PIERRE BRIANT
E’ per me un grande piacere partecipare alla presentazione del libro di Pierre Briant: per l’interesse che suscita quest’ultima fatica dello studioso francese, originale e all’apparenza eccentrica rispetto ai suoi interessi quarantennali, e per essere qui con vecchi amici, cui mi lega il ricordo di frequentazioni e discussioni ormai lontane. Non posso che ringraziare gli organizzatori di questo incontro per avermi invitato.
Conoscevamo bene Pierre Briant naturalmente per i suoi lavori dedicati ad Alessandro e all’impero persiano, lavori che sono diventati un punto di riferimento imprescindibile per ogni studioso del settore. Tanto per dare un’idea generale agli ascoltatori dell’impegno profuso da Pierre Briant in questi due estesi campi di studio, ricorderò alcuni titoli:
Antigone le Borgne (Les Débuts de sa Carrière et les Problèmes de l'Assemblée Macédonienne) (1973) - doctoral thesis.
Alexandre le Grand (1974, 2005)
Rois, Tributs et Paysans, Études sur les Formations Tributaires du Moyen-Orient Ancien (1982)
Etat et Pasteurs au Moyen-Orient Ancien' in Production Pastorale et Société (1982)
L'Asie Centrale et les Royaumes Proche-orientaux du Premier Millénaire (c. VIIIe-IVe s. av. n. è.) (1984)
"Pouvoir central et polycentrisme culturel dans l'Empire achéménide (Quelques réflexions et suggestions)", in Achaemenid History I: Sources,structures and synthesis (ed. Heleen Sancisi-Weerdenburg), (1987)
"Institutions perses et histoire comparatiste dans l'historiographie grecque", in Achaemenid History II: The Greek sources (eds. H. Sancisi-Weerdenbur & Amélie Kuhrt) (1987)
"Ethno-classe dominante et populations soumises dans l'Empire achéménide: le cas de l'Égypte", in Achaemenid History III: Method and Theory (eds. A. Kuhrt & H. Sancisi-Weerdenburg) (1988)
Dans les Pas des Dix-Mille (ed) (1995)
Histoire de l'Empire Perse. De Cyrus à Alexandre (1996) - in English, From Cyrus to Alexander: A History of the Persian Empire (2002).
Darius dans l'Ombre d'Alexandre (2003)
Ma non pensavamo un giorno di imbatterci in un Pierre Briant che avrebbe allargato i suoi interessi e i suoi studii, fino a diventare un dixhuitiémiste, uno studioso dell’Illuminismo, come, mi pare, possa sentirsi legittimamente dopo la pubblicazione di questo Alexandre des Lumières. Fragments d’histoire européenne. Libro che, non ostante la mole non indifferente, testimonianza di un faticoso lavoro pluriennale di letture e riscoperte di vario genere, si rivela vivace, attraente, mai noioso alla lettura, per la quantità di questioni che sottopone a revisione. Certo, già nei lavori precedenti (penso a mo’ di esempio a un lavoro come Etats et Pasteurs au Moyen Orient del 1982) si nota la sua tendenza a superare i limiti dello specialismo storico, cronologico, geografico, che gli dovrebbe essere proprio, quindi a non rimanere prigioniero della ristrettezza degli interessi diciamo così istituzionali, per approdare a una visione d’insieme vasta e nutrita di riflessioni politiche, sociali ed economiche trasversali. Quindi non stupisce poi tanto vederlo impegnato in un’impresa che attraverso la storiografia su Alessandro ripercorre una storia intellettuale del secolo dei Lumi.
