6
1
TRAES
STUDI E RICERCHE SULLE ANTICHITÀ CALABRESI
Collana diretta da Armando Taliano Grasso
2
Armando Taliano Grasso, Salvatore Medaglia (ed.)
Tra paralia e mesogaia
Studi e ricerche per il decennale del
Laboratorio di Topografia antica e Antichità calabresi
Creative Director: Francesca Londino
Cover design: Ufficio grafico Ferrari Editore
In copertina: Artemis Bendis. Timpone del Castello, Cerenzia
© Ferrari Editore, 2021
Corigliano-Rossano (CS)
[email protected]
www.ferrarieditore.it
ISBN 979-12-80242-11-2
3
Tra paralia e mesogaia
Studi e ricerche per il decennale del Laboratorio
di Topografia antica e Antichità calabresi
a cura di
Armando Taliano Grasso e Salvatore Medaglia
4
5
INDICE
7 Introduzione
Armando Taliano Grasso, Salvatore Medaglia
11 Qualche osservazione circa la topografia storica della Calabria settentrionale
Pier Giovanni Guzzo
21 Ricognizioni di superficie nella Crotoniatide interna: nuovi dati sul popolamento antico della
media valle del Thagines
Domenico Marino, Salvatore Medaglia
71 Ceramiche romane tra Petelia e Locri: le sigillate italiche
Alfredo Ruga
97 Vincenzo Laviola: un medico per la tutela archeologica in “Magna Graecia”
Carmelo Colelli
111 Minima epigraphica: iscrizione funeraria dall’ager clampetinus
Antonio Zumbo
117 Studi e ricerche per una carta archeologica del comune di Casabona (KR)
Tiziana Gemi
151 Francavilla Marittima e la Collezione De Santis: materiali inediti dal Museo dei Brettii e
degli Enotri di Cosenza
Maria Cerzoso, Federica Caputo
179 Creazioni artigianali di preziose fusaiole in ambito locale?
Gloria Mittica
217 Il municipium di Vibo Valentia tra I sec. a.C. e II sec. d.C.: alcune considerazioni alla luce
dello studio delle anfore
Paola Vivacqua
231 La carta archeologica del comprensorio lametino
Paola Caruso
297 La fine dei paesaggi antichi nei Bruttii e la formazione dei paesaggi delle separatezze
Antonio Battista Sangineto
311 Anfore tardoantiche in Calabria: studio di una fornace di Keay LII (Pellaro, RC)
Ester Gaia Di Donato
321 Per una archeologia della guerra nella Calabria preromana
Francesco Cristiano
349 Etruscan imagery outside Etruria? Exploring mythological representations at Timpone della
Motta
Sine Grove Saxkjær, Jan Kindberg Jacobsen
361 L’Ercole di Tarsia (CS). Alcune considerazioni su un rinvenimento ottocentesco
Carmelo G. Malacrino
385 I materiali del contesto funerario di località Cona a Pallagorio (Crotone)
Filomena Rizzo
405 Madre e guerriera: la donna nella società brettia tra mito, fonti scritte e documentazione
archeologica
Armando Taliano Grasso
APPENDICE:
419 Gli Angeli del fango di Sibari: il contributo degli studenti dell’Università della Calabria nelle
fasi di primo intervento post-evento alluvionale del gennaio 2013
Armando Taliano Grasso
427 Riassunti - Abstracts
6
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
321
Per una archeologia della guerra nella Calabria preromana
Francesco Cristiano
.A mio padre
1. Armi e identità etnica. Il caso del cinturone “sannitico” in Calabria
In un contributo dedicato alla guerra nel mondo antico, Marlene Suano ha definito lo scontro
bellico «una pratica necessaria nella struttura (e strutturazione) delle società antiche»1. E in effetti il
tema della guerra coinvolge oggettivamente cultura ed economia, politica e comunicazione. In
guerra l’uomo, inteso come singolo o come comunità, è stato capace di dare il meglio o il peggio
di se stesso. Per questo lo studio del fenomeno bellico, sotto i diversi aspetti culturali, antropologici e tecnico-tattici, può diventare lo strumento essenziale per comprendere l’identità e l’evoluzione di un popolo attraverso il modo con cui esso è sceso sul campo di battaglia.
Nell’antichità le armi sono state generatrici di metafore diverse, legate alla sfera funzionale2 o al
loro possibile uso nei sacrifici e nelle pratiche votive3. Se dedicate nei santuari o in luoghi di culto
locali, sono state connesse alla celebrazione e commemorazione di vittorie belliche o all’esaltazione delle virtù guerriere di singoli combattenti o di intere comunità4. Se rinvenute nei contesti
funerari sono state ritenute espressione del prestigio di minoranze privilegiate che hanno detenuto il potere5.
Questo contributo è frutto dello sviluppo di un lavoro dal titolo “Armi e armati: strumenti e prassi della guerra tra i
Brettii” presentato insieme ad Armando Taliano Grasso nel 2010 al II Workshop dei Ricercatori del Dipartimento di Storia dell’Università della Calabria sul tema “Guerra e pace. Persistenze e mutamenti dal conflitto alla ricostruzione”. Ringrazio Fabio Colivicchi (Queen’s University di Kingston, Ontario) estremamente disponibile a
leggere il dattiloscritto e a migliorarlo con preziosi suggerimenti. Sono molto grato a tutti i colleghi che a vario
titolo hanno contribuito a questa ricerca attraverso informazioni e segnalazioni, nonché ai vari funzionari della
Soprintendenza Archeologica della Calabria che si sono succeduti negli anni, per le agevolazioni ricevute sul
piano archivistico e documentario e per la fiducia e la liberalità con cui mi hanno permesso di studiare gran
parte dei materiali trattati. Per l’aiuto fornitomi nella fase pre-bozze di revisione e controllo di testo e apparato
iconografico ringrazio Antonio Vescio. Le immagini, salvo diversa indicazione, sono dell’autore.
1 SUANO
2014, p. 173.
una logica ben esemplificata, per esempio, da Senofonte quando descrive pragmaticamente l’armamento più funzionale al cavaliere (Xen., Eq. XII, 1-14).
3 Si pensi alla complessa trama di riti singoli o collettivi celebrati nel mondo greco in occasione di guerre o
nell’ambito della periodica prassi di azioni di purificazione dell’esercito o di propiziazione di divinità guerriere
che presupponevano un’effettiva esposizione delle armi. A tal riguardo, si veda PRITCHETT 1979, pp. 230-276.
4 Nel caso di dediche private può trattarsi, in generale, delle armi personali di uno o più dedicanti, di quelle
sottratte ai nemici o anche di armi fittizie in metallo prezioso o di riproduzioni fittili, in genere scudi, anche
miniaturistiche. Tra i grandi santuari panellenici quello di Olimpia è senz’altro il caso più particolare per le
innumerevoli dediche attestate da una corposa presenza di armi su cui i lavori fondamentali sono quelli di
KUNZE 1967 e BAITINGER 2001. Sull’uso ampiamente documentato in area magno-greca di deporre armi e
armature nei luoghi sacri, si rimanda a GRAELLS I FABREGAT, LONGO 2018.
5
L’accentuazione dell’aspetto bellico in ambito funerario è fenomeno tipico delle popolazioni italiche dell’Italia
centrale e meridionale a fronte delle rare attestazioni che si hanno per il mondo greco coloniale (cfr. TAGLIAMONTE 1994, pp. 85-87, 178, 264; POLITO 1997, p. 183; TAGLIAMONTE 2004, pp. 137, 159-161). Un arricchimento dei dati disponibili sui contesti funerari italici delle aree dell’Appennino centrale è in GILOTTA, TAGLIAMONTE 2015. Per l’Italia meridionale, un bilancio su guerra e armamenti che concorrono a connotare nella
morte personaggi di rilievo e a definire il controllo esercitato sul territorio dai ceti aristocratici e guerrieri è in
GRAELLS I FABREGAT 2018a, GRAELLS I FABREGAT 2018b (per la Campania) e in BOTTINI, GRAELLS 2019
(per la Basilicata).
2 Secondo
322
Tra paralia e mesogaia
Attraverso le armi è possibile identificare caratteristiche della struttura sociale e, in tal senso,
esse possono considerarsi a tutti gli effetti come oggetti a connotazione etnica, soprattutto se
l’arma scelta per questo scopo abbia rivestito lo stesso valore di “marker” etnico, sociale e di
genere nell’antichità6.
Le fonti antiche confermerebbero i casi di armi a cui sono stati associati dei predicati etnici
che esplicitavano la pertinenza a un popolo: si trova, ad esempio, menzione di spade galliche 7, di
scudi celtici8, di aste volsche9, di scudi marsi10 e di giavellotti da cui i Gesati, mercenari celtogermanici, traevano il loro nome: il gaesum appunto11. Sulla stessa linea, un importante fattore di
caratterizzazione etnico-culturale sarebbe rappresentato dalle armi dei Sanniti nella misura in cui
esse sono in grado di evocare la natura stessa di queste genti che già Livio definiva «durati usu
armorum»12 e il cui etnico veniva spiegato dalla tradizione attraverso il richiamo al termine greco
saunion13, qualificando sostanzialmente i Sanniti come «gli uomini del giavellotto»14.
Sottolineature di rilievo si possono cogliere in notazioni di tipo etnografico presenti nelle
fonti che rilevano la leadership sannitica nella discendenza di Lucani e Brettii 15 ed evidenziano
affinità di modi di vita e di pratica militare in nome di una tradizione tesa ad avvalorare un’origine
spartana di questi popoli16. Essi furono i protagonisti delle guerre e delle vicende politiche che
tra la metà del V e la fine del III secolo a.C. interessarono Magna Grecia e Sicilia. L’importanza
che l’aspetto materiale dell’armamento assume per Lucani e Brettii, e per i Sanniti loro archegetai,
è condensata nelle parole con cui Strabone, nel I sec. d.C., c’informa della loro sopravvenuta
decadenza: «ne è causa anche il fatto che non sussiste più alcuna organizzazione politica comune
a ciascuno di questi popoli e i loro costumi particolari, di lingua, di armamento, di vestiario e di
altre cose del genere, sono scomparsi»17.
Le pratiche militari e il loro sottofondo ideologico sono, quindi, aspetti connotanti di questi
popoli nella continuità dei loro processi di trasformazione interna e il passo straboniano è un esempio
significativo e circostanziato di come il tipo di armamento adottato fosse, agli occhi dei Greci
innanzitutto, uno dei parametri fondamentali di definizione etnico-culturale. Per l’importanza che
l’aspetto etnico assume nella sfera bellica dei popoli italici, si può richiamare un interessante passo
di Diodoro che rivela la particolare attenzione usata dal tiranno Dionisio I nel predisporre l’equipaggiamento necessario per l’esercito dei mercenari arruolati in occasione della ripresa delle ostilità con Cartagine (399-398 a.C.): «Distribuì poi il modello di ciascun tipo di arma, perché aveva
raccolto mercenari provenienti da molti paesi. Desiderava che ogni soldato fosse equipaggiato
con le armi tipiche del suo paese e pensava che l’esercito sarebbe stato così più temibile e che
nelle battaglie tutti i combattenti avrebbero sfruttato al massimo l’armamento a cui erano avvezzi»18.
