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Un’altra startup italiana si prepara al grande salto verso l’internazionalizzazione. Si tratta di  Dominion Hosting Holding (DHH), fondata lo scorso anno da Giandomenico (Nico) Sica, 34 anni, laureato in filosofia e già alla sua terza IPO, e Antonio Baldassarra, fondatore di Seeweb e tra i primi a occuparsi di venture capital dal punto di vista industriale fin dai primi anni 2000 (aveva investito 150k euro in Docebo, acquisita di recente dal fondo canadese Klass Capital).

Dominion intende proporsi come il principale operatore nel campo del web hosting e del software as a service nei mercati emergenti europei, ovvero in tutti quei paesi del Vecchio Continente ancora un passo indietro rispetto a nazioni come Francia e Germania. A fine giugno è partito il collocamento di azioni ordinarie e warrant con roadshow che resterà aperto fino al 22 luglio.

Abbiamo incontrato Nico, oggi Presidente di Dominion, per farci raccontare qualcosa di più di questo momento “di salto” che sta vivendo l’azienda.

 

 

 

 

 

 

 

Nico, come è cominciata l’avventura di Dominion?

Questa avventura nasce il 15 luglio dello scorso anno dalla volontà di fare qualcosa insieme ad Antonio. L’idea era proprio quella di dare vita alla prima piattaforma internet per i paesi emergenti in Europa che potesse aiutare le piccole e medie imprese presenti in questi mercati a costruire la propria presenza online e avviare il processo di trasformazione digitale. Tutto questo fornendo loro supporto nella registrazione del nome a dominio (sono oltre 200.000 i domini registrati con DHH ad oggi), nella costruzione del sito internet e nel miglioramento della produttività aziendale attraverso l’utilizzo di strumenti digitali.

Quali sono stati i primi passi?

Abbiamo iniziato focalizzandoci sull’area adriatica e dei Balcani, primo centro di interesse su cui abbiamo investito circa 1 milione e mezzo di euro da Seaweb (di cui 840k di equity e il resto mediante finanziamenti bancari). Successivamente abbiamo iniziato a fare acquisizioni, la prima delle quali ha riguardato il principale operatore di web hosting sloveno.

Da quella avventura ci siamo portati in pancia Uroš e Matija, entrambi informatici e imprenditori che oggi si occupano della gestione operativa dell’azienda e della strategia di sviluppo delle partecipate. Quindi ci siamo orientati verso la Croazia e poi verso l’Italia, con l’acquisizione di Tophost. Così facendo abbiamo messo fin da subito in piedi un gruppo di 45 persone che fattura 3.5 milioni di euro l’anno, il 67% del quale fuori dall’Italia, con 523k euro di EBITDA, 236k euro di utile netto e 90k clienti.

Questo il primo passo, quindi. Poi come avete proceduto?

Successivamente abbiamo continuato la nostra espansione ottimizzando la parte prodotto, l’offerta commerciale e la strategia marketing. Oggi necessitiamo di più capitali se vogliamo continuare a crescere per acquisizioni: da qui la decisione di quotarci sulla borsa AIM Italia.

Da chi è composto il team di quotazione?

Advance SIM (Nomad), BDO (Società di Revisione), Eunomia (Studio Legale), EnVent Capital Markets (Global Coordinator), CFO SIM (Joint Bookrunner).

Quali sono i termini della quotazione? 

Dominion Hosting Holding è una PMI innovativa: non appena entrerà in vigore il decreto attuativo – atteso nei prossimi mesi – gli investitori italiani in possesso dei requisiti che avranno sottoscritto la nostra quotazione in Borsa otterranno un beneficio fiscale del 19-20% sull’investimento: il 19% di detrazione per le persone fisiche fino a un investimento massimo di 500.000 Euro e il 20% di deduzione fiscale per le persone giuridiche fino a un investimento massimo di 1,8 milioni di Euro. Inoltre, gli investitori che sottoscrivono le nostre azioni in fase di quotazione ricevono un warrant gratuito per ogni azione sottoscritta e una bonus share del 20% se si impegneranno a tenere le azioni per tre anni.

Come valuti il tuo percorso intrapreso fino a oggi?

