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sabato 6 aprile 2013

"Extravolti" - la mostra a Torino

di Emanuela Bernascone, La Stampa

EXTRAVOLTI
di Davide Iodice
11 - 18 aprile 2013
Palazzo Saluzzo Paesana
via della Consolata 1 bis, Torino
Inaugurazione 11 aprile, h 18.30


Dall’11 al 18 aprile 2013 le sale storiche di Palazzo Saluzzo Paesana verranno “occupate” dai volti stravolti di numerosi personaggi della cultura italiana che hanno posato per il  progetto fotografico di Davide Iodice EXTRAVOLTI, in difesa della cultura.


mercoledì 30 novembre 2011

Transavanguardia al Castello di Rivoli




Comunicato stampa evento: ACHILLE BONITO OLIVA AL CASTELLO DI RIVOLI

vai alla pagina ACHILLE BONITO OLIVA AL CASTELLO DI RIVOLI Dal lunedì 05 dicembre 2011
al lunedì 05 dicembre 2011
NELL’AMBITO DELLE CELEBRAZIONI DELLA TRANSAVANGUARDIA

Lunedì 5 dicembre 2011, ore 18 teatro del Museo, ore 19 Manica Lunga

In occasione delle celebrazioni nazionali dedicate alla Transavanguardia, il Castello di Rivoli – dopo le mostre sull’Arte Povera e Luigi Ontani torna ad essere protagonista con un convegno e un’esposizione dedicata al celebre movimento italiano.
Lunedì 5 dicembre alle ore 18, Achille Bonito Oliva parlerà della Transavanguardia con il filosofo Gianni Vattimo, lo storico dell’arte Francesco Poli e il direttore della GAM Danilo Eccher. L’incontro si terrà nel teatro del museo e durerà circa un’ora. Alle 19 il pubblico sarà invitato a seguire nella Manica Lunga Achille Bonito Oliva che illustrerà alcuni celebri capolavori di Nicola De Maria, Francesco Clemente, Sandro Chia, Enzo Cucchi e Mimmo Paladino.
Questo importante tributo al celebre movimento italiano rientra nel progetto Le Scatole Viventi / The Living Boxes a cura di Andrea Bellini.
TRANSAVANGUARDIA
Corrente pittorica emersa in Italia intorno al 1980 che, come analoghe esperienze tedesche e statunitensi contemporanee, si è proposta di superare il linguaggio astratto-concettuale delle neoavanguardie attraverso un ritorno a materiali e tecniche pittoriche tradizionali e una figurazione dai tratti espressionisti, e talvolta con un recupero di motivi e forme del passato. Esponenti della transavanguardia – sostenuta dal critico A. Bonito Oliva, cui si deve il neologismo – sono S. Chia, M. Paladino, E. Cucchi, F. Clemente, N. De Maria, presentati per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1980.
(Enciclopedia Treccani)
Achille Bonito Oliva
“L’area culturale in cui opera l’arte degli anni Ottanta è quella della transavanguardia, che considera il linguaggio come uno strumento di transizione, di passaggio da un’opera all’altra, da uno stile all’altro. L’avanguardia, in tutte le sue varianti del secondo dopoguerra, si sviluppava secondo l’idea evoluzionistica del darwinismo linguistico che trovava i suoi antenati fissi nelle avanguardie storiche e in una visione anche essa lineare della storia come progresso e superamento delle antinomie. La transavanguardia invece opera fuori da queste coordinate obbligate, seguendo un atteggiamento nomade di reversibilità di tutti i linguaggi del passato, assecondata da una nuova nozione di storia ribaltata in post-storia non garantita da alcun sistema di previsione. (…) L’arte nasce da radici ramificate ed elastiche che permettono all’artista di uscire dal territorio antropologico inizialmente abitato e di partecipare in tal modo a un fenomeno di meticciato culturale senza precedenti. In un’epoca di crisi come la nostra, nella seconda decade del XXI secolo tutto questo ci permette di affermare un nomadismo culturale e la coesistenza delle differenze. Questo è l’indispensabile valore che le transavanguardie, ormai transcontinentali, trasmettono e sembrano venire in soccorso di una società globale sempre più sottoposta ai colpi di una crisi epistemologica, finanziaria, politica e morale.”
(Estratto dal saggio di Achille Bonito Oliva pubblicato nel catalogo “La Transavanguardia Italiana”, Skira, 2011).
Considerato il grande successo di pubblico, la mostra Luigi Ontani. RivoltArteAltrove è stata prorogata al 15 gennaio 2012.

