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Aung San Suu Kyi e Xi Jinping: chi legittima chi?

commentary Commentary, 15 giugno 2015 AUNG SAN SUU KYI E XI JINPING: CHI LEGITTIMA CHI? FILIPPO FASULO M ©ISPI2015 ercoledì 10 giugno il Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha compiuto una visita di 5 giorni in Cina durante la quale ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping e il premier Li Keqiang. L’incontro fra l’attivista birmana, capo del partito d’opposizione, Lega nazionale per la democrazia (Lnd), e Xi Jinping va considerato di notevole importanza non solo per i rapporti fra Cina e Birmania, ma soprattutto perché offre la possibilità di fare valutazioni sulla politica cinese nei confronti dei diritti umani e sull’approccio cinese nei confronti della politica interna dei paesi stranieri. La rappresentazione della visita di Aung San Suu Kyi è descritta dal paradosso dell’incontro sorridente fra il campione dei diritti umani in Asia con il leader di quello che, secondo i tradizionali standard internazionali, è considerato il più grande e potente paese non democratico al mondo. A questo proposito, gli osservatori occidentali avevano prospettato, come plausibile, il fatto che Aung San Suu Kyi avrebbe potuto sollevare la questione della detenzione del collega Premio Nobel Liu Xiaobo, la questione non sembra però essere stata sollevata durante l’incontro con Xi Jinping. Questo sorprendente appuntamento fra Aung San Suu Kyi e Xi Jinping è pieno di sottotesti. Il quesito principale risulta inevitabilmente quello di capire chi stia legittimando chi. In tema di rispetto dei diritti umani, infatti, è utile ricordare come la Cina sia tradizionalmente associata al sostegno di leader autoritari, persino impedendo l’approvazione di risoluzioni all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, come ad esempio in casi come le crisi nel Darfur o in Siria. Lo stesso Myanmar, prima dell’apertura democratica, è stato visto in passato in orbita cinese. Le ragioni di un tale atteggiamento vanno innanzitutto ricondotte ai princìpi che hanno delineato la politica estera cinese fin dagli anni Cinquanta. Da allora i cinesi sono stati molto attenti a non discostarsi dal più rilevante dei cosiddetti princìpi di coesistenza pacifici definiti a Bandung, ovvero la non ingerenza negli affari interni di altri paesi. Tale atteggiamento, almeno sul piano più pragmatico, era funzionale a evitare che governi esteri si preoccupassero troppo di quanto stesse accadendo in Cina, soprattutto in aree come il Tibet o lo Xinjiang. Filippo Fasulo, ISPI Research Assistant 1 Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI. Le pubblicazioni online dell’ISPI sono realizzate anche grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. commentary ©ISPI2015 La visita di Aung San Suu Kyi, dunque, punta inoltre i riflettori su alcune importanti questioni riguardanti i diritti umani e che in Cina sono tuttora irrisolte. Appare infatti paradossale che proprio nei giorni in cui il leader dell’opposizione birmana incontrava Xi Jinping, lo stesso Xi ricevesse — con molto risalto sulla stampa locale — il Panchen Lama, ovvero una delle figure più importanti del buddismo tibetano, per chiedergli di rimanere fedele al patriottismo e all’unità nazionale. Il Panchen Lama è la seconda figura più importante del Tibet, subito dopo il Dalai Lama, e l’attuale Panchen Lama è tuttora oggetto di accesissime contestazioni relative a chi abbia il diritto di nominarlo: semplificando, Pechino o Lhasa. Quest’anno ricorre il cinquantenario della creazione della Regione autonoma tibetana e sono previste importanti visite da Pechino in Tibet, con conseguenti attenzioni della stampa mondiale sull’evento. Sarà interessante osservare se la visita di questi giorni di Aung San Suu Kyi verrà messa a confronto con il “delicato” rapporto con il Dalai Lama (Premio Nobel per la Pace nel 1989). L’accento verrà probabilmente posto sulla differenza fra un leader accusato di separatismo e il ruolo detenuto da Aung San Suu Kyi come guida di un partito, il