Mo' basta veramente, però
Martedì scorso, con parto da manuale e dieci giorni d'anticipo, la neomamma L. ha messo al mondo il nuovo fratellino della Pupa. A noi che da sei mesi abbiamo in casa la Piccolissima, la quale nel frattempo ha acquisito il peso specifico e la consistenza di un tondino di ferro, il bebé sembra lieve e microscopico. «Vorrà dire che ti chiameremo il Microscopico», ha detto con semplicità mia figlia. Conoscenti in transito nell'una e nell'altra casa continuano a rassicurarla e a complimentarsi: «Auguroni!». «Che fortuna che hai». «Un fratello è sempre una risorsa». «Pensa poveretti i figli unici, quanto si annoiano». «Beata te, avrei voluti averli io, due fratelli e una sorella». «Tutti i piccolini di casa ti adoreranno, vorranno fare quello che vuoi tu, vorranno somigliarti in tutto».
Convivere a volte è peggio di uccidere Mentre il geniale parroco di Cameri nelle ultime ore ha paragonato «le unioni non benedette da un matrimonio in chiesa» a «un omicidio, con la differenza che quest'ultimo è un peccato occasionale, mentre la convivenza un'infedeltà continuativa», nella nostra Bovisa operaia il Don di riferimento, alla notizia di una nuova nascita nella nostra famiglia allargata, vacilla ma non crolla. «Ci sono altri bambini in arrivo o per adesso ci fermiamo qui?» ci ha chiesto ieri con lo sguardo incerto, quando siamo andati a riprendere la Pupa all'oratorio estivo. «Spero di no. Guarda, già così mi sembra di avere cento fratelli», gli ha risposto lei citando il dottor Seuss. Poi se n'è andata trotterellando, in un'imitazione quasi perfetta di Maccio Capatonda (se non lo conoscete prendetevi 62 secondi per guardarlo). «Mo' basta veramente, però», ripeteva. «Mo' basta, mamma. Mo' basta, papà. Mo' basta, tutti. Grazie».
Ho traslocato su erounabravamamma.it
Vi aspetto!
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martedì 24 giugno 2014
mercoledì 18 dicembre 2013
Spazio bianco
Alla sera della vita, saremo giudicati sull'amore
Eccoci, finalmente. «Il terzo travaglio può essere un po' noiosino», aveva profetizzato l'ostetrica del mio consultorio. In effetti. Tutto è cominciato lo scorso lunedì, con contrazioni sporadiche e un diffuso mood da la-Mia-Ora-è-Giunta. Giusto il tempo di prendere al volo la benedizione natalizia dal prete del quartiere, cenare, mettere a letto i Pupi alle 19.38 dichiarando che erano le nove di sera, denunciare a Mike Delfino ulteriori, insondabili malesseri nonché contrazioni ingravescenti, trascinarmi sotto la doccia chiedendogli poi di asciugarmi i capelli col phon perché io, da sola, non me la sentivo; andare a mia volta a dormire con un paio di tachipirine in corpo; svegliarsi all'1 e 46 spaccata (visto sul display dell'iPhone) con un sussulto, avvertire in qualche modo la certezza che sì, era proprio La Chiamata; scendere al piano di sotto non volendo svegliare nessuno, e cominciare a passeggiare avanti e indietro sotto gli occhi vigili e tonti di Laccio, «il cane che non è un pagliaccio».
Omen «Travagliare di notte ha un che di paurosamente atavico», ha commentato qualche post fa la mia lettrice Micol. Ci ho pensato parecchio, in quelle ore sospese, sbirciando le finestre dei vicini per vedere chi fosse ancora sveglio - molti, e ancora mi chiedo perché. E soprattutto cercando di capire come mai, oltre al classico dolore addominale da contrazione, io sentissi una specie di atroce puntaspilli irradiarsi lungo tutta la schiena. Va detto che la mia amica Michela mi aveva consigliato di usare un pettine come analgesico secondo la tecnica della digitopressione: si tratta di stringere, a ogni contrazione, un piccolo pettine in modo che i denti tocchino la linea immaginaria dove le articolazioni delle dita incontrano il palmo della mano (molto più facile a farsi che a dirsi). È una tecnica economica e priva di controindicazioni: dopo essermi procurata addirittura due pettini, oggi mi piace raccontare a me stessa che è grazie a loro se sono riuscita a resistere fino all'alba.
L'importanza dei pettini «Mamma, perché sembra che ti stia per esplodere la pancia?» (Pupa, ore 7.12). «Mamma, perché fai quella faccia?» (Pupo, ore 7.18). «Mamma, stai andando a far nascere la sorellina?» (all'unisono, 7.21). «No, vado dal dottore a fare un controllo». Lasciati i bambini a scuola siamo andati all'ospedale dove sapevo che sarebbe stata di turno la mia amica anestesista, io stringendo i denti e i pettini, Mike Delfino dubitando, talmente nonscialante era il mio comportamento, che fosse il momento giusto («Cinquanta euro che ci rimandano a casa»).
E invece «Signora, lei è dilatata tre centimetri!», è stato il responso. «Dove lo mettiamo un terzo figlio sui tre centimetri?». (Questo mi è suonato molto tipo: «A che tavolo li mettiamo i quattro con un cane? Se ne vanno entro le ventuno»). Un minuto dopo, florealmente piazzati nella stanza Tulipano, abbiamo chiamato la mia amica anestesista, neanche mezz'ora dopo provavo finalmente l'ebbrezza della prima epidurale della mia vita, peraltro contro il parere avverso dell'ostetrica Marina: «Signora, ha fatto due figli senza, mi crolla proprio ora?». (Domanda per voi: ma cosa vorrà dire in un contesto simile «Mi crolla?»). Sempre Marina, a una giovane ginecologa che passava di lì: «Poi quando toccherà a te non mi chiedere analgesie, perfusioni, rotture di sacchi amniotici. Ti faccio partorire io naturalmente». Ginecologa: «Corro a prenotarmi un cesareo».
La regina delle contraddizioni Ore 10.30, Marina, svelando finalmente l'arcano di un travaglio (per i miei canoni, essendo la Pupa e il Pupo nati rispettivamente in tre e due ore) così lungo: «Ahi, ahi». (Io): «Cosa, ahi ahi?». «Questa bambina è occipito-posteriore. Girata al contrario: con la nuca, anziché la fronte, poggiata contro il suo osso sacro. Sentiva mal di schiena, per caso?». «Sì. Ma cosa vuol dire, in concreto, questa posizione?». «Ah, niente di che. Diciamo che così non nasce». «Come, non nasce? Me la tengo per sempre nella pancia?». «O facciamo un cesareo, o la facciamo girare, o non nasce». «E come la giriamo?». «Lei potrebbe, in travaglio, assumere una serie di posizioni che le indicherò, schiacciando per esempio la pancia col suo corpo, mettendosi carponi, alzando la gamba destra nella posizione del cane che orina, e mantenere queste posizioni per un dato tempo, per convincere la bambina a ruotare lentamente su se stessa, avvitandosi esattamente fino al punto desiderato, cioè l'opposto di come è ora». «Sembra, ehm, facilissimo». Col senno di poi mi chiedo, ma secondo l'ostetrica Marina come avrei fatto senza l'epidurale?
Roba buona Con l'epidurale peraltro si ottengono una serie di effetti fichissimi. Al primo shot ho detto, «Wow! È come portare le chiappe dal dentista». Si può financo ironizzare sulla propria e altrui sorte. Alle urla della signora della stanza vicina: «Questa si sta facendo un giro sul gigacoaster di Gardaland». Mike Delfino però ha commentato: «Avverto minor partecipazione emotiva rispetto all'altra volta. Poiché non stai soffrendo, il mio ruolo mi pare più marginale che mai». Ignorato il commento e finito l'effetto dell'epidurale, verso mezzogiorno, la mia amica mi ha dato un'aggiuntina. A quel punto non sentivo dolore, ma ho perso il contatto con le gambe. L'ostetrica Marina ha infierito: «Il travaglio è così lento per colpa dell'epidurale». Bugia, non sei figlia di Maria! ho pensato subito, e infatti era così lento, ho scoperto poi, per la posizione occipito-eccetera. «Che facciamo, le mettiamo due gocce di ossitocina, così andiamo tutti a casa?», ha aggiunto un minuto dopo Marina, con il consueto garbo. «No, rompiamo il sacco», ha ordinato la ginecologa.
Quando il gioco si fa duro Di lì in poi le cose hanno preso un'improvvisa accelerata. Da una dilatazione di cinque centimetri - tanto avevo guadagnato in tre ore - col sacco rotto nel giro di mezz'ora sono arrivata a dieci. Le cose e anche la bambina, a quanto pareva, si stavano mettendo per il verso giusto. Ho capito che la situazione era un po' spessa perché al mio capezzale (è una vita che aspetto di poter usare l'espressione «al mio capezzale») si sono materializzate, al gran finale, due ginecologhe, oltre all'ostetrica e all'amica anestesista («Volete che esca? Non vorrei rovinarvi un momento di intimità». «Resta, non mi interessa neanche se mi sfila davanti il miglior teatrino di Arcore»). Mike Delfino, da dietro la mia spalla: «Rimango un po' defilato, non voglio perdere del tutto la poesia dell'evento-nascita». Ginecologa 1: «Tre spinte di quelle giuste e conosceremo finalmente questa bambina». Ostetrica Marina: «Spinga quando si sente di farlo». Io: «Non sento niente (spiritosona), dovete dirmi voi quando». Ginecologa 2: «Prenda fiato... ora... spinga!». Ginecologa 1: «Due spinte». Ginecologa 2: «Prenda fiato. Ma che è, Iron woman? È bordeaux, respiri!». Io: «Nnngggh». Ginecologa 1: «Una spinta».
Un'altra strada A quel punto è uscita la testa della Piccolissima e io non ho capito più niente. Mi hanno millimetricamente guidato attraverso la spinta successiva, spinga, si fermi, respiri, mentre la controversa ostetrica - tuttavia tecnicamente impeccabile - le aspirava i liquidi dal naso e dalla bocca. E poi ancora respiri, si fermi, spin... no, si fermi, spinga! Ora! E poi la voce di qualcuno, rivolto a Mike Delfino, Papà, prema quel pulsante, e io ho pensato premilo, sì, quel campanello, devono sentirla tutti, nostra figlia che nasce, e poi qualcosa ha suonato dentro la mia testa e anche fuori, e ho sentito lei che sgusciava nel mondo, poi lei che piangeva, Mike Delfino che piangeva, l'anestesista semprebenedetta che piangeva, l'ostetrica Marina che bofonchiava tutto sommato di soddisfazione. Allora ho riso, ho riso moltissimo per questa nuova microscopica meraviglia destinata ad aprire, come mi ha scritto un amico, «un'altra strada tra le strade del mondo». E scusate se ci ho messo otto giorni a raccontarvela, ma a volte lo spazio bianco è meglio di qualunque riga scritta riusciamo umanamente a immaginare.
Eccoci, finalmente. «Il terzo travaglio può essere un po' noiosino», aveva profetizzato l'ostetrica del mio consultorio. In effetti. Tutto è cominciato lo scorso lunedì, con contrazioni sporadiche e un diffuso mood da la-Mia-Ora-è-Giunta. Giusto il tempo di prendere al volo la benedizione natalizia dal prete del quartiere, cenare, mettere a letto i Pupi alle 19.38 dichiarando che erano le nove di sera, denunciare a Mike Delfino ulteriori, insondabili malesseri nonché contrazioni ingravescenti, trascinarmi sotto la doccia chiedendogli poi di asciugarmi i capelli col phon perché io, da sola, non me la sentivo; andare a mia volta a dormire con un paio di tachipirine in corpo; svegliarsi all'1 e 46 spaccata (visto sul display dell'iPhone) con un sussulto, avvertire in qualche modo la certezza che sì, era proprio La Chiamata; scendere al piano di sotto non volendo svegliare nessuno, e cominciare a passeggiare avanti e indietro sotto gli occhi vigili e tonti di Laccio, «il cane che non è un pagliaccio».
Omen «Travagliare di notte ha un che di paurosamente atavico», ha commentato qualche post fa la mia lettrice Micol. Ci ho pensato parecchio, in quelle ore sospese, sbirciando le finestre dei vicini per vedere chi fosse ancora sveglio - molti, e ancora mi chiedo perché. E soprattutto cercando di capire come mai, oltre al classico dolore addominale da contrazione, io sentissi una specie di atroce puntaspilli irradiarsi lungo tutta la schiena. Va detto che la mia amica Michela mi aveva consigliato di usare un pettine come analgesico secondo la tecnica della digitopressione: si tratta di stringere, a ogni contrazione, un piccolo pettine in modo che i denti tocchino la linea immaginaria dove le articolazioni delle dita incontrano il palmo della mano (molto più facile a farsi che a dirsi). È una tecnica economica e priva di controindicazioni: dopo essermi procurata addirittura due pettini, oggi mi piace raccontare a me stessa che è grazie a loro se sono riuscita a resistere fino all'alba.
L'importanza dei pettini «Mamma, perché sembra che ti stia per esplodere la pancia?» (Pupa, ore 7.12). «Mamma, perché fai quella faccia?» (Pupo, ore 7.18). «Mamma, stai andando a far nascere la sorellina?» (all'unisono, 7.21). «No, vado dal dottore a fare un controllo». Lasciati i bambini a scuola siamo andati all'ospedale dove sapevo che sarebbe stata di turno la mia amica anestesista, io stringendo i denti e i pettini, Mike Delfino dubitando, talmente nonscialante era il mio comportamento, che fosse il momento giusto («Cinquanta euro che ci rimandano a casa»).
E invece «Signora, lei è dilatata tre centimetri!», è stato il responso. «Dove lo mettiamo un terzo figlio sui tre centimetri?». (Questo mi è suonato molto tipo: «A che tavolo li mettiamo i quattro con un cane? Se ne vanno entro le ventuno»). Un minuto dopo, florealmente piazzati nella stanza Tulipano, abbiamo chiamato la mia amica anestesista, neanche mezz'ora dopo provavo finalmente l'ebbrezza della prima epidurale della mia vita, peraltro contro il parere avverso dell'ostetrica Marina: «Signora, ha fatto due figli senza, mi crolla proprio ora?». (Domanda per voi: ma cosa vorrà dire in un contesto simile «Mi crolla?»). Sempre Marina, a una giovane ginecologa che passava di lì: «Poi quando toccherà a te non mi chiedere analgesie, perfusioni, rotture di sacchi amniotici. Ti faccio partorire io naturalmente». Ginecologa: «Corro a prenotarmi un cesareo».