Non si può non osservare che Pierre Briant ha potuto affrontare uno studio del genere, proprio perché autorevole esperto di Alessandro Magno e dell’Impero Achemenide; proprio perché antichista, classicista e iranista, nutritosi nel tempo di marxismo e di discussioni sul “modo di produzione asiatico”, sui rapporti tra stati strutturati e gruppi marginali, su imperialismo e modi di rappresentazione dell’”altro”, sentito come nemico, da parte degli stessi stati “imperialisti”: le conoscenze acquisite in decenni di studii generali e particolari, l’approfondimento di temi economici, ideologici e culturali gli hanno permesso di affrontare la novità dell’argomento illuministico con la forza e la sicurezza di chi possiede gli strumenti di base, per districarsi nei dibattiti moderni su Alessandro, con il retroterra autorevole, per capire con immediatezza e profondità le trasformazioni dovute alle interpretazioni di molti secoli successive, proprio perché, come vedremo, le interpretazioni moderne sono figlie alla lontana del dibattito antico sulla figura di Alessandro. Aggiungo anche che, nell’antichistica francese, mi pare che Pierre Briant abbia svolta nel settore Alessandro Magno un ruolo culturale che, mutatis mutandis, ricorda a mio parere quello della cosiddetta scuola di Parigi (Vernant, Détienne, Vidal_Naquet): ha cercato di rompere il ristretto cerchio classicistico attorno alla figura di Alessandro e della conquista, per allargarne la prospettiva facendo emergere con forza la realtà dell’impero achemenide e dei suoi problemi, che alcuni decenni fa tendevano a restare in ombra e a fare solo da quinta scenica opportuna al racconto dell’espansione macedone. Non entro minimamente nello specifico illuministico: dichiaro subito di astenermi anche solo dall’abbozzare delle semplici osservazioni; a questo penseranno autorevolmente gli amici qui presenti. Mi limiterò quindi a esprimere alcune riflessioni da antichista che, per ragioni di lavoro, ha dovuto frequentare la figura di Alessandro Magno.
Innanzi tutto, di questo libro non si può non mettere in risalto il dato più immediatamente rilevante, almeno per gli antichisti con inclinazione verso la storia della storiografia: Droysen, con il suo libro su Alessandro Magno del 1833, non è il punto di partenza di un nuovo interesse per il conquistatore macedone, sorto nel contesto della cultura tedesca del tempo e sotto l’influenza hegeliana, come abbiamo ricavato dalla lettura di Claire Préaux e Arnaldo Momigliano. C’è almeno un secolo e mezzo di precedenti letture, interpretazioni e dibattiti su Alessandro e la sua conquista: tra Francia e poi Gran Bretagna si sviluppa, dalla metà del XVII secolo, un interesse per la figura di Alessandro che, almeno io, ignoravo per dimensioni e varietà. L’esuberante Macedone può essere l’incarnazione di un esempio grandioso, e irraggiungibile, proposto dall’antichità al moderno principe; oppure, per chi cerca nella storia con inclinazione filosofica, può essere il modello della mancanza di misura e della dissennatezza, certificata proprio dalla conquista asiatica; conquista asiatica, che, al contrario, sollecita negli uomini, interessati ai nuovi sviluppi storici promossi dalle conquiste coloniali europee, una visione di Alessandro premonitrice e paradigmatica, di colui che, unificando oriente e occidente, promuove gli scambi commerciali; in ambito inglese particolarmente sviluppato è l’interesse per la fondazione di colonie intese come punti di riferimento commerciali e strategici costituenti l’ossatura di un impero coloniale; tutto ciò avviene, anche in Francia, non senza sottolineare la capacità di unire oriente e occidente in una nuova visione di civiltà: insomma, per dirla col linguaggio sbrigativo di altri tempi, una interpretazione questa di stampo imperialista e colonialista in salsa plutarchea. Sì, perché nella visione imperialista-colonialista non può mancare la quinta scenica che inquadra il dramma storico della conquista in terre lontane e inospitali: quello della missione civilizzatrice, che Plutarco offriva con la sua biografia