Non è solo la cifra immensa sbandierata ai quattro
venti - e le difficoltà affrontate da Coppola per questa sua creatura, rimettendoci
anche di tasca propria - a farmi attendere impatto e potenze visive che invece
fanno estrema fatica ad emergere;
ma anche le soluzioni digitali elementari e le architetture urbane futuristiche
alla Star Trek, con le automobiline a
bolla e i tapis roulant, una visione basica versione Legoland e che riesce a rivalutare anche certe
scenografie del lanthimosiano Povere Creature.
Non è solo la New Rome modellata sull’onda
dall’attuale bolla americana scimmiottante la decadenza della Roma di fine
Impero, con pretoriani corrotti e viziosi, i loro nomi a richiamarne l’epoca di
panem et circenses, e la plebe costantemente a sbirciare da dietro una rete
metallica;
ma anche la trama déjà vu, orpello alla grandezza posticcia
sullo sfondo dell'allegoria tra opulenza e bassifondi da aizzare
al proprio servizio, come tenterà il garrulo Commodo/Trump/LeBoeuf.
Il palazzo che viene fatto crollare all’inizio è una ridicola casa popolare che avrebbe sfigurato nella più degradata delle periferie romane, lontanissima dalla città che una sonda - guarda caso targata CCCP - dovrebbe radere al suolo per permettere a Megalopolis di disegnarsi utopica e rivoluzionaria, tra il fantasy e la new age stile Roger Dean, che da una vita celebra il futuro attraverso le mirabolanti copertine degli Yes.
Non è solo l’America messa su da Coppola che strizza
l’occhio a città crepuscolari viste e riviste, citando tutto il citabile, da
Fellini a Scorsese, da Nolan a Cuaron, da Spielberg a Scott;
ma anche il narrare una
favoletta dalle limitatissime pretese (forse buona parte del budget era per
convincere Dustin Hoffman in quel suo insulso cameo), senza poi farti testare nessuna inedita concezione, o un approccio davvero innovativo; si ricalcano richiami spremuti, dal pruriginoso al kitsch, e poi il consueto campionario di gelosie,
canzoncine, invidie, scaramucce e cotillons, passando dall’ormai obbligatorio lato LGBT.
Non è solo l’abusato tormentone del bel tormentato, architetto geniale che ha facoltà di
fermare il Tempo creando (e ricreando) materia con la plastilina magica Megalon,
fino ad innamorarsi della figlia del sindaco in bilico tra amore paterno e ardori
passionali;
ma anche tutto il calderone dove gli stessi protagonisti sembrano finire
spaesati recitando come automi e macchiette (Jon Voight tanto per dire, zio
magnate di Catilina e futuro sovvenzionatore dei suoi rampanti ghirigori
edilizi) ingoiati dalle sottotrame spesso in maldestro incastro.
Sarò un nostalgico, come Cicero, il sindaco
conservatore che, almeno inizialmente, osteggia Catilina, ma rimango legato
alla vera, autentica, e ancora “rivoluzionaria rivoluzione” coppoliana, quella di Apocalypse Now, altro spessore:
visivo, narrativo, emotivo.
Non è solo questa New Rome confusionaria, con l’utopia
giusto accennata tra alcool, droghe e
intarsi onirici;
ma anche la troppa carne al fuoco senza focalizzare ne’ storia
e meno ancora i caratteri di personaggi a rasentare il fumetto.
Del resto anche
il superpotere di Adam Driver ne evidenzia questa essenza visionaria e cartoonistica,
ritagliandosi prologo ed epilogo ad effetto, fino ai tarallucci e vino del
finale dove, tra le altre ovvietà, non solo Speranza, Pace, Giustizia e Prosperità
ma anche, e per l’ennesima volta, Shakespeare nel suo massimo evergreen, sempre
utile in tutte le epoche ed evidentemente in tutti i futuri auspicabili..
Menzionerei comunque tra i comprimari, oltre Shia LeBeouf
in veste, diciamo pure, eccentrica, la nostra immarcescibile Elsa Fornero,
per l’occasione moglie del sindaco cattivo, senza tuttavia apparenti crediti
nei titoli di coda.
La fotografia tenta con qualche garbo di rendere tutto impalpabile mai come
la colonna sonora, però, impalpabile davvero.
Mi sa che stavolta Coppola ha dilapidato davvero, in
una botta sola, tutti i sospesi
raccattati dal garzone di bottega per conto del droghiere.. (cit. all’apparenza
generica, ma neanche troppo).
Francis Ford Coppola. Ex droghiere. |