La regina delle contraddizioni Ore 10.30, Marina, svelando finalmente l'arcano di un travaglio (per i miei canoni, essendo la Pupa e il Pupo nati rispettivamente in tre e due ore) così lungo: «Ahi, ahi». (Io): «Cosa, ahi ahi?». «Questa bambina è occipito-posteriore. Girata al contrario: con la nuca, anziché la fronte, poggiata contro il suo osso sacro. Sentiva mal di schiena, per caso?». «Sì. Ma cosa vuol dire, in concreto, questa posizione?». «Ah, niente di che. Diciamo che così non nasce». «Come, non nasce? Me la tengo per sempre nella pancia?». «O facciamo un cesareo, o la facciamo girare, o non nasce». «E come la giriamo?». «Lei potrebbe, in travaglio, assumere una serie di posizioni che le indicherò, schiacciando per esempio la pancia col suo corpo, mettendosi carponi, alzando la gamba destra nella posizione del cane che orina, e mantenere queste posizioni per un dato tempo, per convincere la bambina a ruotare lentamente su se stessa, avvitandosi esattamente fino al punto desiderato, cioè l'opposto di come è ora». «Sembra, ehm, facilissimo». Col senno di poi mi chiedo, ma secondo l'ostetrica Marina come avrei fatto senza l'epidurale?
Roba buona Con l'epidurale peraltro si ottengono una serie di effetti fichissimi. Al primo shot ho detto, «Wow! È come portare le chiappe dal dentista». Si può financo ironizzare sulla propria e altrui sorte. Alle urla della signora della stanza vicina: «Questa si sta facendo un giro sul gigacoaster di Gardaland». Mike Delfino però ha commentato: «Avverto minor partecipazione emotiva rispetto all'altra volta. Poiché non stai soffrendo, il mio ruolo mi pare più marginale che mai». Ignorato il commento e finito l'effetto dell'epidurale, verso mezzogiorno, la mia amica mi ha dato un'aggiuntina. A quel punto non sentivo dolore, ma ho perso il contatto con le gambe. L'ostetrica Marina ha infierito: «Il travaglio è così lento per colpa dell'epidurale». Bugia, non sei figlia di Maria! ho pensato subito, e infatti era così lento, ho scoperto poi, per la posizione occipito-eccetera. «Che facciamo, le mettiamo due gocce di ossitocina, così andiamo tutti a casa?», ha aggiunto un minuto dopo Marina, con il consueto garbo. «No, rompiamo il sacco», ha ordinato la ginecologa.
Quando il gioco si fa duro Di lì in poi le cose hanno preso un'improvvisa accelerata. Da una dilatazione di cinque centimetri - tanto avevo guadagnato in tre ore - col sacco rotto nel giro di mezz'ora sono arrivata a dieci. Le cose e anche la bambina, a quanto pareva, si stavano mettendo per il verso giusto. Ho capito che la situazione era un po' spessa perché al mio capezzale (è una vita che aspetto di poter usare l'espressione «al mio capezzale») si sono materializzate, al gran finale, due ginecologhe, oltre all'ostetrica e all'amica anestesista («Volete che esca? Non vorrei rovinarvi un momento di intimità». «Resta, non mi interessa neanche se mi sfila davanti il miglior teatrino di Arcore»). Mike Delfino, da dietro la mia spalla: «Rimango un po' defilato, non voglio perdere del tutto la poesia dell'evento-nascita». Ginecologa 1: «Tre spinte di quelle giuste e conosceremo finalmente questa bambina». Ostetrica Marina: «Spinga quando si sente di farlo». Io: «Non sento niente (spiritosona), dovete dirmi voi quando». Ginecologa 2: «Prenda fiato... ora... spinga!». Ginecologa 1: «Due spinte». Ginecologa 2: «Prenda fiato. Ma che è, Iron woman? È bordeaux, respiri!». Io: «Nnngggh». Ginecologa 1: «Una spinta».
Un'altra strada A quel punto è uscita la testa della Piccolissima e io non ho capito più niente. Mi hanno millimetricamente guidato attraverso la spinta successiva, spinga, si fermi, respiri, mentre la controversa ostetrica - tuttavia tecnicamente impeccabile - le aspirava i liquidi dal naso e dalla bocca. E poi ancora respiri, si fermi, spin... no, si fermi, spinga! Ora! E poi la voce di qualcuno, rivolto a Mike Delfino, Papà, prema quel pulsante, e io ho pensato premilo, sì, quel campanello, devono sentirla tutti, nostra figlia che nasce, e poi qualcosa ha suonato dentro la mia testa e anche fuori, e ho sentito lei che sgusciava nel mondo, poi lei che piangeva, Mike Delfino che piangeva, l'anestesista semprebenedetta che piangeva, l'ostetrica Marina che bofonchiava tutto sommato di soddisfazione. Allora ho riso, ho riso moltissimo per questa nuova microscopica meraviglia destinata ad aprire, come mi ha scritto un amico, «un'altra strada tra le strade del mondo». E scusate se ci ho messo otto giorni a raccontarvela, ma a volte lo spazio bianco è meglio di qualunque riga scritta riusciamo umanamente a immaginare.
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mercoledì 4 dicembre 2013
Settimana 39 (ma a quanto pare è la 40)
Salvarti sull'orlo del precipizio
È, questa, la settimana di gravidanza in cui la futura trimamma, profittando una sera dell'assenza inattesa e non sgradita dell'intera famiglia (Mike + Pupi) riunitasi altrove a festeggiare il compleanno degli Zii Gemelli, ascolta a volume smodato musica italiana da cui trarre citazioni a manbassa e si dedica allegramente a inghiottire vaccat a consumare in solitudine un frugale pasto mentre smanetta davanti al computer con l'intento di tenere aggiornati i lettori sullo stato di avanzamento (nullo) della Pupa piccolissima.
Ma tu non pensare male adesso Del resto, non posso davvero esagerare. Due sere fa ho cominciato a vomitare, credevo di essere entrata in travaglio (dicono che la nausea sia uno dei sintomi possibili). Invece no: nel pomeriggio ero uscita senza la sciarpa, e poiché ho ormai lo stomaco all'altezza della gola, evidentemente ho preso freddo e mi è venuta una specie di congestione seguita da coliche notturne e pensieri tipo: «Ma se questo è il travaglio, adesso chi si becca la peppatencia?». Dovete sapere infatti che ho una serie di amici, vicini di casa e ben due fratelli (gli Zii Gemelli) che si sono dati come reperibili nel caso mi partissero le contrazioni col favore delle tenebre. Il che si esprimerà in una squisita catena di rotture di scatole: devo svegliare Tizio che verrà al volo a tamponare la situazione e poi chiamerà Caio che poi chiamerà mia sorella - l'unica in grado di vestire i bambini e recapitarli a scuola senza fare casini, vive però troppo lontana perché possiamo pensare aspettarla in casa senza passare la staffetta a qualche eroe intermedio.
Dicono che gli angeli amano in silenzio (pensieri ricorrenti) «Non puoi tenertela lì, vero?» mi ha chiesto il Pupo due sere fa, indicandomi la pancia. «No, eh?», si è risposto da solo tre secondi dopo. Che tenerezza. Poi si è messo tutto concentrato a disegnare. «Che bello, Pupo, chi è questa signora?». «Maria, la madre di Gesù». «E cosa sono quei due pompon di Didò blu che le hai appiccicato sul torace?». «Il reggiseno. Ce le aveva anche lei, le tette. Doveva pure allattarlo Gesù, lo sai?».
Ahi, come sempre sei (la descrizione di un attimo) Mi scrive un sms ieri sera alle 21.38 la mia amica anestesista: «Guarda che stai n'a botte de fero, vista l'anestesista perfetta. Ti ho pure fatto la visita in piedi sui gradini dell'ospedale. Ma per partorire mi raccomando aspetta dal 6 (sera) in poi». Due minuti dopo: «E rispondi, o temo che tu stia spingendo!». Io: «Ahah smettila che mi fai venire le contrazioni. Dunque fammi capire, tu ci 6 dal 6? (perdona il gioco di parole). E domani e il 5, invece, né di giorno né di notte?».
«L'ideale sarebbe dal 6 ma di sera. Vedi di comportarti bene, eh. Mi raccomando. Ci tengo a vedere la pinella con lo scoop».
«Ma 6,7,8 solo di notte o anche di giorno? Dammi qualche indicazione certa, sei troppo vaga. E stanotte non ci sei?»
«Stanotte no! Hoddetto!»
«Ah! Ecco! E domani e il 5?»
«Ho la cena coi compagni dell'università, il parrucchiere, la riunione dell'associazione filatelici, un'invasione di cavallette. Voto per venerdì notte. O lunedì mattina. Domani e il 5 meglio di no. Hai l'edema cerebrale? E tre. Stai tappata».
Una musica può fare parlare soltanto d'amore In questo periodo mi chiamano e mi scrivono in molti. «Hai novità?» (approccio vago). «Non sarà mica nata, vero?» (accusatorio). «Se fosse nata me lo diresti?» (complice). «Stai spingendo?» (puntuale). «Mancano 4 giorni, giusto?» (preciso). «I giorni passano e non so niente di te» (poetico). «Volevo solo sentire la tua voce» (affettuoso). «Facciamo che se vai in ospedale mi fai uno squillo? E poi un altro quando ti ricoverano? Io non rispondo, eh. Mi basta che mi fai lo squillino» (apprensivo). «Chiamami a qualunque ora del giorno e della notte» (esagerato). «Ti muovi a scrivere un post su quel c... di blog, così la gente sa cosa sta succedendo? Cosa lo tieni a fare il blog, se poi ci devi scrivere una volta all'anno?» (rude ma spiritoso).
E in effetti il mio stato d'animo oscilla più che mai, tra il desiderio di quiete e la commozione per tanto affetto. Se avete avuto figli mi capite. Di cosa avevate voglia nelle ore che hanno preceduto la loro nascita? E anche se figli non ne avete, mi capite lo stesso. Vi siete fatti sentire spesso o avete atteso zitti-zitti (seppur emotivamente partecipi) che arrivasse la lieta novella?
Ma tu non pensare male adesso Del resto, non posso davvero esagerare. Due sere fa ho cominciato a vomitare, credevo di essere entrata in travaglio (dicono che la nausea sia uno dei sintomi possibili). Invece no: nel pomeriggio ero uscita senza la sciarpa, e poiché ho ormai lo stomaco all'altezza della gola, evidentemente ho preso freddo e mi è venuta una specie di congestione seguita da coliche notturne e pensieri tipo: «Ma se questo è il travaglio, adesso chi si becca la peppatencia?». Dovete sapere infatti che ho una serie di amici, vicini di casa e ben due fratelli (gli Zii Gemelli) che si sono dati come reperibili nel caso mi partissero le contrazioni col favore delle tenebre. Il che si esprimerà in una squisita catena di rotture di scatole: devo svegliare Tizio che verrà al volo a tamponare la situazione e poi chiamerà Caio che poi chiamerà mia sorella - l'unica in grado di vestire i bambini e recapitarli a scuola senza fare casini, vive però troppo lontana perché possiamo pensare aspettarla in casa senza passare la staffetta a qualche eroe intermedio.
Dicono che gli angeli amano in silenzio (pensieri ricorrenti) «Non puoi tenertela lì, vero?» mi ha chiesto il Pupo due sere fa, indicandomi la pancia. «No, eh?», si è risposto da solo tre secondi dopo. Che tenerezza. Poi si è messo tutto concentrato a disegnare. «Che bello, Pupo, chi è questa signora?». «Maria, la madre di Gesù». «E cosa sono quei due pompon di Didò blu che le hai appiccicato sul torace?». «Il reggiseno. Ce le aveva anche lei, le tette. Doveva pure allattarlo Gesù, lo sai?».
Ahi, come sempre sei (la descrizione di un attimo) Mi scrive un sms ieri sera alle 21.38 la mia amica anestesista: «Guarda che stai n'a botte de fero, vista l'anestesista perfetta. Ti ho pure fatto la visita in piedi sui gradini dell'ospedale. Ma per partorire mi raccomando aspetta dal 6 (sera) in poi». Due minuti dopo: «E rispondi, o temo che tu stia spingendo!». Io: «Ahah smettila che mi fai venire le contrazioni. Dunque fammi capire, tu ci 6 dal 6? (perdona il gioco di parole). E domani e il 5, invece, né di giorno né di notte?».
«L'ideale sarebbe dal 6 ma di sera. Vedi di comportarti bene, eh. Mi raccomando. Ci tengo a vedere la pinella con lo scoop».
«Ma 6,7,8 solo di notte o anche di giorno? Dammi qualche indicazione certa, sei troppo vaga. E stanotte non ci sei?»
«Stanotte no! Hoddetto!»
«Ah! Ecco! E domani e il 5?»
«Ho la cena coi compagni dell'università, il parrucchiere, la riunione dell'associazione filatelici, un'invasione di cavallette. Voto per venerdì notte. O lunedì mattina. Domani e il 5 meglio di no. Hai l'edema cerebrale? E tre. Stai tappata».
Una musica può fare parlare soltanto d'amore In questo periodo mi chiamano e mi scrivono in molti. «Hai novità?» (approccio vago). «Non sarà mica nata, vero?» (accusatorio). «Se fosse nata me lo diresti?» (complice). «Stai spingendo?» (puntuale). «Mancano 4 giorni, giusto?» (preciso). «I giorni passano e non so niente di te» (poetico). «Volevo solo sentire la tua voce» (affettuoso). «Facciamo che se vai in ospedale mi fai uno squillo? E poi un altro quando ti ricoverano? Io non rispondo, eh. Mi basta che mi fai lo squillino» (apprensivo). «Chiamami a qualunque ora del giorno e della notte» (esagerato). «Ti muovi a scrivere un post su quel c... di blog, così la gente sa cosa sta succedendo? Cosa lo tieni a fare il blog, se poi ci devi scrivere una volta all'anno?» (rude ma spiritoso).
E in effetti il mio stato d'animo oscilla più che mai, tra il desiderio di quiete e la commozione per tanto affetto. Se avete avuto figli mi capite. Di cosa avevate voglia nelle ore che hanno preceduto la loro nascita? E anche se figli non ne avete, mi capite lo stesso. Vi siete fatti sentire spesso o avete atteso zitti-zitti (seppur emotivamente partecipi) che arrivasse la lieta novella?
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giovedì 28 novembre 2013
38esima settimana (o forse dovrei dire 39)
Il parto ideale
Ieri mattina il Pupo si è svegliato con «40 di tosse. Non mandarmi a scuola», ha subito pregato. Poiché in effetti un paio di coff, coff appena alzato dal letto li aveva emessi e fuori c'erano due gradi sottozero, ho preferito tenerlo a casa - hai visto mai che mi nasca la Piccolissima mentre quest'altro è malato, è stato il mio rapido ragionamento - dove mi ha sfibrato per tutto il giorno.
Ti amo, nonostante la malattia Pur in precarie condizioni di salute l'eroico Pupo riusciva a preparare numerose pozioni coi gessetti colorati, istoriando finemente di macchie alla Pollock il bidet e le pareti del bagno, usato come laboratorio, e a soffiare intere pentole di bolle di sapone (nella foto, un esempio) rovesciandone una a terra subito prima del pranzo. Alle mie velate quanto garbate proteste rispondeva con il suo accattivante sguardo verde chiaro, sbattendo ritmicamente le lunghe ciglia: «Perché mi tratti così? Io ti amo, nonostante la malattia».