di Alessandro, e non solo Plutarco, come vedremo, si era avventurato a rappresentare come civilizzatrice la conquista di Alessandro. Vorrei soffermarmi, ma per evidenti motivi di tempo non posso, su Plutarco e sul confronto con i Romani, i quali erano profondamente colpiti, e turbati direi, dall’effimera, esplosiva e ineguagliata figura del Conquistatore per eccellenza. Dunque osserviamo al fondo di questa enorme quantità di dibattiti e discussioni la strutturale costanza di un’oscillazione tra deprecazione moralistica e ammirazione economico-politica che supera di slancio un moralismo ignaro delle superiori ragioni della storia. Leggendo questo libro, un antichista respira, per così dire, una certa aria di famiglia, quando ricostruisce delle sequenze valutative di senso negativo o positivo: la sequenza Bossuet-Rollin-Mably-Sainte-Croix che esprime un giudizio di condanna essenzialmente morale sull’operato di Alessandro; quella Huet-Montesquieu e Voltaire, naturalmente, che esprime apprezzamento e ammirazione per il senso e il risultato storico dell’azione di Alessandro: sembra di tornare molti secoli indietro, al periodo immediatamente successivo alla morte di Alessandro, quando si apre subito un dibattito sul giudizio da dare sull’operato del macedone; dibattito che non si fermerà più e che continuerà incessantemente nel periodo romano (tarda repubblica, impero). Ai Francesi vanno poi aggiunti i varii Robertson, Gillies, Vincent. Naturalmente c’è anche chi reagisce, per buoni motivi scientifici e metodologici, a tutte queste discussioni, perché prive di credibilità e basate solo su fonti letterarie come Quinto Curzio, Arriano e Plutarco, proclamando i diritti di un nuovo modo di analizzare l’antichità fondato sull’archeologia e la filologia. E non bisogna dimenticare che, nel frattempo, in area germanica Winckelmann, attraverso l’evocazione di un mondo greco più immaginario che reale, definisce un ideale di bellezza che nutrirà il miracoloso mondo di Weimar, e che più in generale in Europa vi è un vivace interesse per l’antichità che si accompagna inevitabilmente alle gesta militari (si pensi all’Egitto). Veramente impressionante l’interesse suscitato dall’antichità allora, soprattutto osservato dalla prospettiva attuale, in cui l’antichità ormai è ridotta a tema secondario e subalterno. Pierre Briant apre ai nostri occhi uno scenario ricco di studii e dibattiti prima di Droysen; Droysen che non è il punto di partenza, dunque, e nemmeno il punto di arrivo, bensì un “momento” di un interesse più generale europeo per la figura di Alessandro: Droysen ne coglierà l’aspetto a lui più congeniale, quello dell’unione tra oriente e occidente nell’ellenismo, problema per altro anticipato da Voltaire (cambiamento del modo di vedere le cose degli ebrei da parte della filosofia greca), che apre la strada verso l’affermazione del cristianesimo. Nei mutamenti interpretativi dell’impresa di Alessandro si possono osservare i problemi sentiti come importanti in quel contesto in quel momento. Da qui, credo, il sottotitolo, Fragments d’histoire européenne: attraverso le varie letture e interpretazioni di Alessandro si colgono “momenti” della storia europea, cioè si colgono preoccupazioni e problematiche che spingono a cogliere della complessa e poliedrica figura del Macedone l’aspetto più utile e stimolante. Parafrasando una celebre affermazione, potremmo dire che non esistono personaggi, bensì solo interpretazioni di personaggi. E potremmo ulteriormente approfondire questa osservazione col Benedetto Croce della Storia come Pensiero e come Azione (II. La verità di un libro di storia): “Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni” (p.11). Immagino un certo disappunto di Pierre Briant di fronte al giudizio crociano, visto che egli rimprovera, nelle secolari interpretazioni della figura di Alessandro Magno, l’eccessivo “presentismo”, cioè l’eccessiva intrusione della contemporaneità nell’interpretazione storica di fatti così remoti. Tuttavia temo che ancora non si siano trovati efficaci contravveleni a questo atteggiamento.
