Sou s la d ir ection de
G iordano F errari
Le th éâtre m usical
de Luciano Berio
Tom e 2
De U n re in ascolto
àC ronaca del Luogo
A c t e s d e s s i x j o u r n é e s d ’é t u d e s q u i o n t e u l i e u
À P a r is e t à V e n is e e n t r e
2 0 10
L’Ha r m a t t a n
e t
20 13
Arts 8
Collection dirigée par Jean-Paul Olive et Claude Amey
C onsacrée à l'a rt du X X e siècle et à la réflexion esthétique, la
collection
a po ur vo cation de diffuser les travau x collectifs de
groupes et équipes de recherche, de prom o uvo ir un déb at transversal
entre les d iverses disciplines artistiques, et d 'en co u rag er les
recherches et échanges autou r de thém atiques contem poraines
im portantes.
Arts 8
Dernières parutions
G ia n f ra n c o V in a y et A n to n y D e s v a u x (d ir.),
la musicologie hors d’elle, 2 0 1 5 .
Giovanni Morelli.
Alain Cavalier, cinéaste
R o b in D e r e u x e t S e rg e L e P é ro n (d ir.),
2014.
J e a n - P a u l O liv e (d ir.),
2013.
S u s a n n e K o g le r e t J e a n - P a u l O liv e (d ir.),
2013.
J o s e p h D e la p la c e ,
2011.
Isa b e lle L a u n a y ,
2010.
G io rd a n o F e rr a ri (d ir.),
2009.
J e a n P a u l O liv e (d ir.),
2009.
G e o rg e s
B lo e s s
(d ir.),
2009.
M â rta G r a b ô c z et J e a n - P a u l O liv e (d ir.),
etfilmeur,
Réfléchir les formes : Autour d'une
analyse dialectique de la musique,
Expression et geste
musical,
Tours et détours,
Mémoires et histoire en danse,
Pour une scène actuelle,
Présents musicaux,
Destruction création, rythme:
l’expressionnisme, une esthétique du conflit,
Gestes, fragments,
timbres : la musique de Gyôrgy Kurtâg, 2 0 0 8 .
G io rd a n o F e rr a ri (d ir.), Laparole sur scène, 2 0 0 8 .
© L’Harmattan, 2016
5-7, rue de l’École-Polytechnique ; 75005 Paris
w w w .h a r m a tta n .f r
d i f f u s io n .h a r m a t ta n @ w a n a d o o .f r
IS B N : 9 7 8 -2 -3 3 6 -3 0 3 8 7 -1
E A N : 97 8 2 3 3 6 3 0 3 8 7 1
in: Le théâtre musical de Luciano Berio
Actes de six journées d'études qui ont eu lieu
à Paris et à Venise entre 2010 et 2013
Sous la direction de Giordano Ferrari
Paris, L'Harmattan, 2016
TOMMASO POMILIO
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
Il paradigma, il complesso e tumultuoso, autodecostruente
intreccio iper-autoriale – su cui si fonda il testo verbale di Un re in
ascolto e la sua stessa costruzione, – così come l'arco cronologico, su
cui esso si compie, è, qui ormai, materia ben nota. Ricapitoliamo, per
ora assai sommariamente (omettendo passaggi intermedi). Dal '77,
quando Italo Calvino, impressionato dalla lettura delle pagine di
Roland Barthes sulla nozione di ascolto (firmate con Roland Havas,
per l'Enciclopedia Einaudi)1, ne propone la suggestione a Luciano
Berio, da cui era stato intanto convocato per quel progetto di
riscrittura/decostruzione del Trovatore e degli statuti del melodramma,
che vedrà la luce solo nell'82 come La vera storia (per il progetto, il
compositore si era già rivolto a Sanguineti, poi ritraendosi); poi
all'agosto dello stesso anno, quando il compositore, recatosi a
Salisburgo, riceve commissione per un’ ‘opera’ da rappresentare al
Festspiele; al successivo autunno, con la stesura del soggetto; al '79 (la
prima parte dell'anno, verosimilmente), quando lo scrittore proverà a
sviluppare il soggetto in un primo libretto, in tre atti, cui già è
assegnato il titolo che sarà definitivo; quindi, a partire dall'anno
successivo, fino alla totale riformulazione del soggetto e,
progressivamente, alla radicale decostruzione del progetto iniziale, col
1. Roland BARTHES – Roland HAVAS, Ascolto, poi incluso in R. BARTHES, L'ovvio e
l'ottuso. Saggi critici III, trad. di Carmine Benincasa et al., Torino, Einaudi 2001, pp.
237-251.
Tommaso Pomilio
disegnarsi, nell'80, di un trattamento rutilante e multiplanare2,
destinato a seguire ormai non più la paranoia verosimile di un reusurpatore prigioniero del suo «palazzo-orecchio», imbrigliato nelle
maglie di congiure che sono presupposto e conseguenza del suo
medesimo esercizio del potere (o forse i fantasmi stessi dell'essere,
nella prigionia d'un «mondo che non gli appartiene, che forse non
esiste»), ma invece, i labirintici circuiti mentali di un «padrone della
musica», un direttore di teatro d'opera «in preda a un'angosciosa crisi
interiore», perduto nel suo proprio «labirinto» (tema questo
topicamente calviniano, come è noto). In parallelo, il trattamento
dell'80 vede lo sviluppo di altri due livelli (accolti in parte nel lavoro
finale): quello in cui seguiamo un'opera (tradizionale) non dal punto di
vista della platea ma dalla prospettiva del palcoscenico, e infine quello
relativo al backstage, il lavoro materiale durante l'esecuzione
dell'opera, tra le quinte e il retro del fondale.
Azzerato il primo soggetto e di conseguenza il primo libretto, la
sola struttura del trattamento dell'80 resisterà nel risultato finale – il
testo o canovaccio geniale, che serà ancora, nominalmente, a firma da
Calvino, ma in realtà pastiche integralmente ascrivibile alla volontà di
Berio (nel frattempo, come sappiamo, era caduta la testa di un altro
candidato ‘librettista’, Wolfgang Fleischer): frutto di ulteriori
riadattamenti e ‘caoticizzazioni’, rispetto all'idea di (ri)partenza
(quella del trattamento dell'80 appunto), e arricchito per l'inserzione di
riverberi shakespeariani (nel direttore di teatro andrà a cortocircuitarsi,
crepuscolarizzato, il Prospero della Tempesta o ancor meglio del
finale della Tempesta, mediato da suoi riscrittori – Auden e Gotter
segnatamente) così come di schegge che riportano, quasi in circolo,
situazioni ed energie di lavori immediatamente passati (da Opera, o da
La vera storia).
2. Italo CALVINO, Per Un re in ascolto di Berio: Trattamento 1980, in Id., Romanzi e
racconti, ed. diretta da C.MILANINI, vol.III, Racconti sparsi e altri scritti
d’invenzione, a c. di M.BARENGHI – B.FALCETTO, intr.. C.MILANINI, Milano,
Mondadori 1994, pp.755-757. Dallo scritto sono tratte le brevi citazioni che
seguono.
118
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
Nel testo verbale conclusivo, confluiranno materiali elaborati da
Calvino in vista di uno sviluppo del trattamento progettato nell'80, in
particolare quelle «arie» che verranno infine intitolate a Prospero, in
realtà già utilizzate da Berio nel «teatro immaginario» di Duo, per
baritono, due violini, coro e orchestra, in onda su Rai Radiouno nel
settembre dell'82, nell’ambito del XXIV Premio Italia: ove è in scena,
in a-solo, l'impresario del Trattamento dell'80, dialogante con se stesso
(«con le voci del suo passato e con la coscienza della sua fine
imminente», leggiamo nella Nota dell'autore)3, a «sognare un suo
teatro […] chiuso nello spazio irreale dei suoi ricordi»: mentre, a
duettare concretamente, od oniricamente, sono i violini; i vari
passaggi, dal trattamento a Duo e poi al testo finale, implicheranno
ulteriori smembramenti, prima nella ridisposizione delle varie «arie»
calviniane in Duo e quindi nella loro distribuzione nella logica del
testo dell'84.
