Ho traslocato su erounabravamamma.it
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mercoledì 26 maggio 2010
Tutto quello che so della vita l'ho imparato da Sex and the City
E' uscito! Da oggi in libreria il mio figlioletto più giovane
Vi faccio alcuni esempi di quel che ho capito io guardando ossessivamente, per mesi, la serie in tv:
- Che ogni cuore spezzato prima o poi trova la sua colla
- Che quando arriva un bambino qualcos'altro se ne va
- Che con quello che ho nell'armadio potevo comprare casa
- Che almeno una volta nella vita bisogna fare sesso con un deficiente
- Che non si possono avere 35 anni per sempre
- Che per far spazio ai suoi scatoloni, a qualcuno dei tuoi vestiti devi rinunciare
(...)
Se siete curiose di sapere come ho argomentato le tesi di cui sopra - e da quale delle protagoniste, Carrie Charlotte Miranda o Samantha, ho tratto ispirazione - potete leggere il mio libro, che è in vendita da oggi. A proposito: ieri sera sono stata all'anteprima di Sex and the City 2 (il film). Ne parleremo prestissimo, appena lo vedete anche voi.
E ora, la seconda parte del concorso:
Quali sono le cose importanti della vita che avete imparato voi da Sex and the City, da un'altra serie, da un film oppure da un libro?
Avete tempo per rispondere fino a venerdì! In palio due copie del mio nuovo libro.
PS La saga Briatore mi appassiona assai (vedi mio commento al post precedente).
mercoledì 19 maggio 2010
Oh gioia, oh gaudio, tra 7 giorni esce il mio libro!
Tutto quello che so della vita l'ho imparato
da Sex and the City
Non potevo aspettare oltre per dirvelo: tra una settimana sarà in libreria il mio nuovo figlioletto di carta, in squisita contemporanea con l'uscita del film Sex and the City - 2. Il nuovo pupo è discreto, educato, molto più quieto dei miei bimbi di carne, fa ridere e soprattutto risponde a una serie di domande fondamentali, come: "perché un uomo che credevo intelligente mi ha lasciato via post-it?", "perché non è mai facile distinguere un rospo da un principe azzurro?", "perché non devi mai dare le chiavi di casa a tua suocera?".
Piccolo antefatto che troverete anche nell'introduzione: per circa un decennio ho attraversato la vita facendo a meno di Sex and the City. Mi avevano anche prestato il cofanetto, ma l'ho ignorato per anni. Ogni tanto sentivo qualcuno dire: Sex and the City è per le donne quel che il calcio è per gli uomini. Per reazione mi veniva un pensiero-pernacchia: tanto, se fossi un maschio, allo stadio non ci andrei.
Poi i 25 minuti mi hanno fregato.
25 minuti è la durata media di una puntata.
A schiacciare l'avanti veloce durante la sigla, puoi scendere a 23.
Ragazze, 23 minuti è la durata media del pisolino di un neonato (chissene, se i manuali dicono che dovrebbe dormire tre ore di fila. Non è quasi mai vero). In 23 minuti non si riesce a far niente, o quasi. Una doccia con shampoo ma senza il balsamo che devi lasciare in posa, telefonare a un'amica non troppo chiacchierona, impostare una torta salata.
Io di fronte alle alternative possibili ho cominciato a guardare Sex and the City, e non ho più smesso. Certi episodi li ho rivisti tre volte. Ho preso appunti, ho riso, ho sussultato, ho ricacciato indietro l'occasionale lacrimuccia. E ho capito che tutto quel che avevo fatto e vissuto - gli amori, i viaggi, il lavoro, la famiglia e pure le amicizie - coincideva quasi perfettamente con tutto quel che avevano fatto e vissuto Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha.
Bene. Questo post inaugurale serve a rispondere alle vostre curiosità sul libro (ammesso che ne abbiate) e per chiedervi di partecipare a un gioco, se vi piace l'idea: a voi, cosa piace fare quando - e se - avete 23 minuti liberi? Dai commenti più creativi (=non terrò conto delle risposte a monosillabi), lunedì estrarrò due vincitrici che riceveranno a casa una copia del mio libro. Ed è solo l'inizio! (Sì, lo so, suona minaccioso)
da Sex and the City
Non potevo aspettare oltre per dirvelo: tra una settimana sarà in libreria il mio nuovo figlioletto di carta, in squisita contemporanea con l'uscita del film Sex and the City - 2. Il nuovo pupo è discreto, educato, molto più quieto dei miei bimbi di carne, fa ridere e soprattutto risponde a una serie di domande fondamentali, come: "perché un uomo che credevo intelligente mi ha lasciato via post-it?", "perché non è mai facile distinguere un rospo da un principe azzurro?", "perché non devi mai dare le chiavi di casa a tua suocera?".