REGIONE PIEMONTE - FONDAZIONE CRT - CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI TORINO - CITTA’ DI TORINO - UNICREDIT

Castello di Rivoli

Sede Piazza Mafalda di Savoia, Rivoli 10098 -  Mappa
Informazioni Tel +39 011 9565222 | [email protected] | http://www.castellodirivoli.org/

martedì 22 novembre 2011

Milano, transavanguardia...

La transavaguardia? L'ha inventata Nietzsche

Giovedì si apre a Milano la kermesse del movimento lanciato nel ’79 da Achille Bonito Oliva. Vattimo ne spiega il contesto

La Stampa, 22 novembre 2011

Come guardare l’arte della transavanguardia? La sua «cornice» storica è quella del post-moderno, di cui è venuto di moda dire che è morto... Ma davvero? Oppure anche qui è stata soffocata, come in tanti altri campi, la possibilità emancipativa che veniva aperta dalle nuove condizioni che facevano e fanno rabbrividire tutte le auctoritates - politiche, religiose, economiche, culturali?

Niente di meglio, per immaginare le condizioni di esistenza del ventunesimo secolo, che riferirsi a un pensatore ottocentesco che si sentiva e dichiarava «inattuale», Friedrich Nietzsche. L’insieme delle sue dottrine resta per molti aspetti un puzzle, ma almeno per alcuni elementi egli ha intravisto qualcosa che oggi si sta realizzando sotto i nostri occhi. Il fattore determinante delle nuove condizioni di esistenza, che alcuni pensatori hanno chiamato postmoderno, è la comunicazione: dalla facilità e velocità dei trasporti alle reti televisive alle autostrade informatiche. Non solo la storia contemporanea diventa sempre più cronaca - nel senso che gli eventi che accadono in ogni parte del mondo, almeno in linea di principio, possono essere, e spesso sono di fatto, conosciuti «in tempo reale». Sia i viaggi rapidi e frequenti, sia la trasmissione di informazioni rendono vicine e accessibili culture che in altri tempi di potevano accostare solo attraverso un lungo percorso, spaziale e di iniziazione ideale.

Spazio e tempo non sono due dimensioni davvero separate: per qualche ragione di cui il mondo dell’informazione ci dà continui esempi, nella società delle comunicazioni intensificate anche le culture e le memorie del passato diventano più vicine: chi guarda la televisione ha continuamente sotto gli occhi tutta la storia del cinema (riprese, ripetizioni, ritorno di mode di altri tempi) e, dato il bisogno onnivoro del mezzo di offrire agli spettatori cose «nuove», inedite, anche notizie su grandi porzioni della storia passata. L’architettura che si è chiamata post-moderna è un altro esempio di questa stessa tendenza: i casinò di Atlanta e di Las Vegas che imitano la forma di edifici greci, egizi, romani, sono solo il culmine di una tendenza generale ad attingere nel repertorio delle forme e degli stili del passato immagini capaci di intensificare la nostra esperienza del presente, conferendo alle costruzioni di oggi significati ornamentali che si realizzano proprio con l’evocazione di monumenti di altri tempi.

L’idea di Nietzsche, esposta appunto in una delle sue Considerazioni inattuali, secondo cui l’uomo di oggi si aggira nel giardino della storia come in un deposito di maschere teatrali, scegliendo liberamente questo o quello stile storico per darsi una forma e una identità, descrive il carattere di base di questa condizione. È ciò che si realizza, in termini molto banali, nella disponibilità di cucine «etniche» che ormai è diffusa in tutte le metropoli del mondo industriale. Ma, a livelli più alti o meno banali, succede lo stesso nel mondo dei valori spirituali: qualche sociologo delle religioni parla oggi, spesso con disprezzo, di «religioni à la carte», anche per stigmatizzare negativamente il carattere sempre meno rigoroso delle dottrine e delle prescrizioni etiche che le religioni portano con sé la tendenza al sincretismo, la ricerca di un rapporto semplicemente sentimentale con la trascendenza.

Il mondo post-moderno, per queste e altre ragioni (le migrazioni massicce, la fine degli imperi coloniali tradizionali e la conseguente caduta della differenza «gerarchica» tra mondo «civilizzato» e culture «primitive»; da ultimo, la fine della divisione del mondo in due blocchi rigidamente contrapposti), appare e viene vissuto sempre più come una Babele di linguaggi, stili di vita, visioni del mondo diverse. Nietzsche aveva immaginato che l’individuo capace di vivere in un mondo come questo, godendone come di una possibilità di libertà e non lasciandosene schiacciare e distruggere, dovesse essere un Overman (tedesco Uebermensch), un superuomo. Ben al di là di quello che immaginava Nietzsche, la società che si prepara per il prossimo secolo si può unicamente pensare come una società di superuomini: senza nessun tratto aristocratico e nemmeno violento, ma come un insieme di individui «obbligati» a interpretare personalmente il flusso di informazioni nel quale, lo vogliano o no, sono immersi.

