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Arvo Pärt

Arvo Pärt di Antonello Colimberti Nel maggio 2011 il Pontificio Istituto di Musica Sacra, la più importante istituzione musicale di tutta la cristianità, conferiva il dottorato honoris causa in musica sacra al compositore estone Arvo Pärt. Nel dicembre dello stesso anno Papa Benedetto XVI nominava lo stesso membro del Pontificio Consiglio della Cultura. Ancora, nell’ottobre 2012 viene presentato ad un certo numero di padri sinodali il film Bells of Europe (Campane d’Europa) sul tema dei rapporti fra il cristianesimo e il futuro del Continente. Se il filo unificante del film è dato dal suono delle campane dei diversi angoli del Continente, la colonna sonora è realizzata anche con musiche di Arvo Pärt ispirate al loro suono. In verità, quelli elencati sono solo gli aspetti più visibili e mediatici di un rapporto profondo con la spiritualità cristiana che ha trovato proprio nel nostro Paese un luogo privilegiato, fin da quando negli anni che precedettero la fine-secolo Pärt entrò in amicizia con il priore di Bose Enzo Bianchi, soggiornando una settimana nel suo Monastero, dove in seguito, nel novembre del 2000, festeggiò i suoi sessantacinque anni con un grande concerto. Ma chi è allora Arvo Pärt, il cui nome ricorre ormai sempre più frequentemente negli eventi culturali ed artistici della cristianità? La figura del compositore estone è di quelle che più difficilmente si prestano a una collocazione critica, sia per la poliedricità di ensemble (opere orchestrali, da camera, vocali, strumentali, organistiche, pianistiche e via dicendo) che per l’eredità musicale (la grande tradizione gregoriana del canto piano accanto alla tradizione polifonica medievale). L’indipendenza di pensiero e opera, unita al coraggio nell’esporsi apertamente nel contesto spesso truffaldino della musica contemporanea, hanno finora ostacolato una adeguata valutazione di un autore che potrebbe essere posto come esempio per l’intellettualità europea, se non per quella tout court. Vari dizionari ed enciclopedie, anche fra le più stimate e rispettabili, continuano ad utilizzare definizioni inadeguate o in ogni caso riduttive. Ad esempio, una delle più diffuse è quella di “minimalista sacro”. Cosa intendiamo dire? Facciamo un passo indietro. L’infanzia di Arvo Pärt è tutta sotto il segno del regime stalinista che, in Estonia come altrove, riduce al minimo le possibilità di creazione di un artista, favorendo la più bieca sottomissione alle direttive di funzionari di partito e/o artisti di regime, spesso scelti fra i più mediocri e conformisti. Dopo i primi rudimenti musicali ricevuti in ambiente famiIiare e scolastico, che gli consentono di suonare il pianoforte, l’oboe e le percussioni, il giovane Arvo, si avvia alla carriera compositiva sotto la guida del più prestigioso compositore e didatta estone dell’epoca, Heino Eller, già allievo di Aleksandr Glazunov al Conservatorio di San Pietroburgo. Siamo in epoca di “disgelo” post-staliniano, e Pärt, con l’assenso e anzi l’incoraggiamento del proprio maestro, si indirizza verso le correnti musicali più all’avanguardia, all’epoca tutte malviste dall’establishment culturale dei paesi d’oltre cortina. Stringe anche relazioni d’amicizia con musicisti nostrani come Luigi Nono, che pur alfiere di primo piano delle nuove musiche, può, grazie alla dichiarata adesione all’ideologia comunista, muoversi in quei paesi con relativa libertà. Queste conoscenze e relazioni stimolano Pärt ad adottare tecniche musicali, spesso ostiche all’ascolto del grande pubblico, come la dodecafonia e il collage. Tuttavia, non si può non rilevare come anche in queste prime opere le asprezze sonore vengano mitigate da elementi di quiete quasi mistica, con richiami al contempo religiosi e musicali alle opere di Johann Sebastian Bach. Di questo periodo possono esser ricordate opere come il Perpetuum mobile (1963, per orchestra), dedicato a Luigi Nono, il Collage über B-A-C-H (1964, per archi, oboe, cembalo e pianoforte) e le prime due Sinfonie (1963 e 1966, per orchestra). Con il Credo (1968, per pianoforte, coro misto e orchestra) si rende conto che tanto il metodo dodecafonico che la tecnica del collage hanno raggiunto il loro limite. Si rende conto dell’esistenza di un altro mondo, per raggiungere il quale è necessario però sfondare un muro, e ripartire da zero. Così, tra il 1968 e la seconda metà degli anni Settanta il compositore estone conosce un lungo periodo di silenzio e studio, da cui riemergerà con una svolta, una