Trent'anni sono passati dai primi fogli d'"aria e di nubi", ma la sua ostinazione nel cercare di ricreare l'aerea levità di quelle tinte che trascolorano incessantemente è rimasta ancora intatta. 
Come se, fissando nei fogli del suo taccuino la mutevolezza  del cielo e delle nuvole, volesse quasi riuscire a fermare, almeno per un attimo, il troppo veloce trascorrere della vita.




Il taccuino con gli studi di nuvole è stato pubblicato in "Basoli dal vero. Ristampa anastatica dei taccuini di Antonio Basoli", Bononia University Press  (collana Anastatiche) 2008.

venerdì 22 aprile 2011

Bologna,Palazzo Pepoli Campogrande, G.M.Crespi, Le quattro stagioni






Le quattro stagioni e, al centro, il Tempo con la sua falce inesorabile, travolto dal carro trionfante di Ercole.



È la decorazione ad affresco del soffitto di una sala di Palazzo Pepoli Campogrande a Bologna

Bologna è una città di portici e i portici rendono tutto omogeneo, uniforme.
I palazzi della nobiltà bolognese sono austeri: è difficile immaginare, dalla strada, la ricchezza della decorazione dell’interno.
Bisogna passare la porta ed entrare dentro per scoprirli e per sorprendersi.
È così anche per il seicentesco palazzo Pepoli Campogrande.

La famiglia Pepoli, di antica nobiltà, era arrivata agli inizi del Seicento al grado senatorio che a Bologna, città dello Stato della Chiesa e priva di una corte signorile, era uno dei raggiungimenti più alti.
L’importanza del  rango impose la costruzione di un nuovo palazzo con un grande scalone, destinato alle celebrazioni ufficiali e con ampie sale di rappresentanza.
Il senatore Ercole Pepoli chiamò a decorarlo i maggiori pittori della città (Domenico Maria Canuti, Donato Creti, i fratelli Rolli…) con affreschi che esaltassero le glorie e i fasti della casata e che fossero la manifestazione evidente della ricchezza e del prestigio della famiglia.
Gli affreschi con episodi di storia familiare ornano lo scalone e il grande salone d’onore.

In una delle sale del piano nobile, tra il 1699 e il 1700, Giuseppe Maria Crespi (1665-1747) dipinge il Trionfo di Ercole e delle quattro stagioni.

Crespi era noto, all'epoca,  soprattutto, come pittore ”di genere”, di episodi tratti dalla vita di tutti i giorni.
Qui, invece, è chiamato a rappresentare un soggetto mitologico.
Per questo si serve,  come tutti i pittori dell’epoca, di un testo fondamentale, l’Iconologia di Cesare Ripa: un repertorio completo con le indicazioni per rappresentare simboli, personificazioni e miti, desunti dall’antichità.


Dal testo di Ripa trae l’iconografia dell'affresco, ma non si dimentica della sua capacità di illustrare il quotidiano e contamina un soggetto, destinato alla celebrazione di una casata, con le notazioni più giocose e popolari della scena “di genere”.
Interpretando una rappresentazione ufficiale con il suo umore ironico, irriverente e anticonvenzionale, arriva a conferire agli affreschi un senso straordinario di libertà.

Al centro del soffitto, entro un cielo aperto, che trascolora tra l’indaco e il grigio, il carro di Ercole (un ovvio richiamo al nome del committente) vince il Tempo, accompagnato dalle figure danzanti delle Ore e consegna la gloria della famiglia all’eternità

Tutta la parte dell' inquadratura architettonica dell’affresco, che avrebbe dovuto costituire un momento di passaggio, un filtro, tra spazio fittizio e spazio reale, è ridotta a una sorta di davanzale, su cui poggiano, visti da sotto insù, quattro personaggi.


Insofferente di ogni formula, Crespi forza i confini della rappresentazione, e sembra che non voglia raffigurare i personaggi del mito, ma tre contadine e un vecchio, travestiti, per gioco, da Stagioni.


L’Inverno è un povero vecchio infreddolito che cerca di scaldarsi, accendendo un fuoco di sterpi pericolosamente vicino al cornicione.
Dei tre bambini imbacuccati che lo accompagnano, uno porta una fascina di legna e due scherzano con un soffietto, in maniera talmente sconveniente, che sembra quasi impossibile alludano a Eolo, il dio dei venti, che il testo del Ripa associava all’inverno.
E tutt’e tre sorridono.



L’Autunno è una contadina procace, con la testa coronata di grappoli d’uva e di pampini che tiene in alto una coppa ricolma d’uva. Con una mano afferra un lembo delle vesti, alzate sui polpacci robusti, come per non sporcarsi e sembra pronta a pigiare l’uva appena raccolta.
E anche lei sorride




L’Estate, con il volto arrossato, è coronata di spighe e vestita di giallo vivo come il sole al suo culmine. Ha in mano uno specchio ustorio (secondo la rappresentazione tradizionale), ma sembra volerlo usare per divertirsi ad abbagliare, per scherzo, qualche spettatore.
E di questo scherzo, appena accennato, sorride





La Primavera, con i capelli crespi, intrecciati di foglie di mortella, ha le mani piene di fiori che prende da un paniere ricolmo, sorretto da un bambino nudo.
E anche lei, guardando verso il basso, accenna un sorriso.






I sorrisi si rimandano l’un l’altro come mai prima era capitato in un affresco "ufficiale" e celebrativo.