Ciò che fa di questa condizione post-moderna la cornice ideale della transavanguardia è la dissoluzione, vissuta ormai a tutti i livelli, di ogni nozione di progresso lineare. E dunque anche di ogni immagine dell’avanguardia. La molteplicità di forme testimoniata dalle opere degli artisti della Transavanguardia - forse non solo documentata storicamente e criticamente, da Achille Bonito Oliva, ma in molti sensi anche ispirata dalla sua riflessione di critico e dalla sua attività di organizzatore di mostre e di eventi - è un effetto della libertà nei confronti della storia, e della «realtà» che la postmodernità ha reso possibile. Transavanguardia non significa affatto anarchia e arbitrio. Ciò che in essa testimonia questo nuovo spirito di libertà è piuttosto una sorta di amichevolezza verso il mondo, e dunque anche verso il visibile incontrato senza l’intenzione polemica, e dunque anche inimichevole, che caratterizzò tanti prodotti della pop art. Succede nella transavanguardia qualcosa di analogo a quello che si verifica nella filosofia una volta che si sia liberata dal fantasma della verità assoluta - quella che ha sempre legittimato l’intolleranza dei dogmatici - amicus Plato sed magis amica veritas. Se non siamo più sotto il dominio cupo, rassicurante ma anche fatalmente punitivo, della verita, siamo finalmente liberi di praticare la carità. Non ci sarà anche un po’ di questo nelle opere della transavanguardia? 


Sulla kermesse e i relativi incontri (io stesso sarò al Castello di Rivoli il 5 dicembre), cfr. il sito de La Stampa.

lunedì 19 settembre 2011

Due interventi per il dibattito su pensiero debole e new realism

Altri due interventi sul dibattito pensiero debole/new realism, pubblicati entrambi da Liberazione il 18 settembre 2011.

«La "natura" femminile? Il pretesto per trasformare tutte le donne in badanti» 
di Tonino Bucci 
A colloquio con Francesca Rigotti, docente di dottrina politica e studiosa dei processi simbolici

«Ho tutte le colpe di questa terra. Sono comunista, femminista e atea». Francesca Rigotti insegna dottrina politica all'università di Lugano, è una studiosa di processi simbolici e delle metafore che si utilizzano non solo nel discorso filosofico, ma anche nel linguaggio della politica e dell'esperienza ordinaria. Le società umane - ha sostenuto nel suo intervento al Festival filosofia di Modena - ricorrono spesso ad analogie con i fenomeni naturali per descrivere processi culturali. Platone applicava la metafora del parto e della generazione all'atto della creazione intellettuale - all'interno del dialogo del "Teeteto", dedicato alla fondazione dell'episteme. «La donna nel mondo greco è considerata solo ricettacolo, incubatoio, terreno di coltura del seme maschile. E' solo agli uomini che è riservata la capacità di generare, o attraverso il corpo, riproducendosi nei figli, o attraverso l'anima, la conoscenza, la virtù». L'argomento del «così è, in quanto conforme a natura» è il più utilizzato dai fondamentalismi, da quelli religiosi alla tecnocrazia, ovunque insomma vi sia un presunto ordine naturale, eterno e immutabile, che debba dettare legge. Francesca Rigotti ha approfondito questi temi ne "Il pensiero delle cose", "La filosofia delle piccole cose" e "Partorire con il corpo e con la mente".

Judith Butler, uno dei suoi riferimenti, sostiene che il genere è una costruzione culturale. Di biologico non c'è nulla. Qual è il pericolo nel voler definire una presunta natura femminile per differenza da quella maschile?

