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La socializzazione fascista e il comunismo (1)
La socializzazione fascista e il comunismo (1)
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(socializzazione_fascista_comunismo2.htm)
"Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in
voi, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica,
miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista
di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini ." (Benito Mussolini,
Discorso a Dalmine, 20 marzo 1919).
"La legge del Duce sulla socializzazione incontrerà l'approvazione di tutti coloro
che, al di sopra di interessi privatistici, vedono nel programma sociale del fascismo
non solo la salvaguardia per una ordinata convivenza fra capitale e lavoro, ma
anche la possibilità di affermare la personalità e l'iniziativa dell'individuo." (Vittorio
Valletta, direttore generale della FIAT, 1944).
"La Cgil è un sindacato di natura programmatica che considera la propria unità e la
democrazia suoi caratteri fondanti. La stessa autonomia della Cgil, anch’essa
valore primario, trova il suo fondamento nella capacità di elaborazione
programmatica in primo luogo nei confronti dei datori di lavoro, delle istituzioni e
dei partiti e nel carattere unitario e democratico delle sue regole di vita interna."
(Statuto della CGIL).
1. Materialismo e spiritualismo
Realizzare le istanze riformiste
Alla fine della Prima Guerra Mondiale lo scenario sociale si apre sulla rivoluzione
proletaria. Il percorso è conosciuto: l'Ottobre sovietico, il Biennio Rosso in Italia e
Germania, la confusione creata dai partiti che a parole si proclamano rivoluzionari mentre
nei fatti alimentano la reazione parlamentaristica, l'assoluta inadeguatezza dei partiti che
pretendono di guidare la classe operaia, il rifluire dello slancio generoso ma male
indirizzato di milioni di uomini in tutta Europa e in altre parti del mondo. Una sconfitta
storica che sta lasciando il segno da un secolo.
Comunemente si spiega tale sconfitta con la nascita del fascismo, quello in camicia nera,
attribuendo a questa sovrastruttura una potenza in grado di eliminare la lotta di classe, o
perlomeno di annichilirla, prima con il terrore, poi con la forza dello stato, rivalutato e
attrezzato allo scopo. Lo schema soffre di troppe semplificazioni, la prima delle quali è una
inversione fra causa ed effetto. Prima della sconfitta proletaria il fascismo non era che una
delle tante correnti del sindacalismo rivoluzionaro interventista, non ne è stato la causa,
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semmai, appunto, ne è stato l'effetto; ed è un fenomeno ben più complesso di come lo
presentano le sue interpretazioni. Non sono Mussolini, la camicia nera, lo squadrismo o la
negata democrazia che lo caratterizzano. Anche. Ma esso è il prodotto di un'epoca
rivoluzionaria cui è venuta a mancare la rivoluzione: una controrivoluzione costruita con i
cascami della rivoluzione.
È in quest'ottica che studiamo lo scenario che precede la grande sconfitta. Nel migliore dei
casi, come a nobilitare il proprio retroterra storico, protagonisti e osservatori citano
Proudhon, Bernstein, Bergson, Comte, Sorel e altri. Non era però il "pensiero" dei
grand'uomini a influenzare il movimento di milioni di persone. In realtà era il movimento di
milioni di persone che cercava una teoria guida in grado di formare l'ossatura di un partito
guida. Bergson aveva sviluppato una teoria della conoscenza basata sull'unione di istinto e
intelligenza: l'intelligenza sola "sa" che cosa cercare ma è l'istinto che può trovare; separati
non portano a niente perché l'istinto non è capace di cercare e l'intelligenza non è capace
di trovare. L'uomo è diverso da qualsiasi altro essere della natura proprio perché fa valere
la propria volontà, la quale non è un semplice derivato di determinazioni che la precedono
ma un vero e proprio atto creativo. Egli è l'unione fra istinto e intelligenza. Le roboanti
dichiarazioni del fascismo, questa specie di rivoluzione reazionaria, non sono comunque il
prodotto dello spiritualismo bergsoniano, è piuttosto quest'ultimo che offre copertura
ideologica, con linguaggio depurato, all'insieme degli eventi in corso. A riprova del fatto che
non è la filosofia o il "pensiero" di qualcuno a influenzare gli avvenimenti, è facile
constatare che la controrivoluzione non parla la lingua dei suoi teorici ma quella di una
piccola borghesia decadente, quella dei D'Annunzio, dei Marinetti, dei Mussolini e degli
arditi. Bergson scrive in una lingua essenziale (gli daranno il Nobel per la letteratura); i suoi
pretesi discepoli infarciscono il linguaggio di orpelli indigeribili. Quando Mussolini cercherà
di darsi degli ascendenti nobili, dirà di aver contrabbandato un po' di Bergson nel
movimento socialista.
Una ben differente teoria rivoluzionaria della conoscenza in realtà non mancava, e aveva,
anzi, costituito per certi versi la base di un gigantesco impianto sociale che andava dalle
cooperative della socialdemocrazia tedesca all'apparato statale soviettista russo. Un
fenomeno vastissimo da cui si erano diramate correnti che rappresentavano canali di
congiunzione fra il vecchio modo di produzione ferito a morte dalla rivoluzione in Russia e
quello nuovo che spingeva per nascere. L'osmosi fra il vecchio e il nuovo era inevitabile,
ma se si accetta questa lettura risulta anche chiaro che le sorti della rivoluzione erano
legate alla prevalente direzione che avrebbero preso i flussi dell'osmosi.