6 Su
tali meccanismi e i loro esiti, con particolare riferimento alle popolazioni dell’Italia centrale e meridionale,
si veda da ultimo BOURDIN 2017.
7 Liv. VII, 26, 1; XXII, 46, 5; XV, 10,5; Strab. IV, 4, 3.
8 Polyb. II, 30, 3-8; Tac., Germ. XLIV, 1.
9 Verg., Georg. II, 168.
10 Fest., de Verb. signif. p. 4, 11 (ed. Lindsay 1913).
11 Serv., ad Aen. VII, 664.
12 Liv. VII, 29, 5.
13 Da una paretimologia già circolante in età augustea e riportata in Fest., de Verb. signif. p. 437, 1 (ed. Lindsay 1913).
14 Su questo e su altri aspetti strettamente connessi alla rappresentazione marziale dei Sanniti si vedano i lavori
di TAGLIAMONTE 2005, pp. 13-17; SCOPACASA 2007, pp. 25 ss.; TAGLIAMONTE 2009; SCOPACASA 2014.
15 Strab. VI, 1, 3; Plin., N.H. III, 71.
16 Strab. V, 3, 1; Iustin. XX, 1, 14; XXIII, 1, 4-14. Su questa tematica si vedano: MELE 1988; LA REGINA
1990; MELE 1995a, pp. 22-24.
17 Strab. VI, 1, 2. Per un’analisi di questo passo, con riferimento alla documentazione archeologica dei Brettii,
si veda GUZZO 1994, pp. 198-200; GUZZO 1995, pp. 260-263.
18 Diod. XIV, 41, 4-5.
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
323
Il passo diodoreo e quello straboniano su richiamati testimoniano il ruolo di rilievo dato alle
armi come elementi decisivi di valutazione identitaria delle genti italiche e sono in grado di
rimarcare considerazioni simili che la tradizione letteraria ci ha conservato, anche in quei casi in
cui il contrasto esplicito coi parametri identitari può comportare un giudizio positivo: basti ricordare, a titolo di esempio, l’ammirazione che Livio esprime per la capacità di Annibale di aver
combattuto per lungo tempo lontano dalla sua patria tenendo insieme un esercito composto «da
un miscuglio di uomini di ogni razza che non avevano in comune né leggi, ne costumi, né lingua,
che avevano diverso il modo di vivere e di vestirsi, diverse le armi»19.
In questo panorama sull’impronta identitaria delle armi è doveroso un richiamo alla complessità di un manufatto che, oltrepassando la sfera prettamente funzionale ed andando ben al di
là del suo significato intrinseco, può considerarsi un “marker” per eccellenza: il cinturone in
bronzo.
Associargli un predicato etnico come “sannitico” sembra quanto di più congruo per indicare
l’appartenenza a un popolo e la documentazione di cui si dispone per la Calabria 20, merita, in tal
senso, qualche considerazione.
I contesti di rinvenimento e le caratteristiche tecniche e stilistiche21 pongono immediatamente i
cinturoni calabresi in stretta relazione con il gran numero di quelli provenienti dalle aree dell’Italia
centrale e meridionale, comunemente definiti “sannitici”22. Analogamente a questi, gli esemplari
calabresi sono inseriti in corredi funerari di ricchezza variabile (da bassa a medio-alta) e sono
presenti nei luoghi di culto. A dediche di cinturoni, o di sue singole parti, sono infatti riconducibili alcune attestazioni che è opportuno segnalare in questa sede.
Nel Museo Archeologico di Capo Colonna (Crotone) sono conservate diverse lamine frammentarie23 alcune delle quali (fig. 1) sembrano riferibili a cinturoni miniaturistici per via dei piccoli
fori circolari, realizzati lungo i bordi, che richiamano da vicino i forellini funzionali al fissaggio
dell’imbottitura presenti sui realia. Un frammento di lamina di cinturone è stato rinvenuto, inoltre,
nel corso dello scavo 2013 nell’Heraion 24. L’unico foro di aggancio che si conserva sulla lamina
(fig. 2) non è del tipo più consueto “a ferro di cavallo”, ma presenta una forma di chiusura
completa, a punta. Tale motivo, detto anche “a V” o “ad occhio”, è diffuso sui cinturoni provenienti da contesti sannitici (per es. Nuceria Alfaterna, Carife) e lucani (per es. Paestum, Montescaglioso, Tricarico)25 ed è considerato da Matilde Romito un indicatore dell’adozione di sistemi
cautelativi per assicurare tenuta e aderenza sulla lamina del cinturone a una varietà di ganci, dal
corpo estremamente allungato (cd. “a stelo”), il cui uso inizierebbe a diffondersi tra la fine del
IV e gli inizi del III sec. a.C.26.
Dal santuario rurale di Sant’Anna di Cutro (chora meridionale di Kroton) si segnala un
frammento di lamina di cinturone, contrassegnato dai caratteristici forellini in alto, decorato elegantemente a sbalzo da motivi vegetali e con foro di aggancio dalla tipica forma “a ferro di
19 Liv.
XXVIII, 12, 2-4.
disamina dei dati generali con particolare riferimento alla distribuzione dei cinturoni e alle tipologie
censite nel Bruzio è in CRISTIANO 2011, pp. 572-578.
21 Un approfondimento sulle attestazioni provenienti dall’area della Crotoniatide e sui particolari accorgimenti
tecnici utilizzati nella produzione di alcuni degli esemplari esaminati è in CRISTIANO 2014.
22 Per un quadro distributivo delle cosiddette “macro-aree italiche” si vedano SANNIBALE 1998, pp. 136-137;
SUANO 2000, pp. 186-187. Per le schede dei siti e dei rinvenimenti si rimanda a ROMITO 1995, pp. 51-165.
23 Museo di Capo Colonna (magazzino). Inv. 8373. Fascia: h cm 3,5. Sono grato a Maria Grazia Aisa per la
possibilità di esaminare questi frammenti.
24 Capo Colonna. Heraion, area OA. US 20. Inv. scavo: Mm16-126A13. Misure: cm 10 x 13,4. Segnalazione di
Alfredo Ruga che ringrazio.
25 ROMITO 1995, p. 22, p. 26, tav. VIII.
26 Sul passaggio dei fori d’aggancio dal tipo a “ferro di cavallo” a quello “a occhio” si veda ROMITO 1995, p.
22; p. 26, tav. VIII. Sull’evoluzione morfologica che dal gancio “a corpo di cicala” arriva al gancio “a stelo
semplice” si veda ROMITO 2000, p. 194.
20 Una
324
Tra paralia e mesogaia
cavallo” (fig. 3)27. Sembra plausibile collegare tali attestazioni a dediche private o a particolari
esigenze di carattere rituale che, nel caso degli Heraia, possono evocare anche scenari di tipo iniziatico28. In particolare, per l’Heraion Lacinio, oltre alle funzioni tradizionalmente connesse alla sfera
cultuale della dea (eleuthèria / hoplosmìa)29 potrebbe aver avuto un certo peso anche il ruolo svolto
dal santuario come luogo di riferimento per l’arruolamento di mercenari e richieste di asilo.
Emblematico al riguardo è quanto ricordato da Livio a proposito di Annibale che, ormai pronto
a lasciare il Bruzio, fece giustiziare in «Iunonis Laciniae templo ipso» i molti soldati di stirpe italica
che vi si erano rifugiati rifiutando di seguirlo in Africa 30. Il passo è tra l’altro significativo per
la presenza di soldati all’interno del tempio sul finire delle guerre puniche.
Un’ulteriore testimonianza di dediche è fornita dall’area sacra di località Calderazzo a Medma
(Rosarno) da dove si segnalano quattro ganci singoli e un frammento di lamina di cinturone provenienti dagli scavi condotti da Paolo Orsi nell’area del grande deposito votivo tra il 1912 e il 1913 e
attualmente esposti nel Museo Archeologico di Medma (fig. 4)31. Il frammento di lamina conserva
due ganci dal corpo “a cicala” e terminale teriomorfo (tipo Suano 4A). I ganci singoli, provvisti
tutti di terminale “a lancetta”, sono accoppiabili per tipologia: due sono a palmetta doppia su
piastrina lunga (tipo Suano 1B) e due a palmetta singola su piastrina corta (tipo Suano 2B).
Sensibili differenze di calibro (diametro dei colli di raccordo, sviluppo delle lancette, sagoma
delle piastrine) lascerebbero aperta la possibilità che essi appartengano a quattro diversi cinturoni.
A questi esemplari va ad aggiungersi un gancio (fig. 5) a figura animale geminata (tipo Suano 7B)32
rinvenuto nel corso delle esplorazioni dei nuovi depositi individuati nell’area di Calderazzo nel
201433 e molto particolare per il confronto diretto con i ganci che Silvio Ferri registrava a Tiriolo
nel 192734 (fig. 6).
Frutto di atti individuali di devozione, i ganci singoli, proprio per il loro valore simbolico e
non funzionale, non avevano necessità di essere defunzionalizzati per la dedica 35, dal momento
che una componente del tutto occasionale determinava di frequente il loro distacco dalla lamina
del cinturone36. Gli esemplari di Medma-Calderazzo, riferibili ai tipi Suano 2B e 4A, dato l’ambito
cronologico generale di attestazione fra la metà del V e la fine del IV secolo a.C. 37, potrebbero
far pensare a una datazione ancora al V secolo a.C., in assenza di ulteriori indicazioni di associazione o di contesto che concorrano a meglio circoscriverla.
Passando alla documentazione funeraria è opportuno osservare che diversamente da quanto
accade in area campana, lucana e apula, non si conoscono in Calabria raffigurazioni pittoriche di
personaggi che indossano il cinturone e le produzioni vascolari non identificano con certezza una
“mano brettia” che riproduca, ad esempio, una vestizione di guerriero che sia munito di questo
indumento. I contesti funerari scavati non sono ancora molti e dove si può fare affidamento a
un numero più ampio di sepolture, i portatori di cinturone sembrano sempre limitati a pochi
individui sul totale dei sepolti.
27 Segnalazione
di Margherita Corrado che ringrazio.
1999, pp. 233-237.
29 Sulla valenza “liberatrice” della dea e sul suo legame alla sfera delle armi si veda GIANGIULIO 2002, pp. 294297 e da ultimo SPADEA 2018.
30 Liv. XXX, 20, 5-6. La descrizione del massacro è narrata da Appiano (Hann. 59).
31 Ringrazio Maria Teresa Iannelli per la segnalazione e Marco Stefano Scaravilli per la disponibilità dimostratami.
32 Per questa e per le altre tipologie a cui si è fatto riferimento si veda SUANO 1991, p. 136.
33 GRILLO 2014, p. 86, n. 243.
34 FERRI 1927a, pp. 351-355; tav. XXV, b.
35 Sulla defunzionalizzazione o “distruzione” intenzionale delle armi nei santuari finalizzata alla loro trasformazione in oggetti votivi, si veda GRAELLS I FABREGAT 2017a, pp. 172-174.