Nel 2004 uscì una lettera di Ratzinger - a quel tempo cardinale - sulla posizione della donna nella Chiesa cattolica. Apparentemente si presentava come una riabilitazione della natura femminile, in realtà riduceva la donna alla funzione materna di cura e accudimento. Non posso più sentire questo discorso. Vedo tutte noi trasformate in badanti. Di fatto, è quello che facciamo. Se da domani, per ipotesi, tutte le donne smettessero di fare da stato sociale, di accudire i nipoti, di mantenere i figli, di lavorare per gli altri, crollerebbe l'intero sistema. Di questa ideologia - della donna come essere che si prende cura, contrapposta alla natura maschile aggressiva e guerriera - cadono talvolta prigioniere le stesse donne. Ho citato il caso di Edith Stein, ebrea, filosofa e fenomenologa, allieva brillantissima di Husserl, che la utilizzava solo per farle trascrivere i propri manoscritti. A un certo punto della sua vita Stein si convertì al cattolicesimo e finì in un convento. Fu una sorta di soluzione estrema, una scelta dettata da un complesso di inferiorità e da un desiderio di integrazione. Qualcosa del genere deve essere accaduto anche nel caso di Fouad Allam, che ha sentito il bisogno di convertirsi al cattolicesimo in mondovisione, per nascondere la propria origine. Sono paturnie di integrazione totale.

Anche il razzismo ricorre all'argomento della naturalizzazione di ciò che afferma. «Gli arabi sono aggressivi per natura», «gli omosessuali sono contronatura», «le donne sono fatte così» e via dicendo. Ma anche in altri campi ricorriamo ad analogie con i fenomeni naturali. E' solo un caso?
Quando ci mancano i vocaboli per parlare di questioni astratte ricorriamo all'analogia con fenomeni materiali. Lo sosteneva già Vico. Ricorriamo agli umani sensi e alle umane passioni per parlare delle cose che non conosciamo. Conosciamo il fenomeno generativo e lo applichiamo alla generazione delle idee.

Platone ricorre alla metafora del parto proprio nel dialogo dedicato all'episteme, alla conoscenza, al logos. Curioso, no?
Uno dei miti fondativi è quello del labirinto di Dedalo. Chi risolve il problema? Lo risolve Arianna dando il filo a Teseo. Quel filo - sostiene Giorgio Colli ne "La sapienza dei greci" - è il logos, il filo della ragione. Ma Teseo si impadronisce di questo logos che Arianna gli porge fisicamente, se ne appropria con un'operazione di astrazione. Il paradosso è che Arianna trova la soluzione, ma l'istante successivo il mito stabilisce che le donne non hanno il logos. La mitologia compie un'operazione sofisticata: utilizza la metafora della generazione femminile per descrivere l'atto della creatività intellettuale, che però viene riservata esclusivamente agli uomini

C'è un dibattito tra sostenitori dell'ermeneutica - Vattimo, per esempio - e sostenitori del ritorno al realismo, Ferraris in testa. Certo, non possiamo fare a meno dell'idea di verità, ma supporre un reale immutabile e indipendente dalla nostra attività non rischia di offrire un ancoraggio a discorsi autoritari?
Ho sentito di questi discorsi, anche qui al Festival. Quando sento dire che dovremmo tornare al realismo mi scatta un campanello d'allarme. Avverto il rischio di derive. Se non puoi avere più ideali la politica diventa pura amministrazione di una realtà sulla quale non hai più potere.

La realtà - come diceva il vecchio Marx - va pensata assieme alla sua negazione…

Se non è più possibile uno scarto rispetto alla realtà esistente è finita.


Un nuovo realismo anche per l'arte contro la banalità del profitto 
di Roberto Gramiccia 
Il dibattito sul Postmoderno e i suoi risvolti estetici