Quando mi sono laureato in filosofia nel 2003 non pensavo ovviamente di intraprendere un cammino come questo. Nel 2006 ho cominciato a studiare da autodidatta il mondo del venture capital, nel 2008 ho avuto l’opportunità di partecipare alla creazione di una startup, mentre nel 2012 sono diventato socio di Digital Magics, incubatore di startup digitali con cui ci siamo quotati in Borsa nel 2013. Successivamente, nel 2014, sono diventato partner di MailUp e anche in questo caso ci siamo quotati in Borsa. Lo scenario ha cominciato a farsi sempre più chiaro e oggi mi ritrovo alla mia terza IPO. Affronto un progetto nuovo ogni 2-3 anni e lavoro a cavallo tra l’imprenditoria e il venture capital.

Progetti per il futuro?

Al momento sono molto contento dell’andamento del nostro percorso di quotazione e sorpreso dal crescente interesse che il mercato sta dimostrando nei confronti del nostro progetto imprenditoriale, nonostante la tensione dei mercati finanziari dell’ultimo periodo. Per il futuro c’è già un progetto di incubatore di realtà SaaS e l’avvio di acquisizioni su mercati contigui.

Non manca dunque la carne al fuoco, ma sia a me che ai miei soci piace affrontare un progetto per volta.

Qualche settimana fa Startup Europe Partnership (SEP) ha pubblicato il primo quadro di comparazione dell’ecosistema europeo delle startup visto da una prospettiva un po’ diversa dal solito. Non quella delle partenze (numero di startup, incubatori, acceleratori, …) ma quella degli arrivi (le cosidette “exit”) e di chi sta effettivamente viaggiando e facendosi strada (le “scaleup” e gli “scalers”, ossia le startup che crescono dimensionalmente).
Analisi – va detto – ancora parziale (difficile avere dati esaustivi su un universo in così forte evoluzione) e limitata sia geograficamente (solo cinque paesi per ora mappati, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna) che settorialmente (si concentra per ora sull’ICT, ossia le nuove tecnologie della informazione e comunicazione.

Cosa emerge dai dati? Come di consueto mi limito ad alcuni rapidi commenti, rimandando al report – SEP Monitor è scaricabile qui – per un’analisi più completa.

Il Regno Unito fa gara a parte. Delle 990 scaleups mappate nei cinque paesi 399 vengono da lì. Il doppio di Germania (208) e Francia (205), oltre quattro volte Spagna (106) e Italia (72).

Al di là del numero delle scaleups, il Regno Unito è soprattutto avanti per la quantità di capitali che è riuscita a mettere a loro disposizione. Oltre 11 miliardi di dollari ($11.1B), quasi due volte quanto investito in Germania ($6.6B), quattro volte la Francia ($3.1B), sei volte la Spagna ($1.8B) e quasi trenta volte l’Italia ($0.4B).

È in particolare sull’accesso delle startup al mercato di borsa che il Regno Unito stacca tutti. 12 startup quotate e soprattutto quattro miliardi raccolti attraverso il canale borsistico, il doppio di quanto tutti gli altri paesi hanno fatto messi insieme.

Dati simili, con differenze ancora più marcate, se restringiamo la analisi agli scalers, ossia le startup che hanno raccolto oltre 100 milioni di dollari. Dei 38 mappati, la metà (19) vengono dal Regno Unito, la Germania si ferma a 9, la Francia a 6, la Spagna a 3, l’Italia non è pervenuta.

Come leggere questi dati? Sembrerebbe che Italia ne esca con le ossa rotte. Quinta su cinque paesi. E temo che nel prossimo report, quando mapperemo anche i paesi nordici, scalerà di altre posizioni.

Rendiamocene conto: l’Italia non è più (da tempo) una delle locomotive dell’innovazione europea. I treni sono partiti tempo fa e noi eravamo in altre vicende affaccendati. Eravamo impegnati a discutere su come cambiare tutto senza però cambiare nulla. Discussioni che ahimè non mi sembrano ancora concluse.