La scuola degli abbracci Il countdown della Pupa procede inesorabile e snervante, un tic-tac ideale che non cessa mai. Grazie a lei, per esempio, so che alla fatidica DPP mancano in questo momento - in teoria - 11 giorni. Assieme al countdown continua anche la sua bizzarra avversione ai congiuntivi: «Voglio che la sorellina nasce oggi», mi ha detto stamani sulla soglia della scuola. Poi ha aggiunto: «Cento per cento positivo». Anche lei, come tutti, un po' di agitazione addosso in questo momento ce la deve pur avere. «Mi fa male il braccio della vaccinazione, voglio rimanere a casa anch'io», ripete da due giorni. «Ma male quanto, Pupa? Male al punto che non riesci a piegarlo?». «No, solo quando mi abbracciano». «Allora non è gravissimo, mi pare». «Ma a scuola mi abbracciano sempre, dove vado io è una scuola di abbracci».
Intanto, l'ineffabile Mike Si diverte a immaginare il parto ideale. Che dovrebbe avvenire nelle seguenti condizioni e modalità:
- È una bella mattinata di sole, tipo oggi, ma con temperatura vagamente più elevata
- Abbiamo dormito molto bene, il Pupo non si è fatto vivo per tutta la notte
- Non è il giorno in cui i camion della spazzatura intasano il quartiere
- Laccio, di recente ribattezzato «il cane che non è malaccio», è a casa con la nostra tata/colf, ha mangiato e ha già fatto una lunga passeggiata
- I pesci hanno mangiato, anche lo psicotico dei tre, quello che ultimamente passa il tempo in un angolo
- Abbiamo appena lasciato entrambi i bambini a scuola, per una volta più che puntuali e senza affanni
- Per sbaglio, scambiandola per una sua borsa di lavoro, Mike ha infilato in macchina la valigia dell'ospedale
- Un appuntamento urgente che aveva gli salta improvvisamente, al che mi propone: «E se andassimo con calma a fare colazione al bar?»
- Siamo in auto, quando la mia amica anestesista mi telefona e mi dice: «Ciao, tutto bene? È un po' che non ci vediamo. Sono in ospedale ma curiosamente ho un po' di tempo libero, che ne dici di raggiungermi per un caffè, magari assieme a quel simpaticone del tuo fidanzato?».
- In auto comincio a provare qualche lieve fitta tipo mal di pancia. Arrivata all'ospedale la mia amica mi guarda in faccia e mi dice: «Sarei più tranquilla se ti facessi visitare. Ora che abbiamo bevuto quest'ottimo caffè seguimi, te ne prego, il mio collega gentile e bravissimo entra in turno proprio ora».
- Cinque minuti dopo, in sala visite, collega gentile e bravissimo: «Signora, ma voleva farla per la strada, questa bambina? Lei è dilatata di otto centimetri, possibile che non si sia accorta di nulla? Subito in sala parto».
- Due minuti dopo, in sala parto, amica anestesista: «Ci tengo a farti provare l'epidurale anche se solo per le quattro spinte che saranno necessarie a far nascere la tua bambina. Respira, rilassati... zac!»
- Dieci minuti dopo, ostetrica vincitrice del recente contest Levatrice dell'Anno, poggiandomi la Piccolissima sulla pancia: «Signora, la sua bambina è perfetta!»
- Un minuto dopo, sulla soglia della sala parto, mia sorella tornata in questo istante dalla Bosnia: «Paola, lo vuoi finalmente, dopo nove mesi di privazioni, un buonissimo, freschissimo, croccante panino riempito con il salame del contadino?»
Ciò detto In realtà mi è giunta notizia che i travagli dei terzi figli possono anche essere più lenti e complicati di quelli dei secondi, tra le altre cose perché i tessuti dell'utero sono più morbidi e le contrazioni meno efficaci. Urgono parole di conforto (vostre).
Ieri mattina il Pupo si è svegliato con «40 di tosse. Non mandarmi a scuola», ha subito pregato. Poiché in effetti un paio di coff, coff appena alzato dal letto li aveva emessi e fuori c'erano due gradi sottozero, ho preferito tenerlo a casa - hai visto mai che mi nasca la Piccolissima mentre quest'altro è malato, è stato il mio rapido ragionamento - dove mi ha sfibrato per tutto il giorno.
Ti amo, nonostante la malattia Pur in precarie condizioni di salute l'eroico Pupo riusciva a preparare numerose pozioni coi gessetti colorati, istoriando finemente di macchie alla Pollock il bidet e le pareti del bagno, usato come laboratorio, e a soffiare intere pentole di bolle di sapone (nella foto, un esempio) rovesciandone una a terra subito prima del pranzo. Alle mie velate quanto garbate proteste rispondeva con il suo accattivante sguardo verde chiaro, sbattendo ritmicamente le lunghe ciglia: «Perché mi tratti così? Io ti amo, nonostante la malattia».
La scuola degli abbracci Il countdown della Pupa procede inesorabile e snervante, un tic-tac ideale che non cessa mai. Grazie a lei, per esempio, so che alla fatidica DPP mancano in questo momento - in teoria - 11 giorni. Assieme al countdown continua anche la sua bizzarra avversione ai congiuntivi: «Voglio che la sorellina nasce oggi», mi ha detto stamani sulla soglia della scuola. Poi ha aggiunto: «Cento per cento positivo». Anche lei, come tutti, un po' di agitazione addosso in questo momento ce la deve pur avere. «Mi fa male il braccio della vaccinazione, voglio rimanere a casa anch'io», ripete da due giorni. «Ma male quanto, Pupa? Male al punto che non riesci a piegarlo?». «No, solo quando mi abbracciano». «Allora non è gravissimo, mi pare». «Ma a scuola mi abbracciano sempre, dove vado io è una scuola di abbracci».
Intanto, l'ineffabile Mike Si diverte a immaginare il parto ideale. Che dovrebbe avvenire nelle seguenti condizioni e modalità:
- È una bella mattinata di sole, tipo oggi, ma con temperatura vagamente più elevata
- Abbiamo dormito molto bene, il Pupo non si è fatto vivo per tutta la notte
- Non è il giorno in cui i camion della spazzatura intasano il quartiere
- Laccio, di recente ribattezzato «il cane che non è malaccio», è a casa con la nostra tata/colf, ha mangiato e ha già fatto una lunga passeggiata
- I pesci hanno mangiato, anche lo psicotico dei tre, quello che ultimamente passa il tempo in un angolo
- Abbiamo appena lasciato entrambi i bambini a scuola, per una volta più che puntuali e senza affanni
- Per sbaglio, scambiandola per una sua borsa di lavoro, Mike ha infilato in macchina la valigia dell'ospedale
- Un appuntamento urgente che aveva gli salta improvvisamente, al che mi propone: «E se andassimo con calma a fare colazione al bar?»
- Siamo in auto, quando la mia amica anestesista mi telefona e mi dice: «Ciao, tutto bene? È un po' che non ci vediamo. Sono in ospedale ma curiosamente ho un po' di tempo libero, che ne dici di raggiungermi per un caffè, magari assieme a quel simpaticone del tuo fidanzato?».
- In auto comincio a provare qualche lieve fitta tipo mal di pancia. Arrivata all'ospedale la mia amica mi guarda in faccia e mi dice: «Sarei più tranquilla se ti facessi visitare. Ora che abbiamo bevuto quest'ottimo caffè seguimi, te ne prego, il mio collega gentile e bravissimo entra in turno proprio ora».
- Cinque minuti dopo, in sala visite, collega gentile e bravissimo: «Signora, ma voleva farla per la strada, questa bambina? Lei è dilatata di otto centimetri, possibile che non si sia accorta di nulla? Subito in sala parto».
- Due minuti dopo, in sala parto, amica anestesista: «Ci tengo a farti provare l'epidurale anche se solo per le quattro spinte che saranno necessarie a far nascere la tua bambina. Respira, rilassati... zac!»
- Dieci minuti dopo, ostetrica vincitrice del recente contest Levatrice dell'Anno, poggiandomi la Piccolissima sulla pancia: «Signora, la sua bambina è perfetta!»
- Un minuto dopo, sulla soglia della sala parto, mia sorella tornata in questo istante dalla Bosnia: «Paola, lo vuoi finalmente, dopo nove mesi di privazioni, un buonissimo, freschissimo, croccante panino riempito con il salame del contadino?»
Ciò detto In realtà mi è giunta notizia che i travagli dei terzi figli possono anche essere più lenti e complicati di quelli dei secondi, tra le altre cose perché i tessuti dell'utero sono più morbidi e le contrazioni meno efficaci. Urgono parole di conforto (vostre).
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martedì 19 novembre 2013
Settimana 37
Dovreste almeno pettinarlo
Ieri guardavo La prima cosa bella in dvd e ho pianto in almeno otto punti. Imputo queste iper-reazioni alla gravidanza ormai avanzatissima e al numero eccessivo di caramelle Selz soda arancio/limone (l'equivalente psichedelico delle storiche Rossana) consumate. In questi giorni continuo a fare cose di cui poi mi pento: tipo mangiare una tavoletta di cioccolato intera, oppure otto marrons glacés uno dopo l'altro, o persino bere Sprite che tra l'altro non mi è mai piaciuta; oppure pirlare la sera, leggendo fino a tardi prima di spegnere la luce, per poi passarele ore i minuti i secondi seguenti a girarmi e rigirarmi nel letto, prima di addormentarmi, rimproverando me stessa per la mia imprudenza (la domanda di fondo essendo: «E se mi parte il travaglio tra poco? Sarò stanchissima, come faccio a partorire in queste condizioni?»).
Tutti dicono cose Quando sei incinta tutti si sentono autorizzati a dirti cose. Non necessariamente sulla gravidanza, ma proprio su qualunque argomento. Ok, in genere si parte dalla pancia: «Quando nasce?» (classico rompighiaccio). «È un maschio, vero?» (saggezza popolare mal riposta). «È il primo, vero?» (eggià). «Cosa? Il terzoooh? Ma che coraggio, signora!» (con tono tra l'ammirato e il giudicante, della serie: ma cosa le viene in mente di mettere al mondo tre figli oggi come oggi?).
In piscina Bagnino 1: «Ehi, non mi dire che vai nella vasca grande». Bagnino 2: «Se vai nella vasca grande, almeno vai in prima corsia». Bagnino 1: «No che poi le vanno addosso ed è peggio. In prima corsia ci sono solo i catamarani». Bagnino 2: «L'importante è che non le prendano a calci la pancia». Bagnino 1: «Non ti tuffare di testa, però». Bagnino 1: «Ce la fai poi a uscire da sola?». In coda davanti alla cassa, inserviente: «Fate passare la gravida».
Passanti «Cos'ha il suo cane? Sembra una lampada». «Abbiamo dovuto mettergli il collare di Elisabetta, al parco un altro cane gli ha morso l'orecchio e gliene ha staccato un pezzo, lui se lo gratta di continuo e la ferita si riapre, il collare serve a impedirgli di farsi del male». «Beh, sembra proprio una lampada. Se ha pazienza le dico anche il modello... credo si chiami Costanzina, di Luceplan».
Passanti/2 «Con quel pancione, le ci voleva solo il cane». «Pensi che ho anche due bambini a casa». «Non può farlo sopprimere? Il cane, intendo».
Passanti/3 (Signora anziana): «Dove lo fa uscire, il bambino?». «Come, scusi?». (Lei, scandendo bene le parole come se fossi sorda): «Intendo in. Che. Ospedale. Fa. Uscire. Il. Bambino!»
Passanti/4 «Cos'ha il suo cane?». «Abbiamo dovuto mettergli il collare di Elisabetta, al parco un altro cane gli ha morso l'orecchio...». «No, intendo dire: cos'ha il suo cane? Sembra pazzo. Gli avete fatto la permanente? L'avete rasato? Gli avete fatto i colpi di sole? Non capisco. Non ho mai visto un pelo così assurdo, è... mi scusi ma fa un po' schifo, la mattina dovreste almeno pettinarlo».
Countdown La Pupa, che non lascia nulla al caso, conta persino le mezz'ore che (secondo i suoi calcoli) ci separano dall'arrivo della Piccolissima. Il Pupo invece, caotico e disorientato come sempre, è già contento di aver attraversato indenne la sua festa di compleanno. La sua maggior preoccupazione era evidentemente che la sorellina gli cascasse tra capo e collo mentre soffiava sulle candeline. Mi pare che in questi giorni si stia tranquillizzando, dorme di più e ha quasi imparato a infilarsi nel letto della sorella senza svegliare né noi né lei (ho scritto «quasi» perché ogni tanto per farlo le cammina sul torace, al che nel cuore della notte parte il classico urlo della Pupa: «Demente! Lagna!»). A proposito, qualcuno mi ha detto che siccome sono alla settimana 37+1 dovrei già scrivere «trentottesima», vi risulta che sia vero? Possibile che al terzo figlio io abbia ancora questi dubbi?
Ieri guardavo La prima cosa bella in dvd e ho pianto in almeno otto punti. Imputo queste iper-reazioni alla gravidanza ormai avanzatissima e al numero eccessivo di caramelle Selz soda arancio/limone (l'equivalente psichedelico delle storiche Rossana) consumate. In questi giorni continuo a fare cose di cui poi mi pento: tipo mangiare una tavoletta di cioccolato intera, oppure otto marrons glacés uno dopo l'altro, o persino bere Sprite che tra l'altro non mi è mai piaciuta; oppure pirlare la sera, leggendo fino a tardi prima di spegnere la luce, per poi passare
Tutti dicono cose Quando sei incinta tutti si sentono autorizzati a dirti cose. Non necessariamente sulla gravidanza, ma proprio su qualunque argomento. Ok, in genere si parte dalla pancia: «Quando nasce?» (classico rompighiaccio). «È un maschio, vero?» (saggezza popolare mal riposta). «È il primo, vero?» (eggià). «Cosa? Il terzoooh? Ma che coraggio, signora!» (con tono tra l'ammirato e il giudicante, della serie: ma cosa le viene in mente di mettere al mondo tre figli oggi come oggi?).
In piscina Bagnino 1: «Ehi, non mi dire che vai nella vasca grande». Bagnino 2: «Se vai nella vasca grande, almeno vai in prima corsia». Bagnino 1: «No che poi le vanno addosso ed è peggio. In prima corsia ci sono solo i catamarani». Bagnino 2: «L'importante è che non le prendano a calci la pancia». Bagnino 1: «Non ti tuffare di testa, però». Bagnino 1: «Ce la fai poi a uscire da sola?». In coda davanti alla cassa, inserviente: «Fate passare la gravida».
Passanti «Cos'ha il suo cane? Sembra una lampada». «Abbiamo dovuto mettergli il collare di Elisabetta, al parco un altro cane gli ha morso l'orecchio e gliene ha staccato un pezzo, lui se lo gratta di continuo e la ferita si riapre, il collare serve a impedirgli di farsi del male». «Beh, sembra proprio una lampada. Se ha pazienza le dico anche il modello... credo si chiami Costanzina, di Luceplan».
Passanti/2 «Con quel pancione, le ci voleva solo il cane». «Pensi che ho anche due bambini a casa». «Non può farlo sopprimere? Il cane, intendo».
Passanti/3 (Signora anziana): «Dove lo fa uscire, il bambino?». «Come, scusi?». (Lei, scandendo bene le parole come se fossi sorda): «Intendo in. Che. Ospedale. Fa. Uscire. Il. Bambino!»