Ritorno all’aria di famiglia, da cui ci si sente avvolti leggendo questo libro: tutto il dibattito moderno su Alessandro è in fondo impostato e sviluppato dagli antichi. Siamo spesso prigionieri degli antichi e della prospettiva da loro data ai problemi (Tucidide). Il tema Alessandro ne è un esempio. La conquista macedone dell’impero persiano ha posto problemi di varia natura al mondo greco-macedone. Intanto è difficile capire, se vi è una differenza tra l’idea di conquista di Filippo e quella di Alessandro. Personalmente, penso di sì, ma una tale convinzione si basa su fondamenta non proprio solide (aneddoto Arriano). E tralascio la spinosa questione, se Alessandro e sua madre abbiano fatto parte della congiura che ha assassinato Filippo (anche se sono convinto di un qualche loro ruolo nella vicenda). Quando dico che sarebbe utile comprendere, se c’erano delle differenze tra padre e figlio riguardo alle dimensioni da dare alla conquista in Asia, intendo mettere l’accento, in maniera tucididea, sul problema della “grandezza” della conquista, che inevitabilmente ha portato con sé un tale cambiamento “quantitativo” nella monarchia macedone, da provocarne un inevitabile salto qualitativo significativo, percepito assai bene dai compagni di Alessandro stesso e dai contemporanei. Vorremmo capire meglio, se per es. Filippo pensava a un’azione di conquista di raggio limitato rispetto ad Alessandro, al fine di stabilizzare il regno di macedonia rispetto all’aggressività persiana; cosa che io credo. In tutti e due i casi a ogni modo il piano della conquista asiatica si basa sull’idea di un Oriente in decadenza e facile preda delle armi greche, anche perché inferiore “per natura” al mondo greco, come insegnava apertamente Aristotele, il maestro di Alessandro, alla fine di una riflessione durata oltre un secolo sul tema dei rapporti tra individuo e ambiente, tra società e ambiente, tra mondo greco e asiatico (risonanze di questi dibattiti si ritrovano anche in Montesquieu). I problemi prodotti dal passaggio da una monarchia di dimensioni tutto sommato modeste a un impero multinazionale dalla Grecia all’India sono stati drammatici, violenti e irrevocabili. Le fonti antiche registrano e descrivono tutto ciò, descrivono l’incomprensione, lo sgomento e l’opposizione di ambienti significativi dell’entourage di Alessandro di fronte a un’idea di monarchia che necessariamente si ispirava sempre più al modello persiano, unico esempio a portata di mano di impero multinazionale. Ma, come spesso accade, le fonti trasmettono in una prospettiva “morale” problemi tipicamente politici: Alessandro è obbligato a percorrere questa strada, stravolgendo le tradizioni patrie, eliminando i macedoni che si oppongono, cercando di creare una nuova classe dirigente e un nuovo esercito per un impero nuovo; lo shock per l’ambiente macedone deve essere stato straordinario. E’ su questo che le fonti antiche si dividono in due tradizioni con caratteri distinti circa il giudizio su Alessandro. Il problema delle fonti è molto interessante proprio nella prospettiva del libro di Briant. Faccio una breve descrizione della situazione delle fonti relativa ad Alessandro.
Il primo racconto integrale su Alessandro e sugli avvenimenti a lui contemporanei lo dobbiamo al XVII libro della Bibliotheca di Diodoro Siculo, composto quasi tre secoli dopo la sua morte (seconda metà del I sec. a.C). Seguono poi le Historiae Alexandri Magni di Quinto Curzio Rufo, in dieci libri (mancano i primi due), scritte probabilmente al tempo dell’imperatore Claudio; nel II sec. d.C. abbiamo la vita di Alessandro di Plutarco (tra il 110 e il 115) e poi non molto dopo l’Anabasi e l’Indike di Arriano; alla fine del II sec. e all’inizio del III è attribuibile l’Epitome che Giustino fece delle Storie Filippiche di Pompeo Trogo, di età augustea. A queste opere si devono aggiungere le sezioni relative ad Alessandro presenti nei libri XV-XVII di Strabone, di tarda età augustea, i due discorsi de Alexandri fortuna aut uirtute attribuiti a Plutarco e due testi (Epitoma rerum gestarum Alexandri Magni e Liber de morte testamentoque Alexandri) del IV-V sec. tramandati da un manoscritto di Metz e noti come Epitome di Metz. Quindi su Alessandro siamo debitori verso una tradizione storiografica secondaria (nel caso di Giustino epitomata), perché sono andate perdute o solo tramandate in frammenti le fonti primarie