Però vedo una luce in fondo al tunnel. Mentre, a livello di sistema paese, eravamo presi in interminabili discussioni, dal basso c’è chi ha iniziato a fare.E ha prodotto risultati significativi. È il popolo delle startup, degli innovatori, degli investitori. È il popolo di chi fa e non passa le giornate a dibattere su cosa gli altri dovrebbero fare. È un popolo silenzioso e operoso che collabora e crede in chi prova a fare. È un popolo che sta in silenzio raccogliendo sempre più adepti. È il popolo che cambierà l’Italia e ci riporterà lentamente in alto nelle classifiche che oggi ci vedono impietosamente nella parte destra del tabellone.

Quindi come leggere i dati?

Siamo indietro perché siamo partiti in ritardo rispetto agli altri paesi e senza supporto istituzionale. Mi sarei stupito del contrario.

Nonostante tutto stiamo giocando la partita. Con il tempo e, magari, con un po’ più di supporto istituzionale – il lavoro che stanno facendo i vari Luna, Firpo, Corbetta, Fusacchia è encomiabile – recuperemo le posizioni perdute. Il lavoro è l’unica strada percorribile.

C’è una luce in fondo al tunnel. E non è un treno che ci sta venendo incontro.

 

Email 2.0?

L’email – una delle più anziane tecnologie della comunicazione digitale – sembra stia vivendo una seconda giovinezza. Con oltre 3 miliardi di utenti e oltre 4 miliardi di indirizzi attivi, è di gran lunga lo strumento più utilizzato per comunicare online. Non solo, l’email è anche lo strumento di marketing più apprezzato sia dai clienti (il 77% dei consumatori preferisce l’email per ricevere promozioni), sia dalle aziende (il 68% delle aziende sostiene che abbia un ritorno sull’investimento buono o eccellente).

Questa seconda giovinezza passa, da un lato, dalla lotta aggressiva allo SPAM e, dall’altro, attraverso una messaggistica sofisticata su cui contano milioni di aziende in tutto il mondo: gli invii targettizzati e personalizzati, l’automazione della comunicazione (per esempio dopo un’iscrizione, un acquisto, una richiesta di informazioni), la composizione di messaggi che si adattino automaticamente agli smartphone e così via.

Non stupisce allora il fatto che negli ultimi due anni un enorme quantità di denaro sia stata investita nel settore: dai 250 milioni di dollari recentemente raccolti dall’australiana Campaign Monitor alle tante acquisizioni da parte di Adobe, IBM, Oracle e Salesforce, solo per citare alcuni casi (hanno acquistato rispettivamente gli email marketing provider Neolane, SilverPop, Eloqua & Responsys ed ExactTarget).

A cavallo dell’onda lunga dell’email marketing 2.0 c’è anche una presenza italiana: MailUp, nata a Cremona una decina di anni fa e ora una realtà di un’ottantina di persone, con uffici sempre a Cremona e poi a Milano e San Francisco (all’interno dell’acceleratore Mind The Bridge!).

In grande e costante crescita, MailUp ha annunciato proprio oggi che andrà presto in borsa sul listino AIM di Milano. Ne parliamo con Nazzareno Gorni, uno dei fondatori, oltre che CEO della società.

Nazzareno, raccontami la storia di Mailup in un minuto, nello spazio di una (breve) mail.

Una bella sfida comprimere tutto in 1 minuto. Diciamo questo: 5 amici sono partiti 10 anni fa con tante idee e tanta voglia di fare impresa. In 10 anni abbiamo fatto un sacco di errori – come tutte le startup (che tu conosci bene!) – ma abbiamo azzeccato le scelte più grosse.

Intanto ci siamo divisi i compiti secondo quello che più ci piaceva fare. E abbiamo avuto la fortuna di avere capacità e interessi molto complementari. Poi attorno al 2009 abbiamo avuto il coraggio di concentrarci al 100% sull’email marketing di qualità e staccare la spina da tutto il resto (anche se produceva parecchio fatturato). Il servizio MailUp all’epoca pagava a stento le bollette, ma senza quella focalizzazione totale sul prodotto, non saremmo mai arrivati dove siamo oggi.

Nel 2009? Ma non c’era la crisi?

Eh sì, ma a noi piace vedere il bicchiere sempre mezzo pieno. Crisi vuol dire spinta a spendere bene ogni euro. Forse anche grazie anche a questo, non abbiamo fatto il passo più lungo della gamba. Siamo cresciuti veloci, ma passo dopo passo, senza indebitarci, senza perdere tanto tempo a cercare capitali che non c’erano. Per fortuna le vendite crescevano e siamo riusciti a finanziare la crescita con il nostro cash-flow.

