La US NAVY dell’era Trump
La sfida della US Navy per la supremazia navale
il confronto con le altre potenze navali,
il nemico storico,
le capacità industriali,
una pianificazione a lungo termine.
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
La US NAVY dell’era Trump
La US Navy dell’era Trump è in effetti il parto di una gestazione sviluppatasi a partire dal 2014,
nel pieno delle dissennate misure di Obama che con il massimo dei costi aveva portato il
sistema difensivo statunitense ad un minimo storico di efficienza e credibilità: l’ attuale
programma navale va inquadrato nella reazione razionale e compatta delle forze armate
statunitensi a un periodo di declino.
Il programma di Trump non ha un’ origine personale o di staff, ma è stato alimentato da un
movimento di opinione, trasversale, che aveva preso forza ben prima della scelta dei candidati
e dell’inizio dell’ultima campagna elettorale.
Un movimento di consapevolezza dello scadimento delle capacità di presidio e risposta delle
FFAA statunitensi generatosi con la legge sul bilancio 2011 (Budget Control Act - BCA), resa
patente nel 2014 dal piano nazionale di difesa e quindi in piena amministrazione Obama),
tratteggiata a fine 2016 nel libro bianco del SASC - Senate Armed Services Committee - e
avanzata nelle sue linee generali, quasi un sondaggio, nel corso di un simposio organizzato
dalla US Navy prima dell’insediamento di Trump il cui slogan era: The U.S. Navy’s Surface
Force Strategy: Return to Sea Control.
Una mossa avveduta, per depersonalizzare e depoliticizzare richieste e programmi, e per
dimostrare che evoluzione ed i correttivi di una strategia errata erano già in marcia, lanciata e
gestita in anticipo al cambio presidenziale.
Una mossa non in contrasto alle altre Forze ma giocata a favore di un'immagine di maggiore
prontezza, come se la US Navy avesse voluto giocare di anticipo, ed insieme al Comitato del
Senato avvallare in anticipo le misure che inevitabilmente la nuova amministrazione Trump
avrebbe dovuto assumere, per coerenza con una campagna elettorale nel corso della quale
era stata molto critica per come sono state assegnate e gestite negli ultimi anni le spese
militari, ed i “prodotti” selezionati.
Una mossa che evidenzia il rigetto da parte dell’establishment militare della filosofia di un solo
conflitto in un solo teatro di operazioni ( filosofia che peraltro risultava estremamente costosa
malgrado le riduzioni di budget, con una formula di grandi investimenti per minimi risultati) ed
il ritorno al tradizionale indirizzo delle FFAA statunitensi modellate e dimensionate per
assicurare capacità di risposta in più teatri contemporanei di operazioni, mantenendo capacità
di reazione, contenimento e combattimento in più e diversi conflitti.
Per la US Navy di tratta anche del modo di prendere la distanza da concetti come Brown
Waters/Blue Waters, littoral combat, polivalenza, attacco terrestre dal mare… indicando un
ritorno alla flotta di altura, di nuovo alla Blue Waters Navy.
Una strategia per il ritorno al controllo dei mari e la risposta graduale (il termine esatto usato è
stato Distributed Lethality), quali principi operativi e organizzativi del potere statunitense per
raggiungere e mantenere tali obiettivi a propria discrezione.
Certamente gli Stati uniti hanno, per miope politica, dilapidato un enorme potenziale: dopo la
fine della guerra fredda ed un quarto di secolo di incontrastato dominio dei mari della US Navy,
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i giochi sono riaperti e la US Navy deve rincorrere sul mare le rinnovate aspirazioni ed i tentativi
di proiezione di altre potenze.
Gli interessi di sicurezza degli Stati Uniti e quelli dei alleati, che assumono nuovamente un
ruolo fondamentale di collaborazione, fiancheggiamento ed integrazione (come dimostrato
dalla prematura ipotesi di spiegamento della nuova HMS Queen Elizabeth nei mari di oriente),
devono affrontare solo una minaccia “organica”, rappresentata dai più ovvi e potenzialmente
similari avversari, ma anche una “inorganica”, (o asimmetrica), costituita da governi conflittuali
e gruppi armati che seppur non riconducibili a Stati, sono comunque ben armati, al punto di
concentrare una serie di rischi inaccettabili.
LA VISIONE DEL MONDO DEL CONGRESSO USA
La risposta graduale rafforza le iniziative per uniformare, integrare e rendere credibile la
risposta nei diversi scenari di conflitto.
La risposta graduale, impone l'aumento delle capacità offensive e difensive delle forze di
superficie, alla base degli investimenti già approvati ma soprattutto di quelli addizionali per la
modernizzazione della flotta e per le forze del futuro.
Assicurare maggiori capacità e funzioni alle forze di superficie assicura più opzioni per la
politica di scacchiere, con gli Stati Uniti nuovamente obbligati a considerare minacce multiple
e contemporanee, obbligati pertanto ad un potenziamento militare paragonabile, anche se con
diversi numeri e costi, solo a quello varato da Ronald Reagan negli anni ’90, che portò alla
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corsa al riarmo con l’URSS conclusosi con il crollo sovietico.
Una politica molto diversa se non opposta a quella “Third Offset Strategy”
dell’amministrazione Obama, sostanzialmente di disimpegno, che con molta teoria ed
eccessiva fantasia puntava a compensare le immediate carenze della difesa con lo sviluppo
(costoso e non sicuro) di nuove tecnologie, nuovi concetti operativi a organizzativi.
Una politica di immagine più che di sostanza, tentando di affermare se non sostenere la
superiorità militare-tecnologica americana: un’opzione che potrebbe (1) essere in parte
condivisa e mantenuta dalla nuova amministrazione, anche per non disperdere i consistenti
investimenti in R&D, ma trasformata e supportata da un forte impegno per il rapido passaggio
dal piano di sviluppo a programmi produttivi.
Solo in questo modo gli Stati Uniti potranno sfruttare queste tecnologie a favore della
supremazia militare, imponendo maggiori costi agli avversari e impedendo passi indietro nelle
cicliche definizioni di politica militare (e stanziamenti).
Gli Stati Unti devono in effetti affrontare due sfide, una economica, attraverso la revisione se
non l’ abolizione del Budget Control Act (BCA) del 2011, ed una industriale, perché nell’ ottica
della concentrazione (non solo contrazione) degli stanziamenti si è persa un’ importante
capacità industriale, al punto che oggi non è possibile costruire più di un sottomarino all’ anno
né più di 2/3 unità maggiori l’ anno, con la derivante necessità di definire subito politica e
scelte, consapevoli che i cantieri statunitensi non hanno oggi la capacità di costruire 81 navi
entro il 2022, né la possibilità di accelerarne la costruzione.
Un contesto delineato, nei suoi paletti e nelle critiche verso la politica navale dell’ultimo
decennio, dal citato libro bianco quando evidenzia come sia fondamentale per la US Navy,
ancor più importante del numero di navi da costruire, disporre dei cantieri capaci di costruire
"giusti tipi di navi.
Per l’industria si tratta da un lato assicurarsi la continuità di lavoro, su maggiori volumi, visto
che la produzione di un numero maggiore di unità e di equipaggiamenti consentirà di
aumentare il fatturato e ridurre il costo di ogni esemplare, ma dall’ altro imporrà una riduzione
degli enormi profitti garantiti dal Pentagono nei lunghi anni dell’amministrazione Obama.
Non a caso una delle prime esternazioni del Presidente Trump non ha risparmiato Lockheed
Martin per i costi stratosferici raggiunti dal programma F-35 (obbligando il colosso industriale
a impegnarsi in una sensibile riduzione dei prezzi) così come a dichiarare esplicitamente che
la Marina ha bisogno di potenziare la flotta di sottomarini ma che il loro costo è eccessivo.
Le esternazioni del Presidente Trump ( e forse non solo tali) hanno trovato supporto nel libro
bianco del SASC - Senate Armed Services Committee – che prende in considerazione le serie
di navi che dovrebbero essere ordinate nei prossimi programmi, dalle SSC, Small Surface
Combatant, evoluzione annunciata delle LCS, inizialmente previste per 2022 ma già anticipate,
nonché portaerei più piccole, a propulsione convenzionale (anche se di fatto la propulsione
convenzionale non esiste più, si può solo parlare di quella non nucleare), di costo ridotto, e
soprattutto missili ed armi in quantità quali ingredienti fondamentali per un potenziamento
delle forze navali.
