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venerdì 16 maggio 2014

"Marte e Venere" di Paolo Veronese. il cavallo indiscreto




Nella luce dorata di una giornata di sole, in un'alcova protetta da tende di seta rossa, una sensuale Venere seminuda, adorna solo di una collana di perle e di preziosi bracciali d'oro, sta per cedere all'abbraccio di Marte, quando su un scala, che si apre verso l'esterno, si affaccia lo sconcertante muso di un cavallo grigio, condotto per le briglie da uno scherzoso amorino.


Cosa ci farà mai questo rappresentate della razza equina, arrivato così inopinatamente, in questa piccola tela  di Paolo Veronese (1528-1588) ora alla Galleria Sabauda di Torino? 

La risposta non è facile: del dipinto sappiamo poco o nulla. 
Ignoriamo, per esempio, chi ne fosse il committente, anche se il piccolo formato (cm 48x48) fa pensare che potesse essere destinato a un amatore desideroso di ammirarlo molto privatamente. 
Una destinazione che certo non è contraddetta dalla prima citazione documentaria, nel 1624, nell'inventario della raccolta del cardinale ferrarese Carlo Emanuele Pio di Savoia. I cardinali dell'epoca- si sa bene- non disdegnavano di ospitare, nel segreto dei loro appartamenti, qualche dipinto di sottile erotismo.
Quanto al soggetto, però, la descrizione  non ci aiuta, limitandosi a registrarlo come: "Venere e Marte del Veronese, con Cupido che tiene un cavallo per la briglia". 

Siamo intorno alla metà degli anni '70 del Cinquecento e Paolo Veronese non è mai stato tanto occupato: dalla sua bottega veneziana escono innumerevoli dipinti, commissionati per le chiese, per le dimore degli aristocratici e anche per la sede del governo della città. 
Affreschi, ritratti, quadri sacri o profani, a cui si accompagna una produzione, più rara, di dipinti di piccolo formato, come questo, dove la mitologia si può prestare ad allusioni erotiche più esplicite. Ma dove lo stile sereno di Veronese, con i suoi colori caldi e vivaci, la sua luce dorata  e le sue ariose ambientazioni, toglie ogni sia pur minima traccia di volgarità.

I soggetti con gli amori degli Dei sono tratti, per lo più, da testi del tempo o dalla poesia di Ovidio. Storie note, che è possibile consultare, ma che non servono a svelare il  mistero della presenza del cavallo. In effetti, nei racconti più conosciuti degli amori di Marte e Venere non si trova alcuna traccia  del nobile destriero
Semmai, nella mitologia, a sorprendere i due fedifraghi e a interrompere i loro giochi d'amore, è il marito legittimo, Vulcano. 
Consorte della dea dai costumi non proprio specchiati, approfitterà della sua abilità di fabbro per vendicarsi, avvolgendo i due amanti in una rete di catene tanto solide quanto invisibili.
Ma qui Vulcano è lontano e- si suppone- ancora ignaro del tradimento. 
Invece, a trascinare il cavallo nella stanza, interrompendo il colloquio amoroso, è niente di meno che Cupido. 
E chissà cosa abbia in testa quel piccolo provocatore: forse vuole richiamare Marte alle sue bellicose occupazioni e ricordargli le sue qualità militari sviate dall'amore. A meno che non voglia alludere, con la presenza dello stallone, ad altre più nascoste doti del dio della guerra.
Certo è che nel dipinto si respira un'aria di grande allegria, tutta giocata sui toni lievi dell'ironia. E accentuata dalla tavolozza raffinata dei colori, dall'azzurro chiaro del cielo, al candore della pelle eburnea di Venere, al tono più ambrato di Marte, al blu marezzato del drappo che copre la dea.

Paolo Veronese aveva rivendicato, l'8 luglio del 1573- accusato di fronte al Tribunale dell'Inquisizione di aver aggiunto elementi incongrui in un quadro sacro- citando una frase del poeta latino Orazio, la sua libertà di prendersi "la stessa licenza dei poeti e dei matti" (del dialogo tra Veronese e l'inquisitore ho parlato qui).