Passanti/4 «Cos'ha il suo cane?». «Abbiamo dovuto mettergli il collare di Elisabetta, al parco un altro cane gli ha morso l'orecchio...». «No, intendo dire: cos'ha il suo cane? Sembra pazzo. Gli avete fatto la permanente? L'avete rasato? Gli avete fatto i colpi di sole? Non capisco. Non ho mai visto un pelo così assurdo, è... mi scusi ma fa un po' schifo, la mattina dovreste almeno pettinarlo».
Countdown La Pupa, che non lascia nulla al caso, conta persino le mezz'ore che (secondo i suoi calcoli) ci separano dall'arrivo della Piccolissima. Il Pupo invece, caotico e disorientato come sempre, è già contento di aver attraversato indenne la sua festa di compleanno. La sua maggior preoccupazione era evidentemente che la sorellina gli cascasse tra capo e collo mentre soffiava sulle candeline. Mi pare che in questi giorni si stia tranquillizzando, dorme di più e ha quasi imparato a infilarsi nel letto della sorella senza svegliare né noi né lei (ho scritto «quasi» perché ogni tanto per farlo le cammina sul torace, al che nel cuore della notte parte il classico urlo della Pupa: «Demente! Lagna!»). A proposito, qualcuno mi ha detto che siccome sono alla settimana 37+1 dovrei già scrivere «trentottesima», vi risulta che sia vero? Possibile che al terzo figlio io abbia ancora questi dubbi?
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mercoledì 21 luglio 2010
Una mi fa: non voglio soffrire
Continua la saga degli homeless di Forte dei Marmi, e intanto
Da quando Elisabetta Gregoraci è diventata mamma avverto, come tutte voi, un senso di identificazione profonda con le sue vicende e gli orribili disagi che ha vissuto a partire dal sequestro dello yacht Force Blue, lo scorso 21 maggio, per una vicenda di contrabbando ed evasione fiscale. Ricorderete le urla disperate di Elisabetta: "Il piccolo Nathan Falco non è più sereno, sente la mancanza della sua cameretta bianca, dei suoi spazi, che lo hanno protetto fin dai primi giorni".
Alcuni avevano pensato di organizzare una colletta per il povero bambino, altri hanno lanciato su Facebook la campagna "dona anche tu 1 euro per ricomprare lo yacht a Briatore", anche se proprio nelle ultime ore si è scoperto che Flavio, consorte e pupo - anche noti come "gli homeless di Forte dei Marmi" - hanno trovato riparo sul Force Blue One, una barchetta di poche decine di metri che può parzialmente lenire il loro dolore.
Elisabetta mi è venuta in mente anche perché nei giorni scorsi ho visto sulle solite riviste di gossip le sue foto: niente più pancia, forma perfetta, con la provocatoria didascalia "Non faccio mai ginnastica, solo un po' di yoga e di yogurt", e ho pensato che del resto ci sarà pure un motivo se lei ha trovato un bravo marito come Briatore e noi invece no. E poi, mi è venuta in mente perché ha scelto di partorire col cesareo, proprio come quella ragazza che, incinta al sesto mese, l'altro giorno mi ha detto: "Lo faccio anch'io, perché non voglio soffrire".
Che in effetti il cesareo lì per lì non lo senti, solo la vaga impressione che qualcuno ti stia frugando nella pancia ma - mi dice chi ci è passata - nei giorni successivi qualche problemuccio te lo dà. E i bimbi che vengono al mondo col parto naturale respirano meglio, da subito.
E... la ragazza dell'altro giorno mi ha fatto impressione soprattutto perché dopo il "non voglio soffrire" mi ha anche spiegato che dopo il cesareo sei - scusate - più o meno una verginella, se capite cosa intendo, mentre una che da lì fa passare un bambino diventa "certamente meno interessante" (parole sue) per il compagno/marito.
Ecco un elemento che non avevo mai considerato. Vedi che non si finisce mai di imparare? Ma voi, a questo ci avevate mai pensato? E la Gregoraci? Chissà.
Da quando Elisabetta Gregoraci è diventata mamma avverto, come tutte voi, un senso di identificazione profonda con le sue vicende e gli orribili disagi che ha vissuto a partire dal sequestro dello yacht Force Blue, lo scorso 21 maggio, per una vicenda di contrabbando ed evasione fiscale. Ricorderete le urla disperate di Elisabetta: "Il piccolo Nathan Falco non è più sereno, sente la mancanza della sua cameretta bianca, dei suoi spazi, che lo hanno protetto fin dai primi giorni".
Alcuni avevano pensato di organizzare una colletta per il povero bambino, altri hanno lanciato su Facebook la campagna "dona anche tu 1 euro per ricomprare lo yacht a Briatore", anche se proprio nelle ultime ore si è scoperto che Flavio, consorte e pupo - anche noti come "gli homeless di Forte dei Marmi" - hanno trovato riparo sul Force Blue One, una barchetta di poche decine di metri che può parzialmente lenire il loro dolore.
Elisabetta mi è venuta in mente anche perché nei giorni scorsi ho visto sulle solite riviste di gossip le sue foto: niente più pancia, forma perfetta, con la provocatoria didascalia "Non faccio mai ginnastica, solo un po' di yoga e di yogurt", e ho pensato che del resto ci sarà pure un motivo se lei ha trovato un bravo marito come Briatore e noi invece no. E poi, mi è venuta in mente perché ha scelto di partorire col cesareo, proprio come quella ragazza che, incinta al sesto mese, l'altro giorno mi ha detto: "Lo faccio anch'io, perché non voglio soffrire".
Che in effetti il cesareo lì per lì non lo senti, solo la vaga impressione che qualcuno ti stia frugando nella pancia ma - mi dice chi ci è passata - nei giorni successivi qualche problemuccio te lo dà. E i bimbi che vengono al mondo col parto naturale respirano meglio, da subito.
E... la ragazza dell'altro giorno mi ha fatto impressione soprattutto perché dopo il "non voglio soffrire" mi ha anche spiegato che dopo il cesareo sei - scusate - più o meno una verginella, se capite cosa intendo, mentre una che da lì fa passare un bambino diventa "certamente meno interessante" (parole sue) per il compagno/marito.
Ecco un elemento che non avevo mai considerato. Vedi che non si finisce mai di imparare? Ma voi, a questo ci avevate mai pensato? E la Gregoraci? Chissà.
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lunedì 29 marzo 2010
Era un giorno come tanti altri
Poiché curiosamente ho un cospicuo numero di amiche e conoscenti vicine al parto, e mi pare di trascurarle un po', ripesco questo post dell'anno scorso (che ho anche pubblicato sul mio libro) per tornare, assieme a voi, sul tema.
Vedete la manina rosa? Il post partecipa a "Mamma che ridere", quindi scrivete, scrivete, scrivete, perché a) i vostri commenti verranno premiati e b) sono curiosissima di sapere quel che avete combinato in sala parto. Non dimenticate di lasciare un indirizzo email (potete scrivermi anche in privato)!
Prima della nascita della mia primogenita, detta “la Pupa”, avevo anche frequentato dei corsi. Il generico “preparto”, il rilassante “stretching per gestanti”, il noiosissimo “acquaticità in gravidanza”, un breve quanto inutile seminario “simulazioni di allattamento”. Mi ero anche documentata sull’esoterico canto carnatico, secondo il metodo di Frédérick Leboyer, che si rifà alle antiche tradizioni indiane e consiglia alle donne di utilizzare la voce, modulandola, per soffrire meno durante il travaglio.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.
- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.
Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.
(to be continued)
lunedì 1 febbraio 2010
Di cosa parliamo quando parliamo di allattamento
Come accadde che il mio piede produsse latte
Ho ricevuto una mail bellissima. E' la storia di una nascita e l'autrice mi ha dato il permesso di farvela leggere.
«Le donne che hanno appena partorito sono fragili. Lo sono un po’ di più quelle che hanno appena partorito il primo figlio. Un po’ di più ancora, a parer mio, quelle che hanno avuto un parto, anche se non problematico, di tipo cesareo, che ha come conseguenza di farti grattare per il prurito una notte intera, lasciarti allettata e con catetere per un paio di giorni (mentre vorresti disperatamente cullare il tuo bambino), farti gonfiare le gambe, provocarti crampi atroci al ventre mentre con vero senso sadico le ostetriche ti lasciano il bambino in camera, anche se non riesci a nemmeno a reggerti in piedi, figurarsi a prenderlo in braccio. Tutto questo senza che al corso preparto nessuno ti abbia spiegato niente in merito, perché il cesareo lo fanno solo le pappemolli.
E che ti lascia per sempre il rimpianto di non essere stata protagonista davvero di quella meraviglia che è l’inizio di una vita, la vita di tuo figlio.
Sono particolarmente, disperatamente fragili, le donne che oltre alle condizioni di cui sopra, durante tutta la gravidanza, un po’ per il bene del bimbo, un po’ per la fifa dei medici, hanno dovuto rinunciare ai noti farmaci “tiratisu” e “staitranquilla”. Io faccio parte di quest’ultima categoria. Raggiunto il settimo mese di gestazione, veramente disperata, ho finalmente trovato un medico capace di prendersi le sue responsabilità e di prescrivermi il “tiratisu”, che se non ti tiri su va a finire che ti butti giù, te con il tuo bimbo dentro, e tutti questi sacrifici non saranno serviti a nulla. E’ noto a tutti (ma forse non ai ginecologi ignoranti e agli psicologi con manie di onnnipotenza che cercano di propinarti inutili palliativi come l’ipnosi) che i farmaci della categoria “tiratisu” cominciano a fare davvero effetto solo dopo un mese che hai cominciato ad assumerli. Prima di quel mese invece di stare meglio stai molto peggio, ma se sei fortunata stai male come prima.
Sono arrivata al giorno in cui il pupo podalico ruppe le acque assolutamente prostrata. Avevo esaurito tutte le mie energie, e tante me ne sarebbero servite in seguito, perché ancora doveva venire il bello.
Infatti tutti sembrano ignorare il fatto che la gravidanza va affrontata con il giusto spirito positivo e ottimista (spirito che per mancanza dello “staitranquilla” nel mio caso mancava del tutto), che il parto naturale è la cosa più bella del mondo, ma non è colpa tua se il monello decide di mettersi a piedi in giù, i medici non ce la fanno a girarlo perché è paffutello e cocciuto e le ostetriche (forse perché non sono più semplici levatrici) hanno perso la capacità di far nascere i podalici. Che allattare è giusto e doveroso, ma a volte non ce la fai, specie se la tua ansia viene accresciuta da indicazioni contrastanti.
E che dopo tutto ciò ti mandano a casa senza libretto di istruzioni, e tu sei sola con il tuo nanetto e la tua paura. Non sai nemmeno fargli il bagnetto, perché te lo hanno fatto solo vedere su una vidoregistrazione.
Le mia prima foto col bambino, scattata il giorno stesso della nascita, mostra un viso tondo da mamma, sorridente e soddisfatto.
Le foto scattate nei giorni successivi mostrano un viso sempre più teso e disperato.
Della mia permanenza in ospedale ho ricordi confusi, sovrapposti, a macchie.
Il bimbo che non si attaccava, o forse si attaccava e non trovava niente quindi si incavolava di brutto e, rivelando fin da subito il suo carattere forte e testardo, urlava come un pazzo e si rifiutava di riattaccarsi.
Un’ostetrica che mi dice che dopo il cesareo la montata lattea arriva con più difficoltà. Io che non avevo nemmeno il colostro.
La mia vicina di letto invadente che dice questo bimbo è nervoso per la fame, adesso lo allatto io. Io che non riesco nemmeno a pensare, ma vorrei dirle questo bambino è mio, tu gioca con il tuo.
Io che piegata quasi a novanta gradi per il dolore spingo la carrozzina lungo un corridoio interminabile per raggiungere la sala dove c’è tutto l’occorrente per il cambio e poi gli metto il pannolino alla rovescia.
Un’ostetrica, chiamata in soccorso da una collega che non riusciva in nessun modo a convincere il bimbo ad attaccarsi, che mi insegna la posizione a palla di rugby, fa attaccare il bimbo per un nanosecondo e poi se ne va. Il bimbo che si stacca subito.
Un’ostetrica che dice questo bambino non ha proprio nessuna intenzione di attaccarsi. Mi schiaccia la tetta, esce un po’ di latte, dice “Che ben di Dio”, lo raccoglie col dito, io penso questa è talmente fanatica che adesso se lo ciuccia. Invece lo usa per disinfettarmi l’areola. Poi se ne va. Da allora non sopporto più l’espressione “Che ben di Dio”. In casa è vietata.
In sei giorni di degenza nutro il figlio con svariate tecniche, senza capirne né assimilarne nessuna:
- con il biberon di latte artificiale
- con la tetta e il paracapezzolo che ho paura che se lo ingoi
- con un milligrammo di colostro uscito faticosamente tramite tiralatte – tanto che la nutrice di turno della nursery lo mostra a tutte le colleghe trionfante: guardate cosa ha fatto la 19 (era il mio numero di letto, non lo scorderò mai), come se avesse assistito ad un miracolo. Il prezioso rarissimo liquido viene conservato in un reliquiario a siringhetta – senza ago naturalmente – che poi verrà infilata nella boccuccia del bebè
- con tentativo di poppata naturale seguita da disperata ansiosa attesa della preparazione del biberon di latte artificiale – attesa sadicamente protratta ad arte – mentre il pupo urla così forte che le altre mamme lo soprannominano “ugola d’oro”
Il tutto senza dimenticare la doppia pesata.
Io che mi tiro la tetta a mo’di mucca e non esce niente, ma proprio niente. Nel contenitore dopo tanta fatica c’è solo qualche rimasuglio di amuchina.
Io che piangendo supplico mio marito di parlare con la capo ostetrica e di chiederle di non tormentarmi più. Lui che torna indottrinato e plagiato più di me, e mi spiega che l’allattamento è un efficace antidepressivo, molto meglio del “tiratisu”, e che ce la posso ancora fare, devo sforzarmi ancora, per il bene mio e del bambino.
C’era ogni giorno uno spazio di tempo fantastico in cui si poteva dormire (tre ore la mattina, mentre lavavano, pesavano e controllavano i bebè) – anche se nell’ordine ti svegliavano per: provarti la pressione, provarti la temperatura, controllarti in punti vari non nominabili, rifarti il letto e quindi svegliarti proprio e farti alzare, urlarti nell’orecchio: Signoraaaa, la colazioneeee, si svegliiii!
Durante uno di questi periodi di semicoscienza una giovanissima recluta mi scuote con delicatezza e mi dice che mi vogliono nella nursery. Penso che sia successo qualcosa di grave, anche perché mi era stato detto che quel giorno mio figlio avrebbe fatto controlli neurologici perché si muoveva in modo strano (nulla di che, si rivelò poi, ma che paura!). Arrivo tremante alla nursery e una Crudelia mi dice “Ha fame, lo attacchi”. Scoppio a piangere come una fontana, il latte non ce l’ho, lui non si attacca, lasciatemi in pace, sono stanca, non torturatemi, ho sonno, non ce la faccio più. Una collega di Crudelia fa capolino dalla porta e mi dice sottovoce sei tu la mamma, decidi tu, non farti influenzare, avrai tante cose da fare, elimina il problema se non ce la fai, crescerà lo stesso.
