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Francesco Baschieri è stato uno dei nostri primi Alumni: l’ho incontrato per la prima volta a San Francisco nel 2010 quando la sua Spreaker, piattaforma per creare, distribuire e monetizzare podcast e programmi radio in diretta, era incubata nell’allora “Gym” (la fase embrionale del nostro quartier generale) di Mind the Bridge, al Pier 38.

Ne scrissi proprio su questo blog l’anno successivo.

Dover tornare su di lui 8 anni dopo per commentare l’acquisizione da parte di Voxnest, azienda con base a New York che offre soluzioni per podcasting professionale, non può quindi che farmi un immenso piacere. Oltre che dimostrare che l’impegno e la tenacia possono portare a grandi successi anche dopo diverso tempo. Perché fare startup è spesso un percorso ad ostacoli, non sempre lineare.

BaschieriMa torniamo a Francesco. Bolognese, 42 anni, un esordio professionale in Alstom Transport (multinazionale francese che si occupa di treni e impianti ferroviari) prima come progettista software e poi come Project Manager, passa in un’azienda di beni di consumo come Program Manager per poi diventare in breve tempo Direttore Operations presso uno degli stabilimenti. Nel 2007 lascia tutto e co-fonda Waymedia (2007) per poi cederla a un gruppo milanese quando fattura già un milione di euro. Infine la “follia” Spreaker e l’inizio di tutto un altro viaggio, che, passando dalla Silicon Valley e Berlino, lo porterà a New York.

Baschieri facebook

Francesco, cosa significa l’acquisizione da parte di Voxnext?
VoxNest è il risultato di un progetto imprenditoriale ambizioso per creare il più grosso marketplace al mondo di audio parlato (podcast). Di questo progetto Spreker è la piattaforma che porta in dote utenti, tecnologia e competenze.

Difatti tu rimani alla guida?
Sì, io sono il President e CEO e il team di Spreaker guiderà la società. Però portiamo a casa un sacco di competenze e contatti nel mondo media. Ad esempio nel board abbiamo Todd Larsen che è stato presidente di Dow Jones ed executive VP di Time Inc.​ E tra i nostri investitori ci sono figure importanti del media business (che per ora non si possono dire).​ In tutto per ora siamo una trentina di persone, ma stiamo crescendo velocemente.

Guardandoci indietro, come sei arrivato da Bologna a New York?
Attraverso quattro tappe.
La prima tappa è stata a San Francisco con voi di Mind the Bridge: lì è stato il mio primo contatto con gli ​Stati Uniti e ho portato a casa un modo diverso di concepire l’impresa ​ rispetto a quello che avevo imparato in Italia.​
La seconda tappa è stata Berlino: siamo tornati in ​Europa perché aveva più senso per ​lo stadio di sviluppo in cui eravamo. Abbiamo scelto Berlino perché volevamo stare in un hub ​internazionale, anche dopo l’esperienza di​ S​an Francisco e in Italia mancava una simile concentrazione​ di aziende, talento e capitali.​
La terza tappa è stata senza una sede. Abbiamo ​ scelto di diventare una azienda “liquida” spalmata su diverse sedi.​ Io per motivi personali sono tornato in Italia (Venezia) mentre il resto del team era sparso tra Spagna e Italia.
La quarta tappa è stata New York. Prima sono venuto io come testa di ponte e poi, in vista dell’acquisizione, ho spostato la parte commerciale e marketing, mentre in Italia e in Spagna rimane lo sviluppo secondo il modello della dual company che ben conosci. E il piano è di concentrare il grosso dello sviluppo della tecnologia in Italia.

Spreaker team

Come è il tuo rapporto con l’Italia?
Di affetto e riconoscenza, ma con il giusto equilibrio.
Un imprenditore ha un obbligo: quello di massimizzare le chance di successo della propria azienda. L’Italia non è detto che sia sempre il posto ideale ​per fare nascere e crescere una nuova realtà​.
​Se non lo è, allora bisogna rimboccarsi le maniche e andare dove è meglio per la tua azienda.
Poi, una volta trovata la propria strada, c’è spazio per aiutare il proprio paese. Però con un altro cappello. O meglio con il cappello in testa e non con il cappello in mano…

 

Spreaker_Logo.pngAvevo conosciuto Francesco Baschieri lo scorso anno. Ai tempi la sua Spreaker era incubata al Pier 38 al Gym di Mind the Bridge. Francesco mi aveva subito colpito, oltre che per la sua passione per il baseball (cosa di cui, nonostante la sede di Mind the Bridge confini con lo stadio dei Giants, non sono ancora stato contaminato), per la sua entusiastica determinazione nel portare avanti il proprio progetto: un sito internet che permetta a chiunque voglia fare sentire la sua voce in radio di creare un proprio spazio in diretta audio su Internet, in modo facile e gratuito.
Trentaseienne bolognese, Francesco, dopo essersi laureato in Ingegneria informatica a Bologna a pieni voti, dapprima segue la carriera in azienda per poi mollare tutto e mettersi a costituire una azienda, …anzi due. Scelta forte, abbastanza inusuale nel panorama italiano ove il posto fisso è ancora l’ambizione lavorativa per molti.