Piccolo antefatto che troverete anche nell'introduzione: per circa un decennio ho attraversato la vita facendo a meno di Sex and the City. Mi avevano anche prestato il cofanetto, ma l'ho ignorato per anni. Ogni tanto sentivo qualcuno dire: Sex and the City è per le donne quel che il calcio è per gli uomini. Per reazione mi veniva un pensiero-pernacchia: tanto, se fossi un maschio, allo stadio non ci andrei.
Poi i 25 minuti mi hanno fregato.
25 minuti è la durata media di una puntata.
A schiacciare l'avanti veloce durante la sigla, puoi scendere a 23.
Ragazze, 23 minuti è la durata media del pisolino di un neonato (chissene, se i manuali dicono che dovrebbe dormire tre ore di fila. Non è quasi mai vero). In 23 minuti non si riesce a far niente, o quasi. Una doccia con shampoo ma senza il balsamo che devi lasciare in posa, telefonare a un'amica non troppo chiacchierona, impostare una torta salata.
Io di fronte alle alternative possibili ho cominciato a guardare Sex and the City, e non ho più smesso. Certi episodi li ho rivisti tre volte. Ho preso appunti, ho riso, ho sussultato, ho ricacciato indietro l'occasionale lacrimuccia. E ho capito che tutto quel che avevo fatto e vissuto - gli amori, i viaggi, il lavoro, la famiglia e pure le amicizie - coincideva quasi perfettamente con tutto quel che avevano fatto e vissuto Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha.
Bene. Questo post inaugurale serve a rispondere alle vostre curiosità sul libro (ammesso che ne abbiate) e per chiedervi di partecipare a un gioco, se vi piace l'idea: a voi, cosa piace fare quando - e se - avete 23 minuti liberi? Dai commenti più creativi (=non terrò conto delle risposte a monosillabi), lunedì estrarrò due vincitrici che riceveranno a casa una copia del mio libro. Ed è solo l'inizio! (Sì, lo so, suona minaccioso)
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martedì 4 maggio 2010
Garbati "vaff"
E ora qualcosa di completamente diverso
A grande richiesta, un post sui "vaff" e sui !*§&%$!! che vorremmo tirare a chi, per un motivo o per l'altro, infastidisce noi mamme.
"Vaff" a...
* Gisele Bundchen, a detta sua tornata più magra di prima a soli quattro mesi dal parto, sostiene di non aver provato grandi dolori durante il travaglio perché... troppo emozionata all'idea di vedere suo figlio. A nostra parziale consolazione: Gisele sarà anche in forma smagliante ma, come mostrano chiaramente le foto di Vanity Fair che l'ha intervistata, è pure un po'... smagliata. Ahahahah!
* Mariastella Gelmini, che dopo aver dato seri scossoni al sistema-scuola ora tenta di distruggere l'autostima delle donne comuni sostenendo che ogni mamma, come lei, dovrebbe tornare al lavoro a pochi giorni dal parto. Non accanitevi contro di lei perché ci penserà la sorte a punirla, come mostra la storia di... (vedi sotto)
* ... Rachida Dati, ex ministra francese poi caduta in disgrazia. Destò scalpore, poco più di un anno fa, per esser tornata in Parlamento a cinque giorni dalla nascita della Pupa (e dal cesareo), per giunta indossando un tacco 5.
* La mitica Elisabettona Gregoraci, invero già colpita dal fato: pur avendo messo al mondo il delfino di Briatore, è bella gonfia come tutte le neomamme.
* Briatore medesimo, che sei anni fa ha avuto una bimba da Heidi Klum e non ha voluto saperne nulla. Per fortuna, Heidi Klum è una tipa in gamba e ha poi sposato un uomo-roccia come Seal, ora papà a tutti gli effetti della piccola. A proposito di facce di gesso: a voi, negli ultimi mesi, non facevano uno strano effetto le interviste a Briatore che diceva "Sarò un padre fantastico"? Briatore, ma !*§&%$!!
* Tutti quelli che ti chiedono "Come va" e poi, quando gli riassumi in 2 parole il tuo fine settimana tra congiuntivite, febbre, cacca ecc. ecc., ti guardano con sufficienza e poi dicono "Eh cara, ci siamo passati tutti". Ma allora cosa me lo domandi a fare?
* Quelli senza figli che se per avventura ti capita di dirgli che sei stanco rispondono: "Ah, guarda, non ho dormito nulla neanch'io; sai, ho fatto le cinque l'altra sera e avevo bevuto un po' troppo"
* Quelli (con o senza figli) che passano il tempo a dirti: "Ti limiti troppo, è il bambino che deve adattarsi alle tue esigenze e non tu alle sue; non esci più... dovresti dedicare del tempo a te stessa"
* Le colleghe che ti rubano la scrivania e quando rientri ti dicono "Se ti interessava tanto il tuo ruolo dovevi portarti il pc in maternità". Certo, e magari lo tenevo anche in equilibrio sulla testa mentre con una mano cambiavo il bambino, con l'altra reggevo la tetta mentre lo allattavo e, per ritrovare la linea perduta, saltellavo la corda canticchiando spensierata dopo una nottataccia di sveglie continue tra rigurgiti e pianti strazianti
* Quelli che per strada non si fanno i fatti loro, come la sconosciuta senza il minimo tatto che ti suggerisce di mettere alla bambina una cuffietta per tenere le orecchie a posto e vuole spingerti subito all'interno di un negozio di ortopedia
* Chi non capisce che un bimbo può anche essere stanco e si stupisce se piange quando lo prende in braccio e ce lo vuol tenere per forza; chi non si fa più sentire e non ti invita più perché "tanto col pargolo non puoi uscire"; chi è convinto che "allora se dorme la notte per te è una passeggiata"; e anche a chi dice "Ah bene, ora è tranquillo, ma fa sempre in tempo a cambiare: vedrai che con i dentini avrai problemi".