Non troverà invece posto nel ‘libretto’ definitivo il bizzarro
Coro di congiurati da un libretto d'opera (che Calvino aveva
pubblicato nel giugno dell'81 su «Il Caffè»), ancora memore dei temi
del primo, ripudiato (da Berio) libretto del '79, ma ormai proiettato sul
progetto attuale: al punto che il «libretto d'opera» enunciato nel titolo,
non è più, certo, quello del primo Re in ascolto, ma piuttosto quello
dell'ipotetica opera «tradizionale» messa in scena dall'impresario del
trattamento dell'80... (o dovremo forse immaginare una
sovrapposizione fra l'opera mancata del primo libretto, e l'ipotetica
‘opera tradizionale’ citata nel trattamento dell'80? del resto, il Coro si
pone in linea di continuità, o contiguità, anche col lavorìo sui/dei
tòpoi, svolto ne La vera storia). È un testo, questo, filastroccante ai
limiti del puro gioco verbale, fitto di bisticci e calembours, che può
riportarci da un lato ai toni del primo, pop anziché no testo per Berio
3. La nota beriana per Duo, in occasione del Premio Italia (in cui il musicista parla,
peraltro, di “teatro virtuale”), è riportata fra l’altro da Claudio VARESE, Calvino
librettista e scrittore in versi, in Luigi BALDACCI [et al.], Italo Calvino. Atti del
Convegno internazionale (Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, 26-28 febbraio 1987),
Milano, Garzanti 1988, pp. 349-368 (la citazione è alla p. 360 del saggio).
119
Tommaso Pomilio
(Allez-hop, del lontano '59), così come a un nonsensical intimamente
combinatorio, in un arco teso fra Carroll e Queneau, ma con un
sorprendente quasi-montalismo in explicit («L'ombra zebra la brina di
settembre», con memoria, di certo non involontaria, della «prima
belletta di Novembre»)4: omaggio forse, o sberleffo?, al più grande
librettista mancato della nostra letteratura, o forse indizio lasciato a
bella posta a illuminare il coro d'una luce polifonica e pur
centralmente novecentesca di mottetto.
Benché promettentissimo, negletto dové restare, peraltro, un
secondo progetto di trattamento, stilato dallo scrittore in un
‘trattamento-riassunto’ in tre pagine dattiloscritte a data 6 agosto 1981
(omettevo di citarlo, qui in apertura, perché scivolato via dalla materia
dell'azione musicale senza lasciare ahimé la più pallida traccia)5: qui il
protagonista è un uomo che non riesce a parlare con una donna
incontrata lungo la strada, isolata com'è, questa, dalle sue cuffie di
walkman; che è gadget, ricordiamolo, dalla Sony introdotto giusto nel
'79, al tempo della stesura del primo ‘libretto’. E non sarebbe troppo
azzardato, ma solo ulteriormente labirintico, ipotizzare in questa
diavoleria della casa giapponese, che fu vera e propria rivoluzione
tecnologica della scena dell'ascolto e in ciò che ne deriva (nel regime
d'una metamorfosi e persino ‘finzionalizzazione’ della realtà esterna,
ridisegnata in toto da una colonna sonora interminabilmente pulsata
dalgi auricolari... il ridisegnarsi, elettrificarsi, per l'ascoltatore, in set –
mobile, continuo, interminabile – dei neutri scenari dell'esperienza
4. Mi riferisco naturalmente al verso con cui si chiude Non recidere, forbice, quel
volto, il più fatidico forse dei Mottetti di Eugenio Montale, sezione-chiave de Le
occasioni (1939). Ma non è certo l’unico omaggio al grande corregionale, nella
materia del Re in ascolto; un riferimento assai trasparente (stavolta a uno dei più
fatidici componimenti degli Ossi di seppia, 1925 – Forse un mattino andando) si
trova all’atto secondo del libretto originale del 79, per la precisione nel Coro di
ribelli: «Forse un mattino livido / vedrà gli ultimi incendi» (in Italo CALVINO,
Romanzi e racconti, vol.III, op. cit., p. 742).
5. V. la nota di Cesare MILANINI per i Materiali per «Un re in ascolto» di Berio, nei
Romanzi e racconti calviniani, edizione da lui diretta per i Meridiani Mondadori:
vol. III, op.cit., pp. 1292-1295.
120
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
quotidiana, quasi un infinito piano-sequenza mentale... l'accesso
quindi a una qualità, assordata e risonante, di solipsismo di massa, che
è poi la chiave prescelta da Calvino per quel trattamento abortito...
ecc.), una fonte di quell'invenzione del «palazzo-orecchio», alla base
del primo libretto («il palazzo del re è una conchiglia all'orecchio in
cui i silenzi si dilatano e gli echi si avvolgono a spirale»), e del suono,
o voce, che risuona «per ponti e vicoli e cortili6».
*
Come pare evidente ormai drammaticamente (uso
un'espressione di Berio – che virgoletta, spingendo su una valenza,
piuttosto, drammaturgica, intrinseca all'avverbio)7, la costruzione del
testo verbale si presenta quale un corpo a corpo titanico, agonico e
scintillante di effetti speciali, fra due entità autoriali, due stregoni dei
linguaggi (il materializzarsi della figura di Prospero nemmeno in
6. Le citazioni sono tratte dal libretto originale (1979) di Un re in ascolto, in I.
CALVINO, Romanzi e racconti, vol.III, op.cit., pp. 730-754 (rispettivamente, alle pp.
738 e 744). Rimando volentieri al bell'intervento di Robert Adlington nel corso della
giornata di studio presso la Fondazione Cini (qui raccolto), specie nel punto in cui
questi si riportava a The Fall of Public Man di Richard Sennett, saggio pubblicato
dalla newyorkese Knopf giusto nel 1977 (anno peraltro topico per il nostro Ascolto
– all'indomani della focalizzazione barthesiana – e anno, poi, dell'invenzione dello
«stereobelt», immediato antesignano del walkman), nella considerazione
dell'ascoltatore, sorta di ‘spettatore interiore’, teso a isolarsi dalle forze
disintegrative del circostante (e del silenzio di lui, quale forma di difesa
dall'esperienza di relazioni sociali, e dalla sua stessa, profonda insicurezza).
7. Mi riferisco a un passo (che citeremo meglio più avanti), dell'86, poi pubblicato
nell'88, in cui il compositore parlerà delle ragioni della «mancata convergenza
finale» con gli intenti dello scrittore. Si tratta della memoria da Berio resa al
Convegno sullo scrittore che si tenne a Sanremo il 28-29 novembre dell'86, a un
anno dalla sua scomparsa, e pubblicata poi ben tre volte nel corso dell'88, in prima
battuta, su «l'Unità» del 12 gennaio 1988 col titolo Le note invisibili, poi, col titolo
La musicalità di Calvino, in «il verri», ottava serie, n.5-6, marzo giugno 1988, pp.912; in Giorgio BERTONE (a c. di), Italo Calvino. La letteratura, la scienza, la città.
Atti del Convegno nazionale di studi di Sanremo, Genova, Marietti 1988, pp.115117. Il testo è incluso ora in Luciano BERIO, Scritti sulla musica, a c.
di A.I. De Benedictis, intr. G. Pestelli, Torino, Einaudi, 2013, pp. 328-331.
121
Tommaso Pomilio
questo è casuale) animati da negromanzie, certo divergentissime, a
soddisfare una propria aspirazione alla totalità la quale si dà analoga e
insieme, forse, opposta e incompatibile a quella dell'altro. Se parallela
e ad intensità altissima si svolge la ricerca sulle forme e i sensi
(eventualmente, i cinque sensi) dell'espressione, tesa all'attingimento
di un assoluto-testuale – e magari metatestuale se poi soprattutto
avviene, in entrambi i casi, per via di prassi tendenzialmente
«traduttorie», a scostare le pieghe dei testi e del proprio testo, –
profondamente sembra divergere il livello, lo strato (direi, per
suggestione geologica e speleologica) in cui l'uno e l'altro artista
s'inoltra a operare il sondaggio suo proprio. Pur incrociandosi negli
snodi del progetto in cui si finalizzano, i percorsi si discostano a
fondo: e assai meno, forse, in ragione dei principii che sovrintendono
ai due specifici ambiti espressivi, che per il differente grado di
coinvolgimento entro la materia espressiva8; e potremmo dire che,
dalla parte dello scrittore (di colui che opera nella lingua) agisce una
resistenza a depotenziare il logos onde favorire l'erompere anche
insensato, alogico (o alter-logico), del melos,
Certo è che per Berio, a differenza di Calvino, ciò che conta è la
«polifonia di livelli espressivi» (così nella importante memoria
8. Berio nel '58, in Poesia e musica – Un'esperienza (ora in Scritti sulla musica,
op.cit., pp. 253-266) definiva con esattezza le differenze di fruizione delle due forme
espressive, ossia tra «una condotta percettiva di tipo logico-semantico (quella che si
adotta di fronte a un messaggio parlato) e una condotta percettiva di tipo musicale,
cioè trascendente e opposta alla precedente sia sul piano del contenuto che sul piano
sonoro», e la necessità di abbandonare «i più semplici schemi formali della
percezione» in nome di una forma più totalizzante di «adesione creatrice» in cui
«tutti i nostri sensi sono chiamati ad apprendere e consumare l'oggetto estetico»; è
forse pleonastico, in questa sede, di ricordare anche in questo scritto Berio mirava
alla possibilità di uno spettacolo «totale», il cui scopo più autentico sarebbe non «di
opporre o anche di mescolare due diversi sistemi espressivi, ma di creare invece un
rapporto di continuità tra di loro, di rendere possibile il passaggio da uno all'altro
[sic] senza darlo a intendere» (cito da pp. 254 ss.). Pare singolare, e significativa, la
quasi assoluta coincidenza temporale di questo scritto con il fatidico Mare
dell'oggettività calviniano, che contempla un'analoga pulsione, ma da un'angolatura
opposta (almeno apparentemente).