Francesco, partiamo da qui. Cosa ti ha spinto a lasciare il posto fisso per scegliere la via tortuosa e rischiosa di fondare una startup o meglio due?
Sì, effettivamente forse un po’ pazzo lo sono stato, ma, se potessi tornare indietro, rifarei le stesse scelte, forse anche con maggiore consapevolezza. Come dicevi ho cominciato a lavorare in Alstom Transport (multinazionale francese che si occupa di treni e impianti ferroviari) prima come progettista software e, in seguito, come Project Manager per commesse su sistemi di supervisione (le sale controllo delle stazioni).
Poi ho cambiato ambito e ho proseguito prima come Program Manager in un’azienda di beni di consumo di cui poi sono diventato Direttore Operations (in pratica direttore di stabilimento) presso uno degli stabilimenti.
E poi la presunta “follia”: lasciare un posto da dirigente a 32 anni per fondare la mia prima startup: Waymedia, attiva nell’ambito del Location Based Marketing. L’inizio è difficile ma, dopo tre anni, riusciamo ad arrivare a fatturare quasi 1 milione di euro e a cedere l’azienda a un gruppo milanese. Da lì in poi avviare la seconda (Spreaker) è stata una scelta molto meno combattuta.

Spreaker team.jpegQuindi alla fine è andata bene. Ma come mai questa scelta? Cosa non ti piaceva del lavoro da dirigente che invece hai trovato lanciando un business tutto tuo?
Il lavoro da dirigente ti costringe inevitabilmente a determinati schemi che regolano e scandiscono lo svolgimento delle tue giornate. Fare la tua azienda invece ha in sé un sapore diverso: c’è il sapore della sfida, del non sapere cosa succederà domani … e poi c’è l’ambizione, la voglia di vedere il tuo progetto decollare ed avere successo; le emozioni e l’adrenalina che ho vissuto da quando ho iniziato quest’avventura a tempo pieno sono state di gran lunga maggiori di quanto avessi mai immaginato….

Qual è la prima difficoltà che hai affrontato nel passare da lavoro dipendente ad autonomo? Come è cambiata la tua vita?
La prima difficoltà è stata gestire gli orari di lavoro. Faccio fatica a distinguere tra la mia vita personale e quella lavorativa, di fatto al momento non credo ci sia nessuna netta differenza e il risultato è che mi trovo ad orari improbabili a controllare che tutto stia funzionando per il meglio. Mi rendo conto di aver accumulato in questi ultimi anni molti device che mi permettono di essere sempre connesso (tipo telefoni, iPad ecc…), ma tengono abbastanza alto il livello di stress, ed un biglietto sempre pronto per volare a San Francisco.

Silicon Valley…. La sede di Spreaker però è a Bologna giusto? Pensate di trasferire una parte del business in Silicon Valley?
Certamente sì. Negli Stati Uniti al Gym di Mind the Bridge abbiamo messo a punto la idea di Spreaker. E lì puntiamo a portare marketing e vendite, tuttavia lasciando tutto lo sviluppo del prodotto in Italia.

Raccontaci la genesi di Spreaker.
La parte che preferisco. Dunque, assieme ai soci di questa prima avventura, Daniele Cremonini, Francesco Corsi e Andrea De Marsi, a cui si è aggiunto quello che era stato il nostro primo dipendente Marco Pracucci (attualmente CTO di Spreaker), ci viene questa idea.
Sarebbe bello poter dare voce alle persone (in diretta audio su Internet) in modo facile e magari gratuito. Ci sono tante considerazioni da fare sul mercato, sull’opportunità (l’audio è stato sempre il fanalino di coda dei media su Internet negli ultimi anni, ma le cose stanno cambiando rapidamente grazie agli smartphone che permettono il consumo di audio in streaming in tutte quelle situazioni di “movimento” tipo in auto, in palestra o mentre si fa jogging, ecc.)
L’inizio è entusiasmante e ci mettiamo subito a creare il prodotto. In effetti abbiamo qualche soldo da parte e questo ci permette di andare avanti senza troppi problemi per più di un anno. Anche se sappiamo da subito che, nel momento in cui andremo a lanciare il servizio, i soldi finiranno subito… e quindi ci diamo da fare per trovarli.