Grazie a tutte le collaboratrici: Didò, Marina, Micol, Typing Mummy, Francesca, Jane, C., Claudia, Chiara & le altre... e vi prego, andate avanti, perché mi diverto un sacco. Tra l'altro trovo che questo blog sia frequentato da persone molto intelligenti e con un grande senso dell'umorismo. Ve l'avevo già detto?
A grande richiesta, un post sui "vaff" e sui !*§&%$!! che vorremmo tirare a chi, per un motivo o per l'altro, infastidisce noi mamme.
"Vaff" a...
* Gisele Bundchen, a detta sua tornata più magra di prima a soli quattro mesi dal parto, sostiene di non aver provato grandi dolori durante il travaglio perché... troppo emozionata all'idea di vedere suo figlio. A nostra parziale consolazione: Gisele sarà anche in forma smagliante ma, come mostrano chiaramente le foto di Vanity Fair che l'ha intervistata, è pure un po'... smagliata. Ahahahah!
* Mariastella Gelmini, che dopo aver dato seri scossoni al sistema-scuola ora tenta di distruggere l'autostima delle donne comuni sostenendo che ogni mamma, come lei, dovrebbe tornare al lavoro a pochi giorni dal parto. Non accanitevi contro di lei perché ci penserà la sorte a punirla, come mostra la storia di... (vedi sotto)
* ... Rachida Dati, ex ministra francese poi caduta in disgrazia. Destò scalpore, poco più di un anno fa, per esser tornata in Parlamento a cinque giorni dalla nascita della Pupa (e dal cesareo), per giunta indossando un tacco 5.
* La mitica Elisabettona Gregoraci, invero già colpita dal fato: pur avendo messo al mondo il delfino di Briatore, è bella gonfia come tutte le neomamme.
* Briatore medesimo, che sei anni fa ha avuto una bimba da Heidi Klum e non ha voluto saperne nulla. Per fortuna, Heidi Klum è una tipa in gamba e ha poi sposato un uomo-roccia come Seal, ora papà a tutti gli effetti della piccola. A proposito di facce di gesso: a voi, negli ultimi mesi, non facevano uno strano effetto le interviste a Briatore che diceva "Sarò un padre fantastico"? Briatore, ma !*§&%$!!
* Tutti quelli che ti chiedono "Come va" e poi, quando gli riassumi in 2 parole il tuo fine settimana tra congiuntivite, febbre, cacca ecc. ecc., ti guardano con sufficienza e poi dicono "Eh cara, ci siamo passati tutti". Ma allora cosa me lo domandi a fare?
* Quelli senza figli che se per avventura ti capita di dirgli che sei stanco rispondono: "Ah, guarda, non ho dormito nulla neanch'io; sai, ho fatto le cinque l'altra sera e avevo bevuto un po' troppo"
* Quelli (con o senza figli) che passano il tempo a dirti: "Ti limiti troppo, è il bambino che deve adattarsi alle tue esigenze e non tu alle sue; non esci più... dovresti dedicare del tempo a te stessa"
* Le colleghe che ti rubano la scrivania e quando rientri ti dicono "Se ti interessava tanto il tuo ruolo dovevi portarti il pc in maternità". Certo, e magari lo tenevo anche in equilibrio sulla testa mentre con una mano cambiavo il bambino, con l'altra reggevo la tetta mentre lo allattavo e, per ritrovare la linea perduta, saltellavo la corda canticchiando spensierata dopo una nottataccia di sveglie continue tra rigurgiti e pianti strazianti
* Quelli che per strada non si fanno i fatti loro, come la sconosciuta senza il minimo tatto che ti suggerisce di mettere alla bambina una cuffietta per tenere le orecchie a posto e vuole spingerti subito all'interno di un negozio di ortopedia
* Chi non capisce che un bimbo può anche essere stanco e si stupisce se piange quando lo prende in braccio e ce lo vuol tenere per forza; chi non si fa più sentire e non ti invita più perché "tanto col pargolo non puoi uscire"; chi è convinto che "allora se dorme la notte per te è una passeggiata"; e anche a chi dice "Ah bene, ora è tranquillo, ma fa sempre in tempo a cambiare: vedrai che con i dentini avrai problemi".