122
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
dell'86, qui citata in nota). L'assoluto musicale di Berio ci appare
impulso all'espressione (anche a quella linguistica e culturale), portato
oltre i linguaggi, e ancor più, oltre il logos; eventualmente, e senza
nessun empito estatico-irrazionalistico, nel cuore stesso di quel
magma sul cui limite Calvino (pur sporgendosi) si ritraeva inorridito:
lì dove – dirà il compositore nella memoria dell'86 circa la sua
collaborazione con Calvino – «testo e musica perdano la loro
autonomia» in nome di «una compenetrazione più ricca, organica e
addirittura inestricabile». È appunto quella compenetrazione che
rischia di spalancare un accesso a quel mare o magma dell'
«oggettività», che lo scrittore mai vorrà spingersi ad attraversare: a
dismettere cioè il potere del logos: a cessare di riconoscere, anzi, nel
logos, la struttura di un ethos irrinunciabile; mai sciogliendo la lingua
o la testualità medesima in possibilità di contatto, anche ustorio, con la
materia, ma piuttosto optando per una resistenza/centralità del
discorso in quanto dominio dell'astrazione e, diremmo col Berio del
'59, della dimensione logico-semantica. In questo, pare ovunque
emergere (persino nello sguardo «fanciullesco» e poetico dell'esordio
neorealista, del '47 – si pensi al personaggio, in gran parte
autobiografico, del partigiano Kim)9 la insopprimibile vocazione
saggistica della parola calviniana; la quale convive tuttavia con la
fiducia nelle versatilità della letteratura, della sua capacità (a citare
una pagina del '62) di «stare in mezzo ai linguaggi diversi e tenere
viva la comunicazione tra essi10». La pur strenua Sfida al Labirinto o
9. I. CALVINO, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), in Id., Romanzi e racconti, ed.
diretta da C. MILANINI, vol.I, a c. di M. BARENGHI-B. FALCETTO, pref. J.
STAROBINSKI, Milano, Mondadori 1991, pp. 3-147; ci riferiamo, qui, al capitolo IX.
10. La citazione, contenuta in una parentesi, è sulla conclusione della importante
testimonianza di Calvino nel volume collettivo La generazione degli anni difficili, a
c. di E.A. ALBERTONI et al., Bari, Laterza 1962, pp. 75-87 (l'intervento è ora incluso
in I. CALVINO, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori 1994);
riportiamo qui il passo che precede, lì dove lo scrittore manifesta la sua «passione
per una cultura globale» e il suo «rifiuto della incomunicabilità specialistica per
tener viva un'immagine della cultura come un tutto unitario, di cui fa parte ogni
aspetto del conoscere e del fare, e in cui i vari discorsi d'ogni specifica ricerca e
123
Tommaso Pomilio
(per altri versi, diversamente interlocutorii) al Mare dell'Oggettività, al
magma, annunciata a cavallo fra anni '50 e '6011, sarà destinata ad aver
luogo non nei termini di un loro attraversamento, ma in quelli di una
loro descrizione, dall'esterno sempre, seppur vertiginosa e
attratta/atterrita dalle loro vertigini (del Labirinto; dell'Oggettività):
nei panni, sempre più astratti, del regista patente/occulto di celibi
macchine narrative, cristalli o geodi – fino all'esemplarità di Se una
notte d'inverno un viaggiatore. È in questo, forse, che il processo
descritto nel primo libretto di Un re in ascolto, e poi nel racconto
omonimo – punta estrema anche cronologicamente del percorso
calviniano, scritto alla vigilia della prima salisburghese12 – assume un
valore quasi proiettivo, autorivelatorio: come riassume Falcetto, «se, a
un certo punto, [al re] sembra di ritrovare in sé un canto che non
conosceva è solo per scoprire che quella nuova voce non è la sua ma
quella di un sé cui non ha concesso di esistere13» (del resto, nel
trattamento dell'80 lo scrittore parlerà esplicitamente di «doppio»).
Ma su punti come questi, Berio stesso, 'stregone' piuttosto del
magma (seppur variegato e stratificatissimo, persino multiplanare,
specie di magma – dalla natura non troppo diversa infatti da quella di
tanto Sanguineti, che del compositore fu forse alter elettivo), ebbe a
pronunziarsi, nella medesima testimonianza dell'86/88; sottolineando,
certo, la resistenza dello scrittore all'immersione nella dimensione
produzione fanno parte di quel discorso generale che è la storia degli uomini» (la cit.
si trova a p.86).
11. I saggi celeberrimi che citiamo (rispettivamente del '62 e del '59) si trovano in I.
CALVINO, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, pubblicato per la
prima volta nel 1980; citiamo dalla ristampa del 2011 negli Oscar Mondadori con
uno scritto di C. MILANINI, dove si trovano alle pp.101-119 e 48-56.
12. Precisamente, nel mese di luglio, come è testimoniato da una nota su un taccuino
dello scrittore. Una selezione del testo (circa la metà del totale) venne poi pubblicato
su «La Repubblica» il 12-13 agosto, cinque giorni dopo la prima dell'azione
musicale; da essa, Calvino, nel presentare il proprio scritto, prende elegantemente le
distanze, di fatto disconoscendo il proprio ruolo di coautore.
13. Bruno FALCETTO, «Cantare mentre tutto il resto non canta», in «Riga», n.9,
1995, pp. 246-252 (la cit. si trova a pp. 251 ss.).
124
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
totalizzante e appunto magmatica della musica (Berio, nella sua
memoria, lo fotografa come «intimidito dalla musica»), ma anche
rilevando nell'opera calviniana la natura di «un processo musicale in
continua trasformazione». – Di fatto, su tanto intrecciarsi e deliberato
fraintendersi, dové comporsi (tra le mani dis-organizzative o iperorganizzative di Berio, despota e demiurgo e autodecostruito Prospero
della sua propria rappresentazione), un ircocervo testuale
ramificatissimo, un ‘libretto’ o meglio (iper)testo risultante da una
serie di sovrapposizioni e progressive, decise revisioni. Fino a
includere passaggi d'una corrispondenza di Calvino a Berio, in cui lo
scrittore (comprendendo, nelle sue lettere, anche la voce dell'altro) con
lucidità sottolinea la natura del loro disaccordo.
Com'è noto, e come già accennavo, l'intreccio va esteso, oltre
che ai due soggetti in gioco, almeno a un terzo: se è vero che l' ‘azione
musicale’ risulterà da modi diversi d'intendere (o appunto
fraintendere) il timbro e i sensi della voce barthesiana sull'ascolto; e
incorporarne, comunque, le suggestioni. Ma ancora (dalla parte di
Berio), all'ipotesi calviniana dovrà subito sovrapporsi una presenza
ulteriore, decisiva quanto tremendamente impegnativa – quella
dell'ultimo Shakespeare – mediata, come sappiamo, in maniera quanto
meno duplice. Da un lato, tramite il Singspiel Die Geisterinsel –
L'isola degli spiriti – che Friedrich Wilhelm Gotter nel 1791 trasse
dalla Tempesta, con la collaborazione di Friedrich Hildebrand von
Einsiedel (pubblicandolo in rivista nel 1797), e che in soli tre anni, fra
il 1796 e il 1799, in un habitat culturale di Romanticismo incipiente
(nel '98 uscirà il primo numero della rivista «Athenaeum»), venne
musicato più volte (cinque, per la precisione); in questo Singspiel,
Berio avverte echi dal Flauto magico, quasi il suo «misterioso
profumo». Del resto, una leggenda (più volte confutata, ma da Berio
accolta) vuole che il testo fosse passato fra le mani dello stesso Mozart
poco prima della morte14: e non è da escludere, in questo, che –
14. A tale questione Berio fa riferimento peraltro nel fondamentale Dialogo fra te e
me pubblicato nell'84 nel programma di sala di Salisburgo, ora in Scritti sulla
musica, op. cit., pp. 273-279.