Nel 2011 il passaggio in Silicon Valley, perché?

Abbiamo aperto a San Francisco per diversi motivi. Intanto quello americano rimane un mercato enorme: anche una fettina piccola della torta rimane molto attraente. In secondo luogo ci sono dei concorrenti formidabili: voler competere testa a testa in quel mercato ci ha costretto a fare un sacco di passi avanti a livello di prodotto. Infine, se il fuso orario di nove ore da un lato è una bella sfida gestionale, dall’altro ci permette di operare quasi 24 ore su 24 senza avere gente in ufficio alle 3 del mattino qui in Italia.

San Francisco poi non vuol dire solo Nord America. Il 70% dei contatti che riceve il nostro ufficio arriva da altre parti del mondo. Stiamo crescendo molto in Centro e Sud America, per esempio, anche grazie alla versione in spagnolo di MailUp che abbiamo lanciato quest’anno.
Insomma, è un ufficio che ci aiuta a crescere sia a livello di prodotto, sia a livello di vendite internazionali.

La domanda sorge spontanea: avete base in Silicon Valley ma oggi, andando in borsa, raccogliete capitali in Italia.

A dire il vero siamo stati contattati da molti investitori negli USA, soprattutto gruppi di private equity attirati dalla grossa quantità di M&A nel settore, come hai menzionato tu sopra. Erano interessati, si arrivava al terzo o quarto colloquio, ma poi si bloccavano sul fatturato: non gli piaceva il fatto che l’azienda fatturasse soprattutto fuori dagli USA.
Abbiamo anche considerato investimenti di private equity in Europa, ma alla fine l’offerta pubblica sul listino AIM di Milano era l’opzione che aveva più senso per l’azienda.

Ora cosa aspetta MailUp? Come investirete i capitali raccolti?

Un sacco di lavoro e tante opportunità di crescita.
Tanto lavoro perché il nostro è un mercato che si muove alla velocità della luce. Davvero, non possiamo togliere il piede dall’acceleratore.
Tante opportunità perché l’email marketing di qualità su cui ci focalizziamo è uno strumento formidabile che può essere utilizzato letteralmente da ogni impresa. È un mercato enorme.
Il capitale che speriamo di raccogliere con l’IPO verrà reinvestito al 100% con una duplice strategia incentrata sia sul prodotto  sia  sulla crescita internazionale, soprattutto sui mercati oggi meno serviti (e in grande crescita). Siamo pronti per il prossimo passo. Speriamo di contribuire a far sapere al mondo che, anche nel marketing digitale, l’Italia può veramente dire la sua.

Che consiglio daresti alle startup italiane?

Diventare un pesce “grossino” in un mercato piccolo non è affatto una brutta strategia per farsi le ossa. MailUp avrebbe avuto difficoltà a competere a livello globale con il prodotto che avevamo 5 o 6 anni fa. Avremmo rischiato di mettere sotto stress le risorse aziendali senza un grosso ritorno. Alle startup quindi dico: giocate la prima partita in casa, giocatela però guardando sempre al mercato internazionale.  Questa visione è sicuramente premiante e non è affatto una cattiva mossa!