Grazie a tutte le collaboratrici: Didò, Marina, Micol, Typing Mummy, Francesca, Jane, C., Claudia, Chiara & le altre... e vi prego, andate avanti, perché mi diverto un sacco. Tra l'altro trovo che questo blog sia frequentato da persone molto intelligenti e con un grande senso dell'umorismo. Ve l'avevo già detto?
lunedì 29 marzo 2010
Era un giorno come tanti altri
Certe cose non si dimenticano
Poiché curiosamente ho un cospicuo numero di amiche e conoscenti vicine al parto, e mi pare di trascurarle un po', ripesco questo post dell'anno scorso (che ho anche pubblicato sul mio libro) per tornare, assieme a voi, sul tema.
Vedete la manina rosa? Il post partecipa a "Mamma che ridere", quindi scrivete, scrivete, scrivete, perché a) i vostri commenti verranno premiati e b) sono curiosissima di sapere quel che avete combinato in sala parto. Non dimenticate di lasciare un indirizzo email (potete scrivermi anche in privato)!
Prima della nascita della mia primogenita, detta “la Pupa”, avevo anche frequentato dei corsi. Il generico “preparto”, il rilassante “stretching per gestanti”, il noiosissimo “acquaticità in gravidanza”, un breve quanto inutile seminario “simulazioni di allattamento”. Mi ero anche documentata sull’esoterico canto carnatico, secondo il metodo di Frédérick Leboyer, che si rifà alle antiche tradizioni indiane e consiglia alle donne di utilizzare la voce, modulandola, per soffrire meno durante il travaglio.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.
- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.
Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.
(to be continued)
Poiché curiosamente ho un cospicuo numero di amiche e conoscenti vicine al parto, e mi pare di trascurarle un po', ripesco questo post dell'anno scorso (che ho anche pubblicato sul mio libro) per tornare, assieme a voi, sul tema.
Vedete la manina rosa? Il post partecipa a "Mamma che ridere", quindi scrivete, scrivete, scrivete, perché a) i vostri commenti verranno premiati e b) sono curiosissima di sapere quel che avete combinato in sala parto. Non dimenticate di lasciare un indirizzo email (potete scrivermi anche in privato)!
Prima della nascita della mia primogenita, detta “la Pupa”, avevo anche frequentato dei corsi. Il generico “preparto”, il rilassante “stretching per gestanti”, il noiosissimo “acquaticità in gravidanza”, un breve quanto inutile seminario “simulazioni di allattamento”. Mi ero anche documentata sull’esoterico canto carnatico, secondo il metodo di Frédérick Leboyer, che si rifà alle antiche tradizioni indiane e consiglia alle donne di utilizzare la voce, modulandola, per soffrire meno durante il travaglio.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.
- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.
Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.
(to be continued)
sabato 4 aprile 2009
Per i più pigrotti: link per acquistare il mio libro senza fare sforzi
Ricordandovi che è appena uscito, e se voleste acquistarlo (anche per regalarlo)
Lo trovereste qui. Oppure qui. E anche qui (l'elenco potrebbe proseguire, ma lascio alla vostra libera iniziativa il compito di ulteriori ricerche). In buona sostanza, un po' dappertutto. Dunque, non aspettate!
Lo trovereste qui. Oppure qui. E anche qui (l'elenco potrebbe proseguire, ma lascio alla vostra libera iniziativa il compito di ulteriori ricerche). In buona sostanza, un po' dappertutto. Dunque, non aspettate!
giovedì 19 marzo 2009
Il secondo figlio è più facile. Decisamente
Di tutti i dolori, quello del parto è il più felice
Il martedì mattina, grazie al mio talento affabulatorio, ho convinto il ginecologo di turno a indurmi il parto, che abbiamo programmato per la sera stessa. Verso l’ora di pranzo, nel tentativo di evitare il ricorso alla chimica, un’ostetrica pietosa mi ha fatto una manovra che si chiama “scollamento delle membrane”. Niente di traumatico. Volgarmente, è una “smanacciata” che può servire a fare partire il travaglio, se effettivamente il bambino è pronto a nascere.
E il Pupo, perdirindina, era finalmente pronto. Un’ora dopo la smanacciata sono cominciate le contrazioni, quelle vere.
Per lo stress dell’attesa il mio compagno si era fatto venire trentotto e mezzo di febbre. Le ostetriche e le infermiere passavano a confortarlo: “Come ti senti, poverino?”. “Vuoi una tachipirina?”. “Scusami caro, se sposti i riccioli dalla fronte ti misuro la febbre con il termometro per neonati”. “Poverino, guarda com’è pallido”. È colpa nostra se gli uomini sono viziati, riflettevo io contorcendomi nel solito corridoio.
Pensavo: tra poco si ricomincia a ballare. Probabilmente stavolta morirò.
E invece no.
Sono entrata in sala travaglio alle tre del pomeriggio. Dove ho partorito io ci saranno trenta ostetriche. Miracolosamente ho ritrovato la stessa della nascita della Pupa. “Giuliana!”, l’ho salutata illuminandomi. Mi ha guardato con aria interrogativa. “Tu mi hai fatto nascere la Pupa”. Mi ha sorriso, probabilmente pensando che fossi pazza.