36 Si veda in proposito CRISTIANO 2014, pp. 496-499.
37 SUANO 2000, p. 184.
28 GRECO
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
325
Nel nucleo lucano del sepolcreto di S. Brancato di Tortora38 (Cosenza) va segnalata l’anomalia
della tomba 60 (fig. 7)39 con l’unico individuo che indossa il cinturone associato a una punta di
lancia, al coltello e allo strigile. Per la sepoltura è stata avanzata la possibilità che appartenga a un
allogeno militarmente connotato inserito nella comunità40. Nella necropoli brettia di località
Portavecchia di Nocera Terinese (Catanzaro) su centodiciotto sepolture solo due hanno il cinturone, mentre un terzo esemplare è stato restituito da una sepoltura isolata in località Guirrino
dello stesso comune (fig. 8)41. A Torre Inferrata di Castellace (Reggio Calabria) il cinturone è
documentato in due delle undici tombe messe in luce negli anni Quaranta del secolo scorso dal
Sestieri42 e in due delle ventitre tombe (fig. 9) scavate nel corso delle indagini sistematiche
condotte sul pianoro tra il 2008 e il 201043. Nella necropoli brettia di località Treselle di Cetraro
(Cosenza) su dodici sepolture una ha il cinturone associato a coltello e giavellotto, due hanno il
giavellotto senza il cinturone44.
Allo stesso modo nei contesti funerari della Crotoniatide risultano individui muniti di armi
e privi di cinturone e individui non armati che lo indossano 45. Sono assenti i cinturoni nella
necropoli brettia di contrada Moio a Cosenza46 e molto rari sono i rinvenimenti nelle tombe
brettie di Hipponion47.
Il dato è confermato anche dai contesti funerari monumentali di Tiriolo-Castaneto48 e di
Hipponion-Piercastello49 che non restituiscono cinturoni, pur non mancando in entrambi i casi
indicatori espliciti a personaggi del ceto equestre50. Cinturoni in sovrannumero entrano invece in
gioco nella tomba a camera di Marcellina-Laos51 e in quella di Cariati-Salto52.
Come leggere queste attestazioni? Come spiegare queste differenze? Chi sono coloro che esibiscono il cinturone? Per le necropoli brettie si può dire con certezza che i portatori di cinturone
siano sempre e solo Brettii o sfuggono alla lettura archeologica situazioni di altro tipo che possono
ricondursi alla presenza di Lucani o di Campani?
Si pensi, per esempio, alla presenza di enclave lucana attestata dalle fonti nel comprensorio posto
a sud dell’istmo Thurii-Cerillae, il tradizionale confine indicato da Strabone tra Lucani e Brettii53.
38 MOLLO
2018, pp. 50-54.
2018, p. 51, fig. 27.
40 PONTRANDOLFO 2004, pp. 91-93.
41 AISA et alii 2018, pp. 283-285; p. 285, fig. 7.
42 COSTAMAGNA 1999, pp. 96-109; p. 98, fig. 99, n. 266; p. 100, fig. 103; p. 108, fig. 120, nn. 290-293.
43 SICA 2018, pp. 328-334; p. 333, fig. 8.
44 MOLLO 2003, pp. 75-77, 301-302, 306-307; p. 490, tav. 124, j1; p. 491, tav. 125, k2, k3; p. 492, tav. 126, k4, k5.
45 CRISTIANO 2014, p. 496.
46 GALLI, SCORNAJENGHI 1935; CERZOSO 2014, p. 477.
47 ROTELLA 2014, pp. 77-78 (tomba 2, Cofinello). Va tenuta presente la possibilità che i cinque ganci singoli e
frammentari editi dalla studiosa alla fig. 15, p. 77, diversi per forma e misure e appartenuti alla Collezione
Capialbi - scartando l’esemplare n. C1132 che per fattura e tipo di uncino non è ascrivibile a un gancio di
cinturone italico - possano aver funzionato come dediche della pars pro toto in un contesto diverso da quello
funerario, come accade, ad esempio, per i ganci provenienti dall’area sacra di Medma-Calderazzo (cfr. supra).
Che la logica del dono della pars pro toto trovi nel gancio di cinturone piena adattabilità, sembra confermato dai
rinvenimenti sempre più numerosi di singoli ganci anche fuori dalla penisola italiana (Tunisia, Grecia, Germania,
Francia, Ungheria, Spagna, Dalmazia) a testimonianza di contatti culturali da direzioni diverse. A tal riguardo
si veda, da ultimo BLEĈIĆ KAVUR, KAVUR 2016, pp. 241-244; p. 243, fig. 5.
48 SPADEA et alii 2017.
49 CRIMACO, PROIETTI 1989, pp. 792-795 e passim (tomba 530); CANNATÀ 2013, p. 20 e passim (tomba C10).
50 CRISTIANO 2020, pp. 448-450.
51 VON KAENEL 1992.
52 GUZZO, LUPPINO 1980, pp. 828-829.
53 Strab. VI, 1, 4.
39 MOLLO
326
Tra paralia e mesogaia
Il caso di Petelia «città dei Lucani»54, la preponderanza di onomastica osco-campana nella documentazione epigrafica petelina dall’inizio del III sec. a.C. in poi, l’episodio del presidio lucano
imposto nel 277 a.C. da Pirro a Crotone55, indicativo della presenza di guarnigioni italiche nella
polis italiota e frutto di una probabile intesa tra Pirro e le genti di stirpe sannitica, e ancora la
chiosa mons Lucaniae utilizzata da Servio nel commento a Virgilio56 per indicare i territori montuosi
posti a sud dell’istmo Thurii-Laos che includevano una parte della Sila. Sono queste alcune delle
circostanze evidenziate da Giovanna De Sensi Sestito nell’ipotizzare la possibilità di una presenza
lucana in questa fascia di territorio e di attribuire eventualmente a capi lucani o campani alcune
delle sepolture monumentali presenti in quest’area 57. Non più decifrabile sembra invece per
Pier Giovanni Guzzo58 l’origine dei capi militari sepolti nel Bruzio, siano essi Brettii o alcuni
tra i cinquanta giovani lucani addestrati dai Brettii nelle foreste, secondo quanto ricordato da
Giustino59. A una più chiara definizione di questa situazione che risente ancora molto della
carenza di dati di cultura materiale a cui poter fare riferimento, potrebbero forse contribuire le
attestazioni di cinturone in Calabria marcando la differenza tra un campano o un lucano che lo
portano e un brettio che ne è privo?
Un ruolo significativo deve aver svolto inoltre il fenomeno di mobilità sociale e geografica di
stampo mercenariale che a partire dagli ultimi decenni del V sec. a.C. favorisce percorsi e spostamenti di uomini dal mondo sannita al sud della penisola, per la sempre maggiore richiesta di manodopera militare da impiegare nelle operazioni belliche e nelle alterne vicende politiche che interessano Magna Grecia e Sicilia soprattutto nel corso del secolo successivo60. Mercenari provenienti dalla Campania o dalle aree più interne del Sannio che una volta abbandonata la terra di origine ben difficilmente vi avranno fatto ritorno e che per ragioni disparate hanno perso la vita
all’interno di comunità di cui erano solo ospiti o nelle quali si erano insediati stabilmente, vivendo
per lungo tempo e magari mettendo su famiglia61. Di queste persone si è voluto ricordare e sottolineare, nell’apprestamento dell’apparato funerario, l’appartenenza a un ethnos diverso di cui il cinturone, associato o meno ad altri tipi di indicatori62, potrebbe essere l’indizio più esplicito nei contesti
funerari brettii in cui lo si trova esibito. La sua presenza sarebbe il risultato di una scelta consapevole, quella di aderire all’identità dominante se si è nel proprio ambiente o di evidenziare la propria
differenza se si è in un ambiente diverso. Essendo il rituale funebre svolto dai vivi, testimonia che
nella comunità c’erano altre persone che comprendevano il valore di certi oggetti e pratiche nella
sepoltura e hanno scelto di usarli per connotare il defunto. Legato strettamente alla definizione
etnica del suo possessore, il cinturone rientrerebbe in quella categoria di oggetti che secondo
Marlene Suano viaggerebbero per lunghe distanze venendo a trovarsi in un determinato luogo e
in una determinata cultura senza che vi sia un rapporto intrinseco tra l’oggetto e la cultura
ospite, se non quello della sua possibile accettazione63. Con tale logica funzionerebbe la necessità
di ricorrere a complessi rattoppi per mantenere il manufatto integro il più a lungo possibile, data
la difficoltà di sostituire o reperire un oggetto così particolare a cui era legata la propria identità.
54 Strab.
VI, 1, 3.
Strat. III, 6, 4.
56 Serv., ad Georg. III, 219; ad Aen. XII, 715.
57 DE SENSI SESTITO 2004, pp. 552-558.
58 GUZZO 2021, p. 306.
59 Iustin. XXIII, 1, 10.
60 Su questi aspetti si veda TAGLIAMONTE 1994.
61 Sulla radicata tendenza dei mercenari italici a insediarsi stabilmente nella società di immigrazione, si veda
TAGLIAMONTE 1994, pp. 86, 99-100, 163-164.
62 Tra i possibili fossili guida sembra opportuno richiamare anche i casi di deposizioni equine presenti all’interno
di sepolture in connessione diretta (Marcellina-Laos, Pietrapaola-Spinetta) o meno (Cirò-Sabatini) con deposizioni umane (CRISTIANO 2020, pp. 448-449), secondo costumanze funerarie proprie della tradizione campana
(TAGLIAMONTE 2006, pp. 466-469).
63 SUANO 2008, p. 52.
55 Front.,
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
327
2. Strumenti e prassi della guerra nella tradizione letteraria su Lucani e Brettii
La testimonianza delle fonti letterarie sembra utile a richiamare non solo gli importanti scontri
bellici che vedono impegnati a più riprese i protagonisti di questa indagine, Lucani e Brettii, ma
anche a ricavare preziose indicazioni su dove le operazioni siano avvenute, su come si siano
svolte, sulle forze militari impiegate e sul repertorio delle armi in uso.
Con le guerre sannitiche ed i conflitti che vedono contrapposti Italici ed Italioti nel sud della
penisola, le forme tradizionali della guerra oplitica entrano in crisi, come lo erano anche nel
mondo greco64. Truppe armate alla leggera, mercenari e cavalieri trovano ora la loro valorizzazione. Sul piano tattico ed organizzativo, le novità fanno sentire il loro peso. La guerra non si
combatte più soltanto in pianura, ma lo scontro viene spostato su un terreno più propizio, le
aree montane ed interne, e le battaglie campali lasciano il posto a guerriglie, scorrerie, imboscate,
ritirate strategiche, ritorni in massa, raid, comunque a operazioni di scarsa portata o a un insieme
di atti di questo genere, senza che vi sia tra di essi quel particolare tipo di relazione che riesce a
trasformare il tutto in una guerra vera e propria. Così i Brettii risultano perdenti negli scontri
campali contro i Romani nel 279 e nel 214 a.C.65 e quando riescono a colpire lo fanno in spazi
ristretti e disagevoli, come l’attacco in «salto angusto» sferrato ai danni delle truppe romane di
passaggio nel territorio di Cosenza nel 206 a.C., un’azione il cui esito è per Livio «maior tamen
tumultus quam pugna»66. E ciò vale anche per i Lucani, coerentemente impari negli scontri campali
e spesso timorosi di affrontarli 67, prediligendo comunque l’attacco improvviso più che lo
scontro ravvicinato68.