Che partner/investitore stavate cercando, italiano o straniero? Il fatto che avevate già fondato una startup e che avevate avuto una exit vi ha facilitato nella raccolta dei capitali?
Inizialmente abbiamo cercato un partner italiano che potesse credere nel nostro progetto, capirne le potenzialità e spronarci verso un’apertura internazionale. Probabilmente il nostro background ci ha aiutato nel guadagnarci da subito la fiducia dei nostri investitori ma cercare qualcuno che finanziasse il progetto non è stato comunque facile…
Il nostro modello di business è veramente rischioso; inoltre in Italia le porte alle quali bussare per cercare capitali sono veramente poche, per cui le possibilità si riducono drasticamente. Nonostante le varie porte che ci siamo visti chiudere in faccia, c’è però chi ha creduto in noi sin dall’inizio rinnovando poi la sua fiducia nel tempo.
Alla fine della fiera tra IAG, Italian Angels for Growth che ci finanzia sia nel primo che nel secondo round ed Ingenium, fondo d’investimento dell’Emilia Romagna, che si è aggiunto nella seconda tranche, siamo riusciamo a tirare su un milione di dollari….

Complimenti, soprattutto visto che ci hai parlato di un servizio gratuito con un business model molto rischioso. Come funziona?
Il nostro modello è un insieme di freemium e advertising. In sostanza offriamo alla nostra community la possibilità di utilizzare lo strumento in modo gratuito, con dei limiti in termini di tempo di trasmissione; se invece vuoi trasmettere in modo più professionale (senza limiti di tempo e con feature aggiuntive), paghi una quota mensile (il premium sul servizio free, n.d.r.).
E poi c’è la pubblicità. Lo streaming audio dei contenuti prodotti dagli utenti viene interrotto da piccole pause pubblicitarie ogni 20 minuti circa. Questi spot possono essere geo-localizzati e trasmessi solo su determinati podcast per cui il risultato è una pubblicità che risulti utile dal punto di vista dell’ascoltatore.
Il rischio è dato dal fatto che in mancanza di utenti paganti e di numeri cospicui per poter vendere gli spazi pubblicitari sia audio che video, non ci sono introiti. Bisogna avere grandi numeri, questo è il punto.

Come pensate di utilizzare questo milione di dollari, cosa ci dobbiamo aspettare da Spreaker nei prossimi mesi?
Quello che già ad oggi notiamo e che ci dà più soddisfazione è il modo in cui i nostri utenti usano Spreaker. Uno dei momenti più belli è stato durante la rivoluzione libica, quando è stata fatta una radio da Misurata sotto assedio. E poi tutti i giorni ascoltiamo e vediamo nascere le trasmissioni più varie (radiocronache sportive, prediche religiose, comizi politici ecc.) quindi l’idea di diventare uno Spreaker’s corner virtuale sta pian piano diventando realtà. Nei prossimi mesi saremo impegnati con il lancio di due nuove applicazioni: una nuova versione dell’app iPhone e un’app Android nuova di zecca. Poi saremo sempre di più proiettati verso il mercato americano ma non solo: anche in Latino America ci sono buoni riscontri, quindi in generale lo sguardo sarà rivolto oltre oceano.

Ma anche gli utenti sono principalmente americani o il servizio è utilizzato anche da molti europei?
Siamo nati in Italia e qui abbiamo avuto i nostri primi utenti che hanno avuto un ruolo fondamentale nel darci feedback e farci capire come muovere i primi passi. Ad oggi l’Europa in generale è presente con una buona fetta di utenti, dalla Spagna alla Gran Bretagna passando per il centro Europa. Gli americani sono tra i più attivi, seguiti dagli ispanici e dagli italiani.

Grazie Francesco, due spunti emergono dalla tua storia che confermano i dati della Survey 2011 di Mind the Bridge che verrà presentata il prossimo novembre in occasione del Venture Camp:
1) fare l’imprenditore è un mestiere seriale, che si perfeziona solo facendolo. Non a caso le startup di successo sono raramente una “first time experience”;
2) in una startup convergono le esperienze precendenti dei fondatori, sia di studio, che di lavoro, che di impresa. Lo startupper medio italiano ha in media 32-35 anni, con un livello di education alto ed esperienze lavorative precedenti. Zuckenberg rimane una eccezione…