Quella di un Nuovo realismo è la prospettiva che ha aperto Maurizio Ferraris nella relazione tenuta a Carpi del Festival della Filosofia. Si tratta di un tema che ultimamente ha riempito di sè pagine di giornali e riviste specializzate. Esso è stato posto in una relazione oppositiva rispetto ai fondamenti del Postmoderno. E, in particolare, della lettura che ne offre, ormai da molti anni, il Pensiero debole di Gianni Vattimo. Da questa lettura, non priva di aspetti interessanti e propositivi, relativi in particolare ad un'attenzione che tende a evitare qualsiasi assolutismo e qualsiasi pensiero "perfettista", trae alimento, tuttavia, gran parte del repertorio di luoghi comuni che in qualche modo sostiene il "Pensiero unico".
In arte, in particolare, la liquidazione di qualsiasi prospettiva modernista, di qualsivoglia cultura del futuro e della trasformazione (le stesse dalle quali traeva origine la temperie delle avanguardie e delle neoavanguardie) ha prodotto una deriva relativistica e banalizzatrice, che ha lasciato libero il campo alle scorrerie liberiste e liberticide che hanno trasformato l'arte in merce e l'artista in un funzionario passivo del sistema dell'arte.
Il paradigma fondativo di questo sistema non è la ricerca, non è la qualità artistica, non è la creatività ma il profitto. Solamente il profitto. Un pensiero forte, quindi, che paradossalmente utilizza il "Pensiero debole" di Vattimo come una sorta di ambiguo grimaldello. La negazione, infatti, di qualsiasi prospettiva, connotata nel senso del cambiamento (e della rivoluzione), ha legittimato tutti quei processi di smaterializzazione dell'arte già ampiamente autorizzati da una lettura fondamentalista della lezione di Duchamp.
E così, ad esempio, la Transavanguardia ha letteralmente teorizzato l'impossibilità di un "nuovo radicale", lasciando agli artisti solo la possibilità prevalente, se non esclusiva, di "ruminare" i fondamentali dei vecchi "ismi" (dell'Espressionismo novecentesco in particolare). E più corpo che mai ha preso l'idea, già in sé fortissima, che l'arte possa prescindere da un legame forte fra progetto, materia, forma e spazio. Questa cosa qui mandava in bestia Alberto Burri, tanto per fare un nome (un grande nome) molto prima che si affermasse il Postmoderno. Ma quest'ultimo, imponendosi, ha reso possibile che tutte le teorie, anche quelle che decretano la fine della storia (Fukuyama), e quindi dell'arte, possano essere ritenute legittime.
E' per questi motivi che il ragionamento di Maurizio Ferraris e dei filosofi che animeranno il grande convegno che si terrà in primavera a Bonn sui temi del New Realism, e che ha avuto al Festival della Filosofia una sua autorevolissima anticipazione, riveste una particolare importanza, per la sua dimensione filosofica, evidentemente, ma anche per il suo coté estetico.
«Non esistono fatti ma solo interpretazione dei fatti» è la fin troppo citata frase di Nietzsche che è a fondamento della deriva relativistica del contemporaneo.
L'utilizzo fondamentalista dell'affermazione di Nietzsche - che non esistono dati assoluti e definitivi ma che essi si danno in quanto interpretazioni dell'uomo - ha autorizzato l'imporsi di un pensiero che, mentre conferma lo stato di cose presenti, pretende di fondarsi su una visione rispettosa di ogni punto di vista. E così il Pensiero unico, che tanto si ispira a una lettura certamente volgare del Postmoderno, è diventato il collante del blocco sociale che sostiene l'attuale sistema di potere nel mondo occidentale.
Ferraris e il Nuovo realismo mettono in discussione questo punto di vista, non certo per ritornare ad una visione prepotentemente assolutistica e/o banalmente positivistica ma, semmai, per riaffermare il primato dell'autonomia e della precedenza del mondo esterno rispetto ad ogni schema percettivo e conoscitivo.
In arte, come in filosofia, pur non sottovalutando l'enorme gamma delle interpretazioni possibili, si deve ritornare a non poter prescindere da un dato di realtà fondamentale e cioè che le cose sono fuori di noi e vivono di vita propria. I fenomeni, quelli sociali e quelli estetici, esistono indipendentemente dall'interpretazione che noi siamo in grado di darne. E sono di entità diversa e diversamente influenti sulla storia e sulle sue dinamiche.
La realtà inconfutabile dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo non può essere messa sullo tesso piano di altre "verità minori" che pure è possibile sostenere. Così come, in arte, è fondamentale la valutazione del "peso del reale". C'è un artista (Pizzi Cannella) che recentemente ha affermato che tutti i pittori sono realisti, indipendentemente dallo stile iconico, aniconico, installativo, concettuale da essi prescelto. Intendeva dire, evidentemente, che il mondo esterno pre-esiste ed influenza tutti gli artisti, a patto che essi siano tali, e cioè capaci e liberi.
Il punto è che proprio questa libertà negli ultimi decenni è stata messa in discussione e quindi, piuttosto che la libera ricerca che non può non tenere conto del reale, si è imposta la liturgia (per altro noiosa e iterativa) della stanca ripetizione di operazioni concettual-tecnologico-installative, più o meno sensazionalistiche, che riempiono gli attuali musei d'arte contemporanea.
Per questo pensiamo che il Nuovo realismo di Ferraris possa far bene alla filosofia. Possa far bene all'arte.

lunedì 5 settembre 2011

Il postmoderno in letteratura e nelle arti

Anche questo intervento (critico) dello scrittore Edward Docx fa in qualche modo parte del dibattito sul pensiero debole e sul postmoderno. 
Al fondo, invece, un breve intervento dell'architetto Denise Scott Brown, tratto dal catalogo della mostra al Victoria and Albert Museum.