Muoversi di giorno o di notte parallelamente a strade e sentieri, utilizzare tracciati nascosti,
aggirare colline, attraversare radure nel loro punto più stretto, calcolare tempi e modi dell’agguato,
evitare di entrare nello scontro se la strategia di gruppo non lo prevede, proteggere l’eventuale
ritirata del corpo di assalto e respingere qualunque rinforzo nemico giunga improvvisamente
sulla scena, sono fattori cruciali per il successo di siffatta configurazione strategica in cui competenza e spirito di gruppo devono ritenersi comunque elementi essenziali. È pur vero che in questo
tipo di sistema le forme dell’economia predatoria hanno acquisito agli occhi della tradizione
letteraria caratteristiche e dimensioni etniche e non infrequenti sono i casi di diserzioni e forme
incontrollate di iniziativa militare che vengono sottolineate per i Brettii69. In realtà essi combattono non inquadrati in strutture statali e istituzioni collettive sviluppate come quelle delle città
greche e romane, ma per strutture di clan che in occasioni particolari si uniscono a formare forze
militari numerose ma che non sono un vero e proprio “esercito cittadino”. Per questo quando
gli interessi del clan non coincidono con quelli degli altri, la lealtà prevalente è quella verso il
proprio clan. Sono queste le iniziative che gli storici romani presentano come diserzioni o indisciplina, ma sono del tutto naturali. Finché c’è un interesse collettivo si combatte uniti, altrimenti
le forze si dividono e agiscono indipendentemente.
Tratti comuni hanno le forme organizzative militari dei Lucani e dei Brettii per i quali la guerra
rappresenta non solo una prassi intrinseca alla formazione sociale, ma anche un momento decisivo di aggregazione e coagulazione socio-politica70 nella quale essi sono capaci di attivarsi sinergicamente in alleanze strumentali utili a fronteggiare il pericolo, come la societas stipulata con
Sanniti, Etruschi e Galli Senoni nel 283 a.C. con lo scopo di riprendere la guerra contro Roma71.
64 Sulla
diffusione e l’importanza della tattica oplitica nel sistema organizzativo-militare delle poleis italiote e sui
modi con cui tale esperienza sia stata attuata, si veda LOMBARDO 1987, pp. 233-236.
65 Dion. Hal., Ant. Rom., Exc. XX, 1, 2-3; 2, 6; 3, 1; Liv. XXIV, 16, 1-5.
66 Liv. XXVIII, 11, 13-14.
67 Diod. XX, 104, 3-4.
68 Liv. VIII, 24, 7.
69 Diod. XVI, 15, 1; Plut., Fab. Max. 22, 5; Liv. XXIII, 30, 7; XXV, 1, 4; XXVII, 12, 5-6; XXVIII, 12, 8-9; XXIX, 6, 2-3.
70 LOMBARDO 1989, pp. 261, 286.
71 Il riferimento è rispettivamente a Oros., Hist. Adv. Pag. III, 22, 12 e ad Aug., de Civ. D. III, 17, 2.
328
Tra paralia e mesogaia
Pochi anni dopo, nel 279 a.C., corpi di fanteria e di cavalleria brettia e lucana combattono
insieme nella grande coalizione di truppe alleate di Pirro in occasione della battaglia presso
Ascoli Satriano contro l’esercito Romano: affiancati da quelli di molti altri ethne, i fanti lucani e
brettii sono schierati sull’ala destra dietro la falange dei Tarantini; i cavalieri brettii sono posti
sull’ala destra dello schieramento insieme a Tessali e Sanniti mentre i cavalieri lucani sono a
protezione del corno opposto insieme con Ambraci e Tarantini72. In siffatte formazioni l’obiettivo è assicurare il fianco dell’esercito con una difesa elastica e mobile e quando possibile chiudere
il nemico nell’angolo convincendolo che proseguire la battaglia è oramai vano 73. La presenza, in
questa occasione, di truppe inquadrate in ranghi regolari e distinti di fanti e cavalieri non sarebbe
necessariamente indicativa dell’introduzione, da parte dei Brettii, di regolari strutture di reclutamento e addestramento militare e di una riorganizzazione del loro modo originario di combattere
per razzie ed imboscate74, quanto della presenza di diversi livelli socio-economici che si esprimono anche nello stile di combattimento. Quanto strutturata (come nella Roma repubblicana o
ad Atene) o spontanea fosse la distinzione non lo sappiamo, ma per combattere nella cavalleria
ci vuole il cavallo, che è un bene di lusso, con relativi pascoli, stalle e personale.
In epoca successiva appaiono significative le informazioni sulle vaste compagini di forze
mercenarie che combattono prima per Roma e poi per Cartagine.
Nella rassegna polibiana delle forze italiche alleate dei Romani contro la minaccia dei Galli
nel 225 a.C., a circa dieci anni dallo scontro con Annibale, sono assenti i Brettii e presenti i Lucani
con 30.000 fanti e 3.000 cavalieri75, mentre nel reclutamento del contingente alleato che si apprestava a combattere in favore dei Romani nell’imminenza della battaglia di Canne, Silio Italico
registra i Brettii «telis et tergo irsuta ferarum»76, di contro alla loro assenza nell’elenco polibiano. In
teoria tutti gli alleati erano costretti ad aiutare Roma con il massimo delle loro capacità, ma in
pratica i loro obblighi erano definiti in base a quella che era conosciuta come la formula togatorum,
una lista tenuta periodicamente dal governo romano nella quale veniva verosimilmente indicato
il numero massimo di soldati che le autorità romane avevano il diritto di richiedere ai socii 77. Di
fatto nel 225 a.C. i Brettii non fornivano soldati a Roma. L’assenza dei Brettii in Polibio 78 e la
loro presenza in Silio Italico potrebbe essere anche solo dovuta a un ingaggio successivo dei
Brettii, determinatosi in quel lasso di tempo (circa 10 anni) esplicitato proprio dal «metà de taùta»
con cui Polibio79 fa chiaramente capire di descrivere una situazione potenzialmente valida per il
futuro (l’arrivo di Annibale) ma riferita però al momento della rassegna delle truppe disponibili
di fronte al pericolo dei Galli.
In età annibalica Brettii e Lucani formano il nerbo della fanteria dell’esercito degli alleati Cartaginesi. Livio c’informa che nella battaglia di Beneventum contro Tiberio Gracco (214 a.C.)
l’esercito degli alleati punici era composto da 17 mila fanti, per la maggior parte Brettii e Lucani,
e 1200 cavalieri, tra i quali pochissimi Italici, ma quasi tutti Numidi e Mauri80. Negli stessi anni,
la possibilità di integrare l’economia locale con fonti esterne di acquisizione di beni, è palese nelle
intenzioni dei Brettii di saccheggiare le città di Reggio e di Locri e di assediare Crotone, «urbem
portu ac moenibus validam», arrivando ad arruolare ed armare per l’occasione fino a 15.000 mila dei
72 Dion.
Hal., Ant. Rom., Exc. XX, 1, 1-3; XX, 1, 4.
Pyrrh. 17, 3.
74 Su questa possibilità, considerata indice di disciplina e comportamento unitario dell’ethnos brettio, si veda DE
SENSI SESTITO 2017, pp. 177-178.
75 Polyb. II, 24, 12.
76 Sil. Ital. VIII, 568-572.
77 Sulla formula togatorum restano validi gli studi di ILARI 1974, pp. 57-83 e LO CASCIO 1991-1994. Sui criteri per
la determinazione del reclutamento si vedano anche BRUNT 1971, pp. 545-548; TOYNBEE 1981, pp. 543-545.
78 A tal riguardo si veda GUZZO 1989, pp. 107-108.
79 Polyb. II, 24, 1.
80 Liv. XXIV, 15, 1-2.
73 Plut.,
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
329
loro giovani81. I Brettii sono quindi capaci di far pesare la loro consistenza numerica nell’esercito
per influenzare la strategia del generale e raggiungere obiettivi per loro desiderabili ovvero
estrarre risorse dalle città greche come avevano sempre fatto.
Nel campo della dotazione bellica, le fonti letterarie non sono particolarmente abbondanti di
particolari. Tuttavia la varietà tipologica e il costante aggiornamento delle armi devono essere
elementi non trascurabili. Se al tempo dell’ambasceria presso Alessandro Magno a Babilonia gli
equipaggiamenti dei Brettii e dei Lucani rappresentano una novità per Greci e Macedoni 82, la
possibilità di entrarne in possesso, un ventennio più tardi, è motivo di vanto e di prestigio.
Ciò è quanto si ricava dai due epigrammi composti da Leonida di Taranto sullo scorcio del
IV sec. a.C. I due componimenti esaltano la vittoria conseguita dai concittadini del poeta attraverso la dedica delle armi sottratte ai Lucani83. L’apprezzamento del valore militare degli avversari è implicito nella minuziosa rassegna degli oggetti bellici che compongono la dedica. Nel primo
epigramma, le armi della fanteria lucana, raggruppate per genere (otto scudi oblunghi, otto elmi,
otto spade, otto corazze di tessuto), sono dedicate dal capitano greco Hagnon ad Atena Corifasia84.
Nel secondo epigramma, lance a doppia punta, morsi equini e larghi scudi dedicati a Pallade,
rimpiangono cavalli e cavalieri travolti in battaglia85.
L’utilizzo di termini specifici da parte di Leonida consente di individuare precise tipologie di
armi in forza ai Lucani: come armi offensive i fanti lucani utilizzano kopìdas, le spade a un taglio
note dal tardo arcaismo greco86, ideali sia nei duelli a corpo a corpo che per assestare fendenti
devastanti nelle mischie87. Per la protezione del corpo, oltre a elmi e corazze, i fanti sono provvisti
di thyreoùs, gli scudi di cui le fonti ricordano l’origine sannitica88 e su cui Polibio ci tramanda una
dettagliata descrizione, soffermandosi oltre che sulla forma, allungata e più o meno convessa,
anche sul materiale in cui erano realizzati: assi di legno e vimini intrecciati 89. La struttura di
questo scudo, che si stava diffondendo nello stesso periodo anche nelle armate ellenistiche per
la fanteria non oplitica, viene confermata da Varrone nel temine scutum (da skùtos), il cuoio, la
pelle con cui era rivestito90 e da Plinio che indica in varie specie di legno il materiale ideale per
bloccare il propagarsi di eventuali lesioni91. Per gli scudi utilizzati dalla cavalleria, Leonida è a
conoscenza di una variante, thyreàspides, in cui le caratteristiche dello scudo lungo (thyreòs) sono
associate a quelle dello scudo tondo (aspìs). Ne verrebbe fuori un ibrido meno sviluppato in
lunghezza e largo quanto basta a proteggere il cavaliere, non creandogli eccessivo ingombro nelle
manovre a cavallo.
