Paru in K. Revue trans-européenne de philosophie et arts (Université de Lille/Università
di Messina), Cahier spécial 2022, Disertare La Guerra. Arte e politica - Déserter la guerre.
Art et politique.
MELINDA PALOMBI
Calvino o la diserzione bambina
“Come trovasti, o scellerata e brutta
invenzïon, mai loco in uman core?”
Ariosto
Nascondere le armi, seppellirle, sviarle dalla loro funzione iniziale, liberarsene. Poggiarle, lasciarle
lì, sottoterra, da qualche parte. Chissà, gli insetti potrebbero impossessarsene, farci il nido.
Così fa Pin nel Sentiero dei nidi di ragno, scritto nel 1946, pubblicato nel 1947. Calvino sceglie un
bambino per raccontare la guerra di Resistenza in un momento del dopoguerra in cui si avvertiva
una pressione volta a dare una “direzione politica” ben precisa all’attività letteraria, come spiegherà
nella prefazione del libro nel 1964:
si chiedeva allo scrittore di creare l’“eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche
di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria […] E io vi scrivo una storia di partigiani in cui
nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. […] il lupenproletariat! […] E sarà l’opera più
positiva, più rivoluzionaria di tutte!
Si tratta quindi per lui di
lanciare una sfida ai detrattori della Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d’una
Resistenza agiografica ed edulcorata. […] non […] i migliori partigiani, ma i peggiori
possibili […] un reparto tutto composto di tipi un po’ storti […] fatti diventare forze storiche
attive. […] Il sentiero dei nidi di ragno è nato da questo senso di nullatenenza assoluta […]:
l’immagine d’una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l’indigenza del “troppo giovane”
e l’indigenza degli esclusi e dei reietti.
La risposta di Calvino a questa “sfida” nel Sentiero preannuncia quello che sarà un movimento
radicale nella sua evoluzione di scrittore, il passaggio da una lotta di partito ad una lotta sempre più
puramente poetica, non più assegnata ad un’etichetta politica, quindi, e pertanto molto più
sfuggente, inafferrabile: un impegno totale, poetico. Così lo percepisce lui a posteriori, quasi
vent’anni dopo la prima pubblicazione del libro:
Posso definirlo un esempio di “letteratura impegnata” nel senso più ricco e pieno della parola.
Oggi, in genere, quando si parla di “letteratura impegnata” ci se ne fa un’idea sbagliata, come
d’una letteratura che serve da illustrazione a una tesi già definita a priori, indipendentemente
dall’espressione poetica. Invece, quello che si chiamava l’“engagement”, l’impegno, può saltar
fuori a tutti i livelli; qui vuole innanzitutto essere immagini e parola, scatto, piglio, stile,
sprezzatura, sfida.
Qual è quindi il senso del gesto poetico di Pin? Chi è Pin? Per capirlo bisogna provare a camminare
un attimo accanto a lui, vedere le cose con lui, capire cosa lo muove.
Pin è un punto di vista.
È un bambino. È solo. Non ha nulla. È guerra. Intorno a lui, soldati, spie, partigiani. Conflitti,
combattimenti, tradimenti, e morti. C’è chi difende il proprio campo, chi all’improvviso cambia
campo, chi campo non ne ha, o non sa bene: “Molti non hanno ben deciso da che parte stare”.
Pin cammina nella guerra, ci vive, la attraversa, ma possiamo dire innanzitutto che mai la guerra gli
diventa familiare. Non capisce la guerra, cos’è, a che serve, il suo perché: “Pin non sa bene la
differenza tra quando c’è la guerra e quando non c’è. Da quand’è nato gli sembra d’aver sentito
parlare sempre della guerra”. A dire il vero lui non capisce tante cose, ed è forse precisamente ciò
che lo definisce: la nullatenenza assoluta di Pin è tale che lui non ha nemmeno certezze. Sta qui, si
guarda intorno, ascolta i pareri degli adulti – che si chiedono come lui chi l’ha voluta, questa
guerra –, ma tante cose, tante parole, gli scivolano addosso. Ascolta, ma quanto intende non si sa,
e nemmeno lui sa. Qualcuno formulerà l’idea che la guerra si fa proprio per tornare a quando non
si fa la guerra, ma non sapremo mai cosa ne pensa Pin: lui è un punto interrogativo davanti alle
cose.