Addio postmoderno
Benvenuti nell'era dell'autenticità
Edward Docx - La Repubblica, 3 settembre 2011

Ho delle buone notizie per voi. Il 24 settembre potremo ufficialmente dichiarare morto il postmoderno. Come faccio a saperlo? Perché in quella data al Victoria and Albert Museum si inaugurerà quella che viene definita la "prima retrospettiva globale" al mondo intitolata "Postmoderno: stile e sovversione 1970-1990". 
Un momento.... Vi sento urlare. Perché dichiarano ciò? Che cosa è stato il postmoderno, dopo tutto? Non l'ho mai capito. Come è possibile che sia finito? Non siete gli unici. Se esiste una parola che confonde, irrita, infastidisce, assilla, esaurisce e contamina noi tutti è "postmoderno". E nondimeno, se lo si capisce, il postmodernismo è scherzoso, intelligente, divertente, affascinante. Da Madonna a Lady Gaga, da Paul Auster a David Foster Wallace, la sua influenza è arrivata ovunque e tuttora si espande. È stata l'idea predominante della nostra epoca. 
Allora: di che cosa si è trattato, esattamente? Beh, il modo migliore per iniziare a capire il postmodernismo è facendo riferimento a ciò che c'era prima: il modernismo. A differenza, per esempio, dell'Illuminismo o del Romanticismo, il postmodernismo racchiude in sé il movimento che si prefiggeva di ribaltare. A modo suo, il postmodernismo potrebbe essere considerato come il tardivo sbocciare di un seme più vecchio, piantato da artisti quali Marcel Duchamp, all'apice del modernismo tra gli anni Venti e Trenta. Di conseguenza, se i modernisti come Picasso e Cézanne si concentrarono sul design, sulla maestria, sull'unicità e sulla straordinarietà, i postmoderni come Andy Warhol e Willem de Kooning si sono concentrati sulla mescolanza, l'opportunità, la ripetizione. Se i modernisti come Virginia Woolf apprezzarono la profondità e la metafisica, i postmoderni come Martin Amis hanno preferito l'apparenza e l'ironia. In altre parole: il modernismo predilesse una profonda competenza, ambì a essere europeo e si occupò di universale. Il postmodernismo ha prediletto i prodotti di consumo e l'America, e ha abbracciato tutte le situazioni possibili al mondo. 
I primi postmodernisti si legarono in un movimento di forte impatto, che mirava a rompere col passato. Ne derivò una permissività nuova e radicale. Il postmodernismo è stato una rivolta apprezzabilmente dinamica, un insieme di attività critiche e retoriche che si prefiggevano di destabilizzare le pietre miliari moderniste dell'identità, del progresso storico e della certezza epistemica. Più di ogni altra cosa il postmodernismo è stato un modo di pensare e di fare che ha cercato di eliminare ogni sorta di privilegio da qualsiasi carattere particolare e di sconfessare il consenso del gusto. Come tutte le grandi idee, è stato una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico. Come ha detto il filosofo egiziano-americano Ihab Hassan, nella nostra epoca si è affermato un "forte desiderio di dis-fare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell'individuo, l'intero territorio del dibattito occidentale". 
Il postmodernismo apparve per la prima volta come termine filosofico nel libro del 1979 dell'intellettuale francese Jean-François Lyotard intitolato "The Postmodern Condition", nel quale si affermava che gruppi diversi di persone utilizzano il medesimo idioma in modi differenti e ciò implica che possano arrivare a vedere il mondo con occhi alquanto differenti e personali. Così, per esempio, il sacerdote utilizza il termine "verità" in modo assai diverso dallo scienziato, che a sua volta intende la medesima locuzione in modo ancora diverso rispetto a un artista. Di conseguenza, svanisce completamente il concetto di una visione unica del mondo, di una visione predominante. Se ne deduce - sostenne ancora Lyotard - che tutte le interpretazioni convivono, e sono su uno stesso piano. Questo confluire di interpretazioni costituisce l'essenza del postmodernismo. 
Purtroppo, il 75% di tutto ciò che è stato scritto su questo movimento è contraddittorio, inconciliabile, oppure emblematico della spazzatura che ha danneggiato il mondo accademico della linguistica e della filosofia "continentale" per troppo tempo. Non tutto però è da buttar via. Due sono gli elementi importanti. Il primo è che il postmodernismo è un'offensiva non soltanto all'interpretazione dominante, ma anche al dibattito sociale imperante. Ogni forma d'arte è filosofia e ogni filosofia è politica. Il confronto epistemico del postmodernismo, l'idea di de-privilegiarne un significato, ha pertanto condotto ad alcune conquiste utili per il genere umano. Se infatti ci si impegna per sfidare il ragionamento prevalente e predominante, ci si impegna altresì per dare voce a gruppi fino a quel momento emarginati. Così il postmodernismo ha aiutato la società occidentale a comprendere la politica della differenza e quindi a correggere le miserabili iniquità ignorate fino a quel momento. Il secondo punto va maggiormente in profondità. Il postmodernismo mirava a qualcosa di più che pretendere semplicemente una rivalutazione delle strutture del potere. Affermava che noi tutti come esseri umani altro non siamo che aggregati di quelle strutture. Sosteneva che non possiamo prendere le distanze dalle richieste e dalle identità che tali discorsi ci presentano. Adios, Illuminismo. Bye bye, Romanticismo. Il postmodernismo, invece, afferma che ci muoviamo attraverso una serie di coordinate su vari fronti - classe sociale, genere, sesso, etnia - e che queste coordinate di fatto costituiscono la nostra unica identità. Altro non c'è. Questa è la sfida fondamentale che il postmodernismo ha portato al grande convivio delle idee umane, in quanto ha cambiato il gioco, passando dall'autodeterminazione alla determinazione dell'altro. 