L’idea di uno scudo simile, dietro il quale il cavaliere si teneva al riparo, può esserci offerta da
una statuetta equestre di terracotta (fig. 10) proveniente dallo scavo di Piazzetta Toscano a
Cosenza92 che attesta, tra l’altro, come tale foggia di scudo fosse presente negli schemi figurativi a cui attingevano gli artigiani che forgiavano prodotti di questo genere circolanti anche in
81 Liv.
XXIV, 2, 4.
Alex. Anab. VII, 15, 4-5.
83 Su questi epigrammi si veda MELE 1995b, dove l’autore si sofferma in modo particolare sull’armamento
della fanteria e della cavalleria lucana.
84 Leon., Anth. Pal. VI, 129. La dedica avverrebbe sul promontorio Corifasio (presso Pilo in Messenia) dove la
divinità in questione era oggetto di culto poliadico (cfr. MELE 1995b, p. 114).
85 Leon., Anth. Pal. VI, 131.
86 SNODGRASS 1991, pp. 129-130.
87 Il termine si adatta bene alle spade corte rappresentate nelle scene figurate relative ai duelli lucani. Si veda
SAULNIER 1983, p. 81.
88 Ath., Deipn. VI, 273 F; Ined. Vatic. (FGrH 839 fr. 1, 3 Jacoby).
89 Polyb. VI, 23, 1-5.
90 Varro, de ling. lat. V, 24.
91 Plin., N.H. XVI, 209.
92 TOSTI 2014, p. 538, n. 1355.
82 Arr.,
330
Tra paralia e mesogaia
ambito brettio. Per la cavalleria lucana Leonida menziona inoltre la dotazione di «xestòi anfhìboloi
kàmakes»93, lance levigate e munite di un secondo puntale all’estremità inferiore, in modo da
permettere al cavaliere di continuare a combattere nel caso l’asta si fosse spezzata. L’inconveniente, noto già a Senofonte che raccomandava al cavaliere l’utilizzo di due giavellotti al posto
della lancia94, è rimarcato da Polibio come difetto ricorrente delle lance della cavalleria romana 95
e risolto in seguito con l’adozione del tipo di armamento greco, con lancia munita di saurotèr che
la rendeva precisa ed efficace anche quando l’arma veniva impugnata a rovescio96.
Un accostamento agli epigrammi di Leonida, per ragioni di cronologia e di composizione,
s’impone sul versante brettio per l’epigramma della poetessa Nosside che inneggia al valore militare dei Locresi, celebrando il bottino costituito dagli scudi dei Brettii, abbandonati in battaglia e
dedicati «nei templi degli dei »97. L’epigramma attesta l’impegno militare brettio nelle zone magnogreche più a sud del loro territorio e verso le coste, intorno al 300 a.C.98. Nel componimento le
forme materiali del riconoscimento del coraggio e del valore militare si inquadrano in una logica
simbolica: nonostante la sconfitta, la minaccia brettia deve essere ancora viva se i Locresi sentono
l’esigenza di dedicare il bottino di guerra, assicurandosi che quelle spoglie non saranno più
utilizzate e scongiurando ritorsioni future grazie alla garanzia di una o più divinità. Al contrario
di Leonida, Nosside non distingue varietà di armamenti che compongono il bottino, ma parla
di armi in generale (èntea)99. Che si tratti di scudi per il fatto che i Brettii se ne disfino lasciandoli
cadere dalle «grame spalle», potrebbe essere una possibilità, soprattutto se vi si vogliono vedere
scudi oblunghi (thyreòi / scuta) simili a quelli imbracciati dai guerrieri rappresentati sul rovescio
della nota serie monetale in bronzo del koinòn brettio (208-205 a.C.)100. Per scudi di questo
tipo il trasporto era assicurato proprio dall’utilizzo di cinghie a spalla, come tramandato da
Polibio101.
Apprendiamo poi da Festo che era in uso tra i Brettii una foggia particolare di scudo, la
«parma brutiana»102, presumibilmente uno scudo leggero il cui formato non sappiamo fino a che
punto può considerarsi vicino alla parma descritta da Polibio «solidamente costruita e larga quanto
basta per difendere la persona, rotonda e del diametro di tre piedi»103. L’utilizzo della parma da
parte dei Brettii si porrebbe in un lasso di tempo definito. A usarla - secondo Festo - sarebbero
«Brutiani qui officia servilia magistratibus praestabant»104 dopo la conclusione del conflitto punico,
quando i Romani non arruolavano più i Brettii come soldati ma li assegnavano come servi ai
magistrati che si recavano nelle province, diretta conseguenza del loro lungo perseverare al fianco
di Annibale. Che si tratti di Brettii lo si ricava da un inciso di Gellio: «quod autem ex Bruttiis erant,
appellati sunt Bruttiani»105; il che spiegherebbe, in modo indiretto, l’accostamento del predicato
etnico brutiana alla parma ricordata da Festo. L’uso di questo scudo giungerebbe almeno fino alla
93 Leon.,
Anth. Pal. VI, 131.
Eq. XII, 12.
95 Polyb. VI, 25, 6.
96 Polyb. VI, 25, 8-10.
97 Nossis, Anth. Pal. VI, 132.
98 Per un’attenta e scrupolosa analisi del componimento di Nosside si veda il recente lavoro di CAPPELLETTI
2018, dove vengono avanzate proposte esaurienti in merito all’orizzonte cronologico (post 302/301 a.C.) e
allo sfondo politico (intervento di Agatocle in Magna Grecia) in cui si collocherebbe l’episodio militare ricordato dalla poetessa locrese.
99 LIDDELL, SCOTT 1996, s.v. èntea (I, A).
100 Per il “gruppo del guerriero”, così denominato dalla tipologia del rovescio dell’unità, si fa riferimento alla
periodizzazione proposta da PARISE 1993, p. 193 e da ARSLAN 1999a, p. 42.
101 Polyb. XVIII, 18, 2-3
102 Fest., de Verb. signif., p. 29, 1 (ed. Lindsay 1913).
103 Polyb. VI, 22, 2-3.
104 Fest., de Verb. signif., p. 28, 19 (ed. Lindsay 1913).
105 Gell., Noct. Attic. X, 3, 18-19.
94 Xen.,
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
331
fine del II sec. a.C., se Festo ci tramanda ancora che con la riforma di Gaio Mario (107 a.C.), la
parma brutiana sostituì parmulis con cui «pugnare milites usi sunt»106.
3. La documentazione materiale. Spunti di lettura tra nuovi e vecchi rinvenimenti
A fronte delle testimonianze storiche, la documentazione archeologica – benché ancora non
copiosa per la Calabria – lascia trasparire una realtà piuttosto articolata dal punto di vista della
dotazione bellica. Se nel corso della vita del guerriero l’arma è stata uno strumento che, più di
ogni altro, ha risposto a esigenze funzionali (capacità di spesa, disponibilità del metallo, abilità
nel tipo di scontro che si deve o si immagina di sostenere), dopo la morte essa diviene espressione
delle esigenze simboliche e ostentatorie del guerriero defunto e, per suo tramite, della tradizione
familiare o locale. Il tutto si estrinseca in un quadro fortemente segnato da comportamenti individuali e complicato dai meccanismi di tipo acculturativo scaturiti dal contatto diretto con il
mondo greco da parte delle comunità italiche nel corso del loro progressivo emergere nelle sedi
storiche della Calabria107.
Sul piano della sfera funeraria, quando la conservazione del contesto offre la possibilità di
una lettura su più livelli, attraverso la presenza di significativi raggruppamenti di oggetti deposti
nel corredo, risulta evidente la volontà di selezionare per il defunto precisi simboli di autorappresentazione militarmente connotata. Così, nella tomba a camera di località Salto di Cariati è
sottolineata la virtù militare che il defunto ha manifestato nelle sue imprese belliche in una sorta
di elogio funebre che trova la sua espressione più evidente nella rappresentazione del giovane
personaggio entro naiskos nella scena principale dell’anfora a figure rosse presente nel corredo108.
Verrebbe esplicitata in tal modo l’assunzione del personaggio allo status di eroe “alla greca” e la
sua appartenenza ai livelli più alti della comunità italica. Su lato opposto del vaso (fig. 11) i segni
dell’eroismo di tipo greco sarebbero evidenti nella rappresentazione figurata delle armi appese
all’architrave (elmo a pilos, spada inguainata) e deposte all’interno del naiskos (scudo circolare e
corazza anatomica) e si rifletterebbero nella foggia di quelle reali collocate nel sepolcro (panoplia
con elmo e corazza di tipo lungo, strigile, spada a lama ricurva da cavalleria). I cinturoni indicherebbero l’uomo italico: l’esemplare meglio conservato109 darebbe risalto all’identità del defunto
mentre i ganci singoli e gli altri ganci frammentari110 marcherebbero quella dei congiunti o dei
compagni che li han deposti come dono. Un triobolo in argento, presente nel corredo, s’inserirebbe nelle coniazioni databili tra Sibari e Thurii111. La moneta attesterebbe per Annalisa Polosa
l’uso precoce dell’obolo di Caronte nella seconda metà del V sec. a.C. 112, mentre secondo Pier
106 Fest.,
de Verb. signif., p. 274, 21-23 (ed. Lindsay 1913).
i molteplici aspetti che alimentano da sempre il dibattito scientifico, basta osservare come già solo nella
monetazione i tipi monetali brettii hanno leggende in greco (ARSLAN 1989) e propongono, forse più che nelle
monete di altri gruppi italici, scelte tipologiche e stilistiche perfettamente ellenizzate, tanto da far concludere
talvolta per la presenza nelle zecche di incisori greci (ARSLAN 1999b). Dal punto di vista archeologico, all’esigenza del recupero della documentazione materiale primaria e di un attento studio dei contesti per ricostruire
i caratteri distintivi dei Brettii (GUZZO 1989, pp. 96-102 e passim; GUZZO 1993, p. 171; GUZZO 1995, pp. 260,
262-263) si è aggiunto l’invito ad un’analisi che esuli il più possibile dal rapportare l’evidenza disponibile alle
categorie greche (GUZZO 2002; GUZZO 2011). In generale, per un quadro ricco ed aggiornato del popolamento italico della Calabria e delle sue complesse relazioni con le comunità greche fiorite al suo interno si
vedano i contributi raccolti in ENOTRI E BRETTII 2011 e in ENOTRI E BRETTII 2017. Sulle dinamiche storiche
e culturali che diedero forma al popolo dei Brettii e sullo stato attuale della documentazione archeologica ad
essi riferibile si veda GUZZO 2019.
108 Per il catalogo degli oggetti componenti il corredo si veda GUZZO, LUPPINO 1980, pp. 827-840; in particolare p. 832, n. 29 per la descrizione dell’anfora apula.
109 GUZZO, LUPPINO 1980, p. 828, n. 6; p. 874, figg. 14-15.
110 GUZZO, LUPPINO 1980, p. 828, nn. 7, 8, 9; p. 874, fig. 15.
111 GUZZO, LUPPINO 1980, p. 827, n. 1.
112 POLOSA 2009, pp. 122, 125. Il numerario che combina il tipo poseidoniate con quello sibarita è attribuito a
«Sibari V (post 440 a.C.)».