125
Tommaso Pomilio
triangolata fino all'inverosimile – nel ‘libretto’ deciso da Berio
s'includa l'ombra mozartiana... Dall'altro lato, La tempesta irrompe nel
testo verbale dell'azione tramite il commentario in versi, The Sea and
the Mirror, che Wystan Hugh Auden scrisse in un altro momento
topico e furente della storia e della cultura occidentale, fra il 1942 e il
'44. Come l'ascolto si spezza in una folla di percezioni o meglio in una
sorta di follia percettiva, che confluisce tutta nella cassa di risonanza
di un mega-orecchio protervo e quasi ubuesco (quello che troverà
espressione soprattutto nel racconto...), così la situazione testuale
espressa nel risultato finale (operato, di fatto, interamente da Berio) è
estremamente tormentata e diffratta; un gioco di specchi spezzati,
portato giusto nel cuore dell'esperienza secondonovecentesca, ma per
giungere alla chiave stessa del canone occidentale tutto: lo
Shakespeare più totalizzante, quello appunto della Tempesta, e
(soprattutto) il Prospero specie dell'explicit (quando i suoi «incanti son
tutti spezzati» e «su tre pensieri uno è per la sua tomba»), qui assunto
come assoluto mago e demiurgo d'ogni possibile Teatro, ormai preda
dello suo stesso teatro (di cui, in Un re in ascolto, è l'impresario) così
come dei suoi propri individuali fantasmi.
Fatto sta che, proprio nelle settimane antecedenti la prima di
Salisburgo, Calvino – rassegnatosi ormai alla caduta del progetto da
lui immaginato – si dedicherà alla stesura finale del racconto,
destinato a trovar spazio nel progettato libro sui cinque sensi; e si
affretterà a pubblicarne, sulle pagine de la Repubblica, una versione
rimaneggiata, qualche giorno dopo la prima, elegantemente benché
non del tutto esplicitamente ritirando la sua il quale viene (ma di
questo già dicevamo in nota).
*
È toccando i vari fili di questo ordito, ossia su questo stesso
risonante disaccordo, che varrà la pena adesso muoversi, per tentare di
seguire la brusca metamorfosi subita dal concetto calviniano nella
violenza (e quasi, brutalizzazione) su esso portata dal trattamento
beriano: arrestandosi giocoforza alle soglie di ciò che se ne trasporrà
126
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
nel quadro di un progetto di scrittura puramente narrativa, ormai
sottratta al caos scenico e sonoro perseguito con tal forza da Berio,
parallela e ormai alternativa ad esso; alle soglie insomma del racconto,
che nella sua interezza uscirà soltanto postumo (nell'incompiuta
raccolta sui cinque sensi, il cui scopo era, a detta dell'autore, di
«rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi»...)15: labirinto
ulteriore ed estremo, in cui, in questa sede, non sarà il caso di
inoltrarsi.
Partirei, intanto, dal piano più produttivo, ovvero dinamizzante
la fabbrica del testo verbale (non avremmo difficoltà a chiamarlo
libretto, se non fosse per l'uggia provata da Berio per questo termine)
così come, alla sua base, l'azione medesima elettrificante la scena:
quel livello propriamente agonico, ossia del fruttuoso conflitto fra le
due identità autoriali sottilmente unite l'una all'altra da almeno una
ventina d'anni (dai tempi di Allez-hop) per un legame che appare
inscindibile non meno che retto su di un consapevole equivoco intorno
al concetto stesso di opera d'arte (e più in particolare di musica e di
musicalità) in quanto, diciamo, forma critica di totalità.
Della natura conflittuale, ai limiti (dicevamo) dell'agonico,
caratterizzante i rapporti fra Berio e Calvino, dové testimoniare il
compositore stesso, nella breve e densissima memoria, che citavamo,
resa al Convegno di Sanremo, a un anno dalla scomparsa dello
scrittore, e che non possiamo evitare adesso di percorrere nel suo
spessore. Qui, il rapporto fra i due autori, da Berio è riassunto
scherzosamente (forse nemmeno troppo) nella chiave del ‘soffrire’, in
base al fatto che essi «perseguivano una ricerca comune alla quale si
giungeva però da premesse e da direzioni diverse» che, nel caso del
nostro ‘libretto’, dové giungere a una divaricazione sostanziale nella
«visione del lavoro». Fra le ragioni della «mancata convergenza
15. Così nel testo di una conferenza newyorkese dell'83, Mondo scritto e mondo non
scritto, poi pubblicata nella primavera-estate del 1985 su «Lettera internazionale»
(traggo la notizia dalle note di Milanini, nel succitato vol.III dei Romanzi e racconti
calviniani). La raccolta, com'è noto, verrà pubblicata come Sotto il sole giaguaro,
traendo il titolo dalla novella sul senso del gusto.
127
Tommaso Pomilio
finale» (ossia del non «riconoscersi completamente», da parte dello
scrittore, nel «risultato finale» – parlando ancora di Un re in ascolto),
il compositore indica il fatto che Calvino, nella sua scrittura per
musica, «tendesse ad ancorarsi a una storia e a svilupparne un
percorso narrativo che entrava irrimediabilmente e spesso
‘drammaticamente’ in conflitto con quello che invece sottintendeva
lui [Berio]: cioè un percorso e uno sviluppo musicale che poco
avevano a che fare con la narratività». Se è vero che nel concetto
beriano di musica vocale, testo e musica sono destinati «a perdere la
loro autonomia», ciò accade per dar vita a una «compenetrazione [...]
organica e addirittura inestricabile», a una «dimensione significativa
di grande spessore espressivo»; in Calvino invece questo processo
sembra suscitare resistenze – timidezze, a dire di Berio («intimidito
dalla musica» il sanremese di Santiago di Cuba), o forse persino
timori, scettico come questi era circa il fatto che «anche la musica
potesse manifestare e mescolare assieme diversi livelli di realtà» (il
riferimento è naturalmente al saggio del '78, posto a conclusione di
Una pietra sopra)16, o respinto dal fatto che essa non fosse
«razionalizzabile e verbalizzabile in tutti i suoi livelli». Berio rileva
quanto refrattario lo scrittore fosse alla dimensione musicale («la
musica suscitava in lui un po' d'interesse solo quando c'erano parole da
capire»): ma appunto la «esterna non-musicalità» di Calvino è
elemento da cui Berio si dichiara attratto (in quanto predilige «testi
che vengono «da regioni non musicali» e diventano musica solo
attraverso un «lungo e complesso percorso»). Ma soprattutto, il
compositore coglie, nella scrittura di Calvino, una forma intrinseca e
assoluta di musicalità, «in virtù di quella moltitudine, di quella
polifonia di elementi espressivi che lui aveva difficoltà a percepire
nell'esperienza musicale». Sì che, «con la mobilità dei suoi livelli di
realtà» (l'allusione è sempre, un po' libera, allo scritto del '78), la
testualità calviniana risulta infine qualcosa come «un'architettura
musicale: come una costruzione di frammenti internamente partecipi
16. I. CALVINO, I livelli della realtà in letteratura, in Una pietra sopra, op. cit., pp.
376-392.
128
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
di un processo musicale in continua trasformazione», o infine «come
una progressiva sublimazione di forme musicali17».
Dalla parte dello scrittore, è possibile intendere in tutta la sua
portata questa forma tanto generativa di conflitto (conflitto ai limiti di
una reciproca ‘sofferenza’)18, nella curiosa corrispondenza, per così
dire ricapitolatoria (a cui già alludevamo), che Calvino indirizzò a
Berio, consistente in due lettere, l'una datata alla fine dell'81, in
dicembre (quando ormai il primo libretto era stato accantonato, le
«arie di Prospero» erano state scritte e attendevano di essere realizzate
nel futuro Duo, e si lavorava sulla base del trattamento multiplanare
dell'80), l'altra ai primi mesi dell'82, probabilmente in aprile,
pubblicate entrambe da Enzo Restagno nel '95 volume per i
settant’anni di Berio19. In questa fantomatica ‘corrispondenza’, lo
17. Come specificato a inizio capoverso, le citazioni sono tratte dall’intervento,
precedentemente citato, di Luciano Berio, per gli Atti del convegno di Sanremo (La
musicalità di Calvino, op.cit.).
18. Nel Dialogo fra te e me, dell’84 (op.cit., p. 276), Berio sottolinea peraltro il
valore (il paradosso?) di una complessiva «instabilità di rapporto» a rendere «l’unità
dell’insieme».
19. La corrispondenza in forma di pseudo-dialogo è riportata in Enzo RESTAGNO (a
c. di), Berio, Torino, EDT 1995, pp. 135-141, col titolo A proposito di «Un re in
ascolto» (due lettere inedite di Italo Calvino a Luciano Berio): la data della prima di
essa, 10 dicembre 1981, sembra acclarata, mentre alla seconda è dubitativamente
attribuita una datazione riferibile all'aprile 1982. Il volume a cura di Restagno
contiene diversi saggi e materiali preziosissimi per la comprensione della nostra
azione musicale: dal testo di Massimo MILA pubblicato nel programma di sala della
prima alla Scala («Un re in ascolto»: una vera opera), all'intervista dell'86 a
Umberto ECO (Eco in ascolto), all'ampio e assai ben concertato studio di Laura
COSSO («Un re in ascolto»: Berio, Calvino e altri); ed è un rammarico non
riprendere e discutere a dovere, in questa sede, una così ricca e varia messe di
stimoli. A questi, andrebbe aggiunto almeno il contributo di Peter SZENDY, Punto
d'ascolto, in Angelo SOMAINI (a c. di), Il luogo dello spettatore: forme dello
sguardo nella cultura delle immagini, Milano, Vita e Pensiero, 2005; e, per quel che
riguarda Calvino o meglio la sua attività di scrittore per musica, quello di C.