Eccoci però giunti alla domanda trabocchetto, la più subdola di tutte: come sappiamo che il postmodernismo è alla fine, e perché? Prendiamo in considerazione le arti, la linea del fronte. Non si può affermare che l'impatto del postmodernismo sia minore o in via di estinzione. Anzi, il postmodernismo è esso stesso diventato il sostituito dell'ideologia dominante, e sta prendendo posto nella gamma di possibilità artistiche e intellettuali, accanto a tutte le altre grandi idee. Tutti questi movimenti in modo impercettibile plasmano la nostra immaginazione e il modo col quale creiamo e interagiamo. Ma, sempre più spesso, il postmodernismo sta diventando "soltanto" una delle possibilità che possiamo utilizzare. Perché? Perché tutti noi siamo sempre più a nostro agio con l'idea di avere in testa due concetti inconciliabili: che nessun sistema di significato possa detenere il monopolio sulla verità, e che nondimeno dobbiamo riformulare la verità tramite il nostro sistema scelto di significati. 
Forse, il modo migliore per spiegare le ragioni di questo sviluppo è usare la mia forma d'arte, il romanzo. Il postmodernismo ha influito sulla letteratura sin da quando sono nato. In effetti, il modo stesso col quale ho scritto questo articolo - mescolando parzialmente a livello di consapevolezza tono formale e tono informale - è in debito verso le sue stesse idee. Stile alto e stile basso coesistono allo scopo precipuo di creare occasioni di stupore, sorpresa, introspezione. Il problema, però, è quello che potremmo definire il paradosso del postmodernismo. Per qualche tempo, quando il Comunismo crollò, la supremazia del capitalismo occidentale parve messo a dura prova proprio ricorrendo alle tattiche ironiche del postmodernismo. Col passare del tempo, però, si è presentata una nuova difficoltà: tenuto conto che il postmodernismo se la prende con qualsiasi cosa, ha iniziato ad affermarsi una sensazione di confusione, finché negli ultimi anni è diventata onnipresente. Una mancanza di fiducia nei dogmi e nell'estetica della letteratura ha permeato la cultura e pochi si sono sentiti sicuri o esperti a sufficienza da riuscire a distinguere la spazzatura da ciò che non lo è. Pertanto, in assenza di criteri estetici attendibili, è diventato sempre più conveniente stimare il valore delle opere in rapporto ai guadagni che esse assicuravano. Così, paradossalmente, siamo arrivati a una fase nella quale la letteratura stessa è ormai minacciata, prima dal dogma artistico del postmodernismo, poi dagli effetti involontari di tale dogma, l'egemonia dei marketplace. 
Esiste inoltre un paradosso parallelo, in politica e in filosofia. Se deprivilegiamo tutte le posizioni, non possiamo affermare alcuna posizione, pertanto non possiamo prendere parte alla società e quindi, in definitiva, un postmodernismo aggressivo diventa indistinguibile da una specie di inerte conservatorismo. La soluzione postmoderna non servirà più da risposta al mondo nel quale ci ritroviamo a vivere. In quanto esseri umani, noi non desideriamo esplicitamente essere lasciati in compagnia del solo mercato. Perfino i miliardari vogliono essere collezionisti di opere d'arte. Certo, internet è quanto di più postmoderno esista su questo pianeta. Il suo effetto più immediato in Occidente pare essere stato la nascita di una generazione che è maggiormente interessata ai social network che alla rivoluzione sociale. Tuttavia, se sappiamo guardare oltre scopriamo un secondo effetto negativo indesiderato: una smania a conseguire una sorta di veridicità offline. Desideriamo essere riscattati dalla volgarità dei nostri consumi, dalla simulazione del nostro continuo atteggiarci. 
Se il problema per i postmodernisti è stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell'attuale generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare. Questo crescente desiderio di una maggiore veridicità ci circonda da tutte le parti. Lo possiamo constatare nella specificità dei movimenti food local, per i cibi a chilometro zero. Lo possiamo riconoscere nelle campagne pubblicitarie che ambiscono ardentemente a raffigurare l'autenticità e non la ribellione. Lo possiamo vedere nel modo col quale i brand stanno cercando di prendere in considerazione un interesse per i valori dell'etica. I valori tornano ad avere importanza. Se andiamo ancor più in profondità, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dello scultore che sa scolpire e del romanziere che sa scrivere. Jonathan Franzen ne è un esempio calzante: uno scrittore encomiato in tutto il mondo perché si sottrae alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca. Ciò che conta, dopo tutto, non è soltanto la storia, ma come è raccontata. Queste tre idee - specificità, valori, autenticità - sono in aperto conflitto con il postmodernismo. Stiamo dunque entrando in una nuova era. Potremmo provare a chiamarla "l'Età dell'Autenticità". Vediamo un po'come andranno le cose.
(Traduzione di Anna Bissanti)