Quel pomeriggio le sale travaglio erano tutte piene, e il personale appena sufficiente. Giuliana se n’è andata lasciandoci soli. Io deliravo con dignità, rivolta al mio compagno. “Il prossimo lo partorite voi, tu e mia sorella”, “Voglio un gatto”, “Fumerei una sigaretta”, “Vai via. No, resta qua!”, e altre innocue follie. E poi, non so perché, ho cominciato ad accompagnare le contrazioni con la voce. “A, E, I, O, U”, scandivo. Così, per passare il tempo. Presto mi sono accorta che, facendolo, riuscivo a sopportare meglio il dolore. Ma è stata un’intuizione che veniva dalla pancia e dal cuore, una cosa che nessun corso avrebbe potuto insegnarmi.
Giuliana è passata a controllare come ce la cavavamo. Mi ha consigliato di alzarmi in piedi. Ho abbracciato il mio compagno e abbiamo iniziato una lenta danza. Spostavo il peso da un piede all’altro, oscillando lentamente, sorretta da lui. Restavo in silenzio per la maggior parte del tempo, e quando il dolore era forte ripartivo con le vocali. “Aaa, eee, iii”. Dopo venti minuti Giuliana mi ha visitato. Sei centimetri. L’ho guardata negli occhi e le ho detto, “Dai, fammelo nascere”. Mi ha fatto salire sul lettino del parto, mi ha rotto le acque. Mi sono rimessa in piedi e ho ricominciato la danza. Dopo cinque minuti le ho detto che volevo spingere. “Di già?”, mi ha chiesto lei scettica. Poi mi ha visitato, ha annuito e mi ha chiesto se me la sentivo di accovacciarmi. Perché no, ho pensato. Le novità non mi spaventano. Sotto di me, sul pavimento, Giuliana ha piazzato un telino blu. “Bastano quattro spinte?”, le ho chiesto buttando lì un numero a caso. “Se proprio ti impegni molto”, ha risposto lei. Il mio compagno mi teneva la mano. Io sudavo per lo sforzo, lui per la febbre. L’ho guardato e ho pensato: okay. Posso farlo. non ho più paura. Rispetto all’altra volta, la differenza è tutta qui.
Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Giuliana, involontariamente comica: “Non ti sedere ora. C’è fuori la testa. Ripeto, è molto importante: non ti se-de-re.” Mi è venuto da ridere, all’idea che avrei potuto schiacciare mio figlio nato solo a metà. Ho spinto per l’ultima volta – la quarta, chissà perché avevo indovinato – pianissimo, seguendo con precisione millimetrica le istruzioni di Giuliana.
E così ho deposto il Pupo, come una chioccia il suo ovetto . L’ho visto scivolare piano su quel telino blu. Ho pensato: che bel colore per nascere. Che giornata fantastica. E che orario meraviglioso. Erano le quattro e quarantaquattro del pomeriggio quando, per la seconda volta, sono nata mamma.
Il martedì mattina, grazie al mio talento affabulatorio, ho convinto il ginecologo di turno a indurmi il parto, che abbiamo programmato per la sera stessa. Verso l’ora di pranzo, nel tentativo di evitare il ricorso alla chimica, un’ostetrica pietosa mi ha fatto una manovra che si chiama “scollamento delle membrane”. Niente di traumatico. Volgarmente, è una “smanacciata” che può servire a fare partire il travaglio, se effettivamente il bambino è pronto a nascere.
E il Pupo, perdirindina, era finalmente pronto. Un’ora dopo la smanacciata sono cominciate le contrazioni, quelle vere.
Per lo stress dell’attesa il mio compagno si era fatto venire trentotto e mezzo di febbre. Le ostetriche e le infermiere passavano a confortarlo: “Come ti senti, poverino?”. “Vuoi una tachipirina?”. “Scusami caro, se sposti i riccioli dalla fronte ti misuro la febbre con il termometro per neonati”. “Poverino, guarda com’è pallido”. È colpa nostra se gli uomini sono viziati, riflettevo io contorcendomi nel solito corridoio.
Pensavo: tra poco si ricomincia a ballare. Probabilmente stavolta morirò.
E invece no.
Sono entrata in sala travaglio alle tre del pomeriggio. Dove ho partorito io ci saranno trenta ostetriche. Miracolosamente ho ritrovato la stessa della nascita della Pupa. “Giuliana!”, l’ho salutata illuminandomi. Mi ha guardato con aria interrogativa. “Tu mi hai fatto nascere la Pupa”. Mi ha sorriso, probabilmente pensando che fossi pazza.