Ciò che ci mostrano quegli occhi bambini, più che la guerra, sono gli interstizi della guerra – “in
margine alla guerra partigiana”, dirà Calvino, sempre nella prefazione del 1964 –, gli spazi
interstiziali in cui esiste tutto il resto, tutto ciò che non è guerra; ciò che succede al di fuori, quando
non si combatte, quando si aspetta, si parla, si litiga, ci si chiede il perché delle cose. Ciò che guarda
Pin, soprattutto, sono le persone, i loro rapporti, le loro reazioni, i sentimenti, pensieri loro, che
indovina. E poi, costantemente, il suo sguardo si apre verso tutto ciò che c’è intorno, il cielo, il
mare, gli animali, la vastità delle cose.
Questo suo sguardo costituisce una forma di diserzione perché significa dimenticanza totale,
abbandono dei problemi degli adulti, di tutto ciò che di loro non capisce e che gli è imposto, tra
cui, per prima cosa, la guerra.
È notte: Pin ha scantonato fuori dal mucchio delle vecchie case, per le stradine che vanno tra
orti e scoscendimenti ingombri d’immondizie. Nel buio le reti metalliche che cintano i
semenzai gettano una maglia d’ombre sulla terra grigio-lunare; le galline ora dormono in fila
sui pali dei pollai e le rane sono tutte fuor d’acqua e fanno cori per tutto il torrente, dalla
sorgente alla foce. […] Ora Pin è solo tra le tane dei ragni e la notte è infinita intorno a lui
come il coro delle rane.
In mezzo a tante cose che vede e sente, Pin, quasi sempre, è solo. Troppo piccolo per gli adulti,
troppo cresciuto per i bambini della sua età, la solitudine è la sua condizione. “È solo sulla terra,
Pin”, ma è una solitudine forzata, conseguenza delle sue fughe sistematiche, dei suoi rifiuti. Eppure
vorrebbe solo trovare compagnia, sostare da qualche parte, ma è sempre costretto, invece, a
scegliere la fuga. Corre, corre Pin (… Pinocchio?), monello dei carrugi che fa sempre di testa sua.
Piuttosto che sottostare alle ingiunzioni degli adulti, li abbandona sempre, pur se a malincuore: è la
violenza, ogni volta, che Pin rifiuta, senza nemmeno formularne il pensiero, ogni forma di violenza
alla quale gli adulti tentano come se nulla fosse di sottoporlo, e che egli rigetta con tutte le sue
forze. Non forzando nessuno, solo andandosene, pur piangendo, l’animo affranto. D’istinto, non
cede all’autorità né ai modelli degli adulti che vorrebbero imporgli violenze piccole e grandi, la loro
normalità. All’ipocrisia, all’irresponsabilità dei compagni dell’osteria che chiedono al bambino di
mettersi in pericolo andando a rubare una pistola, per poi far marcia indietro, Pin risponde
scoppiando in insulti, scappando via. Non accetta nemmeno le violenze ordinarie, inevitabili, dei
militari che lo arrestano per aver rubato l’arma, ed ai loro colpi sfrenati durante l’interrogatorio
oppone con intelligenza tutto il suo essere bambino, le sue urla da bambino, “un pianto enorme,
esagerato, totale come il pianto dei neonati”, che disarma letteralmente i soldati. Dalla prigione –
ovvero dalla sua condizione di prigioniero “politico” così come dalla possibilità, che gli è offerta,
di integrare la “brigata nera” – fuggirà anche, immediatamente, senza neppure deciderlo, trascinato
via da un compagno, ovvero portato via dal corso delle cose, al quale si lascia sempre andare:
evaderà, coperto di sapone, scivolando lungo una grondaia, correndo via sotto gli spari, verso i
campi di garofani, la collina, il mare. Le sue fughe sono diserzioni assolute perché mai calcolate,
mai programmatiche, mai volte ad integrare un campo o l’altro. Sono semplici sottrazioni ad ogni
schema.