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L’ amministrazione TRUMP si trova quindi impegnata in una valutazione delle risorse ed in una
revisione mirata dei programmi, insieme al Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSC) ed all'Ufficio
di gestione e di bilancio (OMB), per determinare la congruità dei bilanci del FY2017-18 per
soddisfare le vere esigenze di difesa, con l’obiettivo prioritario di determinare se siano
necessari a breve termine finanziamenti supplementari o emendamenti di bilancio.
La pianificazione a lungo termine sarà delineata e fissata nel prossimo programma pluriennale
di difesa (Future Years Defense Program - FYDP), purché vengano meno i condizionamenti
imposti sin dal 2011 dal Budget Control Act - BCA.
Anche se sono state apportate due modifiche a questa legge, gli stanziamenti per la Difesa
Nazionale sono attualmente in diminuzione verso il 2,4 per cento del PIL nel 2026, il livello più
basso da prima della seconda guerra mondiale. (2)
L’ amministrazione Trump deve scegliere tra chiedere al Congresso l’abrogazione del BCA,
almeno per le spese militari, o sviluppare e presentare una modifica che consenta di
aumentare gli stanziamenti nel FY 2018-19, dando così spazio e tempo a una concertazione
politica più ampia per ottenere il sostegno a modifiche radicali: senza l'abrogazione o la
modifica del Budget Control Act BCA, le risorse saranno insufficienti e le capacità di difesa
Usa saranno nuovamente a rischio.
Proprio perché ciascuna amministrazione tradizionalmente aggiorna i piani di difesa e i
programmi che eredita, l’amministrazione Trump si trova ad affrontare la peggiore eredità
dopo l’era Reagan, e deve pensare non alla propria scadenza ma in grande, a lungo termine,
se vuole assicurare la sopravvivenza degli Stati Uniti come potenza globale, e come tale quale
potenza marittima grazie all’ efficienza ed alla credibilità della US Navy.
È giocoforza, per i numeri che Trump ha ereditato, porre il potenziamento delle FFAA come
programma prioritario nonché fattore determinante della più ampia strategia di sicurezza
nazionale, sviluppando un percorso coerente e integrato che offra risultati immediati ed
assicuri un trend di crescita intelligente per il futuro.
I pianificatori militari di Trump devono cercare il consenso nazionale, trasversale, sulla
necessità di una pianificazione a più lungo termine con una chiara focalizzazione su come
l'ascesa della Cina e la rivitalizzazione della Russia siano una sfida per gli Stati Uniti, sia
geopolitica che militare.
Ricorrere al solo aumento degli stanziamenti per 80-90 miliardi di dollari all’anno non è né
opportuno né giustificabile.
Gli Stati Uniti non hanno bisogno solo di una "soluzione rapida", nel breve termine dei pochi
anni di una amministrazione, massimo della successiva, ma di una rivisitazione dei concetti e
delle procedure.
È necessaria, in un mondo tripolare di potenze in ascesa con contorno di conflitti atipici ed
imprevedibili, una strategia di difesa basata sulla perseveranza e la determinazione: uno
scenario intorno all'1-2% annuale di crescita reale delle spese per la difesa, vicina del resto a
quella dell'economia statunitense. (3)
Si tratterebbe di un recupero di 15-20 miliardi di dollari all’ anno rispetto ai tagli ed alla
stabilizzazione verso il basso dell'amministrazione Obama, portando progressivamente gli
stanziamenti per la difesa prossimi al 3% del PIL, assicurando a qualsiasi successiva
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amministrazione il riferimento di un programma di difesa fiscalmente responsabile e
politicamente sostenibile. (4)
Un approccio equilibrato per costituire la premessa di un contrasto credibile e permanente
alle sfide a lungo termine imposte dalla Russia e molto più dalla Cina.
Si dice che stiamo entrando in una nuova era, con una diversa concezione del potere navale,
ma forse si sta semplicemente tornando, con nuovi mezzi, ai canoni che erano tipici della
guerra fredda.
Ventiquattro anni dopo la fine della guerra fredda, la Russia e la Cina stanno riposizionandosi
per competere anche militarmente con gli Stati Uniti per un lungo periodo di tempo - forse
decenni.
Una percezione della minaccia che non può accumunare, mettere sullo stesso piano di
intervento, Cina e Russia.
Durante l’Amministrazione Obama abbiamo assistito al disimpegno della US Navy dal
Mediterraneo, ed alla contrazione della sua presenza in tutti gli scacchieri, salvo una relativa
attenzione verso la regione Asia-Pacifico, dove a fine 2016 era dislocato il 60% delle unità
navali, proprio in base a specifica decisione dell’Amministrazione Obama.
Ciascuna delle due potenze navali emergenti ancora per anni potrebbe non essere fonte di
preoccupazione reale ed immediata per gli Sati Uniti, ma azioni contemporanee delle due,
anche non coordinate, e soprattutto se collegate a potenze emergenti (vedi l’India come caso
estremo, ma non il solo) metterebbero seriamente in difficolta la supremazia e la sicurezza
statunitensi.
La US Navy deve adeguarsi a questi nuovi e cangianti scenari di sicurezza, reagendo alle sfide
di questi soggetti, stati o movimenti, che non rispondono più al sistema di norme internazionali
che hanno plasmato il nostro mondo negli ultimi 70 anni, basato su regole e prevedibilità.
Il passato ci ricorda i rischi che corre una nazione marittima in termini di sicurezza e prosperità
se la sua Marina non riesce ad adattarsi alle sfide di un ambiente di sfide mutevoli.
Dall'Europa all'Asia, la storia è piena di nazioni che hanno sfiorato il potere globale per poi
soccombere per mancanza di potere navale, sia logorate nel tempo sia in scontri decisivi.
L’ eclissi navale dell’Unione Sovietica ne è un esempio patente.
Gli Stati Uniti, come moderna espressione del potere navale, non possono permettersi di
perdere il primato, anche se i risultati di alcuni dei più recenti programmi della US Navy, affidati
a poderose lobbies (spesso inadeguate ed improvvisate sui programmi navali, per quanto
blasonate) non sono stati soddisfacenti, e le feroci critiche del Congresso hanno messo da
tempo sotto scacco anche i vertici della US Navy.
La US Navy si è trovata costretta ad inventarsi e prospettare una nuova strategia identificando
e contrastando la strategia di espansione e proiezione dei potenziali avversari.
Il confronto con la Russia è stato gonfiato ed esacerbato, dai politici e per problemi di politica
interna statunitense, al di là della reale minaccia che oggi rappresenta la Russia sulla scena
mondiale: le valutazioni sul potenziale navale russo, e più in generale sulle reali capacità russe,
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sono l’esempio patente dell’arroganza, della miopia e dell’incapacità della politica (non solo
estera) che ha attraversato negli ultimi anni l’amministrazione americana.
Non serve una sofisticata rete di intelligence per seguire l’involuzione della Russia come
potenza militare, e meno navale, e valutarne oggi la timida ripresa, e le limitate aspirazioni.
Dopo la fine della Guerra Fredda, i cantieri russi hanno accusato il colpo della dissoluzione
delle industrie statali e del calo di stanziamenti militari, diminuendo decisamente in capacità
produttiva e qualità, tanto che ci sono voluti sette anni per ultimare il primo esemplare di
fregata della classe Goshkov [5].
Per decenni, sino al 2008 la Voenno-Morskoj Flot, VMF era in pratica una entità nominale, con
unità "operative” che mai lasciavano il posto di ormeggio.
Grazie al buon andamento dell'economia nazionale che, trainata dall'aumento del prezzo delle
materie prime (petrolio in particolare), stava registrando buoni tassi di crescita, da tale anno è
stato possibile un aumento degli stanziamenti per le forze armate federali, rendendo così
possibile il perseguimento di una "politica di potenza" da parte della Russia.
Dal 2010 la situazione delle FFAA della Federazione Russa entrò in una fase di generale
miglioramento ed ovviamente, anche la VMF ha beneficiato dell'aumento degli stanziamenti.
In particolare si è data importanza all'operatività dei mezzi, “riesumando” navi in riserva più
che nuove costruzioni, e le esercitazioni navali fuori area sono riprese coinvolgendo un numero
di navi sempre crescente. sono stati Inoltre avviati (o ripresi, dopo anni di sospensione)
numerosi programmi navali riguardanti la costruzione di nuove e moderne unità, mentre le
attività riguardanti la revisione/riparazione dei mezzi fuori servizio è ripresa o è stata accelerata.