Travestimenti, ironia, voglia di divertirsi contaminano e stravolgono la serietà del mito e tutti i protagonisti sembrano complici di uno scherzo e consapevoli che, in fondo, non si tratta che di un gioco.
E rivolgono uno sguardo ammiccante verso lo spettatore che, accettando l'ironia e la finzione, non può che assecondarlo e ricambiare.




"Risi e sorrisi" delle Stagioni si ritrovano qui :




Palazzo Pepoli Campogrande, Via Castiglione 7- Bologna è sede distaccata della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Per informazioni su biglietti e orari il link è qui: http://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/index.php/informazioni/orari-e-biglietti.html







* le foto sono di Marco Baldassari

martedì 5 aprile 2011

Le "Marie sterminatamente piangenti": il Compianto di Santa Maria della Vita a Bologna.




Quando i miei amici vengono a trovarmi a Bologna, per prima cosa, li porto in via Clavature, dietro piazza Maggiore, nella chiesa di santa Maria della Vita. La cappella è quella a destra dell’abside.
Andiamo a scoprire un’opera che conosco bene, perché ho partecipato al restauro che fu eseguito anni fa e alla mostra che ne illustrò i risultati.
Non so se le foto riusciranno a suscitare la meraviglia e la commozione che, spesso, ho osservato sui volti di chi la vede per la prima volta.
Di certo, potranno essere un invito alla visita.




Sette sculture,in terracotta, di altezza quasi al naturale, sei personaggi che piangono il corpo di Cristo morto: sono Nicodemo, Maria di Salome, la Madonna, san Giovanni, Maria di Cleofa e la Maddalena.
È la scena del Compianto.
Il Cristo è stato deposto dalla croce e giace a terra su un cataletto.
Gli astanti, quelli che erano presenti e che lo hanno visto morire crocifisso, possono lasciare libero sfogo alla loro sofferenza: possono piangerlo insieme.
È il dolore che è al centro della rappresentazione.E ciascun personaggio lo vive in modo diverso.

Quello del San Giovanni è un dolore virile, composto, senza lacrime.
La Madonna, raccolta in se stessa, si stringe le mani all’altezza del petto.
Le tre Marie si abbandonano al sentimento: Maria di Salome stringe le mani sulle ginocchia,  conficcando quasi le unghie nella carne, Maria di Cleofa, fa un gesto come per respingere la vista del corpo, Maria  Maddalena è quella che concentra su di sé tutta l’espressione e la forza di un’emozione aspra e violenta.
È come se toccasse, nella sinfonia dolorosa, la nota più alta, il suono più acuto: accorre, con il mantello agitato dal vento.
E urla che par di sentirla.

Tutte le bocche sono aperte in un grido che sembra differente in ognuna: dal muto e soffocato al lancinante. 
Come le prefiche a un funerale pagàno o nella tradizione ancora viva del Sud Italia - e sappiamo che lo scultore arrivò a Bologna dalla Puglia- le donne manifestano, senza freni, la loro sofferenza.



Le “Marie sterminatamente piangenti”: le definisce, nel 1686, nella sua guida di Bologna, Carlo Cesare Malvasia.
Il materiale, la terracotta, è tipico della regione, dove erano assenti la cave di pietra e di marmo: i gruppi dei Compianti vi trovarono diffusione per tutto il ‘500.
La Chiesa, dopo la Controriforma, giudicherà troppo esplicite ed eccessive queste manifestazioni dolorose e le sculture, spesso, saranno allontanate dalle chiese.

Il Compianto della Vita, prima di essere ricollocato, in una cappella, alla fine dell'800, finirà addirittura all’esterno, in una nicchia che affacciava sul mercato. Qui sarà visto da Gabriele D’Annunzio, che ne darà una delle sue descrizioni più potenti, cercando di evocare a parole il “dolore furiale” delle Marie.
Lo scultore è  noto con il nome di Niccolò dell’Arca dalla sua opera più importante: l’Arca dove si conserva il corpo di San Domenico. Non è certo un incolto: lo dimostra la ricercatezza della firma “Opus Nicolai de Apulia”, incisa, in lettere capitali umanistiche, sul cuscino dove poggia la testa del Cristo.
E poi doveva sicuramente conoscere la scultura classica, soprattutto quella che nei sarcofagi raccontava del dolore sfrenato delle Menadi. Prende a modello questo motivo pagàno per raffigurare il dolore, sacro e umano allo stesso tempo, del pianto sul corpo del Cristo.


La sua tecnica è stupefacente, se si pensa che dal restauro è risultato che le sculture –cave all’interno e non lavorate sul retro – furono per lo più cotte in due soli pezzi.

Il manto della Maddalena è una prodezza, difficile da riprodurre anche attualmente, per il  rischio che corre di  spezzarsi al momento della cottura.

I colori - in origine le sculture erano policrome - ne accentuavano la violenza espressiva: la tecnica pittorica utilizzata è affine a quella dei dipinti e prevedeva un’esecuzione con strati sovrapposti e velature che dovevano conferire un tono traslucido e vivissimo.
Un artista straordinario, dunque, uno dei più importanti del Quattrocento.

Sulla datazione del gruppo molto si è discusso.
Gli studiosi tendono a collocarlo a una data intorno al 1480, ma a me sembra che si debba prestare maggior fede a un documento seicentesco, spesso contestato, che testimonierebbe la consegna delle sculture alla chiesa, il 5 aprile del 1463.
Sono sculture legate al ricordo della Passione di Cristo, al momento più doloroso, al pianto, di chi ancora non sa, a una sofferenza che cesserà solo alla notizia della Resurrezione e, nel 1463, il 5 aprile era un venerdì santo.