VARESE, Calvino librettista e scrittore in versi, citato in precedente nota, e Salvatore
RITROVATO, «Un re in ascolto». L'ultimo «tragico» Calvino librettista, in M.
MESCHINI – C. CAROTENUTO (a c. di), Tra note e parole: musica, lingua,
129
Tommaso Pomilio
scrittore si faceva carico anche della voce dell'interlocutore o
contraddittore, nelle parti di un Io e di un Tu (ricorderà Berio, nel '95,
in una testimonianza orale, che ciò avvenne per una sorta di
‘sceneggiatura’ programmata da Calvino stesso)20. Si tratta di pagine
che sorprendentemente il compositore – lo abbiamo detto – deciderà
di annettere, almeno in parte, nell'ircocervo del ‘suo’ testo verbale
(firmato comunque dallo scrittore, per quanto questi pochi giorni dopo
la prima salisburghese si affrettasse poi a prenderne le distanze, come
sappiamo); pagine che dovettero colpire e divertire così
profondamente il compositore, da stimolare in lui la stesura di una non
meno fondamentale autointervista, inserita nel programma di sala
della medesima prima dell'84 (il succitato Dialogo fra te e me). Per
quanto reinventate ed evidentemente ‘sceneggiate’ da Calvino, queste
battute di dialogo, reinventate nella corrispondenza, valgono a render
conto con una certa precisione del dibattito avvenuto fra i due,
svelando il ruolo avuto dal compositore nella progettazione del
trattamento del 1980.
Nel 'falso' dialogo ricomposto da Calvino,, si tratta, innanzitutto,
della caduta del primo libretto: alla situazione drammatica ideata dallo
scrittore, il personaggio «Tu», ossia Berio nella ricostruzione di
Calvino, risponde: «Questo va bene come situazione, in senso
generale, però adesso dovresti trasportare tutto in un altro ambiente,
letteratura, Ravenna, Longo 2007, pp.117-130 (oltre al contributo di Falcetto, che
abbiamo invece avuto modo di citare più diffusamente; e a quelli, illuminanti
veramente tutti, di questa giornata, che non ho modo di citare nella loro forma
compiuta, e a cui rimando).
20. La testimonianza di Berio venne raccolta il 19 settembre 1995 nel quadro della
diretta radiofonica (Radiotre Suite, per l'esattezza) di una serata di rievocazione della
figura di Calvino, al Piccolo Regio di Torino, a dieci anni dalla morte dello scrittore;
il compositore ricorda che, nel «programmare» lo «scambio» epistolare
(unidirezionale e a due voci), Calvino avesse annunciato a Berio che il loro sarebbe
stato un dialogo fra un compositore e un librettista; e che, in questa prospettiva, lui
«sarebbe stato» Boito, e l'altro, Verdi... Nei suoi dettagli, la vicenda è riportata
giusto in questa sede da Renata Scognamiglio (che ha reperito il prezioso documento
audio), al cui intervento rimando, e che ringrazio (cfr. nota 27 a p. 18).
130
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
con un altro linguaggio... Non puoi mica fare un libretto da vecchio
melodramma, non ha senso, capisci...». In secondo luogo, la nuova
chiave esplicitamente metatestuale e metateatrale, ma ancor prima
metamusicale, che Berio impone rispetto al progetto inizialmente tutto
narrativo di Calvino: «bisognerebbe far sentire la musica dentro la
musica, è per questo [che] pensavo che la scena deva venir fuori nella
scena, dentro la scena». Nel concetto beriano, il direttore d'un teatro
d'opera si sovrappone dunque al re, in quanto «immagine del potere
contemporanea»: al punto che «tutta l'azione potrebbe svolgersi in un
teatro» e sul primo piano risalirebbe «tutto quello che avviene dietro
lo scenario, tra le quinte, la sera d'una prima» e «nello stesso tempo in
quel teatro ci dev'essere l'opera che viene rappresentata sulla scena, e
dev'essere un'azione diciamo così omologa alla scena fuori del teatro»;
il teatro stesso diviene, al limite, l'inconscio dell'impresario, di colui
che «ha fatto un sogno», e che diverrà Prospero nel testo definitivo e
già nel concetto calviniano delle Arie ma solo, per Calvino, per via
d'una triangolazione con il claustrofobico onirismo kafkiano (il passo
dal Diario di Kafka, «L'ho sognato l'altroieri. Tutto era teatro» ecc, del
5 novembre 1911, da Calvino riportato nella prima delle due epistoledialogo, viene implicitamente dichiarato all'origine della prima delle
Arie – «Ho sognato un teatro, un altro teatro, esiste un altro teatro
oltre il mio teatro», ecc.)21.
Nelle parole del Tu (Berio) ricostruite dall'Io-mittente (Calvino),
il punto di vista da privilegiare resta quello portato «dall'interno del
palcoscenico, mostrando il rovescio d'una rappresentazione d'opera
21. Per quanto non espressamente praticata, fin dalla prima ideazione è decisiva
l'impronta del Kafka più claustrofobico e concentrazionario, e al limite benthamiano
(alla dominante di un Panopticon acustico si richiama anche Szendy, nella succitata
interpretazione): trasmessa al nostro «duo» dal Barthes di Ascolto, in un passo dei
Diari (del 5 novembre 1911) che Berio opportunamente riporterà in una
testimonianza dell'84 (dal programma di sala della prima salisburghese di Un re in
ascolto), ripubblicata poi nel programma di sala per l'allestimento dell'86 alla Scala
di Milano (La nascita di un re, ora in Scritti sulla musica, op. cit., pp.270-272): «Sto
seduto in camera mia, nel quartier generale del chiasso di tutto l'appartamento: odo
sbattere tutte le porte...»
131
Tommaso Pomilio
[…] un'agitazione reale che fa da contrappunto alla tensione
drammatica irreale». Ancor più, le battute reinventate nella
corrispondenza rendono conto della dialettica fra i due autori circa la
nozione di silenzio (un silenzio interno all'ascolto, e viceversa);
«d'improvviso, senza preludio […] una voce fortissima, come
un'esplosione», per Berio, «un po' come se dentro la musica ci fosse il
silenzio»: mentre Calvino pensa a «un effetto-silenzio» in quanto
«attesa del suono», a «un fruscio che occupa tutto lo spazio sonoro», o
ancora (sulla traccia di Blanchot citato da Barthes) al canto delle
sirene come «canto dell'abisso: che, inteso una volta, apriva in ogni
parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro». Si tratta qui, a
ben vedere, di due diversi modi di ricezione delle note barthesiane
sull'ascolto; l'uno che punta sull'attesa, sul vuoto (è di Calvino,
naturalmente), l'altro (quello di Berio) che ruota su un concetto totale
di Teatro in quanto «luogo dell'ascolto», tale da poter «rappresentare
attivamente l'atto d'ascoltare, contenere l'ascolto in tutte le sue forme».
Da notare, infine, che la corrispondenza, o almeno la prima delle
due lettere pubblicate da Restagno (quella del 10 dicembre 1981, da
cui citavamo quest’ultimo estratto), è del tutto contemporanea
all'acquisizione del secondo (e definitivo) 'detonatore' (il primo essend
il saggio di Barthes, naturalmente), che dové scoccare in Berio per
l'ideazione del testo e dell' ‘azione’: mi riferisco alla messa in onda
televisiva della Tempesta nella regia di Strehler, che avvenne appunto
in quel dicembre '81. E sarà da sottolineare che, a quel punto, le
cinque arie poi assegnate a Prospero, erano già state scritte, in tutto o
in parte, e sicuramente lontane da qualsiasi suggestione
shakespeariana: così almeno testimoniano le battute dell'Io-Calvino, in
quella lettera. Una materia insomma concepita prima di Prospero e
senza Prospero, e che (al pari del medesimo pseudo-epistolario) verrà
subito ‘cannibalizzata’ nel nuovo concetto che, da quel dicembre, per
Un re in ascolto, prenderà corpo nell'ispirazione di Berio. Dati, tutti,
che convergono sul conformarsi di un'azione testuale che pone al suo
proprio centro, non tanto un soggetto, ma un processo, in linea di
132
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
principio interminabile: o, a dirla con le parole del compositore, di
«un lavoro musicale che racconta il suo diventare opera22».