da cui dipendono Diodoro, Curzio Rufo, Plutarco, Arriano, Giustino; abbiamo perduto cioè le storie scritte dai contemporanei di Alessandro, di cui ricordo i nomi più importanti senza entrare in complicate e sempre discutibili questioni cronologiche: Callistene, Onesicrito, Nearco, Tolemeo, Aristobulo, Clitarco, Carete di Mitilene ed Efippo di Olinto. Diciamo, sinteticamente e semplificando al massimo, che secondo Schwartz e Jacoby da questa congerie di opere, per noi irrimediabilmente perdute, nascono due tradizioni: quella incentrata su Tolemeo e Aristobulo, che sarà la base del racconto di Arriano, e quella incentrata su Clitarco, la cosiddetta Vulgata, da cui variamente dipenderebbero Diodoro, Curzio Rufo, Giustino. Ciò che ricaviamo da queste due tradizioni sono due immagini di Alessandro: una essenzialmente nobile e grandiosa, se pur non esente da mende, quella risalente, via Arriano, a Tolemeo e Aristobulo; l’altra più contrastata e fosca. Tralascio il dibattito sulla cosiddetta vulgata; ciò che mi interessa qui ora è l’immagine di Alessandro nelle storie di Quinto Curzio Rufo, vero e proprio romanzo storico a tratti provvisto talvolta di notevole forza letteraria, tramite di una visione di Alessandro assai meno nobile, se non addirittura assassina. Per Curzio Rufo quanto più Alessandro penetra in Asia, tanto più “impazzisce”, perde senso della misura, viene contaminato dall’ambiente barbaro, fino a diventare egli stesso barbaro. Tutta la sua politica sviluppata durante la conquista è frutto di dissennatezza e di arroganza barbara: da qui lo stravolgimento dei costumi greci e il vagheggiamento di un impero condiviso da greci e iranici. E’ questa l’ottica “morale”, attraverso la quale vengono proposti temi squisitamente politici. Quindi non dobbiamo stupirci, se troviamo in ambito francese un uso di Curzio Rufo coerente col giudizio negativo dato del conquistatore. E’ un uso coerente di una fonte adatta per un’interpretazione “morale”. E di conseguenza non è un caso che Montesquieu e Voltaire si rivolgano invece ad Arriano e Plutarco, per parlare di Alessandro: trovano in queste due fonti l’Alessandro che interessava loro, colui che conquista e unisce oriente e occidente, che promuove commerci, che costruisce un impero, annettendo e pacificando un oriente in attesa di riscatto. Il culto come fonte privilegiata, a cui si avvia Arriano in maniera spesso per me incomprensibile, nasce da qui, da come presenta la figura di Alessandro: Arriano non nasconde o nega i difetti e le malefatte di Alessandro, ma le giustifica, le ridimensiona o trova almeno un riscatto nel pentimento che prova Alessandro, dopo aver commesso un’azione sconsiderata o efferata. Per capire l’operazione di Arriano, vorrei parafrasare liberamente Strabone (I,1,23): Alessandro è come una di quelle statue colossali, di cui non si esaminano accuratamente tutte le singole parti, ma di cui si considera l’aspetto d’insieme; e l’immagine di Alessandro, nella sua totalità, è grandiosa e inarrivabile, perché ciò che ha compiuto è senza precedenti e senza paragoni. In una prospettiva filosofica, particolare e funzionale al contesto che le è proprio, questa sarà anche la prospettiva di Droysen: di un personaggio, in cui si è incarnata la Storia, perché il mondo potesse progredire verso una meta più alta e necessaria, non si guardano le inevitabili macchie, che rappresentano solo la rugosità inevitabile, attraverso cui si esprime la Storia, per andare avanti. Da qui la reazione scandalizzata del filologo K.W.Krueger, che stroncò il libro di Droysen sia per ragioni personali (perché, a differenza di Droysen, non era entrato all’Università, pur conoscendo il greco infinitamente meglio) sia per ragioni di merito, di giudizio storico (pensava naturalmente a Napoleone). Montesquieu e Voltaire potevano trovare, per esempio, nel VI e VII libro di Arriano non soltanto la descrizione di una campagna omicida, come quella perpretata da Alessandro in India oppure gli intrighi di palazzo e gli scontri tra il re e il suo entourage; vi potevano trovare anche il costruttore di un nuovo impero mondiale, preoccupato di dare organizzazione e stabilità a una compagine economica, sociale e politica mai vista prima. Dai due libri di Arriano ricordati or ora si ricavano notizie chiare sulle attività esplorative e conoscitive di Alessandro, in vista della costruzione di punti di riferimento