Figuriamoci, allora se non  usa quella stessa licenza in un quadro profano! Forse vuol giocare con allusioni piccanti, forse vuole solo riempire un vuoto della composizione. Poco importa.
Veronese sa, da grande artista qual è, che si può permettere di lasciare spazio al divertimento e di concedere alla sua fantasia sbrigliata i soli limiti che la capacità del suo pennello gli può dare. 
E, allora, chissà che quella testa irreale di cavallo, che si affaccia così prepotentemente sulla scena e che solo la sua pittura ha saputo ricreare, non sia semplicemente il simbolo della sua voglia di libertà.




Evidentemente "Marte e Venere" è un soggetto che si presta ai giochi e alle allusioni: dello scherzo nascosto nel dipinto di Botticelli, abilmente svelato da un'amica nei commenti al post, ho parlato qui.

sabato 28 luglio 2012

Paolo Veronese, "La Cena in casa di Levi": il pittore e l'inquisizione





Se foste capitati a Venezia, in un assolato sabato d'estate, il 18 luglio del 1573, avreste notato, tra i passanti, che cercavano di sfuggire la calura, un gentiluomo elegante di una quarantina d'anni, con i capelli rossicci, che camminava lentamente, assorto nei suoi pensieri.

Se aveste chiesto chi fosse, vi avrebbero risposto che era un pittore. Una persona famosa, ben educata e rispettata da tutti.

Vi avrebbero sussurrato che, da quando si era trasferito da Verona, aveva percorso tutti i gradini della carriera e che ora era a capo di una delle botteghe più importanti della città. Poi avrebbero aggiunto, con aria ammirata, che, poco tempo prima, perfino  un maestro riverito come Tiziano gli aveva reso omaggio con un abbraccio, sotto gli sguardi di tutti, in piazza san Marco.

Quell'uomo è Paolo Veronese e, proprio quel giorno, è stato convocato di fronte al Tribunale dell'inquisizione.
Si ha un bel dire che a Venezia l'Inquisizione sia più mite che altrove.
In realtà il solo nome può bastare a turbare anche il più morigerato e scrupoloso degli uomini.
Eppure lui è sicuro che, in fatto di ortodossia, non ha nulla da rimproverarsi: ha troppo da lavorare per avere il tempo di indulgere in dubbi teologici o di lasciarsi invischiare nelle critiche dei luterani.
Non è un pensatore, lui, e, meno che mai, un filosofo: è un pittore.

In effetti è proprio in veste di pittore che è stato convocato: il motivo sta tutto nell'enorme tela (cinque metri per dodici) con una "Cena" affollata di personaggi, che ha ultimato, due mesi prima, per il refettorio del convento domenicano di san Giovanni e Paolo (ora alle Gallerie dell'Accademia di Venezia).



Gli hanno detto che nel suo quadro c'è qualcosa che non va e questo lo preoccupa. Sa bene che, dopo il Concilio di Trento, il controllo della Chiesa sulle immagini si è fatto rigoroso.
Ora che è arrivato nella chiesa di san Teodoro, sede del Tribunale, si sente pronto a spiegare tutto.
Il verbale dell'interrogatorio, stilato con tanta accuratezza da trasmettere perfino la dolcezza della parlata veneziana, ci restituisce tutte le fasi del processo.
A leggerlo sembra di essere là, ad ascoltare l'inquisitore che interroga e Paolo Veronese che risponde, con calma, a tutte le domande.

Le prime riguardano il soggetto.
Che "Cena" sacra è mai quella, in cui, insieme a Cristo, san Pietro e san Giovanni, partecipano servitori poco ammodo, gente in armi e buffoni?
Se fosse un' "Ultima Cena" mancherebbe una buona parte degli apostoli e, soprattutto, mancherebbe Giuda. Nemmeno i gesti, poi, sono quelli codificati dall'iconografia tradizionale.
Se rappresentasse un'altra "Cena", quella a casa di Simone, descritta nel Vangelo di Luca, mancherebbe, pur sempre, uno dei protagonisti: la Maddalena pentita che lava e asciuga con i capelli i piedi di Cristo.