Com'è noto (e come ho appena ricordato), stralci dai punti di
maggior rilievo della corrispondenza vennero poi ‘importati’ da Berio
(ulteriore ‘backstage’, stavolta puramente testuale) nel ‘libretto’
dell'84: ci riferiamo al duetto II, fra il regista e l'impresario/Prospero, e
poi (ulteriormente decostruiti in parodia) al duetto III, fra il mimo e
Venerdì (che, al pari di Duo, è di fatto un a-solo, e lo straniato duetto
ha luogo sinesteticamente fra la parte canora – assegnata al
Venerdì/Calibano, shakespearedefoesco – e la parte mimica). Il duetto
II ruota intorno alla vorticosa dialettica di agitazione e silenzio/attesa
(dove la musica «dentro alla musica» della lettera diviene «un silenzio
che vuol farsi udire»), ovvero di udire e ascoltare, riportandosi ai passi
in cui nella corrispondenza Calvino riassumeva il soggetto e libretto
del '79 in cui «lo spettacolo è la storia di un re che tende l'orecchio»:
unica traccia, e quanto indiretta, del progetto iniziale. C'è da dire che
le persone dell'Io e del Tu (Calvino vs. Berio) della corrispondenza,
qui si confondono: o meglio, in Prospero si riassumono entrambe le
posizioni espresse nel bizzarro testo epistolare a due voci...
*
Soprattutto nella fabbrica di Un re in ascolto si rivela, come in
una sorta di lucido acting out, il disaccordo necessario, su cui si fonda
il patto stesso di collaborazione fra lo scrittore e il compositore. Fra
musica e scrittura. Un disaccordo fecondo, come testimonia, non
ultimo, il concetto (tratto da un passaggio delle «arie di Prospero» o
già di Duo) su cui ruoteranno le lezioni da Berio tenute a Harvard fra
il '93 e il '94: Un ricordo al futuro, e che verrà apposto come titolo
22. In Dialogo fra te e me, cit. (p.276). Nell'intervista resa ad Angelo FOLETTO,
Storia di un'opera senza una storia, in «La Repubblica», 14 gennaio 1986 Berio –
parlando del lavoro come di un «processo musicale e teatrale», – lo definirà
«un'opera sull'impossibilità di scrivere un'opera».
133
Tommaso Pomilio
nella pubblicazione (postuma) in volume23; il titolo cita invero uno dei
versi che Calvino distillò per le cosiddette «arie di Prospero», e
precisamente quello con cui Berio avrebbe scelto di chiudere l'azione
musicale, e il suo testo: e vale a indicare «una costruttiva revisione o,
addirittura […] una sospensione del nostro rapporto col passato e […]
una sua riscoperta sulle tracce dei percorsi futuri», nella convinzione
che un testo, per individuo irripetibile che sia, di per sé «implica una
pluralità di testi». Quella pluralità in nome della quale si gioca e si
fonda lo stesso produttivo disaccordo fra i due autori; e che nel modo
più tormentato trova una sua forma irripetibile nell'azione (non opera,
nella visione beriana) – risultato di una tensione forse inconciliabile
ma propulsiva fra le due convergenti/divergenti visioni, nel segno
denso e ossimorico d'un indistricabile «ricordo al futuro».
Ma è possibile, anche, che il musicista in realtà non facesse, per via di
provocazioni, che incitare lo scrittore a ‘liberare’, attualizzare, nel
modo più letterale e concreto, il groviglio complesso del suo concetto
di testo – e non semplicemente definirlo nel quadro di una letteratura
eminentemente concettuale, capace di designare (illuminare) il
labirinto necessario, e però sempre assai più per via discorsiva,
illuministicamente persino, che non lungo tragitti occulti e più interni
al profondo del linguaggio. Non è il caso qui di sfidare a nostra volta
la voragine che sembra aprirsi sull'intera testualità calviniana: quella
scissione saggistica che la determina – la inabissante vertigine di vis
riflessiva e autoriflessività che attrae i suoi lettori nel momento stesso
in cui induce lui, Calvino, ad aborrire il salto nel gorgo necessario, in
cui, alter il primo Sanguineti, Berio a fondo s'era addentrato. Un
«maelstrom» mulinante nel mare concreto e oggettivo della scrittura
(concetto, per contro, a Calvino assai caro, nella mediazione di
Barthes e in genere della cultura francese) – e non necessariamente il
gorgo di un pensiero della scrittura portato, insieme, dentro e fuori la
scrittura medesima, che esso (pensiero) è in atto di immaginare e
conformare. È questo il lato più affascinante e forse inestricabile della
23. L. BERIO, Un ricordo al futuro. Lezioni americane, a c. di T. PECKER BERIO,
Torino, Einaudi 2006.
134
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
questione-Calvino; ché nelle sue pratiche e macchine testuali, pur
intellettualmente vorticose e labirintiche, lo scrittore sembra arrestarsi
al livello dell'enunciazione o ancor più della definizione: lasciando
emergere la vertigine dei possibili, da cui il suo dire è assediato (la
quale coincide, anche, con l'impossibile d'un assoluto-testuale, col
mare-magma dell'écriture appunto, o magari del nulla), ma ritraendosi
un passo di qua dal limite: contemplandone il ribollìo calamitante ma
senza cedervi, e ancor meno sognando di addentrarvisi. (Che è poi la
doppia, discordante tensione su cui si regge il saggio capitale – siamo
al '59, all'altezza della prima collaborazione con Berio – su Il mare
dell'oggettività, che citavo; un saggio scritto in gran parte ad argine di
quelle tensioni che, fra emergenza dell'Es e istanze de opera aperta,
già in quegli anni lievitavano tra i futuri protagonisti della
neoavanguardia). Questo mare – o per altri versi, mobile labirinto –
Calvino vorrà rispecchiare ma appunto descrittivamente, restando di
qua dal suo fluido (ritrattosi dal tuffo, non troppo diversamente dal
primo Montale), alla larga dalle tensioni materico-linguistiche forse
necessarie per attraversarlo o appunto sfidarlo. Non diversa, anche se
condotta su altro piano, e altra tensione (politico-sociale, per
riassumere), sarà per lo scrittore l'esperienza del labirinto. E soltanto
l'accesso alla dimensione combinatoria (portato della sua esperienza
francese) saprà indicargli una via diversamente agibile, lucidamente in
abbandono, per il dominio del labirinto, e delle sue ipnotiche
geometrie.
Il punto-limite del concetto letterario che scaturisce da tale
movimento, risiede forse in quel testo saggistico, insieme esemplare e
dedaleo, così fortemente autoriflessivo, sui Livelli della realtà in
letteratura – ultimo fra quelli inclusi in Una pietra sopra – che Berio
echeggiava a Sanremo nella memoria su cui ci dilungavamo. La data,
il 1978, non è priva di significato: dopo la proposta del soggetto,
siamo nel punto dell'ideazione e quindi della stesura dell'azione
musicale, anzi delle due ‘azioni’ (è il momento, ricordiamolo, anche
de La vera storia): e siamo, poi, all'indomani della pubblicazione,
sull'Enciclopedia Einaudi di quelle pagine barthesiane, che subito
135
Tommaso Pomilio
colpirono lo scrittore – al punto che egli si affrettò a proporle a Berio
come lo spunto di un lavoro possibile. Proprio su una suggestione
tratta dalla voce barthesiana (il rimando alle sirene omeriche), e nel
segno dell'ascolto, andrà a chiudersi l'intervento del '78; perché qui
ciascuno dei concentrici, labirintici «livelli di realtà» implicati
dall'atto del narrare, sembra dover precipitare nel ricettacolo
dell'ascolto: non solo il potere magico-evocativo del narrare e la sua
domanda di ascolto (su cui ruotavano, di fatto, due interventi capitali e
pur fra loro distantissimi dei medi anni '60, la prefazione al Sentiero
dei nidi di ragno e il saggio Cibernetica e fantasmi)24, quel dire
intrecciato o sia inabissato fittamente nel dire (non così diverso, forse,
dalla «musica dentro la musica» del Tu-Berio della prima lettera
1981); quell'enunciazione insomma, composta di una soggettività
plurima e al limite autoazzerantesi, che in letteratura è per Calvino
condizione stessa di realtà (io scrivo / io scrivo che Omero racconta /
Omero racconta che Ulisse / Ulisse dice: / io ho ascoltato il canto
delle Sirene): ovvero di una realtà che al suo proprio limite scompare,
lasciando che lo spazio letterario mallarmeanamente «s'affacci sul
nulla»; non solo, dunque, questo potere che, come l'ago d'una bussola,
punta al suo proprio svanimento: ma in definitiva, la liturgia ultima e
germinale d'un ascolto (già kafkiano, certo) del silenzio.
Ovvero, l'evocazione della possibilità che la pura lirica, sia essa
o poesia, conferisce al raccontare: quella di spingersi «ai confini
dell'ineffabile».