american-jobs-act-obama.jpgQuesta settimana è stato firmato dal Presidente  Obama  il JOBS Act, approvato con supporto bipartisan dal senato e dalla camera, attirando molta attenzione da parte dei media.
Il JOBS Act (che sta per “Jumpstart Our Business Startups Act“) è importante perchè in qualche misura sancisce il ruolo degli imprenditori e delle startup per lo  sviluppo dell’economia e dell’occupazione americana. Di fatto, come mostrano i dati della Kauffman Foundation, negli ultimi tre decenni, 40 milioni di posti di lavoro in America sono stati creati da nuove imprese. Il JOBS Act, mettendo le giovani imprese innovative in primo piano, in qualche misura vuole ricordare che, come sottolinea, in un bell’articolo, Steve Case, “the story of America is the story of entrepreneurs taking risks to build companies and jumpstart entire industries.  That’s why the United States is the leading economy in the world. It didn’t happen by accident, ­ it was the work of entrepreneurs” .
E, oltre a riconoscerlo a parole (su questo siamo abbastanza bravi anche da noi), gli Stati Uniti hanno introdotto una serie di misure volte a stimolare la nascita e lo sviluppo delle imprese e a rimuovere una serie di ostacoli.
Ostacoli a fare impresa negli Stati Uniti, potreste chiedervi? Sì, perchè i dati mostrano che il numero di startup in America si è ridotto dal 2007 ad oggi del 23%. E, da analisi svolte, una delle ragioni principali è la difficoltà di accesso ai capitali.
Difatti, mentre per alcune imprese (social media in primis) ed aree (Silicon Valley) la raccolta di capitale funziona bene, nel resto del paese questo non succede, in modo particolare le “not tech companies” che sono  “off the beaten path” per i venture capital.
Uno degli obiettivi del JOBS Act è quello di migliorare l’accesso al capitale, in particolare nelle fasi iniziali del ciclo di vita delle aziende. Al riguardo la principale novità introdotta è il “crowdfunding“, ossia la possibilità di fare fundraising (anche su internet) raccogliendo piccoli importi di denaro da molte persone diverse. Più in dettaglio le private companies potranno raccogliere fino ad 1 millione di dollari in un periodo di 12 mesi da un numero illimitato di investitori, tra questi anche investitori non professionali (“unsophisticated investors“). La raccolta dovrà essere veicolata da  “funding portal” o broker, in ogni caso intermediari registrati. Quindi una opportunità in più per raccogliere capitali da parte di imprenditori che sono lontani dalle “piazze” del venture capital o sono nella fasi early stage della propria attività. Ovviamente, come hanno immediatamente fatto notare le principali law firms, aprire la “cap table” ad un numero molto elevato di investitori potrebbe complicare l’accesso a later funding da parte di venture capital o la stessa cessione dell’azienda. Vedremo, ma di certo una opportunità interessante da valutare all’opera.
Altra novità introdotta dal JOBS Ac è quella che viene definita come IPO “on-ramp”: ossia le “emerging growth company” avranno più tempo (5 anni, a meno che non superino prima un miliardo di fatturato o 700milioni di valore) per adeguarsi ai molto severi criteri “Sarbanes-Oxley” richiesti per la quotazione in borsa.
Quali i motivi che hanno spinto a temporanemente “rilassare” le barriere all’accesso alla borsa? Ancora una volta: stimolare crescita ed occupazione.
Infatti, in base ad una ricerca condotta da IHS Global Insight, il 90% della creazione di posti di lavoro avviene dopo che una società si quota. Mentre, se una azienda viene venduta, spesso si ha una riduzione della forza lavoro.
E, mentre negli anni Novanta oltre l’80% delle IPOs riguardavano offerte sotto i 50 milioni di dollari, la quota delle società emerging growth che sono arrivate in borsa è calato del 20% negli ultimi anni.
Quindi portarle in borsa potrebbe significare  “fuel growth, expansion and job creation“. Jobs act!

75164044-134235_silicon_valleyB.gifSempre dalla lettura del report pubblicato da Thomson Reuters e  National
Venture Capital Association (NVCA),  di cui avevamo discusso in un post domenica, emerge un altro dato molto interessante.
Delle 52 IPOs (quotazioni di borsa) realizzate lo scorso anno negli Stati Uniti (al Nasdaq e al NYSE) 21 sono aziende della California (il 40%). Il resto dell’America ne produce 13 esattamente come il resto del mondo. La quotazione per valore più importante è quella della russa Yandex (1,3 miliardi di dollari), seguita da Zynga, basata a San Francisco (1 miliardo di dollari).
I dati – pur con tutti i limiti che una analisi così superficiale ha – sembrano suggerire una conclusione (nulla di scientifico, solo una sensazione): non c’è più un paese (gli Stati Uniti) che traina l’innovazione e la crescita del mondo, ma ci sono degli eco-sistemi molto precisamente localizzati che producono innovazione e crescita. Uno di questi è la Silicon Valley, gli altri sono probabilmente da cercare in giro per il mondo, nelle economie emergenti.