Veronese ammette che il priore del convento di san Giovanni gli aveva consigliato di inserire la Maddalena "in luogo de un can" (al posto del cane in primo piano).
Ma ribatte: "Mi ghe risposi che volenteria haveria fatto...ma che non sentiva che tale figura..potesse zazer che la stesse bene".
Insomma, fa capire che, per lui, quello che conta è l'equilibrio del dipinto.
La Maddalena avrebbe turbato l'armonia della composizione.
Per questo non l'ha messa: tutto qui.







A questo punto si fanno più pressanti le obiezioni sul ruolo dei personaggi secondari, che affollano la scena, apparentemente senza alcun motivo
"Quel vestito da buffon col papagalo a che effetto l'avete depinto?":- incalza l'Inquisitore.
"Per ornamento":- risponde, con semplicità, Veronese.

E tutti quelli che stanno attorno a Cristo, compreso "l'uno che ha un piron (una forchetta) che si cura i denti" che ci stanno a fare?
E, soprattutto:- "Chi credete voi che se trovase in quella Cena?".
Veronese replica con un candore che sembra finto: "Credo che si trovassero Christo coi suoi apostoli, ma se nel quadro avanza spazio, io lo adorno di figure".
Altro che eresia! È una semplice questione di vuoti da colmare.


Purché fossero fuori dalla scena della "Cena" vera e propria, non gli è sembrato sconveniente nemmeno inserire un servo che perde sangue dal naso, così come "imbriachi, todeschi (alabardieri), buffoni e nani".
Il quadro è grande e di figure ne contiene parecchie.
Lui non ha fatto altro che mettervi dentro tutte quelle che ci stavano e che la sua immaginazione gli ha suggerito.





Le domande continuano e Veronese risponde, esponendo le sue ragioni, che sono sempre quelle della pittura.

Per riassumerle, gli è venuta a mente una frase, scritta, tanto tempo prima da un poeta latino, Orazio.
Una frase più volte ripetuta, ma che, in quel momento, gli appare la più adatta e la più vera: "Noi pittori ci pigliamo la licenza che si prendono i poeti e i matti".
Gli sembra che in queste parole stia il nocciolo della questione.

Non credeva di essere in errore ed è stato ben attento a non mescolare il sacro col profano:
"Signore Illustrissimo- conclude- pensavo de far bene et de non fare... disordine nesuno, tanto più che quelle figure di buffoni sono de fuora del luogo, dov'è il nostro Signore".
L'interrogatorio è finito. Veronese si è difeso bene.
Ora attende la sentenza E la sentenza arriva, infiorettata da una serie di formule latine, ed è più mite di quello che si era aspettato.



Di lì a poco, con una bella iscrizione, dipinta sulla balaustra della finta inquadratura architettonica, dovrà specificare il soggetto del dipinto: la "Cena in casa di Levi". È il convito, descritto nel Vangelo di Luca e offerto a Cristo dal pubblicano destinato a diventare l'apostolo Matteo.
Una scena meno impegnativa e dove si possono inserire, senza scandalo, anche i dettagli più coloriti.
Per l'Inquisizione il cambio di titolo è sufficiente: la tela potrà essere esposta così com'è e non occorrerà cancellare alcuna figura.
È fatta. Dipinto e pittore sono usciti indenni dal processo.

Paolo Veronese potrà continuare a intessere le sue tele con levità e fantasia e a prendersi "la licenza dei poeti e dei matti".
La libertà dell'artista, apparentemente, ha trionfato.







Questa è l'interpretazione tradizionale. La realtà fu, probabilmente, più complessa: una diversa lettura del processo è nel recente libro di Maria Elena Massimi, La cena in casa di Levi di Paolo Veronese. Il processo riaperto, ed. Marsilio 2012 (qui è il link)