107 Tra
332
Tra paralia e mesogaia
Giovanni Guzzo potrebbe simboleggiare il misthós, la paga corrisposta ai mercenari alla fine delle
operazioni belliche, ed indicare un cavaliere che ha combattuto al soldo di Thurii alla guida di
mercenari alleati per qualche battaglia o nella difesa del territorio113. Tuttavia, la presenza di una
moneta più antica di quasi un secolo rispetto alla presunta data di chiusura del contesto funerario (ca. 355 a.C.), può anche far supporre che il soldo sia appartenuto a un familiare del personaggio defunto, forse al padre, cavaliere anch’egli.
Va osservato poi come la corazza lunga muscolata di Cariati-Salto sia dello stesso tipo di
quella indossata dalla statuetta fittile di guerriero proveniente dalla tomba a camera di Hipponion-Piercastello114. Nel personaggio (fig. 12) è da ravvisare la rappresentazione di un cavaliere,
più che di un combattente appiedato115, come sembrano indicare la particolare postura e i richiami
stilistici a tutta una serie di statuette fittili di cavalieri (fig. 13) che Raimon Graells ha recentemente censito per i rimandi puntuali alla panoplia, con corazza anatomica ed elmo tipo Montefortino, della seconda deposizione della tomba 669 di Lavello116. Figurine fittili di cavalli con
combattenti della stessa tipologia sono attestate anche nel complesso funerario messo in luce nel
2011 in località Valle di Casa di Torre Melissa (Crotone)117. L’associazione della corazza anatomica lunga con l’elmo Montefortino, il tipo di casco a calotta emisferica, bottone apicale e paragnatidi mobili elaborato da un prototipo celtico in area etrusco-italica e divenuto presto l’elmo
caratteristico dell’esercito romano118, fa pensare che l’adozione di questo binomio nel costume
bellico delle aristocrazie indigene sia dovuto al rapporto con l’ambiente romano nel periodo
compreso tra le guerre sannitiche e quelle puniche.
Proprio alla classe degli elmi Montefortino o degli «elmi con apice e paranuca», secondo la
più recente definizione di Marta Mazzoli119, possono ascriversi i due esemplari calabresi provenienti rispettivamente da Tiriolo e da Locri. Su entrambi le indicazioni che si possiedono circa i
contesti di provenienza sono esigue e generiche, se non addirittura assenti. L’elmo di Tiriolo è
frutto di un recupero più o meno fortuito degli inizi degli anni Settanta del secolo scorso nella
zona di Donnu Petru e di una successiva donazione all’Antiquarium civico della cittadina 120.
Quello di Locri risulta recuperato agli inizi del XX secolo da una non più precisabile sepoltura a
inumazione realizzata in grossi lastroni di calcare in località Cavuria di Gerace Marina 121. La
loro forma, tendenzialmente allungata nella parte superiore 122, è dovuta probabilmente alla
necessità di aumentare la resistenza ai colpi provenienti dall’alto. In entrambi i casi la calotta si
svasa in una tesa obliqua e poco aggettante fungente da paranuca, ornata da decorazioni incise
entro una serie di registri e terminante con un orlo cordonato a rilievo. L’elmo di Tiriolo (fig. 14) è
privo di paragnatidi e presenta diverse fessurazioni e crepe nella parte anteriore e posteriore
della calotta, mentre un restauro antico sulla sommità (fig. 15) lo ha privato del caratteristico
apice. Nell’elmo di Locri (fig. 16) la calotta è sormontata da un bottone emisferico decorato da
undici spicchi a rilievo.
L’elmo è provvisto di paragnatidi mobili di forma anatomica con bordo anteriore a doppia sagomatura e cerniera d’inserzione sul bordo inferiore, dove restano i due fori. Su ciascuna paragnatide
113 GUZZO
2019, p. 86. Sulla modalità della paga dei mercenari italici in Magna Grecia si veda TAGLIAMONTE
1994, pp. 157-164.
114 CRIMACO, PROIETTI 1989, p. 805.
115 CANNATÀ 2013, p. 155.
116 GRAELLS I FABREGAT et alii 2018, p. 53, nota 69.
117 Lo scavo è stato condotto da Ernesto Salerno e Carmelo Colelli sotto la direzione scientifica di Maria Grazia
Aisa, che ringrazio per la cortese informazione.
118 COARELLI 1976, pp. 162-173; SCHAAFF 1988, p. 318.
119 MAZZOLI 2016, p. 109.
120 RACHELI, SPADEA 2011, p. 342, nota 67.
121 FERRI 1927b, p. 359.
122 A tale caratteristica potrebbe riferirsi il termine conum utilizzato da Varrone (de ling. lat. V, 24).
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
333
sono quattro piccoli fori in alto e un rivetto a rilievo nella parte inferiore per il fissaggio della
correggia in cuoio, legata sotto il mento del guerriero.
Una proposta cronologica può basarsi esclusivamente sugli elementi tipologici che consentono
di collocare i due esemplari tra i tipi C e D della fine del IV - inizio e metà del III sec. a.C. della
classificazione fatta da Filippo Coarelli per l’edizione dell’elmo da Pizzighettone del Museo di
Cremona123. Per l’elmo di Locri si può aggiungere che la resa plastica della decorazione e la
presenza di un elemento floreale a rilievo con i petali laterali convergenti verso l’interno, inciso
nella parte anteriore del bordo, consentono di confrontarlo con un gruppo di elmi che sviluppano
lo stesso motivo, provenienti rispettivamente dal mare di Eraclea Minoa124 (Agrigento), dalla
tomba di Casa Selvatica di Berceto 125 (Parma), dal fiume Guadalquivir 126 (San Juan de Aznalfarache, Sevilla) e dalla tomba 669 di Lavello127 (Potenza). Nell’elmo di Tiriolo, la resa dell’orlo
cordonato con doppie incisioni oblique e parallele e la decorazione incisa nel registro più alto del
bordo, che riproduce una piccola fascia ornata da un motivo a spina di pesce, trovano un parallelo nei frammenti relativi al bordo di un elmo conservato al Museo Archeologico della Catalogna
(Barcellona), proveniente da Les Corts-Ampurias (Girona) e censito da Marta Mazzoli tra gli
elmi di bronzo tipologicamente indefinibili128.
Completano il quadro delle attestazioni degli elmi Montefortino in Calabria una paragnatide
anatomica (fig. 17) proveniente da Petelia (Strongoli), scoperta in seguito a ricognizioni di magazzino129 e una paragnatide dello stesso tipo (fig. 18) rinvenuta nel grande contesto archeologico
sommerso nel tratto di mare antistante il santuario kauloniate130 (Monasterace Marina). Per il
tipo di curvatura anteriore profilata a “epsilon” e con andamento avvolgente, entrambe le paragnatidi possono essere attribuite a elmi del tipo D della classificazione Coarelli131.
Da una foto di archivio si ha poi testimonianza di un elmo da Torre Mordillo132 (Cosenza)
con apice troncoconico e calotta schiacciata (fig. 19), condizione che, data l’assenza di indicazioni
di contesto, è difficile attribuire a un duro colpo subito in battaglia o a una defunzionalizzazione.
Insieme agli elmi di Tiriolo e Locri, tali attestazioni possono inserirsi in quel clima di incertezza e di instabilità determinato agli inizi del III sec. a.C. dall’intervento militare romano in Italia
meridionale e dall’avviarsi del processo di romanizzazione sancito dalla fondazione di colonie
latine e dai successivi avvenimenti, dal conflitto tra Roma e Pirro (280-275 a.C.) agli anni finali
della I guerra punica (241 a.C.). Purtroppo, nell’impossibilità di poter ricostruire le condizioni di
ritrovamento di questi esemplari si è costretti a restare nel campo delle ipotesi e a chiedersi se
questi elmi siano appartenuti a soldati romani giunti in Calabria, a mercenari italici alla ricerca di
un ingaggio o siano frutto di bottino di guerra conquistato, per esempio, da un guerriero brettio
a un soldato romano e utilizzato come proprio. Accanto al valore identitario delle armi esiste
anche il fenomeno dell’adozione dell’equipaggiamento militare nemico, se questo si dimostra
efficace. La guerra è uno dei campi in cui l’emulazione è più veloce. In alcuni casi, quando non si
vuole modificare armamento e tattica in modo sostanziale, si possono semplicemente acquisire
guerrieri con il relativo armamento come mercenari, che aggiungono potenziale e flessibilità al
resto dell’esercito. In altri casi, si adotta un’arma offensiva o difensiva - la corazza a maglia di
123 COARELLI
1976.
2006, pp. 267-268.
125 VITALI 2009, pp. 172-173, figg. 91-96.
126 MAZZOLI 2016, p. 120, n. 1.
127 GRAELLS I FABREGAT et alii 2018, p. 51.
128 MAZZOLI 2016, p. 129, nr. 43; p. 145, tav. 7, 9.
129 Inv. 1750. Misure: h cm 14,2; largh. cm 13. Il pezzo fa parte di un lotto di materiali provenienti da Strongoli località Popolo, saggi di scavo 1953.
130 MEDAGLIA 2002, p. 165; tav. 2, 1.
131 COARELLI 1976, p. 164, fig. 1, D.
132 La foto è conservata nell’archivio del Museo Archeologico “Melissa Palopoli” di Crucoli (KR).
124 PFLUG
334
Tra paralia e mesogaia
ferro, lo scudo ovale con bugna metallica, ecc. - o si arriva all’adozione completa di tutto il
pacchetto, ovvero il modo di combattere collegato con quelle armi, specie se a imporlo sono le
condizioni in cui si svolge la guerra: il terreno, le tattiche usate dal nemico, ecc.
Di origine greca è invece l’elmo di tipo a pilos, noto come attributo tipico dei Dioscuri133 e
così chiamato perché imita il caratteristico copricapo di pelle o di feltro, di largo uso nel mondo
greco e prediletto tra gli altri dalla fanteria spartana134. Di fattura molto semplice, di forma conica,
allacciato sotto il mento da una cinghia di cuoio, talvolta con perno per l’imposta del cimiero
sulla sommità135, l’elmo a pilos ha conosciuto un lungo periodo di utilizzo fin dal V secolo a.C., con
particolare diffusione nel IV e nel III secolo a.C. soprattutto tra le truppe armate alla leggera. I
ritrovamenti di questo elmetto sono concentrati soprattutto in Italia meridionale e in particolare
nel mondo apulo, tanto da essere considerato tipico dell’area sud-orientale d’Italia136 e definito
«iapigio» da Ettore Maria De Juliis perché caratteristico dell’armamento indigeno della Puglia137.