Quel pomeriggio le sale travaglio erano tutte piene, e il personale appena sufficiente. Giuliana se n’è andata lasciandoci soli. Io deliravo con dignità, rivolta al mio compagno. “Il prossimo lo partorite voi, tu e mia sorella”, “Voglio un gatto”, “Fumerei una sigaretta”, “Vai via. No, resta qua!”, e altre innocue follie. E poi, non so perché, ho cominciato ad accompagnare le contrazioni con la voce. “A, E, I, O, U”, scandivo. Così, per passare il tempo. Presto mi sono accorta che, facendolo, riuscivo a sopportare meglio il dolore. Ma è stata un’intuizione che veniva dalla pancia e dal cuore, una cosa che nessun corso avrebbe potuto insegnarmi.
Giuliana è passata a controllare come ce la cavavamo. Mi ha consigliato di alzarmi in piedi. Ho abbracciato il mio compagno e abbiamo iniziato una lenta danza. Spostavo il peso da un piede all’altro, oscillando lentamente, sorretta da lui. Restavo in silenzio per la maggior parte del tempo, e quando il dolore era forte ripartivo con le vocali. “Aaa, eee, iii”. Dopo venti minuti Giuliana mi ha visitato. Sei centimetri. L’ho guardata negli occhi e le ho detto, “Dai, fammelo nascere”. Mi ha fatto salire sul lettino del parto, mi ha rotto le acque. Mi sono rimessa in piedi e ho ricominciato la danza. Dopo cinque minuti le ho detto che volevo spingere. “Di già?”, mi ha chiesto lei scettica. Poi mi ha visitato, ha annuito e mi ha chiesto se me la sentivo di accovacciarmi. Perché no, ho pensato. Le novità non mi spaventano. Sotto di me, sul pavimento, Giuliana ha piazzato un telino blu. “Bastano quattro spinte?”, le ho chiesto buttando lì un numero a caso. “Se proprio ti impegni molto”, ha risposto lei. Il mio compagno mi teneva la mano. Io sudavo per lo sforzo, lui per la febbre. L’ho guardato e ho pensato: okay. Posso farlo. non ho più paura. Rispetto all’altra volta, la differenza è tutta qui.
Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Giuliana, involontariamente comica: “Non ti sedere ora. C’è fuori la testa. Ripeto, è molto importante: non ti se-de-re.” Mi è venuto da ridere, all’idea che avrei potuto schiacciare mio figlio nato solo a metà. Ho spinto per l’ultima volta – la quarta, chissà perché avevo indovinato – pianissimo, seguendo con precisione millimetrica le istruzioni di Giuliana.
E così ho deposto il Pupo, come una chioccia il suo ovetto . L’ho visto scivolare piano su quel telino blu. Ho pensato: che bel colore per nascere. Che giornata fantastica. E che orario meraviglioso. Erano le quattro e quarantaquattro del pomeriggio quando, per la seconda volta, sono nata mamma.
La nascita del Pupo/1
Siediti al sole. Abdica, e sii re di te stesso
A causa del fallimento totale di ogni corso preparatorio al parto della Pupa, per la nascita del mio secondogenito – il Pupo – mi sono rifiutata di fare alcunché. Non ho letto una riga, non ne ho parlato con nessuno. Evitavo l’argomento. Interrogata in proposito da amici e parenti, grugnivo. Pensavo, “Sarà quel che sarà. Tanto vale non perdere tempo con inutili lezioni di suono, respiro, canto, postura, bagatelle e pinzillacchere”.
Aspettavo l’evento con una sorta di quieta rassegnazione. Solo una volta mi sono arrabbiata, con il fidanzato new age di una mia amica che avrebbe partorito la sua primogenita pochi giorni dopo di me. L’ingenuo mi ha detto, “Cioè, l’esperienza del parto è fantastica. Cioè, te la vivi, e siete tu e il tuo bambino, ed è una cosa solo vostra, tu sei lo specchio del bambino e il bambino è lo specchio tuo, e cioè, devi attraversare il dolore come se fosse un’onda. Cioè, mitico. Anzi, maggico”. “Ehi, cretinetti, falla finita con questa sciocchezza dell’onda”, gli ho sibilato. Mi ha guardato senza capire.
Il Pupo, probabilmente intuendo che la sua mamma non aveva nessuna voglia di partorirlo, si è fatto attendere. Attorno alla data presunta del parto ho cominciato a sentire blande ma insignificanti contrazioni. Sono andate avanti una settimana. Una domenica mattina, esasperata, ho creduto che finalmente fosse arrivato il momento. Ho pensato: è il mio secondo figlio. Ci siamo, lo sento. Una madre certe cose le sa. Tra poche ore stringerò tra le braccia il mio bambino.
Balle. Sono rimasta ricoverata in ospedale due giorni prima dell’avvio del vero travaglio.
A causa del fallimento totale di ogni corso preparatorio al parto della Pupa, per la nascita del mio secondogenito – il Pupo – mi sono rifiutata di fare alcunché. Non ho letto una riga, non ne ho parlato con nessuno. Evitavo l’argomento. Interrogata in proposito da amici e parenti, grugnivo. Pensavo, “Sarà quel che sarà. Tanto vale non perdere tempo con inutili lezioni di suono, respiro, canto, postura, bagatelle e pinzillacchere”.