Come vorrei sapere come si chiamava per correre ad abbracciarla.
Di notte, stanca, con petto, pancia e cicatrice doloranti, riesco a riempire con il mio colostro il contenitore del tiralatte. Lo maneggio maldestramente con gli occhi che si chiudono dal sonno e lo faccio cadere quasi tutto. A questo punto mi incavolo davvero, tiro di nuovo, molto oltre il tempo consigliato, fino a riempire ancora fino all’orlo.
E finalmente arriva un po’ di febbre e la montata lattea.
Il latte. Che soddisfazione. Adesso sono degna di essere mamma. Ma sono talmente stanca e frastornata che ci vedo male, oppure ho le allucinazioni: mi esce latte da un dito del piede. Chiedo a mio marito di controllare (eroico, le cesarizzate non riescono a lavarsi molto bene, specie i piedi): si tratta di abbondante pus perché l’unghia dell’alluce si è incarnita a causa del gonfiore post anestesia.
Per un giorno intero riesco ad allattare il mio bambino solo al seno, e il suo peso il giorno successivo rivela un buon aumento. Dimentico di specificare all’ostetrica che si è trattato di un giorno intero nel senso che il bambino per 24 ore non si è mai staccato dal mio petto e io non ho dormito mai.
Mi dimettono con le indicazioni “allattamento totale al seno”, anche se io obietto che forse sarebbe meglio il misto. Nooooo, tu sei pieeeeeena di latteeeeeeeee! E che succede con il “tiratisu”? Nienteeeee, non succede nieeeeeeente, al bambino non fa assolutamente male (bè, non potevate dirmelo nove mesi fa?)
Torniamo a casa, tutti e tre. Felici, spaventati.
La seconda notte ho avuto un attacco di panico terrificante, colossale, il peggiore della mia vita. Mio marito ha preso il bambino e mi ha detto: “ci penso io, tu adesso dormi”. Previdenti, avevamo da settimane predisposto in casa tutto ciò che serve per l’allattamente artificiale (cosa che se raccontata avrebbe causato grave disappunto alla docente del corso preparto). Mi sono sparata una cinquantina di gocce di “staitranquilla” e finalmente ho dormito. Quando ripenso a quella notte ancora ho i brividi. Forse, se il bimbo ed io siamo ancora qui, è solo grazie a mio marito.
La mattina dopo mio marito mi ha riportato al reparto maternità per capire cosa fare col mio seno. Lì l’ostetrica plagiatrice e indottrinatrice mi ha abbracciato e consolato mentre tirandomi il latte piangevo e non riuscivo a tenere su la testa per effetto dell’attacco di panico e dello “staitranquilla”. Ha convenuto che in effetti il latte era poco per un bimbo così grossino e affamato, ma era troppo per farlo andare via solo con le pastiglie. Ha dato tutte le istruzioni a mio marito su come fare ad affittare un tiralatte. Fantastico. Dovevo tirarmi il latte due volte al giorno (secondo loro avrei anche potuto darlo al bambino, ma io lo buttavo via perché un pediatra luminare consultato durante la gravidanza mia aveva detto che c’era la possibilità che lo “staitranquillla”, che stavo oramai assumendo in quantità industriali, passasse nel latte e che c’erano in letteratura casi provati).
Non so come facciano quelle mamme eroiche che prima si tirano il latte e poi lo danno al bimbo (ad esempio, in caso di prematuri) senza riposare mai. Io quelle due tirate giornaliere le odiavo. Dopo circa un mese, il giorno del mio compleanno, la ginecologa mi ha finalmente prescritto le pastiglie per far andare via il latte. E’ stato il regalo di compleanno più bello, fino a quel momento. Esattamente un anno dopo, mio figlio me ne ha fatto uno meraviglioso, insuperabile: mi ha dato la manina e ha camminato.
Tornata a casa, ho pensato lo amo così tanto, il figlio gliel’ho fatto, ed è venuto sano nonostante tutto. Adesso di me può succedere qualunque cosa, posso restare per sempre in questo letto, possono anche decidere di ricoverarmi in manicomio, non importa. Ho dormito dormito dormito. Poi mi sono svegliata e ho deciso che dovevo reagire. Tutti si sono stupiti della velocità con la quale mi sono ripresa, in confronto a crisi meno pesanti che avevo avuto in passato.
Non appena sono stata in grado di guidare sono andata dalla mia estetista, che con successivi abili trattamenti mi ha salvato il ditone da una eventuale operazione per unghia incarnita. E’ bravissama, la consiglio a tutti.
Mio figlio adesso ha quattro anni e mezzo, e onestamente è bellissimo. E’ socievole, simpatico, intellegente e particolarmente cocciuto. Gli piace molto andare all’asilo e non sta mai zitto.
Tutto sommato, fino ad ora, le cose sono andate bene, anche se il rapporto a triangolo tra il cibo, mio figlio e me è rimasto pessimo. Ed è stato uno dei pochi motivi di litigio con mio marito.
Vado per i 38 anni, per molti mesi ho avuto scompensi ormonali, ho avuto 2 aborti spontanei, ho 2 ernie al disco, continuo a farmi di “tiratisu” in buone dosi (il medico - quello saggio - ha detto che dopo le mie vicende è normale che non riesca a diminuirle, anche se ci ho provato più volte) e talvolta modiche quantità di “staitranquilla”. Però spero ancora di riuscire ad avere un altro bambino, e magari anche di allattarlo.
Magari in un altro ospedale».
Ho ricevuto una mail bellissima. E' la storia di una nascita e l'autrice mi ha dato il permesso di farvela leggere.
«Le donne che hanno appena partorito sono fragili. Lo sono un po’ di più quelle che hanno appena partorito il primo figlio. Un po’ di più ancora, a parer mio, quelle che hanno avuto un parto, anche se non problematico, di tipo cesareo, che ha come conseguenza di farti grattare per il prurito una notte intera, lasciarti allettata e con catetere per un paio di giorni (mentre vorresti disperatamente cullare il tuo bambino), farti gonfiare le gambe, provocarti crampi atroci al ventre mentre con vero senso sadico le ostetriche ti lasciano il bambino in camera, anche se non riesci a nemmeno a reggerti in piedi, figurarsi a prenderlo in braccio. Tutto questo senza che al corso preparto nessuno ti abbia spiegato niente in merito, perché il cesareo lo fanno solo le pappemolli.
E che ti lascia per sempre il rimpianto di non essere stata protagonista davvero di quella meraviglia che è l’inizio di una vita, la vita di tuo figlio.
Sono particolarmente, disperatamente fragili, le donne che oltre alle condizioni di cui sopra, durante tutta la gravidanza, un po’ per il bene del bimbo, un po’ per la fifa dei medici, hanno dovuto rinunciare ai noti farmaci “tiratisu” e “staitranquilla”. Io faccio parte di quest’ultima categoria. Raggiunto il settimo mese di gestazione, veramente disperata, ho finalmente trovato un medico capace di prendersi le sue responsabilità e di prescrivermi il “tiratisu”, che se non ti tiri su va a finire che ti butti giù, te con il tuo bimbo dentro, e tutti questi sacrifici non saranno serviti a nulla. E’ noto a tutti (ma forse non ai ginecologi ignoranti e agli psicologi con manie di onnnipotenza che cercano di propinarti inutili palliativi come l’ipnosi) che i farmaci della categoria “tiratisu” cominciano a fare davvero effetto solo dopo un mese che hai cominciato ad assumerli. Prima di quel mese invece di stare meglio stai molto peggio, ma se sei fortunata stai male come prima.
Sono arrivata al giorno in cui il pupo podalico ruppe le acque assolutamente prostrata. Avevo esaurito tutte le mie energie, e tante me ne sarebbero servite in seguito, perché ancora doveva venire il bello.
Infatti tutti sembrano ignorare il fatto che la gravidanza va affrontata con il giusto spirito positivo e ottimista (spirito che per mancanza dello “staitranquilla” nel mio caso mancava del tutto), che il parto naturale è la cosa più bella del mondo, ma non è colpa tua se il monello decide di mettersi a piedi in giù, i medici non ce la fanno a girarlo perché è paffutello e cocciuto e le ostetriche (forse perché non sono più semplici levatrici) hanno perso la capacità di far nascere i podalici. Che allattare è giusto e doveroso, ma a volte non ce la fai, specie se la tua ansia viene accresciuta da indicazioni contrastanti.
E che dopo tutto ciò ti mandano a casa senza libretto di istruzioni, e tu sei sola con il tuo nanetto e la tua paura. Non sai nemmeno fargli il bagnetto, perché te lo hanno fatto solo vedere su una vidoregistrazione.
Le mia prima foto col bambino, scattata il giorno stesso della nascita, mostra un viso tondo da mamma, sorridente e soddisfatto.
Le foto scattate nei giorni successivi mostrano un viso sempre più teso e disperato.
Della mia permanenza in ospedale ho ricordi confusi, sovrapposti, a macchie.
Il bimbo che non si attaccava, o forse si attaccava e non trovava niente quindi si incavolava di brutto e, rivelando fin da subito il suo carattere forte e testardo, urlava come un pazzo e si rifiutava di riattaccarsi.
Un’ostetrica che mi dice che dopo il cesareo la montata lattea arriva con più difficoltà. Io che non avevo nemmeno il colostro.
La mia vicina di letto invadente che dice questo bimbo è nervoso per la fame, adesso lo allatto io. Io che non riesco nemmeno a pensare, ma vorrei dirle questo bambino è mio, tu gioca con il tuo.
Io che piegata quasi a novanta gradi per il dolore spingo la carrozzina lungo un corridoio interminabile per raggiungere la sala dove c’è tutto l’occorrente per il cambio e poi gli metto il pannolino alla rovescia.
Un’ostetrica, chiamata in soccorso da una collega che non riusciva in nessun modo a convincere il bimbo ad attaccarsi, che mi insegna la posizione a palla di rugby, fa attaccare il bimbo per un nanosecondo e poi se ne va. Il bimbo che si stacca subito.
Un’ostetrica che dice questo bambino non ha proprio nessuna intenzione di attaccarsi. Mi schiaccia la tetta, esce un po’ di latte, dice “Che ben di Dio”, lo raccoglie col dito, io penso questa è talmente fanatica che adesso se lo ciuccia. Invece lo usa per disinfettarmi l’areola. Poi se ne va. Da allora non sopporto più l’espressione “Che ben di Dio”. In casa è vietata.
In sei giorni di degenza nutro il figlio con svariate tecniche, senza capirne né assimilarne nessuna:
- con il biberon di latte artificiale
- con la tetta e il paracapezzolo che ho paura che se lo ingoi
- con un milligrammo di colostro uscito faticosamente tramite tiralatte – tanto che la nutrice di turno della nursery lo mostra a tutte le colleghe trionfante: guardate cosa ha fatto la 19 (era il mio numero di letto, non lo scorderò mai), come se avesse assistito ad un miracolo. Il prezioso rarissimo liquido viene conservato in un reliquiario a siringhetta – senza ago naturalmente – che poi verrà infilata nella boccuccia del bebè
- con tentativo di poppata naturale seguita da disperata ansiosa attesa della preparazione del biberon di latte artificiale – attesa sadicamente protratta ad arte – mentre il pupo urla così forte che le altre mamme lo soprannominano “ugola d’oro”
Il tutto senza dimenticare la doppia pesata.
Io che mi tiro la tetta a mo’di mucca e non esce niente, ma proprio niente. Nel contenitore dopo tanta fatica c’è solo qualche rimasuglio di amuchina.
Io che piangendo supplico mio marito di parlare con la capo ostetrica e di chiederle di non tormentarmi più. Lui che torna indottrinato e plagiato più di me, e mi spiega che l’allattamento è un efficace antidepressivo, molto meglio del “tiratisu”, e che ce la posso ancora fare, devo sforzarmi ancora, per il bene mio e del bambino.
C’era ogni giorno uno spazio di tempo fantastico in cui si poteva dormire (tre ore la mattina, mentre lavavano, pesavano e controllavano i bebè) – anche se nell’ordine ti svegliavano per: provarti la pressione, provarti la temperatura, controllarti in punti vari non nominabili, rifarti il letto e quindi svegliarti proprio e farti alzare, urlarti nell’orecchio: Signoraaaa, la colazioneeee, si svegliiii!
Durante uno di questi periodi di semicoscienza una giovanissima recluta mi scuote con delicatezza e mi dice che mi vogliono nella nursery. Penso che sia successo qualcosa di grave, anche perché mi era stato detto che quel giorno mio figlio avrebbe fatto controlli neurologici perché si muoveva in modo strano (nulla di che, si rivelò poi, ma che paura!). Arrivo tremante alla nursery e una Crudelia mi dice “Ha fame, lo attacchi”. Scoppio a piangere come una fontana, il latte non ce l’ho, lui non si attacca, lasciatemi in pace, sono stanca, non torturatemi, ho sonno, non ce la faccio più. Una collega di Crudelia fa capolino dalla porta e mi dice sottovoce sei tu la mamma, decidi tu, non farti influenzare, avrai tante cose da fare, elimina il problema se non ce la fai, crescerà lo stesso.
Come vorrei sapere come si chiamava per correre ad abbracciarla.
Di notte, stanca, con petto, pancia e cicatrice doloranti, riesco a riempire con il mio colostro il contenitore del tiralatte. Lo maneggio maldestramente con gli occhi che si chiudono dal sonno e lo faccio cadere quasi tutto. A questo punto mi incavolo davvero, tiro di nuovo, molto oltre il tempo consigliato, fino a riempire ancora fino all’orlo.
E finalmente arriva un po’ di febbre e la montata lattea.
Il latte. Che soddisfazione. Adesso sono degna di essere mamma. Ma sono talmente stanca e frastornata che ci vedo male, oppure ho le allucinazioni: mi esce latte da un dito del piede. Chiedo a mio marito di controllare (eroico, le cesarizzate non riescono a lavarsi molto bene, specie i piedi): si tratta di abbondante pus perché l’unghia dell’alluce si è incarnita a causa del gonfiore post anestesia.
Per un giorno intero riesco ad allattare il mio bambino solo al seno, e il suo peso il giorno successivo rivela un buon aumento. Dimentico di specificare all’ostetrica che si è trattato di un giorno intero nel senso che il bambino per 24 ore non si è mai staccato dal mio petto e io non ho dormito mai.
Mi dimettono con le indicazioni “allattamento totale al seno”, anche se io obietto che forse sarebbe meglio il misto. Nooooo, tu sei pieeeeeena di latteeeeeeeee! E che succede con il “tiratisu”? Nienteeeee, non succede nieeeeeeente, al bambino non fa assolutamente male (bè, non potevate dirmelo nove mesi fa?)
Torniamo a casa, tutti e tre. Felici, spaventati.
La seconda notte ho avuto un attacco di panico terrificante, colossale, il peggiore della mia vita. Mio marito ha preso il bambino e mi ha detto: “ci penso io, tu adesso dormi”. Previdenti, avevamo da settimane predisposto in casa tutto ciò che serve per l’allattamente artificiale (cosa che se raccontata avrebbe causato grave disappunto alla docente del corso preparto). Mi sono sparata una cinquantina di gocce di “staitranquilla” e finalmente ho dormito. Quando ripenso a quella notte ancora ho i brividi. Forse, se il bimbo ed io siamo ancora qui, è solo grazie a mio marito.
