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mercoledì 4 dicembre 2013

Settimana 39 (ma a quanto pare è la 40)

Salvarti sull'orlo del precipizio
È, questa, la settimana di gravidanza in cui la futura trimamma, profittando una sera dell'assenza inattesa e non sgradita dell'intera famiglia (Mike + Pupi) riunitasi altrove a festeggiare il compleanno degli Zii Gemelli, ascolta a volume smodato musica italiana da cui trarre citazioni a manbassa e si dedica allegramente a inghiottire vaccat a consumare in solitudine un frugale pasto mentre smanetta davanti al computer con l'intento di tenere aggiornati i lettori sullo stato di avanzamento (nullo) della Pupa piccolissima.
Ma tu non pensare male adesso Del resto, non posso davvero esagerare. Due sere fa ho cominciato a vomitare, credevo di essere entrata in travaglio (dicono che la nausea sia uno dei sintomi possibili). Invece no: nel pomeriggio ero uscita senza la sciarpa, e poiché ho ormai lo stomaco all'altezza della gola, evidentemente ho preso freddo e mi è venuta una specie di congestione seguita da coliche notturne e pensieri tipo: «Ma se questo è il travaglio, adesso chi si becca la peppatencia?». Dovete sapere infatti che ho una serie di amici, vicini di casa e ben due fratelli (gli Zii Gemelli) che si sono dati come reperibili nel caso mi partissero le contrazioni col favore delle tenebre. Il che si esprimerà in una squisita catena di rotture di scatole: devo svegliare Tizio che verrà al volo a tamponare la situazione e poi chiamerà Caio che poi chiamerà mia sorella - l'unica in grado di vestire i bambini e recapitarli a scuola senza fare casini, vive però troppo lontana perché possiamo pensare aspettarla in casa senza passare la staffetta a qualche eroe intermedio.
Dicono che gli angeli amano in silenzio (pensieri ricorrenti) «Non puoi tenertela lì, vero?» mi ha chiesto il Pupo due sere fa, indicandomi la pancia. «No, eh?», si è risposto da solo tre secondi dopo. Che tenerezza. Poi si è messo tutto concentrato a disegnare. «Che bello, Pupo, chi è questa signora?». «Maria, la madre di Gesù». «E cosa sono quei due pompon di Didò blu che le hai appiccicato sul torace?». «Il reggiseno. Ce le aveva anche lei, le tette. Doveva pure allattarlo Gesù, lo sai?».
Ahi, come sempre sei (la descrizione di un attimo) Mi scrive un sms ieri sera alle 21.38 la mia amica anestesista: «Guarda che stai n'a botte de fero, vista l'anestesista perfetta. Ti ho pure fatto la visita in piedi sui gradini dell'ospedale. Ma per partorire mi raccomando aspetta dal 6 (sera) in poi». Due minuti dopo: «E rispondi, o temo che tu stia spingendo!». Io: «Ahah smettila che mi fai venire le contrazioni. Dunque fammi capire, tu ci 6 dal 6? (perdona il gioco di parole). E domani e il 5, invece, né di giorno né di notte?».
«L'ideale sarebbe dal 6 ma di sera. Vedi di comportarti bene, eh. Mi raccomando. Ci tengo a vedere la pinella con lo scoop».
«Ma 6,7,8 solo di notte o anche di giorno? Dammi qualche indicazione certa, sei troppo vaga. E stanotte non ci sei?»
«Stanotte no! Hoddetto!»
«Ah! Ecco! E domani e il 5?»
«Ho la cena coi compagni dell'università, il parrucchiere, la riunione dell'associazione filatelici, un'invasione di cavallette. Voto per venerdì notte. O lunedì mattina. Domani e il 5 meglio di no. Hai l'edema cerebrale? E tre. Stai tappata».
Una musica può fare parlare soltanto d'amore In questo periodo mi chiamano e mi scrivono in molti. «Hai novità?» (approccio vago). «Non sarà mica nata, vero?» (accusatorio). «Se fosse nata me lo diresti?» (complice). «Stai spingendo?» (puntuale). «Mancano 4 giorni, giusto?» (preciso). «I giorni passano e non so niente di te» (poetico). «Volevo solo sentire la tua voce» (affettuoso). «Facciamo che se vai in ospedale mi fai uno squillo? E poi un altro quando ti ricoverano? Io non rispondo, eh. Mi basta che mi fai lo squillino» (apprensivo). «Chiamami a qualunque ora del giorno e della notte» (esagerato). «Ti muovi a scrivere un post su quel c... di blog, così la gente sa cosa sta succedendo? Cosa lo tieni a fare il blog, se poi ci devi scrivere una volta all'anno?» (rude ma spiritoso).
E in effetti il mio stato d'animo oscilla più che mai, tra il desiderio di quiete e la commozione per tanto affetto. Se avete avuto figli mi capite. Di cosa avevate voglia nelle ore che hanno preceduto la loro nascita? E anche se figli non ne avete, mi capite lo stesso. Vi siete fatti sentire spesso o avete atteso zitti-zitti (seppur emotivamente partecipi) che arrivasse la lieta novella?