marittimi e terrestri utili per le comunicazioni tra parte orientale e occidentale e quindi per la tenuta dell’impero nel suo insieme; e c’è il resoconto, nel VII di Arriano di una spedizione fondamentale nei piani di Alessandro: la conquista dell’Arabia. Questa spedizione pronta per partire, se solo il re non fosse morto dopo poco, naturalmente non doveva conquistare l’Arabia in senso territoriale, bensì doveva conquistare i punti sulla costa araba ritenuti importanti, per consentire appunto una buona organizzazione delle comunicazioni e degli scambi tra la parte più orientale dell’impero, l’India, e quella occidentale, l’Egitto che fungeva da elemento di raccordo con l’Occidente greco. Immagino che vi sarà immediatamente chiaro, quale interesse dovessero suscitare queste notizie arrianee in ambito francese o britannico. Anzi, vorrei notare a questo riguardo, come può cambiare il punto di vista a seconda dei contesti storici: lo studioso tedesco Peter Hoegemann, autore nel 1985 del libro Alexander der Grosse und die Arabien, per far capire al lettore che visione delle cose avesse in mente Alessandro con la progettata conquista dell’Arabia, parla di una visione strategica “britannica” di Alessandro, pensando naturalmente alla funzione che aveva Aden nell’impero britannico. Diciamo che due secoli dopo la situazione si è ribaltata: per capire Alessandro, si usa il l’impero britannico; ma più opportunamente forse potremmo dire che, anche cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia, si tratta sempre di capire per analogia.
Naturalmente Plutarco aggiungeva all’aspetto militare, esplorativo ed economico dell’impresa di Alessandro quello grandioso di una politica di unione tra oriente e occidente, e più in generale del genere umano, che va da sé dava giustificazione morale e filosofica a quanto fatto da Alessandro e quanto desideravano fare i suoi emuli moderni. L’ottica plutarchea era probabilmente già stata anticipata in qualche modo da uno degli autori contemporanei di Alessandro, Onesicrito, un probabile seguace del cinico Diogene, che probabilmente nella sua opera disegnava un Alessandro come filosofo in armi, come colui che usava sì le armi, ma per affermare una visione del mondo nuova e più giusta, filosoficamente più alta. Sicuramente subito dopo la morte di Alessandro si affrontarono due visioni radicalmente opposte del conquistatore, proprio per la radicalità delle sue scelte e per la novità di quanto faceva, che non poteva non trovare tanto consensi quanto feroci opposizioni. Questa visione della prima ora, potremmo dire, ha determinato tutto il dibattito nell’antichità, che si è plasmato e adeguato a seconda dei contesti storico-culturali, basta pensare a Roma. Inoltre vorrei sottolineare che la prospettiva dell’Alessandro plutarcheo in qualche modo agisce spesso in maniera inconscia negli antichisti che l’hanno assimilata col latte materno. E a volte gli studiosi sono perfino più plutarchei di Plutarco: è il caso di W.W. Tarn. Ricordo a mo’ di esempio personale e aneddotico che, quando a un convegno, organizzato qui a Firenze, ho parlato delle figure religiose indiane, al seguito dell’esercito di Alessandro durante la campagna in India, come di “collaborazionisti” di fatto, anche se volutamente non ho mai usato questo termine, ho sollevato perplessità, se non una qualche irritazione. Sono convinto che sia frutto dell’idea plutarchea dell’Alessandro “civilizzatore”, unificatore di Oriente e Occidente, che si è stabilizzata nella cultura europea riplasmata attraverso le varie letture e interpretazioni, di cui leggiamo anche nel libro di Pierre Briant. Questa evocazione personale in realtà voleva offrire il destro per un’osservazione finale: che ancora tra gli studiosi moderni rimane questo dualismo nell’interpretazione di Alessandro, che in fondo ci portiamo dietro dall’11 giugno del 323 a.C., cioè dal giorno dopo la morte di Alessandro. Fu una figura luminosa o un personaggio fosco? Basta ricordare per sommi capi un dibattito apparentemente erudito sulle fonti tra studiosi di rango come Hammond, Badian e Bosworth. Ritorno quindi a quanto vi ho detto a proposito delle tesi di Schwartz e Jacoby circa le due tradizioni originate dalle fonti contemporanee ad Alessandro, e in particolare torno alla cosiddetta Vulgata che discenderebbe da Clitarco e che trasmetterebbe un’immagine più fosca di Alessandro.