Aspettavo l’evento con una sorta di quieta rassegnazione. Solo una volta mi sono arrabbiata, con il fidanzato new age di una mia amica che avrebbe partorito la sua primogenita pochi giorni dopo di me. L’ingenuo mi ha detto, “Cioè, l’esperienza del parto è fantastica. Cioè, te la vivi, e siete tu e il tuo bambino, ed è una cosa solo vostra, tu sei lo specchio del bambino e il bambino è lo specchio tuo, e cioè, devi attraversare il dolore come se fosse un’onda. Cioè, mitico. Anzi, maggico”. “Ehi, cretinetti, falla finita con questa sciocchezza dell’onda”, gli ho sibilato. Mi ha guardato senza capire.
Il Pupo, probabilmente intuendo che la sua mamma non aveva nessuna voglia di partorirlo, si è fatto attendere. Attorno alla data presunta del parto ho cominciato a sentire blande ma insignificanti contrazioni. Sono andate avanti una settimana. Una domenica mattina, esasperata, ho creduto che finalmente fosse arrivato il momento. Ho pensato: è il mio secondo figlio. Ci siamo, lo sento. Una madre certe cose le sa. Tra poche ore stringerò tra le braccia il mio bambino.
Balle. Sono rimasta ricoverata in ospedale due giorni prima dell’avvio del vero travaglio.
D-DAY/4
Il travaglio è finito. Andate in pace (per ora)
Alla fine del travaglio, poco prima della nascita della Pupa, ho scoperto che nei neonati c'è un segreto.
A un certo punto il dolore è tanto intenso da essere un’entità autonoma. Va per conto suo. Se riesci a pensare a qualcosa, pensi che stai per morire. Poi pensi che non potevi ipotizzare niente di simile. Che non c’è modo di prepararsi a una sofferenza tanto atroce, che hai paura, che così proprio non si può. Preghi che ti lascino abbandonare il tuo corpo anche solo per un momento.
Poi qualcos’altro prende il sopravvento. Il tuo bambino è finalmente pronto, e allora mette in atto una magia.
Ho sentito da lontano una voce che diceva, “Adesso spingi. Sfrutta la forza della contrazione”. Ed effettivamente è stato come me l’avevano spiegato: mentre spingi, il dolore diminuisce. La testa del bambino che preme sul coccige ti anestetizza, tu non senti più male. Ci ho provato timidamente una, due, tre volte. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Funzionava. “Più forte, più a lungo,” mi incitava Giuliana. Allora ho pensato: che diavolo, io gli addominali li ho sempre avuti. E ho cominciato a spingere sul serio. Cinque minuti dopo è nata la Pupa.
È stato un attimo, è sgusciata via come un pesciolino, calda, palpitante, bianca di vernice caseosa. Una parte di me fuori di me. Durante la gravidanza avevo evitato di immaginarla, perché non sapevo come farlo. E all’improvviso, alle sei del pomeriggio, eccola. Ho guardato la finestra, ho visto l’inizio di un tramonto e ho pensato: io rinasco, con la mia bambina.
La sera stessa ho fatto a mia madre un resoconto dettagliato del travaglio. Alla fine le ho detto, “Avevi ragione. Comunque è stato bellissimo”.
A un certo punto il dolore è tanto intenso da essere un’entità autonoma. Va per conto suo. Se riesci a pensare a qualcosa, pensi che stai per morire. Poi pensi che non potevi ipotizzare niente di simile. Che non c’è modo di prepararsi a una sofferenza tanto atroce, che hai paura, che così proprio non si può. Preghi che ti lascino abbandonare il tuo corpo anche solo per un momento.
Poi qualcos’altro prende il sopravvento. Il tuo bambino è finalmente pronto, e allora mette in atto una magia.
Ho sentito da lontano una voce che diceva, “Adesso spingi. Sfrutta la forza della contrazione”. Ed effettivamente è stato come me l’avevano spiegato: mentre spingi, il dolore diminuisce. La testa del bambino che preme sul coccige ti anestetizza, tu non senti più male. Ci ho provato timidamente una, due, tre volte. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Funzionava. “Più forte, più a lungo,” mi incitava Giuliana. Allora ho pensato: che diavolo, io gli addominali li ho sempre avuti. E ho cominciato a spingere sul serio. Cinque minuti dopo è nata la Pupa.
È stato un attimo, è sgusciata via come un pesciolino, calda, palpitante, bianca di vernice caseosa. Una parte di me fuori di me. Durante la gravidanza avevo evitato di immaginarla, perché non sapevo come farlo. E all’improvviso, alle sei del pomeriggio, eccola. Ho guardato la finestra, ho visto l’inizio di un tramonto e ho pensato: io rinasco, con la mia bambina.