lunedì 29 marzo 2010

Era un giorno come tanti altri

Certe cose non si dimenticano

Poiché curiosamente ho un cospicuo numero di amiche e conoscenti vicine al parto, e mi pare di trascurarle un po', ripesco questo post dell'anno scorso (che ho anche pubblicato sul mio libro) per tornare, assieme a voi, sul tema.
Vedete la manina rosa? Il post partecipa a "Mamma che ridere", quindi scrivete, scrivete, scrivete, perché a) i vostri commenti verranno premiati e b) sono curiosissima di sapere quel che avete combinato in sala parto. Non dimenticate di lasciare un indirizzo email (potete scrivermi anche in privato)!

Prima della nascita della mia primogenita, detta “la Pupa”, avevo anche frequentato dei corsi. Il generico “preparto”, il rilassante “stretching per gestanti”, il noiosissimo “acquaticità in gravidanza”, un breve quanto inutile seminario “simulazioni di allattamento”. Mi ero anche documentata sull’esoterico canto carnatico, secondo il metodo di Frédérick Leboyer, che si rifà alle antiche tradizioni indiane e consiglia alle donne di utilizzare la voce, modulandola, per soffrire meno durante il travaglio.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.

- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.

Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.
(to be continued)


giovedì 19 marzo 2009

Il secondo figlio è più facile. Decisamente

Di tutti i dolori, quello del parto è il più felice
Il martedì mattina, grazie al mio talento affabulatorio, ho convinto il ginecologo di turno a indurmi il parto, che abbiamo programmato per la sera stessa. Verso l’ora di pranzo, nel tentativo di evitare il ricorso alla chimica, un’ostetrica pietosa mi ha fatto una manovra che si chiama “scollamento delle membrane”. Niente di traumatico. Volgarmente, è una “smanacciata” che può servire a fare partire il travaglio, se effettivamente il bambino è pronto a nascere.
E il Pupo, perdirindina, era finalmente pronto. Un’ora dopo la smanacciata sono cominciate le contrazioni, quelle vere.
Per lo stress dell’attesa il mio compagno si era fatto venire trentotto e mezzo di febbre. Le ostetriche e le infermiere passavano a confortarlo: “Come ti senti, poverino?”. “Vuoi una tachipirina?”. “Scusami caro, se sposti i riccioli dalla fronte ti misuro la febbre con il termometro per neonati”. “Poverino, guarda com’è pallido”. È colpa nostra se gli uomini sono viziati, riflettevo io contorcendomi nel solito corridoio.
Pensavo: tra poco si ricomincia a ballare. Probabilmente stavolta morirò.
E invece no.
Sono entrata in sala travaglio alle tre del pomeriggio. Dove ho partorito io ci saranno trenta ostetriche. Miracolosamente ho ritrovato la stessa della nascita della Pupa. “Giuliana!”, l’ho salutata illuminandomi. Mi ha guardato con aria interrogativa. “Tu mi hai fatto nascere la Pupa”. Mi ha sorriso, probabilmente pensando che fossi pazza.
Quel pomeriggio le sale travaglio erano tutte piene, e il personale appena sufficiente. Giuliana se n’è andata lasciandoci soli. Io deliravo con dignità, rivolta al mio compagno. “Il prossimo lo partorite voi, tu e mia sorella”, “Voglio un gatto”, “Fumerei una sigaretta”, “Vai via. No, resta qua!”, e altre innocue follie. E poi, non so perché, ho cominciato ad accompagnare le contrazioni con la voce. “A, E, I, O, U”, scandivo. Così, per passare il tempo. Presto mi sono accorta che, facendolo, riuscivo a sopportare meglio il dolore. Ma è stata un’intuizione che veniva dalla pancia e dal cuore, una cosa che nessun corso avrebbe potuto insegnarmi.
Giuliana è passata a controllare come ce la cavavamo. Mi ha consigliato di alzarmi in piedi. Ho abbracciato il mio compagno e abbiamo iniziato una lenta danza. Spostavo il peso da un piede all’altro, oscillando lentamente, sorretta da lui. Restavo in silenzio per la maggior parte del tempo, e quando il dolore era forte ripartivo con le vocali. “Aaa, eee, iii”. Dopo venti minuti Giuliana mi ha visitato. Sei centimetri. L’ho guardata negli occhi e le ho detto, “Dai, fammelo nascere”. Mi ha fatto salire sul lettino del parto, mi ha rotto le acque. Mi sono rimessa in piedi e ho ricominciato la danza. Dopo cinque minuti le ho detto che volevo spingere. “Di già?”, mi ha chiesto lei scettica. Poi mi ha visitato, ha annuito e mi ha chiesto se me la sentivo di accovacciarmi. Perché no, ho pensato. Le novità non mi spaventano. Sotto di me, sul pavimento, Giuliana ha piazzato un telino blu. “Bastano quattro spinte?”, le ho chiesto buttando lì un numero a caso. “Se proprio ti impegni molto”, ha risposto lei. Il mio compagno mi teneva la mano. Io sudavo per lo sforzo, lui per la febbre. L’ho guardato e ho pensato: okay. Posso farlo. non ho più paura. Rispetto all’altra volta, la differenza è tutta qui.
Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Giuliana, involontariamente comica: “Non ti sedere ora. C’è fuori la testa. Ripeto, è molto importante: non ti se-de-re.” Mi è venuto da ridere, all’idea che avrei potuto schiacciare mio figlio nato solo a metà. Ho spinto per l’ultima volta – la quarta, chissà perché avevo indovinato – pianissimo, seguendo con precisione millimetrica le istruzioni di Giuliana.
E così ho deposto il Pupo, come una chioccia il suo ovetto . L’ho visto scivolare piano su quel telino blu. Ho pensato: che bel colore per nascere. Che giornata fantastica. E che orario meraviglioso. Erano le quattro e quarantaquattro del pomeriggio quando, per la seconda volta, sono nata mamma.