Questa fase di ripresa ha però subito una battuta di arresto con la crisi della Crimea del 2014
e i successivi movimenti separatisti del Donetsk.
Alla VMF sono venute a mancare le principali forniture industriali. l'Ucraina ha bloccato la
fornitura di materiale militare alla Russia, così come hanno fatto i paesi NATO con un embargo,
con una valutazione complessiva di 186 componenti critici che sono venuti a mancare, i più
evidenti motori e Turbine a gas.
Questo ha influenzato in particolare tutti i programmi di costruzione di superficie mentre i
programmi di costruzione di sottomarini sono proseguiti e proseguono senza problemi di
capacità produttiva e tecnici, salvo la carenza di fondi.
Le turbine a gas che dovevano provenire dall'Ucraina hanno condizionato, dal giugno 2015, la
costruzione delle nuove grosse fregate Classe Admiral Gorškov e delle più piccole della classe
Admiral Grigorovich, con solo una fregata per classe già varata e in servizio grazie a turbine
a gas consegnate prima dell’ embargo [5] e cinque unità la cui costruzione ha dovuto essere
ritardata.
I russi stanno ancora cercando di rimpiazzare il fornitore originale di turbine navali (ucraino)
con analoghe unità prodotte dalla società russa Saturn, specialista di motori a reazione
aeronautici, ma non è chiaro quanto questo porterà a risultati a breve termine vista le difficoltà
produttive delle turbine navali [5].
La separazione dall’ Ucraina e l’embargo hanno riguardato anche la fornitura di motori marini
convenzionali (i migliori dei quali erano frutto di licenze), che ha condizionato le nuove
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costruzioni navali, i tempi di approntamento, le prestazioni, come nel caso della nuova classe
di corvette, la classe Gremyashchy, della quale solo due su otto sono state a completate
ripiegando su motori russi di diversa origine [5].
Per raggiungere e mantenere una certa credibilità nella sua politica di proiezione, per la prima
volta dopo oltre un secolo la Russia era ricorsa all' estero perle costruzioni navali, ma questa
soluzione (che comportava anche un trasferimento di tecnologie fondamentali per la
cantieristica russa) si è arenata con il blocco della fornitura di due grandi unità anfibie della
classe Mistral sempre per l'embargo legato alle vicende ucraine.
La minaccia russa, per le valutazioni di cui sopra, è ridotta, mentre va riconosciuto che
l’intervenzionismo geopolitico russo è cresciuto a livello regionale e solo in questo contesto
preoccupa direttamente sia gli Stati Uniti che la NATO, ma a livello navale non è la principale
minaccia alla supremazia della US Navy. Per quanto apparentemente considerevole dal punta
di vista numerico, la vita media delle unità è molto levata e le unità di recente costruzione solo
un’ aliquota minore del complesso.
La Russia non è più (e non ancora) una potenza navale globale ma “solo” una (grande) potenza
regionale, complicata dall’ accesso e dalle operazioni su 4 mari, distanti, che per il momento
tende ad aumentare e consolidare il suo perimetro di sicurezza.
Una potenza con più affinità (e rischi comuni) con la UE ed in parte con gli Sati Uniti di quanto
possa sembrare; una (relativamente grande) potenza regionale ma non la minaccia che era
l’URSS della Guerra Fredda, e meno la minaccia della Voenno-Morskoj Flot.
Una potenza regionale che deve guardarsi da conflitti etnici e religiosi ai propri confini (e
spesso all’ interno), e molto dall’ espansionismo di un confinante troppo grande (mentre gli
USA stanno dall’ altra parte del globo ...)
La VMF, Voenno-Morskoj Flot, numericamente contratta a minimi storici, seppur impegnata
nello sviluppo di nuove unità e nuove armi navali e nel ricambio qualitativo e non numerico
delle principali linee, mantiene ancora come principale missione quello della deterrenza
strategica grazie ai sottomarini nucleari equipaggiati con missili balistici.
La priorità (a cui corrispondono sufficienti capacità industriali e cantieristiche) è e rimane quella
sottomarina, anche se la più recente classe di unità (Lada) non sembra aver dato buoni risultati,
mentre quella della ricostruzione e spiegamento operativo della flotta di superficie rimane una
sfida, per la stessa amministrazione Putin, difficile e condizionata dalla perdita delle tradizionali
fonti e capacità cantieristiche ed industriali.
La Russia di Putin è abile nell’ esibizione della muscolatura, e la mobilitazione di unità per la
rivista di San Pietroburgo del 30 luglio, per il centenario della VMF, ne è la prova, pur in certi
suoi aspetti tecnici non ottimali, e la vena un po’ melanconica e decadente.
Com'è noto, la marina russa ha rinunciato a costruire altre portaerei (e si accontenterà di
ristrutturare la vecchia KUZNETSOV) cosi come ha deciso di puntare su unità di medio
dislocamento capaci di una certa polivalenza, con spiccate caratteristiche di attacco.
Un obbiettivo lontano da una competenza a livello globale con l'US Navy, che non va
sottovalutato, tenendo presente due aspetti:
- la priorità va sempre agli SSBN, agli SSN e ai battelli convenzionali, anche se i ritardi
realizzativi rimangono biblici; tra l'altro, i Lada sono un fallimento e proprio in questi giorni
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comincia la costruzione del secondo sestetto di Kilo Improved con capacità di lancio di SLCM;
- la flotta di superficie si sta lentamente consolidando attorno a un nucleo di fregate e corvette,
tutte con capacità missilistiche; quando e se si risolverà il problema delle TAG (quantità ed
affidabilità) certamente si passerà a unità maggiori, ma senza pensare che si sviluppino nuove
classi di unità maggiori; se si consoliderà la presenza stabile in Mediterraneo occorrerà
pensare forse a unità tipo assalto anfibio, anche come stazionarie.
Malgrado recenti esibizioni in Mediterraneo, la Russia non ha però la stessa incompatibilità di
sistema che nei decenni della guerra fredda aveva l’URSS con l’intero mondo occidentale, né
gode del patrimonio di logistica e basi, vere o potenziali, che era a disposizione dell’URSS in
tutto il mondo.
La Russia dopo anni di crisi, disfacimenti anche territoriali, ha riscoperto l’orgoglio ed il potere
militare per raggiungere non solo la propria sicurezza ma anche fini geopolitici, che vanno dalla
sua guerra con la Georgia nel 2008, fino all'annessione del Crimea del 2014 e successivo
consolidamento militare nella regione del Mar Nero, di cui è parte il suo sostegno militare per
il movimento separatista ucraino.
Successi geopolitici a metà, a prezzo, come prima descritto, della perdita di notevoli capacità
logistiche ed industriali che erano fondamentali per l’efficienza e la credibilità del potenziale
militare.
È intervenuta in Siria durante la guerra civile, usando il proprio (ancora limitato) potere di
proiezione in numerose occasioni per appoggiare il regime di Assad: è apparsa nuovamente
sulla ribalta dei conflitti come interlocutore forse inopportuno ma si è poi trasformata in attore
interessato e di successo, assicurandosi per la prima volta una posizione stabile nel
Mediterraneo, un Mediterraneo che oggi è nuovamente area di crisi mondiale.
La Russia è in Mediterraneo, attraverso la Siria, per restarci.
Questo il significato della legge di ratifica dell’accordo con la Siria approvata dal presidente
russo Vladimir Putin sulla concessione cinquantennale della base area di Hmeimim a Latakia.
Non è un caso che la ratifica dell’accordo, firmato a gennaio a Damasco, giunga mentre
proseguono le trattative tra il Cremlino e la Casa Bianca sulla de facto spartizione della Siria,
enorme dividendo per la Russia a fronte di un investimento relativamente limitato, altro riflesso
della ripresa economica della Russia che le permette aspirazioni di proiezione regionale.
Dopo aver esibito la vecchia KUZNETSOV, con il successo in Siria punta a un maggior
dividendo ed a consolidare un ruolo nel Mediterraneo, tentando di stabilire un collegamento
con il generale Haftar (che noi italiani continuiamo a snobbare per ragioni incomprensibili, o fin
troppo comprensibili, quali l’improvvida ritirata americana voluta da Obama e alle sue difficoltà
di rapporti con Siria ed Egitto … ). . Una presenza che non sarà certamente con unità navali
maggiori ma richiederà lo sviluppo di nuove classi.