vera e propria conversione musicale. La sua esigenza primaria è ora quella di sviluppare un nuovo orecchio e si sottopone a tal fine ad una vera e propria ascesi: cessa di ascoltare musica, si concentra nella pratica del canto gregoriano e nella lettura dei salmi, da cui poi trae ispirazione per comporre pure linee di suono, un vero e proprio ritorno alla monodia originaria da cui tutta la storia musicale dell’Occidente ha preso l’avvio. Questo esperimento viene compiuto con ben centocinquanta salmi e relative melodie. Terminato il periodo ascetico di studio, la maturità artistica dell’autore si mostra con una prolifica serie di opere che lo fanno conoscere in tutto il mondo. Ricordiamone alcune. Il primo lavoro che appartiene in maniera compiuta ad un nuovo territorio inesplorato è Alina (1977, per pianoforte solo), in cui ad una melodia tratta dai quaderni di esercizi degli anni di ascesi, viene aggiunta, come in un processo di cosmogonia musicale, una seconda voce che si muove soltanto all’interno di tre suoni (la triade) che sono come campane. È la nascita dello stile cosiddetto tintinnabuli, caratteristica permanente e definitiva del linguaggio musicale di Pärt. La semplicità di questa tecnica musicale costerà per sempre l’associazione del nome del compositore con la corrente musicale detta “minimalismo”, cui si aggiunse l’aggettivo “sacro” per qualificare non solo la frequente scelta di testi e riferimenti religiosi della tradizione cristiana, ma il carattere “ascensionale”, proprio anche delle composizioni puramente strumentali. Dopo Alina è un profluvio di capolavori: dalla Passio Domini nostri Jesu Christi secundum Joannem (1982, per soli, coro misto, quartetto strumentale e organo), commissionata dalla radio bavarese, realizzata con aspetti che richiamano i misteri medievali e con grande fedeltà al testo evangelico (da cui vengono derivate le stesse sfaccettature, anche timbriche, che derivano dalla varietà dei personaggi che entrano in scena, al Miserere (1989, per soli, coro misto, ensemble e organo), nella quale trova posto un Dies irae, che offre con precisione inaudita una vera e propria mimesi del caos, descrizione dell’Inferno. Eppure il mondo del compositore estone non è mai disperato, e il sentimento di speranza torna ad affermarsi ancor più di quanto non avvenga nel celebre Requiem di Mozart. Un ascolto particolare merita Litany (1994, per soli, coro misto e orchestra), in cui Pärt rivolge la sua attenzione alla tradizione cristiana della Chiesa d’Oriente, mettendo in musica una serie di 24 preghiere di San Giovanni Crisostomo per ogni ora del giorno e della notte. Oltre al consueto rispetto totale per la struttura originaria del testo (le ventiquattro brevi frasi-preghiere, considerate come un pensiero compiuto), assunto in questo caso nella versione inglese, il compositore compie una vera e propria teologia musicale, facendo risuonare all’inizio dell’opera la risposta del cielo nel medesimo istante del canto della preghiera. Lo slittamento temporale serve a mostrare che prima che l’uomo possa chiedere un aiuto a Dio, Dio gli è già vicino. Altra importante opera, ispirata alla Chiesa d’Oriente è il Kanon pokajanen (1997, per coro a cappella), composto per il 750°anniversario del Duomo di Colonia, basato sul testo del canone di penitenza di sant’Andrea di Creta, dove è la lingua slava antica ad essere trasfigurata e musicalmente e liturgicamente rivitalizzata (il canone è recitato o cantato durante la quaresima Bizantina). Il confronto fra Litany e il Kanon può compiutamente far conoscere il pensiero musicale di questo insolito genio musicale del nostro tempo: le stesse identiche regole compositive producono risultati molto diversi, perche in esse la lingua non è puro e indifferente materiale sonoro, come per lo più nelle avanguardie musicali del secolo scorso, ma, al contrario, nucleo generativo dell’intera composizione musicale. Se questo è vero, ci piace concludere questo breve excursus di invito all’ascolto ricordando l’opera In principio (2003, per coro e orchestra), nella quale Pärt, a coronamento del suo “cristianesimo giovanneo” (già evidente nella scelta della sua Passio) mette in musica addirittura il Prologo del Vangelo di Giovanni (In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio), dichiarando poi in una conversazione coeva che il significato di quelle misteriose parole del Prologo dovrebbe essere trasferito in ogni nota musicale, in ogni pensiero, in ogni pietra, perché in esse risiede la radice delle nostre facoltà.