Lnd, che può concorrere alle elezioni. Formalmente l’incontro con Xi — segretario generale del Partito comunista cinese oltre che presidente della Repubblica popolare — è infatti avvenuto fra due capi di partito. Tuttavia, a tale proposito, potrebbero essere sollevate critiche che mostrano come persino un oppositore prima bandito dal governo possa in seguito diventare uno stimato interlocutore, utile allo sviluppo nazionale. Un argomento che non può non essere collegato a eventuali riabilitazioni di Liu Xiaobo o del Dalai Lama. getici e commerciali cinesi al fine di bypassare lo stretto di Malacca e il suo relativo “dilemma”, sta affrontando un turbolento periodo di rapporti con le minoranze interne. Oltre al caso dei Rohingya c’è quello delle minoranza cinesi al confine con la provincia dello Yunnan. Durante azioni di repressione, l’esercito birmano ha più volte sconfinato, uccidendo per errore in almeno un caso alcuni cittadini cinesi. Tali avvenimenti hanno chiaramente irritato la Repubblica popolare cinese, che non vede di buon occhio il presidente birmano Thein Sein, anche a causa del suo avvicinamento agli Stati Uniti, che secondo Pechino è la causa della cancellazione di alcuni progetti infrastrutturali finanziati con fondi cinesi. La visita di un capo dell’opposizione in Cina, sebbene raro, non è però un fatto unico negli ultimi anni. È vero anche però che se dal 2011 sono transitati oppositori da Libia, Siria, Giappone, Taiwan e, presto, Corea del Sud nessuno di loro aveva ancora avuto il privilegio d’incontrare Xi Jinping. In definitiva, la visita di Aung San Suu Kyi a Pechino mette l’eroina birmana sotto una nuova luce, non vista più solo come soprattutto una romantica oppositrice di un governo militare alleato con “l’autoritaria Cina” (così com’era fino a pochi anni fa), bensì politico pragmatico aperto al dialogo persino con i principali contestatori della narrazione legata al Premio Nobel e ai Diritti Umani Universali — tanto che il premio non è stato nemmeno citato nel comunicato della Xinhua e, in generale, viene apertamente osteggiato da Pechino che ne ha ideato uno alternativo, il Confucius Peace Prize. Tale adesione al principio “il nemico del mio nemico è mio amico” fa molto comodo anche a Xi Jinping che deve bilanciare l’assertività della propria politica estera – si veda alla voce “dispute nel Mar cinese meridionale” – con la necessità di garantire continuità ai propri interessi economici all’estero anche a costo di esporsi a facili critiche su eventuali incongruenze rispetto a quei princìpi portati avanti in ambito domestico, intaccando così la propria retorica sul piano internazionale. I cinesi oggi si presentano dunque sempre più come attori protagonisti – almeno a livello regionale – e pronti a sostenere chi non mette in dubbio la comunione d’intenti fra investimenti cinesi all’estero e sviluppo economico locale. Nonostante l’importante valore simbolico sul piano internazionale del viaggio di Aung San Suu Kyi, la questione dei rapporti sino-birmani non può essere messa in secondo piano. La Xinhua, agenzia di stampa cinese, si è affrettata a sottolineare come questo incontro non metta assolutamente in dubbio il già citato principio della non ingerenza, anche se tale lettura apparediscutibile. L’incontro con il leader birmano, infatti, arriva proprio in un momento delicato dei rapporti fra la Cina e il Myanmar. Il paese, che è strategico per gli investimenti ener- 2 commentary L’incontro fra Xi Jinping e Aung San Suu Kyi, apre da oggi nuove prospettive sia nelle relazioni sino-birmane sia per quanto riguarda la proiezione internazionale della Cina. Questo incontro porterà la ‘paladina’ birmana al governo con il sostegno cinese? Se sì, la Cina potrebbe replicare anche altrove tale modello di sostegno a un ©ISPI2015 leader dell’opposizione per cercare di tutelare i propri interessi ? Interrogativi del genere sono connessi alla nuova identità che la Cina si sta costruendo nello scenario regionale e globale e la loro risposta avrà probabilmente un notevole impatto sugli equilibri futuri. 3