Certamente la distrazione strategica americana ha riaperto i giochi per il controllo del
Mediterraneo, favorendo Il ritorno della Russia, ma su questo mare va considerata anche la
scommessa commerciale cinese e la nuova partita energetica del Levante.
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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Il Mediterraneo misura ciò che l’Italia potrebbe essere, fu, ma non è, un mare che
eufemisticamente non bagna l’Italia, un mare di migrazioni dove l’Italia si sta giocando la
sovranità.
IL MEDITERRANEO ED I SUOI PUNTI NEVRALGICI
Scenario in cui la US Navy era diventata marginale e deve oggi recuperare presenza e forza
permanente (18)
Che cosa è dunque oggi la VMF e quale minaccia rappresenta?
Dopo una iniziale e timida ripresa negli anni d’ oro energetici, a partire dal 2008, gli
stanziamenti russi per la difesa sono diminuiti drasticamente nel 2015 a causa della recessione
economica e delle sanzioni multilaterali, e ad oggi i nuovi (ancora limitati) incrementi degli
stanziamenti assicurano la possibilità di estendere e sostenere operazioni militari aggressive
solo in una serie limitata di fronti regionali.
In questo contesto, inteso anche come allargamento della propria cintura di sicurezza, va
ricordato l’unico punto in cui potrebbero generarsi attriti con gli Sati Uniti, l’Artico, su cui la
Russia sta profondendo risorse.
Al di la dell’esibizione dei muscoli, in cui rientra l’ancora limitato successo militare in Siria,
quale riflesso della ripresa economica della Russia dopo la disintegrazione dell’Unione
Sovietica, indice anche della strategia e della velocità con cui la Russia si ricostruisce, uno dei
pochi veri segnali di allarme dovrebbe essere la riapertura delle basi aeree e radar militari exGian Carlo Poddighe - luglio 2017
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sovietiche abbandonate sulle isole artiche, la costruzione di nuove, l’ impegno della VMF in
quei mari.
L’Artico racchiude (dati dell’US Geological Survey) riserve di petrolio e gas per 412 miliardi di
barili di petrolio, circa il 22 per cento del petrolio e del gas ancora da scoprire a livello globale,
che recuperati ed impiegati nell’economia della Russia, l’aiuterebbero a ridurre notevolmente
l’onere economico causato dalle sanzioni occidentali, permettendo di rafforzarne la posizione
nella regione e nel mondo, fattore che l’occidente ancora non considera e neanche accetta
come dato di fatto.
L’espansione ha vaste implicazioni finanziarie e geopolitiche.
L’Artico avrebbe più riserve di idrocarburi dell’Arabia Saudita e Mosca già traccia un serio
confine militare nella competizione sul Grande Nord con i rivali di sempre, Canada e Stati Uniti.
A tal fine, neutralizzare il dominio di Stati Uniti e alleati, la Russia rafforza la componente
specializzata della VMF, costruendo tre rompighiaccio nucleari, i più grandi del mondo, quale
potenziamento della flotta di circa 40 rompighiaccio, 6 dei quali nucleari.
Nessun altro Paese ha una flotta nucleare così grande, usata per aprire le rotta a navi militari
e civili.
La Flotta del Nord della Russia, basata a Murmansk nelle acque ghiacciate della Baia di Kola,
ha ricevuto il proprio rompighiaccio, il primo, e due corvette rinforzate per la navigazione tra i
ghiacci, armate di missili da crociera.
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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A far da contrappunto alle analisi dell’US Geological Survey è da prendere in considerazione
l’azione e la posizione della Società Geografica Russa, il cui presidente, il Professor Pavel
Makarevic, è diventato portavoce dei nuovi indirizzi: `Sotto Gorbaciov e Eltsin, le nostre aree
artiche furono smantellate.. .. Ora vengono restaurate‘.
Il rafforzamento artico della Russia ha allarmato Washington anche se, come per molte altre
importanti questioni di politica estera, l’ufficio Artico del Dipartimento di Stato è stato ridotto
nell’ era Obama ad una stanza vuota, e non si conosce ancora una strategia al riguardo
dell’Amministrazione Trump.
Trump ed Europa non sono allineati sulla Russia, costituendo un triangolo di azioni e confronto
politico chiaramente identificabile e potenzialmente sfruttabile da parte russa, che può d’ altra
parte contare su una maggiore continuità nella strategia e conduzione al vertice.
Mentre gli Stati Uniti non possono permettersi politicamente e strategicamente di
abbandonare l’Europa, il danno che l’amministrazione Obama ha inflitto alla posizione
statunitense in Medio Oriente, in particolare, e a livello internazionale, in generale, richiede il
ripristino dei rapporti con la Russia.
Ciò che rende Trump diverso da Obama, in questo contesto, è che invece di cercare la vittoria
assoluta sulla Russia, Trump vorrebbe riavvicinarla e riaffermarsi su parte dello spazio perso
negli ultimi anni.
LA PERCEZIONE USA DEI NEMICI
Quanto sono reali le minacce alla supremazia navale statunitense? (19)
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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In parole semplici, mentre il dispiegamento della NATO è debitamente sostenuto dagli Stati
Uniti, assicurando l’Europa del sostegno degli Stati Uniti, serve anche da carta di scambio
degli Stati Uniti per accordarsi con la Russia sul suo rafforzamento nell’Artico e nel Medio
Oriente, dove ha già acquisito una presenza militare solida. Pertanto, se la Russia si
ricostruisce, la NATO affila le armi e Trump affila la sua ascia della contrattazione.
Il triangolo circoscrive un’area di confronto che forse distoglie da altre priorità e minacce più
vicine e consistenti.
Il confronto reale
Tralasciando i potenziali conflitti asimmetrici, e aree di crisi in espansione, dal punto di vista
della strategia per la supremazia marittima e navale diverso è il confronto con la Cina
La Cina è ormai una vera potenza globale, con velleità di espansione non solo regionali ma
globali (e predominanza già in alcune regioni), con logistica e basi navali in ogni mare, anche
dove – per opportunità – non mostra ancora la bandiera navale.
Una potenza globale che potrebbe diventare ancora più credibile e minacciosa una volta che
i suoi interessi e soprattutto le sue capacità si saldassero con quelle di uno dei tanti movimenti
e conflitti locali in corso (come era per l’URSS ai tempi della Guerra Fredda); politiche e
strategie dalle quali, per il momento, la Cina si tiene a distanza, conscia delle proprie forze e
capacità intrinseche.
Il dragone cinese non ha però ancora tirato fuori le unghie …. né ruggito od eruttato fuoco.
In campo navale la Cina ha raggiunto una potenziale rete logistica che supera ancora la reale
capacità delle sue forze navali di operare a lungo raggio e con continuità; debolezza
momentanea di una Marina in crescita, che comunque sta affrontando.
Iniziato come confronto economico, quello tra Cina e Stati Uniti sta diventando anche militare
e in particolare navale, portando con ogni probabilità a un riarmo senza precedenti da dopo la
fine della Guerra Fredda tra Washington e Mosca.
La Cina rappresenta la sfida più grave a lungo termine per gli Stati Uniti (ma, non va
dimenticato, anche per la Russia), soprattutto quando secondo alcune valutazioni la Marina
cinese potrebbe diventare nel 2020 la più grande del mondo per numero di navi (numero di
navi che non sempre corrisponde alla capacità di far operare con continuità gruppi di
combattimento a grande distanza dalle proprie basi ..).
La crescente dislocazione di unità cinesi in tutti i mari del mondo (dalla partecipazione a
esercitazioni multilaterali con la stessa US Navy, come la RIMPAC, sino ad esercitazioni
combinate con i russi nel Baltico), le rivendicazioni territoriali e di sovranità nei Mari della Cina
meridionale e meridionale, la continua minaccia a Taiwan e gli stanziamenti in ascesa per la
modernizzazione delle FFAA evidenziano non solo un prevedibile calcolo, e rischio calcolato,
di sfruttare la crescente potenza militare per l'egemonia regionale, ma anche di estendere la
sua influenza, anche militare, al di là delle sue tradizionali linee di difesa.
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
LA VISIONE CINESE DELLE CINTURE DI DIFESA NAVALE
Le azioni rispondono ad una strategia tradizionale, soft, che per il momento evita una sfida
diretta al primato militare statunitense nel Pacifico, ma la proiezione è diversa.