La mattina dopo mio marito mi ha riportato al reparto maternità per capire cosa fare col mio seno. Lì l’ostetrica plagiatrice e indottrinatrice mi ha abbracciato e consolato mentre tirandomi il latte piangevo e non riuscivo a tenere su la testa per effetto dell’attacco di panico e dello “staitranquilla”. Ha convenuto che in effetti il latte era poco per un bimbo così grossino e affamato, ma era troppo per farlo andare via solo con le pastiglie. Ha dato tutte le istruzioni a mio marito su come fare ad affittare un tiralatte. Fantastico. Dovevo tirarmi il latte due volte al giorno (secondo loro avrei anche potuto darlo al bambino, ma io lo buttavo via perché un pediatra luminare consultato durante la gravidanza mia aveva detto che c’era la possibilità che lo “staitranquillla”, che stavo oramai assumendo in quantità industriali, passasse nel latte e che c’erano in letteratura casi provati).
Non so come facciano quelle mamme eroiche che prima si tirano il latte e poi lo danno al bimbo (ad esempio, in caso di prematuri) senza riposare mai. Io quelle due tirate giornaliere le odiavo. Dopo circa un mese, il giorno del mio compleanno, la ginecologa mi ha finalmente prescritto le pastiglie per far andare via il latte. E’ stato il regalo di compleanno più bello, fino a quel momento. Esattamente un anno dopo, mio figlio me ne ha fatto uno meraviglioso, insuperabile: mi ha dato la manina e ha camminato.
Tornata a casa, ho pensato lo amo così tanto, il figlio gliel’ho fatto, ed è venuto sano nonostante tutto. Adesso di me può succedere qualunque cosa, posso restare per sempre in questo letto, possono anche decidere di ricoverarmi in manicomio, non importa. Ho dormito dormito dormito. Poi mi sono svegliata e ho deciso che dovevo reagire. Tutti si sono stupiti della velocità con la quale mi sono ripresa, in confronto a crisi meno pesanti che avevo avuto in passato.
Non appena sono stata in grado di guidare sono andata dalla mia estetista, che con successivi abili trattamenti mi ha salvato il ditone da una eventuale operazione per unghia incarnita. E’ bravissama, la consiglio a tutti.
Mio figlio adesso ha quattro anni e mezzo, e onestamente è bellissimo. E’ socievole, simpatico, intellegente e particolarmente cocciuto. Gli piace molto andare all’asilo e non sta mai zitto.
Tutto sommato, fino ad ora, le cose sono andate bene, anche se il rapporto a triangolo tra il cibo, mio figlio e me è rimasto pessimo. Ed è stato uno dei pochi motivi di litigio con mio marito.
Vado per i 38 anni, per molti mesi ho avuto scompensi ormonali, ho avuto 2 aborti spontanei, ho 2 ernie al disco, continuo a farmi di “tiratisu” in buone dosi (il medico - quello saggio - ha detto che dopo le mie vicende è normale che non riesca a diminuirle, anche se ci ho provato più volte) e talvolta modiche quantità di “staitranquilla”. Però spero ancora di riuscire ad avere un altro bambino, e magari anche di allattarlo.
Magari in un altro ospedale».
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mercoledì 18 novembre 2009
Venire al mondo (con il cesareo)
Quando sei nato
(Ah che meraviglia, che supremo godimento avere un'amica ancora solo virtuale che ogni tanto mi regala quel che scrive. Eccolo. Grazie, Irene)
Quando sei nato eri tutto bianco e ti stropicciavi gli occhietti.
L'anestesista che mi stava accanto mi aveva detto: "Ecco, signora, adesso sta uscendo il sederino". Io avevo iniziato a tremare e poi a battere i denti. Quando ti ho visto ho sentito scendere qualche lacrima e ti ho detto: "Ciao". Ho chiesto: "Perché non piange?", e il medico mi ha detto: "Signora, stava dormendo".
Poi ti hanno lavato e quando sei tornato, in braccio all'ostetrica, allora sì che piangevi. Ti ho detto: "Non piangere" e volevo toccarti ma ero legata al lettino della sala operatoria e con una sensazione di impotenza ho cercato di accarezzarti con il naso ma non ci sono riuscita.
Mentre mi ricucivano ti hanno portato via, per scaldarti e farti tutti i controlli di rito.
Poi mi hanno portato fuori, in una stanza dove c'era Massimo con una bella felpa calda e rassicurante come il suo viso, mentre io ancora tremavo. Lo hanno chiamato, dopo poco è tornato tenendo tutto impacciato una coperta, con dentro te.
Ero sdraiata e potevo muovere solo le braccia. Ti hanno poggiato sulla mia pancia e hai cominciato a muoverti come un ragnetto.
Così è iniziata la nostra splendida, faticosa avventura.
(Ah che meraviglia, che supremo godimento avere un'amica ancora solo virtuale che ogni tanto mi regala quel che scrive. Eccolo. Grazie, Irene)
Quando sei nato eri tutto bianco e ti stropicciavi gli occhietti.
L'anestesista che mi stava accanto mi aveva detto: "Ecco, signora, adesso sta uscendo il sederino". Io avevo iniziato a tremare e poi a battere i denti. Quando ti ho visto ho sentito scendere qualche lacrima e ti ho detto: "Ciao". Ho chiesto: "Perché non piange?", e il medico mi ha detto: "Signora, stava dormendo".
Poi ti hanno lavato e quando sei tornato, in braccio all'ostetrica, allora sì che piangevi. Ti ho detto: "Non piangere" e volevo toccarti ma ero legata al lettino della sala operatoria e con una sensazione di impotenza ho cercato di accarezzarti con il naso ma non ci sono riuscita.
Mentre mi ricucivano ti hanno portato via, per scaldarti e farti tutti i controlli di rito.
Poi mi hanno portato fuori, in una stanza dove c'era Massimo con una bella felpa calda e rassicurante come il suo viso, mentre io ancora tremavo. Lo hanno chiamato, dopo poco è tornato tenendo tutto impacciato una coperta, con dentro te.
Ero sdraiata e potevo muovere solo le braccia. Ti hanno poggiato sulla mia pancia e hai cominciato a muoverti come un ragnetto.
Così è iniziata la nostra splendida, faticosa avventura.
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sabato 4 aprile 2009
Per i più pigrotti: link per acquistare il mio libro senza fare sforzi
Ricordandovi che è appena uscito, e se voleste acquistarlo (anche per regalarlo)
Lo trovereste qui. Oppure qui. E anche qui (l'elenco potrebbe proseguire, ma lascio alla vostra libera iniziativa il compito di ulteriori ricerche). In buona sostanza, un po' dappertutto. Dunque, non aspettate!
Lo trovereste qui. Oppure qui. E anche qui (l'elenco potrebbe proseguire, ma lascio alla vostra libera iniziativa il compito di ulteriori ricerche). In buona sostanza, un po' dappertutto. Dunque, non aspettate!
giovedì 19 marzo 2009
Depressione post-partum (agh!)
Ragazze interrotte
La spiacevole faccenda del baby blues – in teoria, “piccole e inspiegabili alterazioni dell’umore che seguono il lieto evento”; in pratica, neanche il tempo di appendere il fiocco rosa o azzurro al portone di casa che già ti viene da piangere - è ormai, almeno in parte, nota. Riflessione a margine: secondo i dati statunitensi un fortunato 20% delle neomamme non ha alcun sintomo, mentre all’estremo opposto una su dieci scivola in una grave depressione post-partum. Ma se il dato relativo a questo disturbo non si discosta molto da quello della popolazione depressa in generale (8-10%), le cifre notevoli riguardano le donne della terra di mezzo. Le meschinelle né disperate né esaltate, quelle che soffrono “solo” di baby blues: sette su dieci. Cioè quasi tutte.
Secondo la letteratura medica il baby blues di solito fa la sua comparsa due o tre giorni dopo il parto. Ovvero, in genere, quando si torna a casa e si comincia a provare quel certo nonsoche. Si dice: mal comune mezzo gaudio, ma la consapevolezza che nello stesso momento altre donne sono in difficoltà proprio come te di solito non aiuta un granché. Avere il baby blues è un po’ come vivere costantemente al crepuscolo (un mio amico la chiama “l’ora del lupo”. Rende l’idea): passata l’eccitazione la neomamma si sente ansiosa, insoddisfatta, triste e instabile. Può darsi che provi immotivata irritazione nei confronti del neonato, del proprio compagno, di altri eventuali figli (il fastidio nei confronti della suocera non fa testo).
Per un’autodiagnosi facile e veloce: se vi succedono almeno tre delle seguenti cose, siete certamente preda del baby blues.
- Pianto senza ragione (una mia amica è scoppiata in lacrime perché, stendendo il bucato, si è accorta che alcune mollette non erano più in ottime condizioni).
- Difficoltà a prendere sonno (nonostante si sia sempre sul punto di svenire dalla stanchezza).
- Scarso appetito (per esempio: avete comprato tre tavolette del vostro cioccolato preferito. State allattando, avete bisogno di calorie supplementari e sareste autorizzate a castigarle tutte, invece misteriosamente ne graziate una, guardandola anche un po’ male).
- Last but not least, sensazione di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo, timore di sbagliare, vorticose riflessioni surreali tipo “anziché fare un figlio avrei fatto meglio a prendere un Labrador, piantare una betulla, adottare una pecora, infilare poesie nella casella della posta degli sconosciuti, diventare un’importante allevatrice di lumache”.
Gli stimoli esterni vorrebbero la neomamma serena e appagata. E prima di partorire lei pensava che sarebbe stato così.
La spiacevole faccenda del baby blues – in teoria, “piccole e inspiegabili alterazioni dell’umore che seguono il lieto evento”; in pratica, neanche il tempo di appendere il fiocco rosa o azzurro al portone di casa che già ti viene da piangere - è ormai, almeno in parte, nota. Riflessione a margine: secondo i dati statunitensi un fortunato 20% delle neomamme non ha alcun sintomo, mentre all’estremo opposto una su dieci scivola in una grave depressione post-partum. Ma se il dato relativo a questo disturbo non si discosta molto da quello della popolazione depressa in generale (8-10%), le cifre notevoli riguardano le donne della terra di mezzo. Le meschinelle né disperate né esaltate, quelle che soffrono “solo” di baby blues: sette su dieci. Cioè quasi tutte.
Secondo la letteratura medica il baby blues di solito fa la sua comparsa due o tre giorni dopo il parto. Ovvero, in genere, quando si torna a casa e si comincia a provare quel certo nonsoche. Si dice: mal comune mezzo gaudio, ma la consapevolezza che nello stesso momento altre donne sono in difficoltà proprio come te di solito non aiuta un granché. Avere il baby blues è un po’ come vivere costantemente al crepuscolo (un mio amico la chiama “l’ora del lupo”. Rende l’idea): passata l’eccitazione la neomamma si sente ansiosa, insoddisfatta, triste e instabile. Può darsi che provi immotivata irritazione nei confronti del neonato, del proprio compagno, di altri eventuali figli (il fastidio nei confronti della suocera non fa testo).
Per un’autodiagnosi facile e veloce: se vi succedono almeno tre delle seguenti cose, siete certamente preda del baby blues.
- Pianto senza ragione (una mia amica è scoppiata in lacrime perché, stendendo il bucato, si è accorta che alcune mollette non erano più in ottime condizioni).
- Difficoltà a prendere sonno (nonostante si sia sempre sul punto di svenire dalla stanchezza).
- Scarso appetito (per esempio: avete comprato tre tavolette del vostro cioccolato preferito. State allattando, avete bisogno di calorie supplementari e sareste autorizzate a castigarle tutte, invece misteriosamente ne graziate una, guardandola anche un po’ male).
- Last but not least, sensazione di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo, timore di sbagliare, vorticose riflessioni surreali tipo “anziché fare un figlio avrei fatto meglio a prendere un Labrador, piantare una betulla, adottare una pecora, infilare poesie nella casella della posta degli sconosciuti, diventare un’importante allevatrice di lumache”.
Gli stimoli esterni vorrebbero la neomamma serena e appagata. E prima di partorire lei pensava che sarebbe stato così.
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Il secondo figlio è più facile. Decisamente
Di tutti i dolori, quello del parto è il più felice
Il martedì mattina, grazie al mio talento affabulatorio, ho convinto il ginecologo di turno a indurmi il parto, che abbiamo programmato per la sera stessa. Verso l’ora di pranzo, nel tentativo di evitare il ricorso alla chimica, un’ostetrica pietosa mi ha fatto una manovra che si chiama “scollamento delle membrane”. Niente di traumatico. Volgarmente, è una “smanacciata” che può servire a fare partire il travaglio, se effettivamente il bambino è pronto a nascere.
E il Pupo, perdirindina, era finalmente pronto. Un’ora dopo la smanacciata sono cominciate le contrazioni, quelle vere.
Per lo stress dell’attesa il mio compagno si era fatto venire trentotto e mezzo di febbre. Le ostetriche e le infermiere passavano a confortarlo: “Come ti senti, poverino?”. “Vuoi una tachipirina?”. “Scusami caro, se sposti i riccioli dalla fronte ti misuro la febbre con il termometro per neonati”. “Poverino, guarda com’è pallido”. È colpa nostra se gli uomini sono viziati, riflettevo io contorcendomi nel solito corridoio.
Pensavo: tra poco si ricomincia a ballare. Probabilmente stavolta morirò.
E invece no.
Sono entrata in sala travaglio alle tre del pomeriggio. Dove ho partorito io ci saranno trenta ostetriche. Miracolosamente ho ritrovato la stessa della nascita della Pupa. “Giuliana!”, l’ho salutata illuminandomi. Mi ha guardato con aria interrogativa. “Tu mi hai fatto nascere la Pupa”. Mi ha sorriso, probabilmente pensando che fossi pazza.
Quel pomeriggio le sale travaglio erano tutte piene, e il personale appena sufficiente. Giuliana se n’è andata lasciandoci soli. Io deliravo con dignità, rivolta al mio compagno. “Il prossimo lo partorite voi, tu e mia sorella”, “Voglio un gatto”, “Fumerei una sigaretta”, “Vai via. No, resta qua!”, e altre innocue follie. E poi, non so perché, ho cominciato ad accompagnare le contrazioni con la voce. “A, E, I, O, U”, scandivo. Così, per passare il tempo. Presto mi sono accorta che, facendolo, riuscivo a sopportare meglio il dolore. Ma è stata un’intuizione che veniva dalla pancia e dal cuore, una cosa che nessun corso avrebbe potuto insegnarmi.