Il saggio sui livelli della realtà si chiude allora con un
canto/silenzio come pura «esperienza lirica, musicale» posta «al di là
dell'espressione»: il luogo «da cui Ulisse, dopo averne sperimentato
l'ineffabilità, si ritrae, ripiegando dal canto al racconto sul canto». Ed è
esattamente lo stesso luogo (qui a parlare è di nuovo, in quella di
Barthes, la voce di Blanchot) in cui il canto diventa un abisso
24. Quest'ultimo, in I. CALVINO Una pietra sopra, op. cit., pp. 201-221. Per la
prefazione (datata giugno 1964), v. il succitato vol.I di Romanzi e racconti, pp.
1185-1204.
136
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
(«aprendo in ogni parola un abisso e invitando con forza a sparirvi
dentro»): che è quanto Calvino ricorda a Berio, in citazione diretta,
chiudendo la sua programmatica «corrispondenza» intorno al Re in
ascolto. Verosimilmente, è sul punto di questa ritrazione, di questo
ripiegarsi, che il compositore implicitamente pungola lo scrittore:
tornare a un'espressione assoluta, posta al di là dell'espressione ma
carica di ogni espressione; dal racconto sul canto, tornare all'abisso
d'un canto capace di azzerare il racconto, e, assieme a esso, i vari
«livelli» delle sue mediazioni verbali.
Il fatto è che, nella sua stessa paradossale astrattezza ed esprit de
géométrie, nella sua impagabile ritrosìa nei confronti della dura
oggettività, possiamo intendere Calvino come autore acutamente
sensoriale, pur se ‘cerebralmente’ sensoriale; sì che al limite estremo
della sua esistenza, deciderà di eleggersi apertamente quale scrittore
dei cinque sensi, nel progetto destinato a rimanere incompiuto. Ma
resta singolare che il suo percorso così acutamente visivo (la vista
resta, per lui, fra i sensi, quello privilegiato) si suggelli, di fatto, sulla
dominante dell'ascolto; mentre il racconto sulla vista, per quel volume
sui cinque sensi, dopo una lunga progettazione rimarrà irrealizzato. Il
fatto è che fin dall'esordio fulminante della sua vasta, polifonica
narrativa, la voce e dunque l'udito (che – a dirla con Barthes – non è
l'ascolto, ma di certo ne è la condizione) rivela la propria forza
germinale, capace di creazione e trasformazione; ci riferiamo al
diffondersi del canto/grido di Pin, generante una folla di voci alle
prime righe del Sentiero, e in grado di articolarsi, più avanti, in una
vera e propria, violentissima canzone, dal potere demonicamente
dinamizzante nei confonti dello stesso plot (Chi bussa alla mia porta,
chi bussa al mio porton, cap.VII); e la pratica del suono sul finire
degli anni '50 si approfondirà nella scrittura di varii testi per canzoni
nell'ambito dell'esperienza ben engagée di Cantacronache, specie con
Sergio Liberovici (ideatore di quel progetto)25, oltre che nella stesura
25. Sul tema è possibile riferirsi a Emilio JONA – Michele L. STRANIERO (a c. di),
Cantacronache: un'avventura politico-musicale degli anni Cinquanta, Torino, DDT
137
Tommaso Pomilio
di libretti, ancora per Sergio Liberovici (per La panchina, già nel
'56)26 e poi per Berio stesso (Allez-hop, del '59), ruotando perlopiù
sulla materia di Marcovaldo.
La pratica «librettistica», in quiescenza per circa tre lustri,
riprenderà più strutturalmente nella nuova collaborazione con Berio
per La vera storia (ma per il compositore, già nel '68, Calvino era
tornato a scrivere alcuni brevi testi, per Prière, dedicata a Stockhausen
per i suoi quarant'anni). Nel frattempo, però, almeno sulla carta il
suono continuava a vibrare (e in modo assai più profondo di quanto
non era stato fra libretti e canzoni); mi riferisco soprattutto alla
straordinaria cosmicomica del '68 Cielo di pietra, uscita nel volume
La memoria del mondo. Il racconto, giusto nel ‘nostro’, topico 1980,
venne ripubblicato in rivista27, col titolo L'altra Euridice e alcuni
stringenti ritocchi ma soprattutto con la sostituzione di Qfwfq (l'eroe
delle Cosmicomiche) col dio Plutone (oltre all'esplicitazione di Rdix,
compagna in fuga dal lui e dal suo regno, come Euridice, e alla
«messa in chiaro» circa una presenza dello stesso Orfeo). Si tratta di
una terrificante quanto atterrita riflessione del potere del puro suono,
nel conflitto fra «il canto» sovraterreno «prigioniero del non-canto che
massacra tutti i canti» e la «musica silenziosa degli elementi»,
risonanti sotto il manto terrestre. Che sono, fra le altre cose, due fra le
possibili accezioni di quella misteriosa musica occultata dentro la
musica, a cui (assegnando la battuta a Berio) Calvino alludeva nella
prima lettera dell'81; e che, mutata ulteriormente di segno e direzione,
troverà posto nell'Aria IV del testo finale: «Dietro i suoni. I suoni
hanno un rovescio» (ma anche, poi, nell'Aria II, dove si parla, come di
entità nuove, di suoni che contengono in sé «l’ascolto dei suoni»).
& Scriptorium 1995 (la prima ed. è del '66); ma anche al filmato a c. di M. BENTINI
et al., Cantacronache 1958-1962: politica e protesta in musica (2011, in versione
dvd, promosso dall'Università degli studi di Bologna e dall'Istituto storico Parri
Emilia-Romagna).
26. Su questo testo, si è soffermata Maria CORTI in un saggio (Un modello per tre
testi. Le tre «Panchine» di Calvino) incluso Il viaggio testuale, Torino, Einaudi
1978, pp.201-220.
27. In «Gran Bazaar», settembre-ottobre 1980.
138
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
*
Abbiamo appena riconosciuto, come il momento più
significativo in questa messa in rilievo dell'udito, la chiusa del saggio
1978 sui Livelli della realtà in letteratura, con l'irruzione esplicita
seppur indiretta del tema dell'ascolto; ma ormai decisivo è il livello di
interpolazione con la voce di Barthes, e con la sonorità di Berio.
Sarebbe eccedere, ormai, i limiti del nostro intervento, provare a
procedere a una verifica inevitabilmente incerta di quali livelli del
denso saggio barthesiano28 (di cui Calvino subito rileva «la bellezza e
l'importanza») siano sfiorati dalle dita lievi e sensibili dello scrittore
nel libretto '79 e nel racconto '84, e quali invece finiranno per
intrecciarsi con la materia di Prospero, in Duo e nel testo dell'azione
realizzata: se si l'ascolto sia lo spazio d'una ipersorveglianza legata a
una salvaguardia del proprio sistema territoriale, come «un imbuto
orientato dall'esterno verso l'interno» (così sicuramente nel '79 e nel
racconto – orientato verso un interno claustrofobico e sempre più
infero); o se, piuttosto, sia atto di creazione, legato alla «riproduzione
intenzionale di un ritmo» (ciò che ci condurrebbe piuttosto dalla parte
della composizione, presumibilmente); o come decifrazione, invece,
ricerca del «di sotto» (o del di dentro) del senso (o del testo – musica
o letteratura che sia); o se si tratti, infine, dell'ascolto psicanalitico, lì
dove «l'ascolto parla» o (diremmo allora con Calvino-Berio) i suoni
sono «diversi da com'erano partiti», sono «i suoni con in più l'ascolto
dei suoni»: implicando, questo tipo di ascolto, il dispiegarsi di
un'intersoggettività complessa – quella giocata fra l'Io e il Tu delle
lettere (o della quinta aria di Prospero), o fra Prospero e il Regista (e
Venerdì e il Mimo) dei duetti che citavamo, o magari, frai i
concentrici enunciatori del saggio sui Livelli della realtà... – e
comunque implicanto l'aprirsi della scena (iperteatralizzata)
dell'Inconscio, simile a quella quella del Prospero bericalviniano (più
Berio che Calvino, certo...) Andrebbero almeno stralciati, però, due
passaggi dalla pagina conclusiva della voce barthesiana, e che ci
28. R. BARTHES – R. HAVAS, Ascolto, op.cit.
139
Tommaso Pomilio
riportano dritti nel cuore magmatico-disperso di quell'intrico di testi e
sottotesti e ritorni e cancellature che riconosciamo ormai nel nome di
Un re in ascolto: dove Barthes sottolinea come «l'ascolto si apra a
tutte le forme di polisemia, di sovradeterminazione, di
sovrapposizione, disgregando la Legge che prescrive l'ascolto diretto,
univoco […] in tal modo […] tornando alla concezione di un ascolto
panico, nel senso greco, dionisiaco»; e dove egli ricorda che «ciò che
viene ascoltato […] non è la presenza di un significato, oggetto di
riconoscimento o di decifrazione, ma la dispersione stessa, il gioco di
specchi dei significanti, senza sosta riproposti da un ascolto che ne
produce continuamente di nuovi, senza mai fissare il senso». Ma,
finalmente: l'ascolto può presentarsi, in Barthes, come «un piccolo
teatro in cui si affrontano due moderne deità: il potere e il desiderio»
(entrambe attive, nel testo finale di Berio-Calvino, nel nome del re del
teatro)...