Piuttosto che imbarcarsi apertamente in un programma di riarmo navale che sfidasse il primato
globale degli Stati Uniti, la PLAN ha cominciato con il mutuare i concetti della Royal Navy degli
anni 70/80 del secolo scorso, la cui massima espressione fu la guerra delle Falkland, partendo
da una forza regionale in grado di proiettare e concentrare il proprio potenziale bellico nei mari
circostanti e, al massimo, nell’ area del Pacifico per condurre operazioni di combattimento ad
alta intensità.
Da alcuni anni, almeno dal 2014, la strategia navale cinese ha subito un’evoluzione in senso
globale, compresa una maggiore attenzione all’ acquisizione di basi all’ estero.
In assenza di un’esperienza bellica recente, le missioni antipirateria nel golfo di Aden e il
numero crescente di esercitazioni navali condotte ben oltre la prima catena di isole (nel 2012,
ne sono state condotte almeno sette) hanno un ruolo centrale nell’affinare le capacità degli
equipaggi cinesi in fatto di operazioni complesse in alto mare.
La crescita economica della Cina ha permesso negli ultimi anni di dedicare ingenti risorse alla
modernizzazione dell’apparato militare, e per la prima volta consistentemente alle forze navali.
Se negli anni acuti della Guerra Fredda, per la Marina sovietica di Gorshov fu coniato il termine
“l’orso russo ha imparato a nuotare”, oggi bisognerebbe dire che il “il dragone sta nuotando
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
liberamente”.
La spesa militare cinese ha superato i 180 miliardi di dollari nel 2015 e basandosi su un tasso
di crescita nominale di cinque per cento, la Cina potrebbe avvicinarsi a 400 miliardi di dollari
di stanziamenti militari nel 2030.
Cifre supportate da previsioni del FMI che indicano come la Cina potrebbe raggiungere un PIL
di 17,8 trilioni di dollari entro il 2021.
Al contrario della Russia la Cina avrebbe evidentemente una capacità economica sufficiente a
sostenere una lunga corsa agli armamenti con gli Stati Uniti. In appoggio alla propria strategia
geopolitica di espansione in tutta la regione Asia-Pacifico (senza dimenticare l’Africa dove la
Cina è onnipresente e quasi onnipotente, e poi l’America Latina dove ha raggiunto e
consolidato posizioni fondamentali, basti pensare Panama, il Brasile ed il Venezuela).
Secondo alcuni analisti la minaccia cinese potrebbe essere stata in realtà un po’ “gonfiata”,
come accadde per quella sovietica negli anni ’80, presentata da Casa Bianca e Pentagono
come formidabile leva per ottenere il via libera a nuovi fondi per la corsa al riarmo, ma ricorrere
a tale similitudine potrebbe essere molto pericoloso.
Un rapporto reso pubblico a fine 2016 dal Center for Naval Analyses, centro di ricerche
finanziato dalla Marina Usa e altre agenzia militari (e pertanto non del tutto imparziale), rileva
che nel 2020 la Marina Cinese sarà quella più potente sul piano numerico superando le 270
unità di prima linea, di cui un centinaio idonee per operazioni oceaniche.
Una capacità di operazioni di altura che si coniuga con la ricerca di basi di appoggio a livello
globale e insediamenti tesi ad ampliare la cintura di influenza e protezione, come negli
arcipelaghi contesi con gli Stati vicini nel Mar Cinese Meridionale e Orientale.
Un’ area sensibile, dove recentemente abbiamo assistito ad un’ inedita esibizione di muscoli
e minacce, quando il Comandante della Flotta del Pacifico Usa , Scott Swift ha affermato che,
qualora ricevesse l’ordine dalla Casa Bianca, sarebbe pronto a colpire la Cina con armi
nucleari, mentre dal canto suo Pechino ha fatto sapere che nonostante le interferenze
continuerà le operazioni nella regione, dopo i recenti incontri ravvicinati tra le proprie Forze e
quelle di Giappone e Taiwan rispettivamente sullo Stretto di Miyako e il Canale di Bashi, e
quello con la Marina di Australia e Usa impegnate nelle esercitazioni congiunte Talisman.
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
GLI INTERESSI CINESI E LE AREE DI CONFLITTO PROSSIME ALLA CINA
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
La ricerca di basi di appoggio a livello globale e insediamenti tesi ad ampliare la cintura di
influenza e protezione, marcia in parallelo con quell’ iniziativa, forse accettata con troppo
entusiasmo in Europa, della Belt and Road Initiative, la nuova via della seta lanciata da Pechino
per supportare l’interscambio con l’ Europa.
A limitare le possibilità d’intervento al di fuori delle acque dell’Asia orientale, e in particolar
modo verso l’Oceano Indiano, è una capacità di supporto logistico nel complesso ancora
inadeguata.
Persino in pieno svolgimento della RIMPAC (l’esercitazione congiunta delle Marine che si
affacciano sul Pacifico alla quale la Marina cinese partecipava per la prima volta in forze), la
PLAN ha dovuto cancellare per problemi logistici la propria partecipazione alle esercitazioni in
assistenza umanitaria e salvataggio in caso di catastrofe.
Pechino è stata pertanto costretta a puntare, almeno nell’ immediato, a proprie basi navali all’
estero, e sta pertanto ricorrendo a una serie di accordi internazionali, che riguardano in primis
l’Oceano Indiano, per la protezione delle proprie linee di comunicazione e di rifornimento
attraverso le quali importa via mare circa il 60% del proprio fabbisogno di greggio e attraverso
le quali la US Navy stima che nel 2030 riguarderanno i tre quarti degli scambi cinesi.
L’ ACCESSO CINESE ALL’ OCEANO INDIANO
Gli insediamenti navali cinesi nel quadro delle azioni di supporto e consolidamento della parte
sud della Belt and Road Initiative (17)
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
Gli accordi internazionali citati riguardano una rete di punti d’appoggio logistico fra lo Stretto
di Malacca, lo Stretto di Lombok e lo Stretto della Sonda, assieme allo sviluppo del porto di
Gwadar in Pakistan.
Le conseguenze del potenziamento della Marina militare cinese nei mari d’Asia sono già
evidenti, e riguardano anche il potenziamento delle forze anfibie e del corpo dei Marines, che
aumenteranno da 20 mila a 100 mila; una parte di questa forza dovrebbe essere posizionata
presso la base di Gibuti e il porto di Gwadar in Pakistan (uniche strutture militari cinesi
all’estero, dichiarate come tali).
Gibuti e Gwadar sono due snodi fondamentali della Belt and Road Initiative, e formalmente la
necessità della base africana è per il supporto delle operazioni antipirateria nel Golfo di Aden,
senza occuparsi delle operazioni di combattimento; va ricordato che a Gibuti sono presenti
anche le basi di Usa, Giappone, Francia, Italia e Spagna.
Il porto di Gwadar è il punto d’approdo del Corridoio economico sino-pakistano e serve ai
cinesi per aggirare lo Stretto di Malacca, accorciare le rotte marittime ed evitare potenziali
futuri interferenze da parte sia della Indian Navy che della US Navy.
Per inciso va segnalato il notevole impegno militare cinese a supporto dell’accordo raggiunto
con il Pakistan: la presenza di ribelli baluci che propugnano la separazione da Islamabad ha
già costretto Pechino a schierare circa 13 mila soldati nei pressi di Gwadar.
La Repubblica Popolare sta anche ipotizzando lo sviluppo di altre strutture militari oltre
confine, per esempio a Salalah nel Sud dell’Oman e a Karachi (Pakistan), dove già fanno scalo
frequente le navi della PLAN.
Il notevole impegno cinese in Africa ed in America Latina, con grandi investimenti in strutture
portuali (soprattutto porti containers), assicura d’ altra parte una potenziale rete logistica a
favore della PLAN
La Cina sta compiendo notevoli sforzi per diventare una potenza marittima, cercando di ridurre
i tempi di superamento del gap esistente con gli USA in termini di budget, tecnologia ed
esperienza.
Tra tre anni Pechino potrà schierare sette sottomarini lanciamissili balistici, altrettanti
sottomarini da attacco sempre a propulsione nucleare e due nuove portaerei annunciate per
affiancare all’unica oggi in servizio (Liaoning) sviluppata sullo scafo di una vecchia unità
sovietica acquistata nei cantieri ucraini e originariamente gemella della portaerei russa
Kuznetsov, quindi molto più piccola delle portaerei USA, sulla cui efficienza operativa si può
discutere, mentre è certamente l’ indispensabile anello di sviluppo e preparazione di una forza
aeronavale.