Giuliana è passata a controllare come ce la cavavamo. Mi ha consigliato di alzarmi in piedi. Ho abbracciato il mio compagno e abbiamo iniziato una lenta danza. Spostavo il peso da un piede all’altro, oscillando lentamente, sorretta da lui. Restavo in silenzio per la maggior parte del tempo, e quando il dolore era forte ripartivo con le vocali. “Aaa, eee, iii”. Dopo venti minuti Giuliana mi ha visitato. Sei centimetri. L’ho guardata negli occhi e le ho detto, “Dai, fammelo nascere”. Mi ha fatto salire sul lettino del parto, mi ha rotto le acque. Mi sono rimessa in piedi e ho ricominciato la danza. Dopo cinque minuti le ho detto che volevo spingere. “Di già?”, mi ha chiesto lei scettica. Poi mi ha visitato, ha annuito e mi ha chiesto se me la sentivo di accovacciarmi. Perché no, ho pensato. Le novità non mi spaventano. Sotto di me, sul pavimento, Giuliana ha piazzato un telino blu. “Bastano quattro spinte?”, le ho chiesto buttando lì un numero a caso. “Se proprio ti impegni molto”, ha risposto lei. Il mio compagno mi teneva la mano. Io sudavo per lo sforzo, lui per la febbre. L’ho guardato e ho pensato: okay. Posso farlo. non ho più paura. Rispetto all’altra volta, la differenza è tutta qui.
Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Giuliana, involontariamente comica: “Non ti sedere ora. C’è fuori la testa. Ripeto, è molto importante: non ti se-de-re.” Mi è venuto da ridere, all’idea che avrei potuto schiacciare mio figlio nato solo a metà. Ho spinto per l’ultima volta – la quarta, chissà perché avevo indovinato – pianissimo, seguendo con precisione millimetrica le istruzioni di Giuliana.
E così ho deposto il Pupo, come una chioccia il suo ovetto . L’ho visto scivolare piano su quel telino blu. Ho pensato: che bel colore per nascere. Che giornata fantastica. E che orario meraviglioso. Erano le quattro e quarantaquattro del pomeriggio quando, per la seconda volta, sono nata mamma.
Il martedì mattina, grazie al mio talento affabulatorio, ho convinto il ginecologo di turno a indurmi il parto, che abbiamo programmato per la sera stessa. Verso l’ora di pranzo, nel tentativo di evitare il ricorso alla chimica, un’ostetrica pietosa mi ha fatto una manovra che si chiama “scollamento delle membrane”. Niente di traumatico. Volgarmente, è una “smanacciata” che può servire a fare partire il travaglio, se effettivamente il bambino è pronto a nascere.
E il Pupo, perdirindina, era finalmente pronto. Un’ora dopo la smanacciata sono cominciate le contrazioni, quelle vere.
Per lo stress dell’attesa il mio compagno si era fatto venire trentotto e mezzo di febbre. Le ostetriche e le infermiere passavano a confortarlo: “Come ti senti, poverino?”. “Vuoi una tachipirina?”. “Scusami caro, se sposti i riccioli dalla fronte ti misuro la febbre con il termometro per neonati”. “Poverino, guarda com’è pallido”. È colpa nostra se gli uomini sono viziati, riflettevo io contorcendomi nel solito corridoio.
Pensavo: tra poco si ricomincia a ballare. Probabilmente stavolta morirò.
E invece no.
Sono entrata in sala travaglio alle tre del pomeriggio. Dove ho partorito io ci saranno trenta ostetriche. Miracolosamente ho ritrovato la stessa della nascita della Pupa. “Giuliana!”, l’ho salutata illuminandomi. Mi ha guardato con aria interrogativa. “Tu mi hai fatto nascere la Pupa”. Mi ha sorriso, probabilmente pensando che fossi pazza.
Quel pomeriggio le sale travaglio erano tutte piene, e il personale appena sufficiente. Giuliana se n’è andata lasciandoci soli. Io deliravo con dignità, rivolta al mio compagno. “Il prossimo lo partorite voi, tu e mia sorella”, “Voglio un gatto”, “Fumerei una sigaretta”, “Vai via. No, resta qua!”, e altre innocue follie. E poi, non so perché, ho cominciato ad accompagnare le contrazioni con la voce. “A, E, I, O, U”, scandivo. Così, per passare il tempo. Presto mi sono accorta che, facendolo, riuscivo a sopportare meglio il dolore. Ma è stata un’intuizione che veniva dalla pancia e dal cuore, una cosa che nessun corso avrebbe potuto insegnarmi.
Giuliana è passata a controllare come ce la cavavamo. Mi ha consigliato di alzarmi in piedi. Ho abbracciato il mio compagno e abbiamo iniziato una lenta danza. Spostavo il peso da un piede all’altro, oscillando lentamente, sorretta da lui. Restavo in silenzio per la maggior parte del tempo, e quando il dolore era forte ripartivo con le vocali. “Aaa, eee, iii”. Dopo venti minuti Giuliana mi ha visitato. Sei centimetri. L’ho guardata negli occhi e le ho detto, “Dai, fammelo nascere”. Mi ha fatto salire sul lettino del parto, mi ha rotto le acque. Mi sono rimessa in piedi e ho ricominciato la danza. Dopo cinque minuti le ho detto che volevo spingere. “Di già?”, mi ha chiesto lei scettica. Poi mi ha visitato, ha annuito e mi ha chiesto se me la sentivo di accovacciarmi. Perché no, ho pensato. Le novità non mi spaventano. Sotto di me, sul pavimento, Giuliana ha piazzato un telino blu. “Bastano quattro spinte?”, le ho chiesto buttando lì un numero a caso. “Se proprio ti impegni molto”, ha risposto lei. Il mio compagno mi teneva la mano. Io sudavo per lo sforzo, lui per la febbre. L’ho guardato e ho pensato: okay. Posso farlo. non ho più paura. Rispetto all’altra volta, la differenza è tutta qui.
Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Giuliana, involontariamente comica: “Non ti sedere ora. C’è fuori la testa. Ripeto, è molto importante: non ti se-de-re.” Mi è venuto da ridere, all’idea che avrei potuto schiacciare mio figlio nato solo a metà. Ho spinto per l’ultima volta – la quarta, chissà perché avevo indovinato – pianissimo, seguendo con precisione millimetrica le istruzioni di Giuliana.
E così ho deposto il Pupo, come una chioccia il suo ovetto . L’ho visto scivolare piano su quel telino blu. Ho pensato: che bel colore per nascere. Che giornata fantastica. E che orario meraviglioso. Erano le quattro e quarantaquattro del pomeriggio quando, per la seconda volta, sono nata mamma.
La nascita del Pupo/1
Siediti al sole. Abdica, e sii re di te stesso
A causa del fallimento totale di ogni corso preparatorio al parto della Pupa, per la nascita del mio secondogenito – il Pupo – mi sono rifiutata di fare alcunché. Non ho letto una riga, non ne ho parlato con nessuno. Evitavo l’argomento. Interrogata in proposito da amici e parenti, grugnivo. Pensavo, “Sarà quel che sarà. Tanto vale non perdere tempo con inutili lezioni di suono, respiro, canto, postura, bagatelle e pinzillacchere”.
Aspettavo l’evento con una sorta di quieta rassegnazione. Solo una volta mi sono arrabbiata, con il fidanzato new age di una mia amica che avrebbe partorito la sua primogenita pochi giorni dopo di me. L’ingenuo mi ha detto, “Cioè, l’esperienza del parto è fantastica. Cioè, te la vivi, e siete tu e il tuo bambino, ed è una cosa solo vostra, tu sei lo specchio del bambino e il bambino è lo specchio tuo, e cioè, devi attraversare il dolore come se fosse un’onda. Cioè, mitico. Anzi, maggico”. “Ehi, cretinetti, falla finita con questa sciocchezza dell’onda”, gli ho sibilato. Mi ha guardato senza capire.
Il Pupo, probabilmente intuendo che la sua mamma non aveva nessuna voglia di partorirlo, si è fatto attendere. Attorno alla data presunta del parto ho cominciato a sentire blande ma insignificanti contrazioni. Sono andate avanti una settimana. Una domenica mattina, esasperata, ho creduto che finalmente fosse arrivato il momento. Ho pensato: è il mio secondo figlio. Ci siamo, lo sento. Una madre certe cose le sa. Tra poche ore stringerò tra le braccia il mio bambino.
Balle. Sono rimasta ricoverata in ospedale due giorni prima dell’avvio del vero travaglio.
A causa del fallimento totale di ogni corso preparatorio al parto della Pupa, per la nascita del mio secondogenito – il Pupo – mi sono rifiutata di fare alcunché. Non ho letto una riga, non ne ho parlato con nessuno. Evitavo l’argomento. Interrogata in proposito da amici e parenti, grugnivo. Pensavo, “Sarà quel che sarà. Tanto vale non perdere tempo con inutili lezioni di suono, respiro, canto, postura, bagatelle e pinzillacchere”.
Aspettavo l’evento con una sorta di quieta rassegnazione. Solo una volta mi sono arrabbiata, con il fidanzato new age di una mia amica che avrebbe partorito la sua primogenita pochi giorni dopo di me. L’ingenuo mi ha detto, “Cioè, l’esperienza del parto è fantastica. Cioè, te la vivi, e siete tu e il tuo bambino, ed è una cosa solo vostra, tu sei lo specchio del bambino e il bambino è lo specchio tuo, e cioè, devi attraversare il dolore come se fosse un’onda. Cioè, mitico. Anzi, maggico”. “Ehi, cretinetti, falla finita con questa sciocchezza dell’onda”, gli ho sibilato. Mi ha guardato senza capire.
Il Pupo, probabilmente intuendo che la sua mamma non aveva nessuna voglia di partorirlo, si è fatto attendere. Attorno alla data presunta del parto ho cominciato a sentire blande ma insignificanti contrazioni. Sono andate avanti una settimana. Una domenica mattina, esasperata, ho creduto che finalmente fosse arrivato il momento. Ho pensato: è il mio secondo figlio. Ci siamo, lo sento. Una madre certe cose le sa. Tra poche ore stringerò tra le braccia il mio bambino.
Balle. Sono rimasta ricoverata in ospedale due giorni prima dell’avvio del vero travaglio.
D-DAY/4
Il travaglio è finito. Andate in pace (per ora)
Alla fine del travaglio, poco prima della nascita della Pupa, ho scoperto che nei neonati c'è un segreto.
A un certo punto il dolore è tanto intenso da essere un’entità autonoma. Va per conto suo. Se riesci a pensare a qualcosa, pensi che stai per morire. Poi pensi che non potevi ipotizzare niente di simile. Che non c’è modo di prepararsi a una sofferenza tanto atroce, che hai paura, che così proprio non si può. Preghi che ti lascino abbandonare il tuo corpo anche solo per un momento.
Poi qualcos’altro prende il sopravvento. Il tuo bambino è finalmente pronto, e allora mette in atto una magia.
Ho sentito da lontano una voce che diceva, “Adesso spingi. Sfrutta la forza della contrazione”. Ed effettivamente è stato come me l’avevano spiegato: mentre spingi, il dolore diminuisce. La testa del bambino che preme sul coccige ti anestetizza, tu non senti più male. Ci ho provato timidamente una, due, tre volte. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Funzionava. “Più forte, più a lungo,” mi incitava Giuliana. Allora ho pensato: che diavolo, io gli addominali li ho sempre avuti. E ho cominciato a spingere sul serio. Cinque minuti dopo è nata la Pupa.
È stato un attimo, è sgusciata via come un pesciolino, calda, palpitante, bianca di vernice caseosa. Una parte di me fuori di me. Durante la gravidanza avevo evitato di immaginarla, perché non sapevo come farlo. E all’improvviso, alle sei del pomeriggio, eccola. Ho guardato la finestra, ho visto l’inizio di un tramonto e ho pensato: io rinasco, con la mia bambina.
La sera stessa ho fatto a mia madre un resoconto dettagliato del travaglio. Alla fine le ho detto, “Avevi ragione. Comunque è stato bellissimo”.
A un certo punto il dolore è tanto intenso da essere un’entità autonoma. Va per conto suo. Se riesci a pensare a qualcosa, pensi che stai per morire. Poi pensi che non potevi ipotizzare niente di simile. Che non c’è modo di prepararsi a una sofferenza tanto atroce, che hai paura, che così proprio non si può. Preghi che ti lascino abbandonare il tuo corpo anche solo per un momento.
Poi qualcos’altro prende il sopravvento. Il tuo bambino è finalmente pronto, e allora mette in atto una magia.
Ho sentito da lontano una voce che diceva, “Adesso spingi. Sfrutta la forza della contrazione”. Ed effettivamente è stato come me l’avevano spiegato: mentre spingi, il dolore diminuisce. La testa del bambino che preme sul coccige ti anestetizza, tu non senti più male. Ci ho provato timidamente una, due, tre volte. Contrazione, spinta. Contrazione, spinta. Funzionava. “Più forte, più a lungo,” mi incitava Giuliana. Allora ho pensato: che diavolo, io gli addominali li ho sempre avuti. E ho cominciato a spingere sul serio. Cinque minuti dopo è nata la Pupa.
È stato un attimo, è sgusciata via come un pesciolino, calda, palpitante, bianca di vernice caseosa. Una parte di me fuori di me. Durante la gravidanza avevo evitato di immaginarla, perché non sapevo come farlo. E all’improvviso, alle sei del pomeriggio, eccola. Ho guardato la finestra, ho visto l’inizio di un tramonto e ho pensato: io rinasco, con la mia bambina.
La sera stessa ho fatto a mia madre un resoconto dettagliato del travaglio. Alla fine le ho detto, “Avevi ragione. Comunque è stato bellissimo”.
mercoledì 18 marzo 2009
D-DAY/3
Perché chiedere l'epidurale è una buona idea
Anestesia o eutanasia
Alcune amiche mi avevano raccontato la loro esperienza. “All’inizio del travaglio, prima di andare in ospedale, ho addobbato l’albero di Natale”. “Io ho lavato le tazze della colazione”. “Io ho pagato online i conti del mese”. “Io sono andata a fare una passeggiata con il cane”. Prima della nascita della Pupa, la mia primogenita, in quei momenti convulsi in cui non riuscivo nemmeno a formulare una frase di senso compiuto l’unica cosa che mi veniva in mente era: io non ce l’ho avuto, l’inizio del travaglio. Sono partita subito dalla fine.
Per fortuna l’ostetrica, Giuliana, era bravissima. Nei pochi secondi di intervallo tra le contrazioni leggevo il suo nome sul cartellino che portava appeso al camice. Per ingraziarmela lo scandivo a voce alta: “Giu-lia-na. Che bel nome che hai, Giuliana”. Poi sentivo il dolore aumentare e ricominciavo a urlare: “Fammelanascerefammelanascere!”. Mia sorella leggeva sul tocografo l’intensità delle contrazioni con un anticipo di qualche istante rispetto al loro arrivo. Quelle particolarmente potenti le commentava come allo stadio: “Però! Vai così! Uuh, guarda questa!”. Poi mi stringeva forte e mi avvicinava un asciugamano perché lo mordessi al posto del suo braccio.
Poco dopo le cinque del pomeriggio Giuliana mi ha rotto le acque. Il liquido era tinto, mi hanno fatto una flebo di antibiotico nel braccio. Non ho sentito l’ago. “Puoi spingere”, mi hanno incoraggiato. Ho urlato ancora: “Mammamammamamma!”. Mia madre, che era fuori in sala d’aspetto, pur avendo un deficit d’udito è riuscita a sentirmi. E dribblando non so come ostetriche, ginecologi e infermiere ha attraversato tre stanze, un corridoio e mi ha raggiunto in quattro secondi netti. “Mi cercavi?”, mi ha chiesto, affacciandosi sorridente alla sala travaglio. “Era un’invocazione generica”, ho precisato cacciandola. Poi ho pensato: adesso chiedo un cesareo, o l’eutanasia.