La nascita del Pupo/1

Siediti al sole. Abdica, e sii re di te stesso
A causa del fallimento totale di ogni corso preparatorio al parto della Pupa, per la nascita del mio secondogenito – il Pupo – mi sono rifiutata di fare alcunché. Non ho letto una riga, non ne ho parlato con nessuno. Evitavo l’argomento. Interrogata in proposito da amici e parenti, grugnivo. Pensavo, “Sarà quel che sarà. Tanto vale non perdere tempo con inutili lezioni di suono, respiro, canto, postura, bagatelle e pinzillacchere”.
Aspettavo l’evento con una sorta di quieta rassegnazione. Solo una volta mi sono arrabbiata, con il fidanzato new age di una mia amica che avrebbe partorito la sua primogenita pochi giorni dopo di me. L’ingenuo mi ha detto, “Cioè, l’esperienza del parto è fantastica. Cioè, te la vivi, e siete tu e il tuo bambino, ed è una cosa solo vostra, tu sei lo specchio del bambino e il bambino è lo specchio tuo, e cioè, devi attraversare il dolore come se fosse un’onda. Cioè, mitico. Anzi, maggico”. “Ehi, cretinetti, falla finita con questa sciocchezza dell’onda”, gli ho sibilato. Mi ha guardato senza capire.
Il Pupo, probabilmente intuendo che la sua mamma non aveva nessuna voglia di partorirlo, si è fatto attendere. Attorno alla data presunta del parto ho cominciato a sentire blande ma insignificanti contrazioni. Sono andate avanti una settimana. Una domenica mattina, esasperata, ho creduto che finalmente fosse arrivato il momento. Ho pensato: è il mio secondo figlio. Ci siamo, lo sento. Una madre certe cose le sa. Tra poche ore stringerò tra le braccia il mio bambino.
Balle. Sono rimasta ricoverata in ospedale due giorni prima dell’avvio del vero travaglio.

mercoledì 18 marzo 2009

D-DAY/2
Dalla luce, il bambino

Prima della nascita della mia primogenita, detta “la Pupa”, avevo anche frequentato dei corsi. Il generico “preparto”, il rilassante “stretching per gestanti”, il noiosissimo “acquaticità in gravidanza”, un breve quanto inutile seminario “simulazioni di allattamento”. Mi ero anche documentata sull’esoterico canto carnatico, secondo il metodo di Frédérick Leboyer , che si rifà alle antiche tradizioni indiane e consiglia alle donne di utilizzare la voce, modulandola, per soffrire meno durante il travaglio.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.

- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.

Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.