Siamo di fronte alla riedizione di quello che a suo tempo Ruyard Kipling chiamava Il grande
gioco, che oggi però riguarda l’Asia orientale: un ambizioso programma di modernizzazione
navale cinese che ha già trasformato quella che un tempo era una semplice forza litoranea
prima in una marina per la deterrenza regionale ed oggi in una forza strategica, moderna,
tecnologicamente avanzata e flessibile, capace di condurre missioni a lungo raggio oltre le
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
acque dell’Asia in un’ esercizio della diplomazia marittima globale, mai tralasciando
l’interdizione dell’accesso alle coste cinesi a forze armate straniere nel caso di un conflitto per
il controllo dell’isola di Taiwan o delle risorse del Mar Cinese meridionale.
Shandong in costruzione- Prima portaerei di progetto nazionale è stata varata nell’ aprile 2017
Tra tre anni Pechino potrà schierare 7 sottomarini lanciamissili balistici, altrettanti sottomarini
da attacco sempre a propulsione nucleare e due nuove portaerei annunciate per affiancare
all’unica oggi in servizio (Liaoning) sviluppata sullo scafo di una vecchia unità sovietica
acquistata nei cantieri ucraini e originariamente gemella della portaerei russa Kuznetsov,
quindi molto più piccola delle portaerei USA, sulla cui efficienza operativa si può discutere,
mentre è certamente l’ indispensabile anello di sviluppo e preparazione di una forza
aeronavale.
I cinesi disporranno anche di 20 moderni cacciatorpediniere lanciamissili, oltre 30 fregate e
una flotta di navi da sbarco inferiore solo a quella statunitense.
I caccia della classe-Luyang III potrebbero essere presto in grado di assolvere a compiti di
attacco su bersagli terrestri oltre che a quelli classici di tipo Asuw, Asw e di difesa aerea,
mentre la futura classe di portaelicotteri d’assalto anfibio Type 081, supporterebbero la
creazione della rete di basi all’ estero, oltre ad assolvere i compiti “tradizionali nelle cinture di
difesa e protezione vicine.
Un potenziamento credibile che però non scalfirà nel medio termine il primato statunitense,
che non solo può contare su 10 gruppi navali incentrati su grandi portaerei, e altrettanti con
capacità limitate basati sulle portaerei da assalto anfibio, ma soprattutto può contare sulla
consolidata capacità di operarli con continuità.
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
Si tratta però già solo di un vantaggio, e non della supremazia su cui contavano gli Stati
Uniti alla fine della guerra fredda
Come recuperare la supremazia, e quale la sfida di Trump?
La disponibilità insita nel programma di Trump, e la convergenza delle analisi, sono state colte
al balzo dal Pentagono ancora prima dell’insediamento del Presidente come dimostra la
richiesta del Dipartimento della Difesa (DoD) al Congresso di stanziare fondi straordinari per
509 miliardi di dollari (pari quasi a un bilancio annuale della difesa USA) in 30 anni.
Stanziamenti valutati indispensabili per costruire almeno una cinquantina dell’ottantina di navi
da combattimento ritenute necessarie tra portaerei classe Ford, 36 incrociatori e
cacciatorpediniere e 18 sottomarini d’attacco a propulsione nucleare, più navi da trasporto e
da assalto anfibio.
Un programma per riportare l’US Navy dalle attuali 274 unità di prima linea a 355 unità,
comunque lontano dal picco di 594 unità raggiunto nel 1987 in piena “Era Reagan” quando
vennero anche rimesse in servizio e rimodernate unità già in riserva, persino le corazzate della
Seconda Guerra mondiale.
LA DISLOCAZIONE ED I COMANDI DELLA US NAVY
Lo strumento navale statunitense (19)
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
Un programma ambizioso, di convergenza, ma sul quale Trump ha fatto subito capire di non
voler cedere alle pressioni delle grandi aziende del settore militare, alle quali ha subito imposto
una riduzione dei costi unitari per le nuove acquisizioni.
Il primo passo dell’Amministrazione Trump è stata la valutazione dello strumento navale (in un
contesto generale del riordino ed ammodernamento delle FFAA) come cardine di rinnovate
aspirazioni globali: la capacità di mantenere presidi avanzati, di supportare e sostenere le
operazioni dei gruppi da battaglia, di mantenere le linee di comunicazione aperte e di garantire
l'accesso degli Stati Uniti alle basi d'oltremare, proprie od alleate. Una valutazione in un’ottica
di ritorno, del potenziale impiego della US Navy contemporaneamente nell'Oceano Pacifico,
Oceano Atlantico e Indiano, nel Golfo Persico e anche nel Mediterraneo, tenuto conto dei
recenti tentativi, anche in forze, di russi e cinesi di colmare il vuoto causato dalla sempre più
ridotta presenza statunitense in quelle aree.
La dimensione della flotta e le capacità dell’industria cantieristica statunitense sono i fattori
condizionanti della nuova strategia di difesa.
Partendo da una consistenza della flotta a fine agosto del 2016, di 274 unità (6) e da aspirazioni
della US Navy (FY precedenti) per una forza di 308 navi, con il relativo piano di costruzioni
navale a lungo termine presentato al Congresso, si è immediatamente evidenziato che questa
struttura "declina sotto 300 navi nell'FY2031 e rimane sotto tale livello di forza per il resto dei
prossimi 30 anni “. (7)
È stato preso in considerazione anche quanto riferito al Congresso dalla US Navy nel 2015,
quando si affermava che" la scarsa capacità di costruzioni per un lungo periodo di tempo
comporterebbe una forza di combattimento non adeguatamente dimensionata per soddisfare
i nostri requisiti navali a sostegno del DSG [Defence Strategic Guidance]. (8)
La priorità assoluta della nuova amministrazione è divenuta quella di evitare un ulteriore
declino della US Navy, cercando di introdurre prassi di programmazione a lungo termine per
incrementare in termini reali la consistenza della flotta e renderla capace di affrontare le sfide
emergenti che gli Stati Uniti stanno ormai affrontando in tutto il mondo.
Un obbiettivo di ritorno, con un percorso modesto e progressivo, verso una flotta intorno alle
355 unità, e mai sotto le 335-340 navi, un processo di ricostruzione che richiederà tempo e
scelte condivise con tutto l’establishment politico americano, se non addirittura con gli alleati
NATO.
La Marina dovrebbe rivalutare le dimensioni dei suoi gruppi di attacco, nonché la disponibilità
e dislocazione delle unità minori combattenti, dei sottomarini e dei rifornitori di squadra. (9)
Una politica navale mirata ad assicurare la supremazia (navale) degli Stati Uniti dovrebbe:
1)
2)
3)
4)
consentire una maggiore presenza avanzata;
ridurre le rotazioni nei dislocamenti operativi
ridurre i tempi di spiegamento
consentire una strategia di espansione della presenza navale statunitense nel
Mediterraneo e una presenza a rotazione nel Mar Nero con unità minori di superficie
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
(riducendo così sia i tempi di transito che il dispiegamento da altre aree sensibili). (10)
5) assicurare non solo un deterrente, ma un potere di dissuasione e risposta di una letalità
(Distributed Lethality) tale da costringere l'avversario a cessare le ostilità rendendolo
incapace di ulteriori azioni.
Lo sviluppo di una nuova classe di unità minori combattenti ai fini di incrementare le capacità
di impiego in bacini ristretti delle Littoral Combat Ship (LCS), con il ritorno ad un tipo di fregata
missilistica di attacco (basata sia su una LCS o una nuova carena), alleggerirebbe gli impieghi
(e l’usura) delle unità maggiori combattenti di superficie della Marina (DDG e CG) e sarebbe la
soluzione più rapida e conveniente per un riequilibrio della flotta, e la sua espansione.
Una linea di 60 unità minori combattenti, integrando l’attuale programma LCS con una nuova
classe di fregate missilistiche di attacco, sarebbe l’unica perseguibile con le attuali risorse e
capacità cantieristico/industriali.
Dovrebbe essere preso in considerazione anche un incremento a 60 unità della flotta
sottomarina.