Resta del tutto pacifico che non vi sia nessun automatismo
possibile, nello scivolare libero del senso (o dei sensi) dalla
sublimissima ‘sonata’ saggistica di Barthes al laboratorio denso e
conflittuale del nostro impagabile e in parte improbabile ‘duo’; per cui
(e tanto più per Berio) la ‘voce’ barthesiana resta unicamente un
‘detonatore’. E però forse a un altro passaggio barthesiano dovremmo,
ancora, riferirci: lì, dove, nel segno della voce che canta, si fissa
invece la fascinazione ipnotica e corporea legata all'atto dell'udire: «la
voce non è soffio, bensì la materialità del corpo che sgorga dalla gola,
là dove si forma il metallo fonico». È questo insieme il punto da cui si
diparte la narrativa calviniana (la voce-canto di Pin, di cui dicevo, e
poi quella sua canzone demoniaca, Chi bussa alla mia porta, che avrà
una forza tale da alimentare l'incendio del casale, chiave di volta del
romanzo, e determinerà lo scioglimento della picaresca brigata
partigiana), e da cui pure atterrita sembra ritrarsi, non diversamente
dallo Qfwfq-Plutone del Cielo di pietra; ed è qui che invece irrompe,
con tutta la sua sapienza selvaggia e iper-stratificata, il metallo fonico
e orfico di Berio, quasi a ordire, almeno per una volta, attorno alla
rapinosa vis concettualizzante dell'amico scrittore, la trappola
140
Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
materica del corpo, non meno che il suo proprio, sonoro «gioco di
specchi29».
*
Ma proprio questa traccia della voce ci offre un elemento
ulteriore e ultimo (per questa occasione), per seguire le labirintiche
onde del pensiero testuale calviniano. Appunto «inseguendo una
voce», il re del primo libretto (e quindi del racconto) finirà per
depotenziarsi, dimettendo l'ascolto-attenzione (l'ascolto-potere) per
abbandonarsi invece a un ascolto-desiderio, e fatalmente dispersione.
È il punto in cui il dispotico e paranoico re di Calvino si muterà
nell'introverso, elegiaco Prospero in dialogo con se stesso, in ascolto
del suo proprio ascolto, in cerca di «una voce nascosta fra le voci» e
del «rovescio dei suoni nell'ombra», il quale rimarrà il soggetto delle
cinque Arie sopravvissute dal Duo fino all'84: un demiurgo morente,
che nutre ormai un'idea di ascolto come forma di (finale) abbandono,
nella cassa di risonanza di un «vuoto da cui vengono i suoni», entro lo
spazio di un teatro dove «un io che non conosco canta / la musica che
non ricordo». Eppure, nel primo e irrealizzato libretto (ma racconto
infine realizzato), la voce inseguita dal re ha un'identità precisa: si
tratta di un personaggio femminile in maschera, che intona manierati e
insieme criptici endecasillabi, brandelli di canzone i quali ci suonano
intrinsecamente librettistici: «Una luna che splende ed una luna... […]
...Bocca che morde e bocca che sorride...». Sembra risuonare, qui,
un'eco del sonetto che Fenton intona nel III atto del Falstaff verdiboitiano, trovando, al suo culmine, una corrispondenza nella voce di
Nannetta: e non tanto, non solo, per la rispondenza su cui il sonetto
s'impernia, e che è, mutata radicalmente di segno (in senso non più
comico, ma quasi diremmo preraffaellita), citazione diretta
boccacciana – «bocca baciata non perde ventura, anzi rinnova come fa
29. «L’ascolto come sintomo, come selezione e come collocazione di suoni nello
spazio, nel tempo e nella nostra coscienza, implica sempre e comunque un universo
di codici diversi che interagiscono come in un gioco di specchi». L. BERIO, La
nascita di un re, op.cit, p. 270.
141
Tommaso Pomilio
la luna» (Decameron II, 7); quanto per la intera situazione d'un
inseguimento di due voci, espressa nella prima quartina del sonetto –
«Dal labbro il canto estasiato vola / Pe' silenzi notturni e va lontano /
E alfin ritrova un altro labbro umano / Che gli risponde colla sua
parola», – che appare qui parafrasata: ulteriore «situazione»
melodrammatica che Calvino riformula, parallelamente al lavoro che
andava svolgendo per il libretto de La vera storia30. Sul sonetto
boitiano gioca peraltro, triangolata su Boccaccio, e riverberata quindi
(per quel che ci riguarda) sul Calvino di Un re in ascolto primo e
ultimo e hors-texte (libretto rimosso e racconto), una duplice memoria
shakespeariana. Memoria non solo della materia di Falstaff – che, per
il nostro Re, assai più che quella delle Allegre comari di Windsor, sarà
quella dell'Enrico IV, – possibile architesto, almeno nella situazione
base (col nodo di usurpazioni uccisioni congiure, che ruota attorno
alla figura del sovrano), del primo libretto e del racconto. Ma
memoria, anche, del corpus dei sonetti shakespeariani, che – come
dimostrò Wolfgang Osthoff giusto nel '77 in un saggio apparso nella
collettanea per Mila Il melodramma italiano dell'Ottocento, il quale
non dové certo essere ignoto al nostro duo31, – incide sul sonetto
boitiano di Fenton per almeno due esemplari, l'8 (soprattutto) e il 128
(forse apocrifo), entrambi ad argomento «musicale», entrambi centrati
sul tema di una musica risonante dentro la musica (dove il contenente
è, alla lettera, epiteto del soggetto adorato): nel primo caso una
«musica all'ascolto» (di altra, ed effettiva musica), nel secondo caso
una «musica» che «trae musica» da uno strumento, il virginale. È qui
forse che trova uno dei suoi punti d'origine, tanto indiretto quanto
vertiginoso, quel misterioso tema della «musica dentro la musica», su
cui verteva il dibattito Calvino-Berio, e che si riverbererà nelle ‘arie’
30. Abbiamo riferito, in precedente nota (e meglio di noi, Renata Scognamiglio),
come Calvino avesse annunciato al compositore che quello che avrebbe svolto nella
corrisponenza «sceneggiata» dell’81-82 sarebbe stato un dialogo un Boito e un
Verdi...
31. Wolfgang OSTHOFF, Il sonetto nel Falstaff di Verdi, in G. PESTELLI (a c. di), Il
melodramma italiano dell'Ottocento: studi e ricerche per Massimo Mila, Torino,
Einaudi 1977, pp. 157-183.
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Scrittura dell'ascolto: Calvino in Berio
poi incluse nell' ‘opera’ finita32. Il sogno della «duplice azione», che
Boito attribuiva a Shakespeare e che si avvera (nel suo sonetto dal
Falstaff) nella virtù propria del canto di «tender sempre ad unir chi lo
disuna», ovvero (come notava Osthoff) di «unificare la duplicità che
genera l’accordo e al tempo stesso lo scinde», si avvera e moltiplica
nel sogno di Prospero sognato da Berio e Calvino triangolandolo e
rescindendolo ulteriormente su Gotter e Auden, e poi sullo
Shakespeare sonettistico ancora; che è, tradotto nell'indistricabilità
d'un concetto portato oltre la letteratura e anche oltre la musica, la
fusione di ogni «livello di realtà» reso possibile dall'arte, nel solo,
oniroide paradosso d'un «ricordo al futuro». Ossia, – dalla parte di
Calvino nei Livelli della realtà, – dell'ineffabile puro, mallarmeano, o
di un frastornante tacere kafkiano di sirene: d'un luogo insomma della
«pura esperienza lirica, musicale» finalmente posta «al di là
dell'espressione». Musica-dentro-la-musica, suo abisso e silenzio.
32. Peter Szendy, nell'acuto saggio che citavamo, dà una suggestiva interpretazione
del concetto di questa musica dentro la musica: «Il la e il si bemolle rappresentano
[…] una specie di perno intorno al quale la melodia sembra avvitarsi, proprio come
il testo si arrotola nelle sue iterazioni […] con queste due note, tutto si svolge come
se la melodia stessa aderisse, nella scrittura musicale, alla forma di una conca o di
un labirinto a spirale. Come se essa tentasse di tracciare, nello spazio sonoro, il
disegno di un orecchio. Un orecchio all'interno stesso della musica. Un orecchio
ordito di suoni, a partire dal quale è possibile ascoltare la musica nella musica».
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