Imparando da Las Vegas
La Repubblica, 3 settembre 2011


Denise Scott Brown approdò a Las Vegas coi suoi studenti dell'Ucla nel 1965 e poi nel 1968, convincendo il marito Robert Venturi a seguirla. "Learning from Las Vegas" fu il frutto di quelle indagini. Il libro analizzava, senza scomunicarla, la malfamata città del vizio, «una città che spavaldamente sembrava fare a meno non solo degli architetti, ma dell'architettura in generale», scrive Manuel Orazi nella postfazione alla traduzione italiana. Las Vegas cresceva per accumulo di oggetti fastosi e improbabili che si accatastavano sui due lati della Route 91, frutto di speculazione sulle aree. Era l'esempio di come la funzionalità e la razionalità predicate dal movimento moderno potessero infrangersi contro l'irrompere di gusti e di consumi, contro la potenza del mercato. Il libro provocò molte reazioni e Scott Brown e Venturi vennero accusati di snobismo, di apologia del disordine, di giustificare e non solo di studiare.

Robert Venturi
«Robert Venturi e io ci consideriamo ancora postmoderni, ma in un'accezione che deriva dalle arti e dalle scienze umane degli anni Sessanta, o anche prima. Quelle idee ci influenzano tuttora e prendono il nome di "Postmoderno" in molti campi. Siamo al tempo stesso Modernisti, impegnati nel progetto di aggiornare i dogmi del Moderno per avviare un cambiamento. La definizione di Postmoderno non va confusa con la deriva a cui abbiamo assistito in architettura e che chiamo, in senso negativo, "PoMo".
Il "PoMo" ha fatto sì che in passato Venturi negasse di essere postmoderno: è un movimento puramente commerciale che si distingue per quel disprezzo del sociale che in alcuni circoli, dagli anni Settanta in poi, è diventato un marchio distintivo. A causa di questa deriva, anche noi siamo stati accusati di essere superficiali e "ossessionati dai neon".
Al mio grido di allora: "Ci deve essere un modo per incidere sulla società coni nostri progetti", gli architetti "PoMo" hanno risposto: "Possiamo fare davvero poco per risolvere i problemi sociali, allora perché tentare?". A noi, invece, la società interessa. Quando dicevo che il nostro saggio "Imparando da Las Vegas" era in parte un trattato sociale, tutti replicavano: "Stai scherzando!". Ma oggi gli studenti e i giovani architetti rispondono: "Che altro c'è di nuovo?". Ci auguriamo che le nuove generazioni raccolgano la fiaccola (il neon?) e si facciano carico di situazioni tecniche e sociali che noi non siamo in grado di capire perché troppo vecchi e così facendo si mettano al servizio della necessità e raggiungano lo scopo della bellezza (magari straziante)».
(Il testo è un estratto del saggio di Scott Brown scritto per il catalogo della mostra del Victoria & Albert Museum)