Alcune amiche mi avevano raccontato la loro esperienza. “All’inizio del travaglio, prima di andare in ospedale, ho addobbato l’albero di Natale”. “Io ho lavato le tazze della colazione”. “Io ho pagato online i conti del mese”. “Io sono andata a fare una passeggiata con il cane”. Prima della nascita della Pupa, la mia primogenita, in quei momenti convulsi in cui non riuscivo nemmeno a formulare una frase di senso compiuto l’unica cosa che mi veniva in mente era: io non ce l’ho avuto, l’inizio del travaglio. Sono partita subito dalla fine.
Per fortuna l’ostetrica, Giuliana, era bravissima. Nei pochi secondi di intervallo tra le contrazioni leggevo il suo nome sul cartellino che portava appeso al camice. Per ingraziarmela lo scandivo a voce alta: “Giu-lia-na. Che bel nome che hai, Giuliana”. Poi sentivo il dolore aumentare e ricominciavo a urlare: “Fammelanascerefammelanascere!”. Mia sorella leggeva sul tocografo l’intensità delle contrazioni con un anticipo di qualche istante rispetto al loro arrivo. Quelle particolarmente potenti le commentava come allo stadio: “Però! Vai così! Uuh, guarda questa!”. Poi mi stringeva forte e mi avvicinava un asciugamano perché lo mordessi al posto del suo braccio.
Poco dopo le cinque del pomeriggio Giuliana mi ha rotto le acque. Il liquido era tinto, mi hanno fatto una flebo di antibiotico nel braccio. Non ho sentito l’ago. “Puoi spingere”, mi hanno incoraggiato. Ho urlato ancora: “Mammamammamamma!”. Mia madre, che era fuori in sala d’aspetto, pur avendo un deficit d’udito è riuscita a sentirmi. E dribblando non so come ostetriche, ginecologi e infermiere ha attraversato tre stanze, un corridoio e mi ha raggiunto in quattro secondi netti. “Mi cercavi?”, mi ha chiesto, affacciandosi sorridente alla sala travaglio. “Era un’invocazione generica”, ho precisato cacciandola. Poi ho pensato: adesso chiedo un cesareo, o l’eutanasia.
D-DAY/2
Dalla luce, il bambino
Prima della nascita della mia primogenita, detta “la Pupa”, avevo anche frequentato dei corsi. Il generico “preparto”, il rilassante “stretching per gestanti”, il noiosissimo “acquaticità in gravidanza”, un breve quanto inutile seminario “simulazioni di allattamento”. Mi ero anche documentata sull’esoterico canto carnatico, secondo il metodo di Frédérick Leboyer , che si rifà alle antiche tradizioni indiane e consiglia alle donne di utilizzare la voce, modulandola, per soffrire meno durante il travaglio.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.
- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.
Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.
Pensavo: sarà lungo ma sopportabile. In fondo non sono una che frigna.
Mi immaginavo il dolore come un’onda. Pensavo: se non cerco di resistere, se mi lascio trasportare da quest’onda, ce la farò senza grandi problemi. Il trucco sta nel passare attraverso l’onda, mi ripetevo.
Un sabato mattina verso le undici, tre giorni dopo la data presunta del parto, ho perso il tappo di muco di cui mi avevano parlato tanto. Sapevo che poteva precedere l’inizio del travaglio di pochi minuti come di due o tre giorni. “Ohibò!” ho detto. Dieci minuti dopo sono cominciate le contrazioni.
Tutti allegri e tranquilli – c’era anche mia sorella, che doveva solo accompagnarmi in auto ma poi è rimasta con me, preziosa doula improvvisata, fino alla fine – all’ora di pranzo siamo andati in ospedale. Mi hanno visitato: dilatazione un centimetro. “Signora, se vuole può andare a casa. È un primo figlio, ci vorrà del tempo”.
Ho fatto una smorfia. Il dolore aumentava. “Okay, vedo se c’è una camera libera”, si è convinta l’ostetrica.
Alle due mi hanno dato una stanza. Nel tragitto tra l’ascensore e il mio letto, in corridoio, mi piegavo ogni trenta secondi. Non che abbia mai provato, ma avevo la sensazione che qualcuno mi sparasse all’addome.
- (Infermiera, caustica, assistendo ai miei silenziosi contorcimenti): “Ehi, senti un po’. Se continui così non arrivi in fondo”.
- (Io, prendendo vagamente fiato): “Grazie, bengentile. È confortante”.
- (Infermiera, con l’aria di chi sa lunga): “A meno che…”
- (Io, speranzosa): “A meno che?”
- (Infermiera, allontanandosi lungo il corridoio mentre sghignazza): “A meno che il tuo non sia un parto pre-ci-pi-to-so!”.
Prima dell’arrivo della Pupa pensavo che non avrei chiesto l’epidurale. Volevo che il mio fosse un parto più naturale possibile, ma per prudenza avevo fatto comunque la visita preliminare dall’anestesista (“mi servirà solo in caso di complicazioni”, pensavo).
Alle tre sono entrata in sala travaglio, col fiato corto, urlando a centoventi decibel, “Epidurà! Epidurà! Epidurà!”. Alzavo anche la mano per attirare l’attenzione e riuscivo a pensare solo due cose: 1) Non riesco nemmeno a finire la parola “epidurale” e 2) Se incontro Frédérick Leboyer gli spacco la faccia.
L’epidurale non è arrivata. Dopo un veloce monitoraggio mi hanno proposto di fare il travaglio nella vasca. Ho detto sì e volevo tuffarmi subito, ma mi hanno fermato: “Aspetta almeno che ci sia l’acqua”. Quando finalmente è arrivato il momento mi ci hanno buttato dentro sollevandomi di peso. L’acqua calda rilassa all’istante i muscoli e lenisce il dolore. “Ohporcavaccacosìsiragiona”, ho detto. Tuttoattaccato.
Dopodichè, ho perso le parole.
Mi dicevano: “Respira lentamente”. Io ansimavo come un mantice.
Mi dicevano: “Calma”. Mi sembrava di non riuscire ad aprire bocca, ma mi hanno raccontato che ho morso. Prima il lenzuolo, poi il braccio di qualcuno.
Mi hanno tirato fuori dalla vasca, ogni tanto mi visitavano. Sembravo posseduta come nell’Esorcista. La dilatazione progrediva veloce. Troppo veloce per un primo figlio. Sei, sette centimetri. “Ehi, è troppo veloce persino per l’epidurale”, ha commentato qualcuno a un certo punto. “Non c’è pausa tra una contrazione e l’altra”, ha aggiunto qualcun altro. Ah, ah, avrei riso se mi fossi ricordata come si faceva. In quel momento ho pronunciato la mia prima e unica parolaccia. Una ginecologa di passaggio mi ha fulminato. “Non hai imparato niente al corso preparto?”. “In effetti no, signora. Non mi ricordo nulla”. Ed era proprio così.
D-DAY (IL GIORNO DELLE DOGLIE)/1
Fare un figlio è come lanciare nel mondo un amo a forma di punto interrogativo. Bisogna essere preparati, raccomanda qualcuno. Per fortuna e purtroppo, per quanto impegno ci si metta, in realtà non si è mai preparati abbastanza: né a metterlo al mondo, né ad allevarlo quando sarà nato. Ci si sforza di informarsi, confrontarsi, di mettere in fila i pensieri, di prendere le misure. Ma quel che si crede prima non corrisponde mai a quel che sarà dopo.
Eppure avevo letto un’infinità di manuali. Parlato più volte con tutte le amiche che ci erano già passate. E scrupolosamente interrogato mia mamma, che oltre a me ha partorito naturalmente due gemelli. Podalici.
- (Io): “Mamma, come è stata la mia nascita?”
- (Mamma): “Un travaglio lunghissimo. Almeno ventiquattr’ore, forse di più. Sei nata alle due e mezza del mattino. Dall’ospedale ho telefonato a tuo padre, che era rimasto a casa. All’epoca” (= quando gli indiani ancora assalivano le diligenze) “non era frequente che gli uomini assistessero al parto”.
- (Io): “E cosa gli hai detto?”
- (Mamma): “Niente, che avevo voglia di fare due chiacchiere. Lui continuava a chiedermi: è successo qualcosa? E io gli rispondevo, per prenderlo in giro: mannò, che cosa vuoi che sia successo. Poi non ce l’ho fatta più. Sono scoppiata a ridere e gli ho detto: è nata Paola”.
- (Io): “Hai sentito tanto male?”
- (Mamma): “Umpf”.
- (Io): “In che senso, umpf?”
- (Mamma): “Nel senso che poi te lo dimentichi”.
- (Io): “Ah. E la nascita dei gemelli?”
- (Mamma): “Eh, quella sì che è stata divertente. Avevo un pancione enorme. Quando mi sedevo mi arrivava alle ginocchia”.
- (Io): “E cosa c’è di divertente?”
- (Mamma): “Be’, all’epoca” (= quando i treni ancora andavano a vapore) “non si facevano le ecografie. Il mio ginecologo era una capra e non ha capito che la mia era una gravidanza gemellare. Mi diceva: signora, sento due battiti, ma uno è sicuramente l’eco dell’altro. Io insistevo: guardi che nella mia famiglia ci sono stati dei gemelli, guardi che sento calci e pugni dappertutto, o ho in pancia la Dea Kalì oppure questi sono due. E lui: signora, non faccia scene. È uno solo ma è molto grosso”.
- (Io): “Allora che hai fatto?”
- (Mamma): “Quand’ero di otto mesi e mezzo non riuscivo neanche più a entrare in macchina. Mi ero proprio stufata. Così, sapendo di avere una dilatazione passiva del collo dell’utero, una mattina che il mio ginecologo non è di turno mi presento in ospedale. Dico: ho le contrazioni. Mi visitano: signora, lei è dilatata, è entrata in travaglio. E mi ricoverano”.
- (Io): “Cioè, li hai imbrogliati?”
- (Mamma): “Sì. E siccome le contrazioni non c’erano a un certo punto l’ostetrica mi tasta tutta la pancia per capire come va e dice: ma signora, qui dentro ce ne sono due. Mi fanno una radiografia e arriva la conferma, sono gemelli. Mi danno un po’ di ossitocina, poi per farli uscire cominciano a saltarmi sulla pancia, letteralmente. Sai, erano girati tutti e due di piedi”.
- (Io): “Quindi hai partorito due gemelli podalici prima del termine, grazie a un bluff e senza cesareo?”
- (Mamma): “Sì, ed erano anche belli cicciotti. Non ti dico come ci è rimasto male il ginecologo capra, quando l’ha saputo”.
- (Io): “Ma hai sentito molto male?”
- (Mamma): “Bof”.
Con poche variazioni, è così che mia mamma – negli anni – mi ha sempre descritto i suoi parti. Aggiungendo ogni volta, alla fine, il commento: “Comunque è stato bellissimo”.
Credo che l’atteggiamento con cui noi ci prepariamo alla nascita di nostro figlio – più o meno serene, ottimiste, fiduciose – dipenda in larga misura da come nostra madre l’ha vissuto, e da come ce l’ha raccontato. Non che faccia la differenza, una volta al dunque: per quanto s’illuda, nessuna donna è mai davvero pronta. E in fondo il bello è proprio questo.
Eppure avevo letto un’infinità di manuali. Parlato più volte con tutte le amiche che ci erano già passate. E scrupolosamente interrogato mia mamma, che oltre a me ha partorito naturalmente due gemelli. Podalici.
- (Io): “Mamma, come è stata la mia nascita?”
- (Mamma): “Un travaglio lunghissimo. Almeno ventiquattr’ore, forse di più. Sei nata alle due e mezza del mattino. Dall’ospedale ho telefonato a tuo padre, che era rimasto a casa. All’epoca” (= quando gli indiani ancora assalivano le diligenze) “non era frequente che gli uomini assistessero al parto”.
- (Io): “E cosa gli hai detto?”
- (Mamma): “Niente, che avevo voglia di fare due chiacchiere. Lui continuava a chiedermi: è successo qualcosa? E io gli rispondevo, per prenderlo in giro: mannò, che cosa vuoi che sia successo. Poi non ce l’ho fatta più. Sono scoppiata a ridere e gli ho detto: è nata Paola”.
- (Io): “Hai sentito tanto male?”
- (Mamma): “Umpf”.
- (Io): “In che senso, umpf?”
- (Mamma): “Nel senso che poi te lo dimentichi”.
- (Io): “Ah. E la nascita dei gemelli?”
- (Mamma): “Eh, quella sì che è stata divertente. Avevo un pancione enorme. Quando mi sedevo mi arrivava alle ginocchia”.
- (Io): “E cosa c’è di divertente?”
- (Mamma): “Be’, all’epoca” (= quando i treni ancora andavano a vapore) “non si facevano le ecografie. Il mio ginecologo era una capra e non ha capito che la mia era una gravidanza gemellare. Mi diceva: signora, sento due battiti, ma uno è sicuramente l’eco dell’altro. Io insistevo: guardi che nella mia famiglia ci sono stati dei gemelli, guardi che sento calci e pugni dappertutto, o ho in pancia la Dea Kalì oppure questi sono due. E lui: signora, non faccia scene. È uno solo ma è molto grosso”.
- (Io): “Allora che hai fatto?”
- (Mamma): “Quand’ero di otto mesi e mezzo non riuscivo neanche più a entrare in macchina. Mi ero proprio stufata. Così, sapendo di avere una dilatazione passiva del collo dell’utero, una mattina che il mio ginecologo non è di turno mi presento in ospedale. Dico: ho le contrazioni. Mi visitano: signora, lei è dilatata, è entrata in travaglio. E mi ricoverano”.
- (Io): “Cioè, li hai imbrogliati?”
- (Mamma): “Sì. E siccome le contrazioni non c’erano a un certo punto l’ostetrica mi tasta tutta la pancia per capire come va e dice: ma signora, qui dentro ce ne sono due. Mi fanno una radiografia e arriva la conferma, sono gemelli. Mi danno un po’ di ossitocina, poi per farli uscire cominciano a saltarmi sulla pancia, letteralmente. Sai, erano girati tutti e due di piedi”.
- (Io): “Quindi hai partorito due gemelli podalici prima del termine, grazie a un bluff e senza cesareo?”
- (Mamma): “Sì, ed erano anche belli cicciotti. Non ti dico come ci è rimasto male il ginecologo capra, quando l’ha saputo”.
- (Io): “Ma hai sentito molto male?”
- (Mamma): “Bof”.
Con poche variazioni, è così che mia mamma – negli anni – mi ha sempre descritto i suoi parti. Aggiungendo ogni volta, alla fine, il commento: “Comunque è stato bellissimo”.
Credo che l’atteggiamento con cui noi ci prepariamo alla nascita di nostro figlio – più o meno serene, ottimiste, fiduciose – dipenda in larga misura da come nostra madre l’ha vissuto, e da come ce l’ha raccontato. Non che faccia la differenza, una volta al dunque: per quanto s’illuda, nessuna donna è mai davvero pronta. E in fondo il bello è proprio questo.
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