– Se vuoi ti ci fanno entrare anche te nella brigata nera –, dice il milite a Pin.
– Se voglio entro nella… di quella vacca della tua bisnonna, – gli risponde Pin senza scomporsi. Il
milite vuol far l’offeso:
– Di’, oh, con chi ti credi? Di’, oh, chi ti ha insegnato? – e si ferma.
– Dài, portami in galera, sbrigati, – lo tira Pin.
A sua sorella che gli consiglia anche lei di sistemarsi collaborando con i fascisti, così come agli
anziani che gli offrono da mangiare, per poi proporgli a fine pasto di recitare il rosario, risponderà
allo stesso modo: andando via. Non ubbidirà infine nemmeno al comandante di brigata che gli
storce il braccio, quasi fino a romperlo, per farlo tacere; finirà la sua canzone nonostante il dolore,
e poi scapperà, di nuovo, insultando tutti, in una fuga finale che lo allontanerà perfino dai compagni
partigiani, via, per i sentieri, solo e triste: “lui continuerà a vagabondare bambino povero e
sperduto”.
La solitudine piuttosto che la violenza, ci dice Pin, ricordandoci che disertare significa anche, per
prima cosa, abbandonare un gruppo, una brigata, una linea di condotta, rischiando di ritrovarsi soli.
Le ripetute fughe di Pin lo riportano sempre a questa condizione che teme più di ogni cosa, sono
per lui la rinuncia più grande, vertiginosa, perché ciò che muove Pin, il desiderio di Pin, formulato
senza sosta, è precisamente quello di trovare qualcuno. Pin scappa, fugge, ma fugge soprattutto
dalla solitudine, nella speranza d’incontrare finalmente il grande amico (quello che troverà – forse –
nel “grande, dolce e spietato Cugino”).
Così in un racconto di vicende ai margini della guerra Pin si ritrova egli stesso, sempre, ai margini,
e sempre ai margini tende. Non solo di margini si tratta, lo abbiamo visto, ma anche dei marginali
della guerra, “esclusi”, “reietti”, altri indigenti come Pin. Eppure perfino rispetto a loro i movimenti
di Pin sono sempre centrifughi. Pin si scosta, si decentra, sempre. Ogni suo incontro si conclude con
una nuova erranza solitaria, gli tocca sempre rimettersi in moto, mentre intorno a lui, man mano
che corre via, si espande vastissimo il mondo, l’infinito del cielo, del mare, e sempre campi, fiori,
sentieri, boschi, in mezzo a cui lui si sente piccolissimo.
Piccolissimo si sente anche, ogni volta, in quanto “bambino di fronte all’incomprensibile mondo
dei grandi”, dandoci a sentire, come spiegherà Calvino, ciò che provò lo scrittore, da “borghese”,
nella stessa situazione di guerra partigiana. Tuttavia l’essere bambino di Pin ovviamente significa
anche, poeticamente, molto altro. Concentra tutta una serie di radicalità, di assolutezze: radicale è
il suo non capire, assolute sono le sue fughe, definitive, spietate come i suoi rifiuti. Totale è il suo
bisogno di un compagno: l’amico che cerca Pin è colui che gli permetterà di essere, davvero,
bambino.