Questo incremento richiede la costruzione di almeno due unità tipo SSN-774 all'anno, poiché
la flotta sottomarina di attacco è scesa a meno di 50 unità e senza interventi drastici
scenderebbe intorno alle 40 unità in meno di due decenni, (11) ed è un intervento che richiede
nuovi importanti investimenti industriali
Nel complesso un programma di costruzioni navali contro il declino delle capacità e credibilità
della US Navy richiederebbe una capacità costruttiva di 11-12 navi all'anno, ossia due o tre
unità in più degli attuali programmi a lungo termine, incrementando gli stanziamenti SCN di
almeno 5-6 miliardi di dollari all'anno. (12)
Occorre far fronte anche ad altre carenze in vari settori, non certo marginali.
In primo luogo la componente area della US Navy; le acquisizioni di velivoli F/A-18E
dovrebbero essere aumentate per compensare l'invecchiamento della forza mentre l’entrata
in servizio degli F-35B e F-35C dovrebbe essere accelerata. Nel corso dei prossimi cinque
anni, la US Navy dovrebbe acquisire altri 58 esemplari F/A-18 e F18 Super Hornet oltre a 16
ulteriori EA-18G Growlers, utili per compensare i ritardi del programma l'F-35C.
Già oggi, con una forza di circa 830 velivolo da attacco, si prospetta un deficit di 29 velivoli
nel 2020 che senza interventi salirebbe a circa 111 velivoli nel 2030
Gli stanziamenti per l’aviazione navale dovrebbero essere incrementati di circa 2 miliardi di
dollari l'anno nel periodo FY18-25 per soddisfare queste necessità
Le “Third Offset Technologies”, come l'energia diretta ed i rails guns (elettromagnetici), quali
possibili soluzioni e non paliativi anche demagogici della precedente amministrazione,
dovrebbero essere rapidamente testate e tradursi in sistemi operativi, per contribuire alle
capacità delle unità di superficie.
In questa nuova ottica, la US Navy necessita di oltre 1 miliardo di dollari in termini di consumi,
approntamento, manutenzione e refits della flotta.
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
Le acquisizioni per l’USMC nonché le operazioni e la manutenzione (O&M) potrebbero anche
ricevere diverse centinaia di milioni di dollari sia come economie di scala sia a compenso di
priorità non finanziate.
L'approvvigionamento di armi e sistemi navali non ha particolari criticità, stante la diminuzione
della flotta nell’ era Obama, ma i nuovi indirizzi impongono una nuova attenzione per il
munizionamento, di ogni tipo, e si deve provvedere non solo all’ aumento generale delle scorte
ma ad un deciso incremento soprattutto per missili antinave a grande portata e missili di nuova
generazione antiaerei, nonché missili aria-aria.
In questo settore la US Navy deve poter
impegnarsi nello sviluppo di una nuova generazione di missili a lunga portata, sia di crociera
sia antinave, compresi missili ipersonici.
Un incremento di 7/8 miliardi di dollari degli stanziamenti per i programmi della US Navy /
USMC soddisferebbe queste necessità.
La US Navy è comunque uno dei pilastri della deterrenza statunitense, intesa come forze
nucleari strategiche e difesa dei missili balistici
Il mondo si è illuso di aver superato, dopo la guerra fredda, i pericoli dell’olocausto nucleare,
ma non è cosi, tra l’indifferenza generale.
I programmi di consultazione e riduzione degli
arsenali languono ed in barba a tutti i trattati sorgono sempre nuovi attori sulla scena della
minaccia nucleare.
La risposta dal mare, in un quadro di possibile confronto nucleare o prenucleare, è sempre
l’opzione più flessibile, quella di una risposta bilanciata.
L’ Amministrazione Trump si trova a dover sostenere nuovi programmi di difesa nucleare
contro i missili balistici (BMD), e la US Navy ha affrontato da tempo questo tipo di minaccia
ed è in grado già di spiegare gli strumenti adeguati.
Il quadro di riferimento è molto preoccupante, al di là del peso reale della minaccia russa per
gli USA:
Nonostante l’ adesione al trattato START, la Russia continua a modernizzare tutti i fattori della
sua triade strategica, anche se gli Stati Uniti hanno denunciato che la Russia sta violando gli
obblighi imposti dal trattato INF del 1987 (13), d’ altra coerentemente e conseguentemente al
fatto che non esiste alcun accordo o controllo sugli attori emergenti, compreso l’ Iran a cui di
fatto Obama concesse una dilazione e la libertà a lungo termine, e compresa, ultima ma
estremamente critica, la Corea del Nord.
La Cina continua ad ammodernare ed espandere il proprio arsenale, valutato intorno a i 75100 ICBM, in silos o lanciatori mobili, e prosegue con lo sviluppo della capacità di ICBM MIRV
e delle forze SSBN / SLBM; (la marina cinese dispone di almeno quattro SSNBN di classe JIN,
dotati di SLBM CSS-N-14). (14)
Nella triade statunitense gli SSBN della US Navy giocano un ruolo determinante, e se verranno
mantenute le premesse e le promesse di un incremento delle capacità di costruzione di
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
sottomarini, nell’ arco di un decennio o poco più dovrebbe essere assicurata la stabilizzazione
della deterrenza americana.
Fondamentale sarà la destinazione di risorse per l’avvio della costruzione di nuovi SSBN in
sostituzione della classe Ohio.
Sull’ altro versante della difesa da IBM la US Navy, con i programmi di nuove costruzioni e
l’ammodernamento di alcune classi di unità di superficie, ha affrontato da tempo la capacità
di difesa antimissile; qualitativamente efficiente deve essere messa in grado di essere anche
quantitativamente rispondente alle necessità (15), eliminando i tagli imposti ai programmi Aegis
nelle loro evoluzioni.
Obiettivamente i programmi relativi alle forze strategiche sono molto meno costosi rispetto a
quelli delle forze convenzionali.
Come curiosità il finanziamento di tutti i quattro programmi che riguardano la deterrenza e la
difesa da missili balistici, anche al massimo delle valutazioni, costa molto meno dei capitoli
relativi alle retribuzioni del personale militare, del personale civile o dei programmi sanitari
collegati, tutti a carico del DoD.
Un aumento di 1-2 miliardi di dollari per i programmi strategici di forza e BMD avrebbe
sostenuto queste iniziative.
Conclusioni, considerazioni e sintesi
Secondo alcuni analisti è necessario nuovo corso per la US Navy he a fine del 2016 si è trovata
nelle condizioni minime di efficienza e credibilità rispetto agli inizi della 2^ GM.
Una crisi, molto sfumata da parte politica malgrado le insofferenze della Marina statunitense,
che impone all’ Amministrazione Trump di affrontare con una strategia di largo respiro y
problemi della US Navy, affrontando in primo luogo le lobbies che durante i lunghi anni
dell’Amministrazione Obama hanno di fatto condizionato le scelte navali, se non imposte,
senza che appaia solo come una rivincita della US Navy.
Sta prendendo forma una nuova strategia, con l’obbiettivo della Marina delle 355 navi, come
un po’ in sordina era stata annunciata a dicembre scorso, strategia che dovrebbe mettere in
cantina almeno parte di costosi programmi, un po’ fantasiosi e di dubbia efficacia, che
avevano minato la credibilità e l’efficienza della US Navy.
Si tratta di una strategia che ha un primo orizzonte di 18 anni ed un secondo orizzonte di 30
anni, traguardi che devono essere supportati dalla costanza e sicurezza degli stanziamenti (e
questa è l’ipoteca che sta accendendo l’amministrazione Trump per ricostruire la US Navy,
quasi una sorta di “legge Navale” all’ americana, trentennale)
Un’ ipoteca di quasi 27 miliardi di dollari addizionali (a valori costanti 2017) per raggiungere e
mantenere in 30 anni l’obbiettivo delle 355 unità.
In termini assoluti si tratta di un incremento degli stanziamenti del 30%, rispetto agli ultimi 30
anni, e oppure del 40% se riferito al colpo inflitto da Obama con gli stanziamenti dal 2012 al
2016 (Budget Control Act -BCA- del 2011)
Gian Carlo Poddighe - luglio 2017
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La US NAVY dell’era Trump
La strategia sembra prendere in considerazione anche la necessità di riportare a livelli
opportuni (ed in precedenza esistenti ed economici) la capacità cantieristica e dell’industria
navale del Paese, mai scesa a livelli cosi bassi come nell’ ultima decade, e concentrata in
pochi gruppi, al punto da far nascere sospetti di monopolio od almeno di cartello.