Questa teoria è stata contestata, primo fra tutti, da Tarn, con esiti non felici, e poi soprattutto da N. Hammond in uno studio sistematico dedicato a Diodoro, Curzio Rufo e Giustino. Ma l’operazione di Hammond di smantellamento di questa tesi, preannunciato per altro da prese di posizione rapsodiche di Goukowski e Atkinson, non ha soltanto il fine di ristabilire un giusto apprezzamento delle fonti che usiamo per Alessandro, bensì anche quello di contrastare il tentativo di studiosi come Bosworth e Badian, che utilizzano Diodoro, Curzio Rufo e Giustino, per rimettere in discussione l’immagine di Alessandro trasmessa da Arriano, visto come eccessivamente accondiscendente nei confronti di Alessandro. Da questo scontro tra studiosi apparentemente circoscritto a un nobile problema di fonti, in realtà si cela, proseguendo con modalità analoghe, il dibattito che Pierre Briant apre ai nostri occhi per altri contesti storici-culturali e che potremmo definire, usando le parole dell’ipercritico Seneca che naturalmente pensava a Nerone via Alessandro: ma il grande Macedone fu un pazzo devastatore dell’orbe terracqueo, che portava guerra a chi nulla gli aveva fatto, oppure no? Credo che Hammond in realtà voglia conservare il posto d’eccellenza riservato da una lunga tradizione di studii ad Arriano, come fonte nobile basata a sua volta sulle fonti più attendibili, Tolemeo e Aristobulo, perché legato all’immagine positiva di un Alessandro civilizzatore, visto un po’ come un gentiluomo britannico incaricato di portare progresso e pace, anche con le armi, là dove non c’era. Per questo Hammond reagisce piuttosto vivacemente contro Badian e Bosworth, che cercano di disegnare un Alessandro maggiormente in chiaro-scuro. Hammond capisce bene, e posso dirlo con cognizione di causa, che Bosworth, quale novello Seneca, vede in Alessandro un devastatore omicida che tutto ha fatto meno che portare la civiltà alle altre popolazioni, ha portato solo distruzione; anzi, per Bosworth alla fine della sua fatale vicenda la Macedonia si ritroverà letteralmente esausta e dissanguata a causa di quel conquistatore così affascinante per l’antichità e per la modernità. Hammond, innervosito, nota alla fine dell’introduzione del suo libro su Alessandro: “Alcuni autori poi sono stati attratti dalla tradizione clitarchea e hanno visto Alessandro come uno spietato sanguinario, un autocrate megalomane e perfino un dissoluto bisessuale”. E dunque, per concludere, possiamo porci una domanda finale sulla scorta di quanto abbiamo imparato leggendo il libro di Pierre Briant come seconda parte, essenziale, di un dittico, almeno per noi, la cui prima parte è costituita dalla vicenda e dall’interpretazione di Alessandro nell’antichità: come è oggi e come sarà domani la visione di Alessandro. Azzardo una risposta sulla scorta di quanto ho imparato da antichità e modernità: sarà sempre la solita a seconda del contesto storico-politico, che certamente si manifesta e si manifesterà in forme diverse dal passato, ma la cui sostanza rimane immutata. In un contesto che spinga verso il bisogno non dico di un impero, ma di istanze politiche superiori, che cerchino di assorbire le differenze etniche e culturali in un contesto economico-sociale accettabile, si continuerà a mettere in evidenza di Alessandro la profetica capacità di unire quanto è distante e di creare un organismo politico economico e sociale totalmente nuovo; ma per chi non ha o ha perso l’illusione di organismi grandiosi profetici e risolutivi che superino e risolvano localismi e particolarismi, la vicenda di Alessandro continuerà a essere lacrime e sangue, mancanza di misura e dissennatezza.
20