Appartiene a questa classe di elmi un esemplare rinvenuto fortuitamente in località Madonna
d’Itria di Cirò Marina (Crotone) negli anni Novanta del secolo scorso ed attualmente esposto nel
Museo Civico Archeologico della cittadina138. L’elmo (fig. 20) ha una calotta di forma conica
arrotondata all’estremità superiore e un bordo ispessito e ribattuto all’estremità inferiore. Conserva
una breve porzione del paranuca e una paragnatide mobile con cerniera di giunzione ripiegata e
fissata per mezzo di due chiodi all’interno. La separazione della calotta rispetto alla fascia inferiore dell’elmo avviene per mezzo di una sottile solcatura che definisce una larga banda orizzontale, senza però alcuna estroflessione del profilo. Per questa caratteristica l’elmo a pilos di Cirò
Marina può ascriversi al Gruppo II della classificazione elaborata da Götz Waurick 139 ed è molto
simile agli esemplari provvisti di paranuca rinvenuti a Rudiae140 (Lecce) e a Ferrandina141
(Potenza) e a quello, dotato anche di paragnatidi, rinvenuto nella tomba a semicamera di via
Frascata a Oria142 (Brindisi), tutti databili tra la seconda metà e la fine del IV sec. a.C.
Degna di nota è la presenza della paragnatide mobile sull’esemplare di Cirò Marina che ci
riporta a una serie di emissioni monetali macedoni su cui si è soffermato Daniele Castrizio nel
suo lavoro sui segni di potere e di comando militare nella monetazione del mondo greco e
italico143. Si tratta di una serie bronzea, con al diritto scudo macedone e al rovescio pilos con
lophos trasversale, inaugurata da Alessandro Magno e continuata a essere battuta dai sovrani macedoni nel III sec. a.C. (Antigono II Gonata, Demetrio Poliorcete, Pirro) con la variante dell’inserzione delle paragnatidi mobili nel pilos144 (fig. 21). Secondo lo studioso, la presenza del lophos
trasversale è “segno” di colui che detiene il comando sul campo di battaglia e la tipologia monetale evocherebbe il potere militare su cui si basa la monarchia macedone 145. Considerati gli
agganci forniti dalla monetazione, l’elmo a pilos di Cirò Marina potrebbe non essere un rinvenimento anomalo in una area, quale quella cirotana che, come già osservava Juliette de La Genière
nel 1993, «non è senza richiami alla cultura macedone, forse tramite Taranto»146.
133 Sul
pilos come attributo dei Dioscuri e sulla sua valenza, si veda SAVIO 2002.
IV, 43, 3.
135 DINTSIS 1986, pp. 67-69.
136 WAURICK 1988, p. 153, fig. 2.
137 DE JULIIS 1992, p. 548.
138 CRISTIANO 2011, p. 582.
139 WAURICK 1988, p. 151.
140 DELLI PONTI 1973, pp. 59-60, nn. 85, 87.
141 DE SIENA 1993, pp. 211-213.
142 MANNINO 2004, p. 709; tav. XXII, 1.
143 CASTRIZIO 2007.
144 CASTRIZIO 2007, p. 92.
145 CASTRIZIO 2007, p. 120.
146 DE LA GENIÈRE 1993, p. 90.
134 Thuc.
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
335
Sul piano della produzione delle armi, problemi ed incertezze s’incontrano nel distinguere i
livelli di pertinenza tra manifattura greca e creazione italica. Le possibilità possono variare a
seconda del luogo e della committenza: armi e armature commissionate ad armaioli italici, armi
fabbricate in contesto italiota, armi realizzate alla maniera greca in officine italiche 147. Conseguenza è la difficoltà di identificare con certezza i luoghi di produzione di alcuni manufatti,
specialmente di quelli riccamente decorati, come la corazza anatomica e il cinturone con appliques
da Marcellina-Laos148 o l’elmo di Tiriolo conservato nel Museo Provinciale di Catanzaro149 che
si distingue da esemplari tipologicamente analoghi150 per l’elaborato impianto decorativo a sbalzo
e per altri accorgimenti che lo rendono un casco raffinato, consono al tenore che si richiederebbe a
un’arma da parata.
Le notizie che ci riportano al momento della sua scoperta, nella valletta tiriolese di Donnu
Petru, dicono ben poco sulla tipologia del contesto. A una tomba sconvolta farebbe pensare lo
«scoscendimento di terra» e quant’altro viene registrato al suo interno insieme all’elmo nella relazione del Marchese Francesco Le Piane dell’aprile del 1880: «un’arma lunga di ferro, rotta e ossidata, la punta di una fibula di bronzo, un anelletto dello stesso metallo, ed un altro più piccolo di
pastiglia vitrea di color bleu, macchiettata ad ovuli bianchi, con punta turchina nel mezzo»151.
L’elmo sembra al Le Piane «di lavoro greco perfettissimo: poiché mentre la parte posteriore
(fig. 22), che covrir doveva la nuca porta inciso a rilievo un bel nascimento di foglie e di fiori,
la parte anteriore invece, alquanto protuberante sul frontale, è formata di ciocche di capelli
frammiste a foglie di ellera (fig. 23), incusse nel metallo» 152. Completano l’elmo una piccola
cerniera in lamina di bronzo applicata sulla parte superiore, liscia, della calotta e due cerniere sul
lato destro su cui erano imperniate le paragnatidi mobili (mancanti). La cerniera superiore deve
considerarsi un supporto per cresta o piumaggio centrale che poteva essere non solo un segno
distintivo del comando militare ma anche un espediente per impressionare il nemico se, come
ricorda Livio, di fronte ai Sanniti che ne facevano largo uso, il console Lucio Papirio Cursore
esortò i suoi soldati dicendo: «non enim cristas vulnera facere»153.
Ascrivibile alla classe degli elmi suditalici-calcidesi, nella variante con applicazione sulla calotta154
e l’aggiunta della decorazione a sbalzo155, l’elmo di Tiriolo si confronta bene con un esemplare
di provenienza incerta conservato ai Musei Vaticani156 (fig. 24) e con un elmo stilisticamente
omologo proveniente da Mojo-Alcantara (Messina), esposto al Museo Archeologico di Naxos157
(fig. 25). Su entrambi gli elmi è riprodotta nella parte anteriore della calotta una folta capigliatura
a ciocche con andamento verso l’alto (anastolè) cinta da una corona di foglie di edera cuoriformi
e la decorazione è arricchita dalla presenza di orecchie a punta, probabile esaltazione della figura
di Pan o assimilazione a questa divinità del guerriero che indossa l’elmo. L’innegabile natura
147 Sull’acculturazione
alle forme italiote di armamento si veda, in particolare, GUZZO 1993, p. 175.
1992, pp. 25-30; tav. III, 1-2 (corazza corta); VON KAENEL 1992, p. 36, n. 36a; tav. VII, 1-2; tav.
VIII, 1-2 (cinturone in lamina d’argento).
149 FERRI 1927a, pp. 348-350.
150 Primo fra tutti un elmo che ne è un’esatta replica, inferiore per qualità del bronzo, privo di decorazione e
con profonde lacerazioni sul lato destro, recuperato durante lavori di rimboschimento eseguiti intorno agli
anni Cinquanta del secolo scorso sul Monte Tiriolo ed attualmente conservato nell’Antiquarium civico della
cittadina. Cfr. RACHELI, SPADEA 2011, p. 342, fig. 19; CRISTIANO 2011, p. 580 e nota 30.
151 FIORELLI 1882, p. 392.
152 FIORELLI 1882, pp. 391-392.
153 Liv. X, 39, 12.
154 BOTTINI 1991, p. 97, tipo B2.
155 GRAELLS I FABREGAT 2018b, pp. 251-252.
156 SCHRÖDER 1912, fig. 14, 1.
157 GUZZO 1997. Ringrazio per la fattiva disponibilità Gabriella Tigano, Direttore del Parco Archeologico di
Naxos.
148 GUZZO
336
Tra paralia e mesogaia
selvaggia dell’essere mitologico avrebbe implicazioni militari difensive più che offensive a giudicare dal tipo di armi su cui la divinità è in genere rappresentata158: si pensi, per esempio, alla testa
di Pan, con orecchie ferine e corna caprine, che fuoriescono dal margine del cinturone nella valva
anteriore della corazza anatomica di Marcellina-Laos159.
Per tornare al nostro elmo ed agli altri esemplari che gli si possono affiancare, si ricordano
quelli di diversa tipologia provenienti dall’Etruria, come l’elmo da Pacciano160 o dall’area campana,
come l’elmo di Ercolano161, vicini a quello di Tiriolo per l’elaborato apparato decorativo, pur
non mancando riferimenti ad altri elmi noti dall’area balcanica fino al Caucaso162, tutti inquadrabili tra la seconda metà del IV e la prima metà del III sec. a.C.
Alla luce delle informazioni fin qui addotte, ci sembra di poter considerare l’elmo di Tiriolo
un prodotto commissionato ad officine extra-regionali per un’occasione particolare, legata alla
deposizione funebre di un influente personaggio morto intorno alla metà del III sec. a.C. o alla
pratica di scambi e doni di armamenti così riccamente adorni tra capi militari come emblema
tangibile di autorevolezza e legittimazione del potere di fronte alla collettività. Questo particolare
sistema di committenze o di acquisizione di armi è stato indagato nelle sue possibili declinazioni
da Sabrina Batino163 in riferimento all’elmo dell’ipogeo dei Tetina di Sigliano (il summenzionato
elmo da Pacciano) che insieme all’esemplare di Tiriolo costituisce il binomio di quella variante
tipologica della classe degli elmi ellenistici decorati - appunto “il gruppo Pacciano-Tiriolo” - che
Raimon Graells ritiene caratterizzato da predominanti influenze di ambiente macedone più che
da apporti univoci di bottega tarantina 164. Considerate nel loro insieme, queste attestazioni,
possono essere indicative di una rete di interrelazioni di stampo mercenariale che aveva il suo
terreno fertile in aree dell’Italia centrale e meridionale (Etruria, Sannio, Campania, centri della
costa adriatica) e che giungeva nel Bruzio attraverso la Lucania (il caso dell’elmo di Tiriolo) e in
Sicilia attraverso il Bruzio (il caso dell’elmo di Mojo-Alcantara), sfruttando ancora intorno a una
quota cronologica di avanzato IV e di III sec. a.C. quei percorsi di via terra e via mare che un
secolo prima avevano favorito scambi e contatti simili, come quelli testimoniati, ad esempio, dal
rinvenimento dei bronzetti di tradizione sabellica, nei tipi del Marte, dell’Ercole e degli offerenti,
sia nel Bruzio165 che in Sicilia166.
Sembra opportuno, infine, richiamare l’attenzione su alcuni contesti e tipi di manufatti
connessi alla sfera bellica, con lo scopo di soffermarsi sui segni e sui livelli di interpretazione che
un’analisi attenta può fornire per incrementare i dati a nostra disposizione. Le informazioni più
interessanti riguardano l’armamento di tipo difensivo e offensivo. La ricerca archeologica documenta in Calabria l’uso di scudi di diverso formato. Le attestazioni relative ai realia sono poche e
limitate a notizie o a dati ricavati da documenti d’archivio. Apprendiamo, in particolare, che uno
scudo in bronzo era associato a un cinturone sannitico in una tomba di località Sant’Elia nel
comune di Pietrapaola (Cosenza)167, mentre uno scudo circolare, con decorazione a piccole onde
applicata sull’orlo e probabile epìsema impresso al centro, è documentato nello schizzo planimetrico di una tomba a camera rinvenuta in località Cappella di Cirò (Crotone) e di cui è data notizia
da Armando Taliano Grasso168 che data il contesto al terzo quarto del IV sec. a.C.