Per raggiungere l’obbiettivo delle 355 navi la US Navy deve acquisire 329 nuove unità nell’
arco dei prossimi 30 anni (da confrontarsi con le previste 254 unità del piano 2016/2017)
In particolare nei prossimi cinque anni la US Navy dovrà acquisire almeno 12 unità all’ anno,
invece delle 8 unità/anno del piano 2016/2017.
Ovviamente non si tratta solo degli stanziamenti per le nuove costruzioni (con evidenti enormi
ricadute su tutto il settore industriale e cantieristico) ma degli stanziamenti per consumi,
logistica e costi operativi, che aumenteranno almeno proporzionalmente.
Più navi richiedono più equipaggi, più equipaggi richiedono reclutamento, formazione ed
addestramento prolungato, ma anche l’incremento delle strutture e risorse civili di appoggio,
maggiori spese ma soprattutto maggiori capacità di manutenzione, maggiori spese in consumi
ed attività addestrative.
Si prevedono comunque risparmi consistenti eliminando duplicazioni costi di struttura e
ridondanze di una Marina in taluni caso ancora dimensionata sull’ era Reagan.
Stiamo parlando di cifre intorno ai 102 miliardi di dollari/anno per costruzioni, personale
consumi, per la flotta di 355 unità, ossia del 13% in più rispetto ai 90 miliardi previsti dal
precedente piano: la riflessione è che aumentando l’efficacia, il rapporto costo/benefici, di
queste spese, con maggior visione di investimento, certamente diminuiranno i costi unitari
Il primo effetto, come era comunque da attendersi, è stata una “riflessione” sul programma
LCS; anche se i cantieri, ed in particolare quelli meno flessibili e più in dubbio, AUSTAL,
avevano cercato di giocare in anticipo lanciando versioni “over the horizon” delle tanto
discusse unità, la US Navy vuole valutare autonomamente la portata e le caratteristiche del
programma, ed ha già emesso una RFI per una un tipo di fregata “tradizionale”, pur nella sua
modernità.
Un programma mirato al 2020 che probabilmente si cercherà di accelerare, un ripensamento
sul programma LCS che riguarderà almeno 12 unità, come del resto da varie parti si era
previsto dopo il ripetersi degli incidenti su questo tipo di unità.
Una RFI che riguarda un nuovo tipo di unità, la sua configurazione, armamento e missioni
(unità più “mature e dure” con dotazioni credibili, fisse, up to date) ma soprattutto apre la rosa
dei possibili costruttori, al momento limitata (e controllata) dal binomio Lockheed Martin ed
Austal, con Lockheed Martin che si è mossa con larga anticipo, probabilmente grazie all'
alleanza con Fincantieri/Marietta, che gode di una consolidata esperienza acquisita con i
principali programmi europei di nuove costruzioni.
Risolta la priorità delle nuove fregate, occorre affrontare il nodo delle capacita cantieristiche
statunitensi, e mentre l’aumento di quelle relative ai sottomarini nucleari ed alle unità maggiori
non può che trovare una soluzione nazionale, non è da escludere che per certi tipi di unità si
faccia ricorso a paesi alleati.
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La US NAVY dell’era Trump
L’ effetto immediato in questo settore è stato l’annuncio/proposta dei due cantieri impegnati
nella costruzione di sottomarini nucleari, Huntington Ingalls Industries e General DynamicsElectric Boats, che contrariamente alle previsioni del 2016 si sono dichiarati pronti a continuare
la produzione dei sottomarini SSN classe Virginia anche quando inizierà la produzione dei
nuovi SSBN classe Columbia (entro il 2020).
Un SSN classe Virginia sullo scalo dei cantieri HII - Huntington Ingalls Industries
La possibilità è l’ oggetto di un rapporto presentato a inizio luglio 2017 al Congresso dal titolo
“The Submarine Industrial Base and the Viability of Producing Additional Attack Submarines
Beyond the Fiscal Year 2017 Shipbuilding Plan in the 2017-2030 Timeframe”; con una cadenza
tra 1 e 2 unità l’ anno, con adeguati e rapidi investimenti industriali, la US Navy potrebbe
ricevere ulteriori 7 unità portando le costruzioni da 22 a 29 unità tra il 2017 ed il 2030; l’
incremento della capacità produttiva permetterebbe alla US Navy di raggiungere e stabilizzare
la forza di 66 unità in servizio nel FY 2048 (piano trentennale … per riportare un livello credibile
di supremazia navale!!)
Indipendentemente da questa possibilità/soluzione per la forza sottomarina, il giro di boa, oltre
all’ emissione della RFI per le nuove fregate, è stata la consegna della USS Gerald R. Ford
(CVN 78), prototipo di una nuova classe di tre portaerei nucleari di attacco, un salto
tecnologico dopo 40 anni di evoluzione della precedente classe Nimitz.
Nate per essere
un “contentino” alla US Navy per la politica di riduzione e disimpegno varata dall’
amministrazione Obama, più che una eredità sono diventate sia una patata bollente sia uno
spunto per l’amministrazione Trump, che non a caso è intervenuto alla cerimonia di consegna
sottolineando il proprio impegno per arrestare il declino della US Navy, tanto con nuove unità
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La US NAVY dell’era Trump
come nelle modalità di impiego delle forze di superficie.
Unità che rappresentano un’ importante evoluzione del concetto e dell’ uso dei gruppi di
combattimento con innovazioni/cambi radicali, che riguardano l’ apparato motore, con
reattori di nuovo tipo e più compatti, una potenza elettrica enormemente accresciuta (anche
per i sistemi elettromagnetici adottati), sistema centralizzato di comando di propulsione,
ausiliari e servizi, l’ abbandono delle catapulte a vapore per sistemi di lancio elettromagnetici,
nuovi sistemi di arresto dei velivoli (AAG, Advanced Arresting Gear), radar il Dual Band, sistema
di combattimento integrato, esteso all’ intero task group, ma anche unità che segnano un
diverso rapporto con l’ industria cantieristica (Huntington Ingalls Industries) e l’ indotto.
Questo diverso rapporto può essere lo spunto, la base, per la necessaria ed improrogabile
espansione delle capacità costruttive del paese.
Un’ espansione non solo per le “mega” costruzioni di CVN ma per tutta la gamma di unità
maggiori combattenti, come le LPH (flat top come ormai vengono definite) sempre più
proiettate a divenire le portaerei leggere di più numerosi e flessibili gruppi di intervento.
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La US NAVY dell’era Trump
APPENDICE
PLAN list
1+2
5
8
55
2
5
1
32
31
34
51
42
109
94
17
29
11
232
Aircraft carrier
Ballistic missile submarines (SSBN)
Attack submarines (SSN)
Attack submarines (SSK)
Experimental submarine
Amphibious transport docks (LPD)
Mobile Landing Platform
Landing ship tanks (LST)
Landing ship medium (LSM)
Destroyers
Frigates
Corvettes
Missile boats
Submarine chasers
Gunboats
Mine countermeasures vessels
Replenishment oilers
Auxiliaries (various) *
* Figure includes both coastal and ocean-going auxiliaries, from tugboats to hospital
ships. Not counted towards total number of active ships.
US Navy Battle Forces – 276Ships
Aircraft Carriers
Class
No. of Hulls
CVN 68
10
CVN 78
1
Surface Combatants
Class
No. of Hulls
CG 47
22
DDG 51
64
DDG 1000
1
LCS
9
Submarines
Class
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No. of Hulls
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La US NAVY dell’era Trump
SSBN 726
14
SSGN 726
4
SSN 21
3
SSN 688
34
SSN 774
14
Amphibious Warfare Ships
Class
No. of Hulls
LHA 6
1
LHD 1
8
LPD 17
10
LSD 41
8
LSD 49
4
Mine Warfare Ships
Class
No. of Hulls
MCM 1
11
Combat Logistics Ships
Class
No. of Hulls
AKE 1
12
AO 187
15
AOE 6
2
Fleet Support
Class
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No. of Hulls
AFSB (I) 15
1
AGOS 19
4
AGOS 23
1
AKE 1
2
ARS 50
2
AS 39
2
ATF 166
3
EPF 1
8
ESB 3
1
ESD 1
2
29
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LCC 19
2
Auxiliary Support
Class
HST 1
No. of Hulls
1
Scoring the U.S. Navy
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La US NAVY dell’era Trump
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