La sera stessa ho fatto a mia madre un resoconto dettagliato del travaglio. Alla fine le ho detto, “Avevi ragione. Comunque è stato bellissimo”.
mercoledì 18 marzo 2009
D-DAY/3
Perché chiedere l'epidurale è una buona idea
Anestesia o eutanasia
Alcune amiche mi avevano raccontato la loro esperienza. “All’inizio del travaglio, prima di andare in ospedale, ho addobbato l’albero di Natale”. “Io ho lavato le tazze della colazione”. “Io ho pagato online i conti del mese”. “Io sono andata a fare una passeggiata con il cane”. Prima della nascita della Pupa, la mia primogenita, in quei momenti convulsi in cui non riuscivo nemmeno a formulare una frase di senso compiuto l’unica cosa che mi veniva in mente era: io non ce l’ho avuto, l’inizio del travaglio. Sono partita subito dalla fine.
Per fortuna l’ostetrica, Giuliana, era bravissima. Nei pochi secondi di intervallo tra le contrazioni leggevo il suo nome sul cartellino che portava appeso al camice. Per ingraziarmela lo scandivo a voce alta: “Giu-lia-na. Che bel nome che hai, Giuliana”. Poi sentivo il dolore aumentare e ricominciavo a urlare: “Fammelanascerefammelanascere!”. Mia sorella leggeva sul tocografo l’intensità delle contrazioni con un anticipo di qualche istante rispetto al loro arrivo. Quelle particolarmente potenti le commentava come allo stadio: “Però! Vai così! Uuh, guarda questa!”. Poi mi stringeva forte e mi avvicinava un asciugamano perché lo mordessi al posto del suo braccio.
Poco dopo le cinque del pomeriggio Giuliana mi ha rotto le acque. Il liquido era tinto, mi hanno fatto una flebo di antibiotico nel braccio. Non ho sentito l’ago. “Puoi spingere”, mi hanno incoraggiato. Ho urlato ancora: “Mammamammamamma!”. Mia madre, che era fuori in sala d’aspetto, pur avendo un deficit d’udito è riuscita a sentirmi. E dribblando non so come ostetriche, ginecologi e infermiere ha attraversato tre stanze, un corridoio e mi ha raggiunto in quattro secondi netti. “Mi cercavi?”, mi ha chiesto, affacciandosi sorridente alla sala travaglio. “Era un’invocazione generica”, ho precisato cacciandola. Poi ho pensato: adesso chiedo un cesareo, o l’eutanasia.
Alcune amiche mi avevano raccontato la loro esperienza. “All’inizio del travaglio, prima di andare in ospedale, ho addobbato l’albero di Natale”. “Io ho lavato le tazze della colazione”. “Io ho pagato online i conti del mese”. “Io sono andata a fare una passeggiata con il cane”. Prima della nascita della Pupa, la mia primogenita, in quei momenti convulsi in cui non riuscivo nemmeno a formulare una frase di senso compiuto l’unica cosa che mi veniva in mente era: io non ce l’ho avuto, l’inizio del travaglio. Sono partita subito dalla fine.
Per fortuna l’ostetrica, Giuliana, era bravissima. Nei pochi secondi di intervallo tra le contrazioni leggevo il suo nome sul cartellino che portava appeso al camice. Per ingraziarmela lo scandivo a voce alta: “Giu-lia-na. Che bel nome che hai, Giuliana”. Poi sentivo il dolore aumentare e ricominciavo a urlare: “Fammelanascerefammelanascere!”. Mia sorella leggeva sul tocografo l’intensità delle contrazioni con un anticipo di qualche istante rispetto al loro arrivo. Quelle particolarmente potenti le commentava come allo stadio: “Però! Vai così! Uuh, guarda questa!”. Poi mi stringeva forte e mi avvicinava un asciugamano perché lo mordessi al posto del suo braccio.
Poco dopo le cinque del pomeriggio Giuliana mi ha rotto le acque. Il liquido era tinto, mi hanno fatto una flebo di antibiotico nel braccio. Non ho sentito l’ago. “Puoi spingere”, mi hanno incoraggiato. Ho urlato ancora: “Mammamammamamma!”. Mia madre, che era fuori in sala d’aspetto, pur avendo un deficit d’udito è riuscita a sentirmi. E dribblando non so come ostetriche, ginecologi e infermiere ha attraversato tre stanze, un corridoio e mi ha raggiunto in quattro secondi netti. “Mi cercavi?”, mi ha chiesto, affacciandosi sorridente alla sala travaglio. “Era un’invocazione generica”, ho precisato cacciandola. Poi ho pensato: adesso chiedo un cesareo, o l’eutanasia.
D-DAY/2
Dalla luce, il bambino
Prima della nascita della mia primogenita, detta “la Pupa”, avevo anche frequentato dei corsi. Il generico “preparto”, il rilassante “stretching per gestanti”, il noiosissimo “acquaticità in gravidanza”, un breve quanto inutile seminario “simulazioni di allattamento”. Mi ero anche documentata sull’esoterico canto carnatico, secondo il metodo di Frédérick Leboyer , che si rifà alle antiche tradizioni indiane e consiglia alle donne di utilizzare la voce, modulandola, per soffrire meno durante il travaglio.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.
- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.
Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.
- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.
Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.
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