158 GRAELLS
I FABREGAT 2017b, p. 166.
1992, pp. 25-26, 28; tav. III, 1.
160 GUZZO 1990.
161 DINTSIS 1986, tav. 14, figg. 4-5.
162 FERRI 1927a, pp. 349-350.
163 BATINO 2016.
164 GRAELLS I FABREGAT 2017b, pp. 160-168, 173.
165 COLONNA 1970, pp. 123 ss. (Gruppo “Tiriolo”); pp. 129 ss. (Maestro “Crotone”); pp. 185 ss. (Gruppo “Cosenza”).
166 TAGLIAMONTE 1994, pp. 92-97.
167 TALIANO GRASSO 2000, p. 89, n. 99.
168 TALIANO GRASSO 2019, pp. 32-33; p. 33, fig. 7.
159 GUZZO
F. Cristiano, Per una archeologia della guerra
337
A connotare militarmente il personaggio, oltre allo scudo, sono una corazza anatomica corta,
la punta di una lancia, un cinturone in bronzo, un morso di cavallo e, soprattutto, una notevole
quanto inedita attestazione di un elmo frigio-calcidese di cui, oltre allo schizzo, si conserva anche
una foto di archivio (fig. 26). Da quanto è possibile ricavare dalla sola immagine, l’elmo è completamente privo della parte posteriore, paranuca compreso. La sua forma sembra collocarsi a metà
strada tra un elmo “calcidico” - richiamato dalle ampie paragnatidi spigolose e fisse, dal paranaso
poco sviluppato, dalla fascia frontale resa a sbalzo e sotto la quale è riprodotta una coppia di
sopracciglia in rilievo 169 - e un elmo di tipo “frigio”, per la calotta con rialzo superiore che
riprende la forma del caratteristico berretto170.
Per la sua apparente semplicità (assenza di applicazioni e decorazioni sulla calotta), per le
paragnatidi fisse, larghe e appuntite (sono in genere mobili e snelle negli esemplari “frigi” finemente decorati di Marcellina-Laos171, di Conversano172 e della Collezione Ceccanti di Firenze173),
l’elmo sembra al momento non trovare confronti, il che, unito alla impossibilità di esaminare il
pezzo, comporta estrema prudenza nel ritenerlo un unicum.
Oltre alle armi fanno parte del corredo il consueto set di strumenti da fuoco in piombo, vasi
in bronzo e modelli di frutti in terracotta. Gli aspetti esibitori e di apparato sono così spiccati e
manifesti da far pensare in modo quasi inevitabile alla sepoltura di un capo militare di etnia anellenica che ha il privilegio di pratiche e rituali incentrati sul consumo del vino e di carni arrostite
ed è stato sepolto secondo le consuetudini proprie della sua gente.
Testimonianze singolari ci sono poi offerte dalla raffigurazione di guerrieri in alcuni prodotti
dell’artigianato locale. Il primo documento proviene da Castiglione di Paludi (Cosenza), centro
fortificato posto a presidio del territorio che confinava a nord con la colonia panellenica di Thurii
e a sud con la polis di Kroton. Si tratta di una piccola stele in pietra calcarea su cui è rappresentato un guerriero armato di tutto punto (fig. 27). La stele doveva essere originariamente collocata in un’edicola nei pressi dell’accesso principale dell’edificio III, il più esteso e caratterizzato
tra i sei edifici individuati nell’abitato nord di Castiglione di Paludi174. Il guerriero indossa una
corta tunica a due falde sovrapposte sul petto e stretta in vita dal cinturone e porta un copricapo
di forma conica, verosimilmente un cappuccio in tessuto (o in pelle) più che un elmo metallico,
a giudicare da come l’oggetto sembra impostarsi sul volto del guerriero e collegarsi alla tunica.
Nella mano destra impugna una spada dritta e con la mano sinistra tiene un piccolo scudo ovale
accostato alla gamba e poggiato a terra. Il secondo manufatto è un mattone proveniente da
Cariati-Serre Boscose175 (Cosenza), sito rurale brettio posto in prossimità della piana costiera
della Sibaritide meridionale, in stretto rapporto topografico e organizzativo con il centro fortificato di Pruìa di Terravecchia. Sulla faccia del mattone è rappresentata a graffito la figura di un
guerriero con tutti i dettagli del suo armamento: copricapo piumato, corazza lunga e corta tunica
che lascia scoperta parte delle cosce, spada dritta nella mano sinistra e scudo di piccolo formato
nella mano destra (fig. 28). Il contesto di rinvenimento di questi manufatti non fornisce riferimenti cronologici puntuali, con la conseguenza di doverli considerare prodotti di matrice italica
inquadrabili in un arco cronologico che può oscillare dalla metà del IV alla fine del III sec. a.C.
I due guerrieri hanno un equipaggiamento bellico molto simile che predilige la libertà del movimento e sacrifica la protezione del corpo: entrambi sono appiedati e muniti di scudi piuttosto
ridotti per garantire una completa difesa del tronco; l’offensiva s’impernia invece sull’uso della
169 Per
le caratteristiche a cui si fa riferimento si veda PFLUG 1988, pp. 137-145; p. 138, fig. 2, tipo 4; p. 143,
fig. 9.
170 Su tipi e varianti degli elmi “frigi” si veda WAURICK 1988, pp. 163-169.
171 GUZZO 1992, pp. 22-25; tav. II.
172 ADAM 1982, p. 9, n. 3; p. 30, tav. 4, a-b;
173 LEPORE 1996.
174 TOSTI 2017, pp. 685-686; p. 672, fig. 10, b.
175 TALIANO GRASSO 2005, p. 32, fig. 50.
Tra paralia e mesogaia
338
spada dritta con lama triangolare allungata, utile per affondare ed estrarre velocemente l’arma dal
corpo del nemico nello scontro ravvicinato. Pur costituendo al momento una testimonianza
quantitativamente molto limitata, la rappresentazione di questi due guerrieri contribuisce a differenziare i parametri di lettura desunti dagli indicatori, marcatamente militari, che conosciamo dai
contesti funerari dell’area centro-settentrionale della Calabria che esprimono in generale una
maggioranza di armati di lancia o di giavellotto 176 più che di portatori di spada e scudo. Si
potrebbe pensare quindi a gruppi minoritari di personaggi il cui rango è esplicitato agli occhi
della comunità dall’uso della spada e dello scudo rispetto alla cerchia più ampia di combattenti
che si caratterizza solo dall’uso di armi da lancio. In tal senso la raffigurazione di Cariati-Serre
Boscose è molto particolare: se scaturito da una sorta di automatismo inconscio, il disegno è
riuscito a delineare, con essenzialità e precisione dei tratti, l’immagine di un guerriero, riconoscendo e selezionando i segni più efficaci e distintivi della figura che si aveva in mente.
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Lipperheide und andere Bestände des Antikenmuseums Berlin, Mainz 1988, pp. 151-180.
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1. Lamine in bronzo attribuibili a cinturoni miniaturistici. Crotone, Parco Archeologico di Capo Colonna.
2. Frammento di lamina di cinturone con foro di aggancio “ad occhio” dall’Heraion di Capo Colonna (foto: A. Ruga).
3. Frammento di lamina di cinturone decorata a sbalzo dall’area di Sant’Anna di Cutro (disegno: M. Corrado).
4. a: Lamina di cinturone con ganci tipo Suano 4A; b: ganci singoli tipo Suano 1B; c: ganci singoli tipo Suano 2B
(nn. inv. 3351, 3350). Rosarno, Museo Archeologico di Medma (su concessione della Soprintendenza ABAP per la
città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, n. 6481 del 21-7-2021).
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5. Gancio di cinturone tipo Suano 7B da Rosarno, loc. Calderazzo (elab. da GRILLO 2014).
6. Ganci di cinturone tipo Suano 7B da Tiriolo, loc. Castaneto (elab. da FERRI 1927a).
7. Inumato con cinturone e corredo ceramico della tomba 60 di Tortora, loc. S. Brancato (da MOLLO 2018).
8. Cinturone in bronzo dalla tomba 1 di Nocera Terinese, loc. Guirrino (da AISA et alii 2018).
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9. Cinturone in bronzo e resto del corredo in corso di scavo della tomba 11 di Castellace, loc. Torre Inferrata (da
SICA 2018).
10. Statuetta fittile di cavaliere con scudo rotondo dallo scavo di Piazzetta Toscano. Cosenza, Museo dei Brettii e
degli Enotri (elab. da TOSTI 2014).
11. Anfora apula a figure rosse dal corredo della tomba a camera di Cariati, loc. Salto. Sibari, Museo Archeologico
Nazionale della Sibaritide (da TALIANO GRASSO 2005).
12. Statuetta fittile di cavaliere dalla tomba a camera di Hipponion-Piercastello. Vibo Valentia, Museo Archeologico
Nazionale “Vito Capialbi”.
13. Statuette fittili di cavalieri. Mainz, Römisch-Germanisches Zentralmuseum (da GRAELLS I FABREGAT et alii 2018).
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14. Elmo di tipo Montefortino da Tiriolo, loc. Donnu Petru. Tiriolo, Antiquarium civico.
15. Particolare del restauro antico sulla calotta dell’elmo di tipo Montefortino da Tiriolo.
16. Elmo di tipo Montefortino da Gerace Marina, loc. Cavuria. Locri, Museo Archeologico Nazionale.
17. Paragnatide falcata da Strongoli, loc. Popolo.
18. Paragnatide falcata dal mare di Monasterace Marina (Reggio Calabria) (elab. da MEDAGLIA 2002).
19. Foto ricostruttiva dell’elmo di tipo Montefortino da Torre Mordillo. Archivio Museo Archeologico “Melissa
Palopoli” di Crucoli.
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20. Elmo a pilos da Cirò Marina, loc. Madonna d’Itria, inv. 111284. Cirò Marina, Antiquarium civico.
21. Nominale in bronzo di Antigono II Gonata (277-239 a.C.) con al dritto scudo macedone e monogramma di
Antigono e al rovescio pilos con paragnatidi mobili e lophos trasversale (SNG Alpha Bank 1003).
22. Elmo decorato a sbalzo da Tiriolo, loc. Donnu Petru. Veduta posteriore. Catanzaro, Museo Archeologico Provinciale.
23. Elmo decorato a sbalzo da Tiriolo, loc. Donnu Petru. Veduta laterale sinistra. Catanzaro, Museo Archeologico
Provinciale.
24. Elmo decorato a sbalzo. Roma, Musei Vaticani (disegno da SCHRÖDER 1912).
25. Elmo decorato a sbalzo da Mojo-Alcantara (Messina), inv. 3094. Su concessione del Parco Archeologico di
Naxos (Taormina), n. 1665 del 20-5-2021.
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26. Schizzo planimetrico della tomba di Cirò Marina, loc. Cappella con disegni e foto di altri reperti del corredo (da
TALIANO GRASSO 2019).
27. Stele in arenaria con guerriero da Castiglione di Paludi. Sibari, Museo Archeologico Nazionale della Sibaritide
(elab. da TOSTI 2017).
28. Mattone con guerriero graffito da Cariati, loc. Serre Boscose (da TALIANO GRASSO 2005).
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