Se Pin inizialmente s’impossessa della pistola di un marinaio, quasi senza pensarci, seguendo, di
nuovo, il flusso delle cose, sarà quindi solo per non essere rigettato dai compagni dell’osteria, che
glielo stanno intimando. Prendere la pistola fa parte dei gesti che Pin compie solo e soltanto per
imitare gli adulti, così da essere accettato da loro, e poter stare insieme a loro: bere, ingozzarsi di
fumo, dire parolacce, parlare di donne… Tutte cose che in lui provocano solo disgusto, e che
continua a non capire.
Pin non vede che montagne intorno a sé, valli grandissime di cui non s’indovina il fondo,
versanti alti e scoscesi, neri di boschi, e montagne, file di montagne una dietro all’altra,
all’infinito. Pin è solo sulla terra. Sotto la terra, i morti. Gli altri uomini, di là dai boschi e dai
versanti, si strofinano sulla terra i maschi con le femmine, e si gettano l’uno sull’altro per
uccidersi.
Per Pin la pistola è “un oggetto come un altro e ci si può dimenticare di averla”. Davanti ad un
oggetto tanto conteso, si meraviglia della propria indifferenza: “vorrebbe gli prendesse un brivido.
Una pistola vera. Una pistola vera. Pin cerca di eccitarsi col pensiero. Uno che ha una pistola vera
può tutto […] Può fare tutto quello che vuole alle donne e agli uomini minacciando d’ucciderli”. È
ben conscio che si tratta di un oggetto che conferisce potere, un potere sterminato, ed è
precisamente all’eventualità di essere in grado di esercitare un tale potere che egli rimane
indifferente. Non desidera il potere: davanti a tale opportunità semplicemente si defila. Non
desidera possedere la pistola, “non vede l’ora di darla” a chi gliel’ha chiesta.
Succede allora una cosa imprevedibile, una cosa che solo un bambino può fare: la pistola, nelle sue
mani, immediatamente, diventa qualcos’altro. Pin ne fa un gioco, un giocattolo, dimenticando ben presto
la sua funzione primaria, di morte, di distruzione. Immagina tutt’altro, la avvicina ad una scarpa
vecchia, e si accorge che “a farli incontrare uno con l’altro si possono fare cose mai pensate, si
possono far loro recitare storie meravigliose”.
Invece, non appena capisce che non potrà consegnare l’arma a quegli uomini, Pin vorrebbe soltanto
non averla presa mai. Troverà una altra via di fuga, sotterrandola, facendola diventare non più arma,
bensì punto di riferimento: per il bambino la pistola sarà allora simile ad una “bambola”, che
vorrebbe stringersi al petto, l’unica cosa che sia sua, qualcosa da ritrovare, un giorno. Lo sguardo
di Pin è un atto. Afferma che la pistola può esistere altrimenti, perché “anche le pistole, a parlarne
così studiandone il meccanismo, non sono più arnesi per uccidere, ma giocattoli strani e incantati”.
Smontare le armi, disfarle, farle a pezzi, è possibile. Nel pieno della guerra, cantare e guardare il cielo e
il mondo puliti del mattino, rinunciare alle armi, al controllo, e camminare leggeri. Disertare, come Pin,
la guerra stessa, i combattimenti, ed ogni forma di violenza, con uno sguardo errante, centrifugo,
indifferente al potere, trasfigurante. Errare per i sentieri, forse insieme, “in mezzo alle lucciole”.
Rifiutare di avere nemici, ignorare il significato stesso della parola nemico:
Avere dei nemici, un senso nuovo e sconosciuto per Pin. Nel vicolo c’erano urli e liti e offese
di uomini e di donne giorno e notte, ma non c’era quell’amara voglia di nemici, quel desiderio
che non lascia dormire alla notte. Pin non sa ancora cosa vuol dire: avere dei nemici. […]
Invece costoro non sanno pensare ad altro, come innamorati, e quando dicono certe parole
tremano nella barba, e gli occhi luccicano e le dita carezzano l’alzo dei fucili.