Negli anni '20 non fu il flusso che si rifaceva a Marx, Engels e al partito originario della
rivoluzione a prevalere; o almeno prevalse all'inizio una sua versione riformistica, di fronte
alla quale non s'impose neppure una chiara impostazione della borghesia, incapace di
ritornare a una nuova epoca dell'illuminismo. Per sopravvivere a sé stesso, il modo di
produzione capitalistico si strutturò teoreticamente in funzione di estrema autodifesa di
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fronte alle forze che lo minacciavano. Storicamente disarmato in quanto a teoria, dunque,
ne commissionò una alla classe intermedia la quale, servilmente, la scodellò senza troppa
fatica: essendo una classe di mezzo, vaso di coccio fra vasi di ferro, raccattò frammenti di
teorie non sue che si trovavano sparsi sulla scena e ne ricavò un mostruoso ibrido, a sua
volta suddiviso in correnti: una teoria di mezzo. Milioni di uomini sentivano per istinto che il
mondo stava andando verso il socialismo, ma non possedevano l'intelligenza di una teoria
che indicasse loro come fare per distinguere, fra tutto quel socialismo, l'originale, quello
"vero", dal surrogato.
Lo storico partito cui apparteniamo ha risolto una volta per sempre i problemi legati
all'analisi delle molteplici teorie piccolo-borghesi. Che, tutte, al di là dei nomi di persona, si
basano su categorie invarianti: la comunità locale democraticamente produttiva, lo stato al
servizio dei cittadini (o eliminato a seconda dei casi), l'industria intesa come unità organica
che abolisce il dualismo padrone-operaio, la forma sociale esteriore rubata al comunismo e
sterilizzata in modo da risultare compatibile con il capitalismo, ecc.
E allo stesso partito dobbiamo un'altra potente definizione: il fascismo è il realizzatore
dialettico delle istanze riformiste. Perfetto: per la realizzazione delle riforme occorre
l'armamentario adatto, cioè uno stato che non sia rappresentato da un parlamento
occupato a gingillarsi con chiacchiere su sé stesso e un esecutivo efficiente, in grado di
programmare difficili scelte economiche. E programmare vuol dire avere il controllo della
forza lavoro; obiettivo raggiungibile, più che con l'utilizzo degli apparati polizieschi utili
soprattutto nella fase dell'affermazione fascista, per mezzo del sindacato, l'unico
interlocutore naturale per soddisfare le rivendicazioni operaie. Mussolini, a Dalmine nel
marzo del 1919, durante l'occupazione di una fabbrica metalmeccanica (la Franchi
Gregorini) durante la quale non era stato interrotto il ciclo produttivo, inneggia al lavoro
come un valore universale anticipando il socialismo torinese che, con Gramsci, esalterà
proprio quella forma di occupazione "positiva" della fabbrica.
Esaltazione interclassista del lavoro
In realtà, come vedremo, la guerra risveglia tutte le classi mettendole di fronte ai loro
compiti storici, e tutte le classi rispondono gettando sulla scena della storia quello che
hanno e che possono avere. Non è un caso che, dovendo la propria esistenza al lavoro,
cioè alla forza lavoro venduta a prezzo libero sul mercato, tutte le classi convergono verso
l'esaltazione del lavoro, quasi un'idolatria. In Russia lo stakanovismo ne è la (tarda)
manifestazione più evidente, ma dal 1918, in tutto il mondo, compare un'ideologia del
lavoro coerente e compatta nelle sue ramificazioni che raggiungono il cuore della politica
tradizionale. In Italia, prima ancora di essere partito, il movimento fascista acquista la
consapevolezza che per vincere la battaglia che si sta giocando nel mondo occorre saldare
i fattori della produzione: capitale e lavoro. Non è un caso che nell'immediato dopoguerra,
mentre vengono colpite le sedi delle tradizionali organizzazioni operaie, si profili il futuro
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sindacale corporativo del fascismo. E non è un caso che serpeggi nel movimento fascista
un odio per quella borghesia che non partecipa direttamente alla produzione, odio cui si dà
dignità teorica in quanto il capitalista assenteista si autoesclude dal matrimonio fra capitale
e lavoro. Diventa in poche parole un parassita. Nel programma fascista questo tipo di
borghese dev'essere eliminato dalla scena, espropriato.
L'esaltazione del lavoro a classi unite non è tuttavia invenzione fascista. La piccola
borghesia dannunziana aveva già fatto propria la medesima esigenza. In modo meno
teatrale e più consono alla tragedia che si sarebbe abbattuta sull'Europa, in Germania
industriali come Walther Rathenau teorizzavano l'avvento di una società integrata nella
quale i capitalisti si sarebbero convinti che la società non era lì per dar loro la possibilità di
intascare cospicui dividendi ma per riempire di merci i battelli che transitano sul Reno.
Rathenau ispirò il film Metropolis di Fritz Lang (1926) dove gli operai in rivolta erano infine
ricondotti alla cooperazione dal figlio del grande capitalista. Sembra che il film fosse uno
dei preferiti di Hitler. Rathenau fu ucciso nel 1922 da due nazisti, ma il contenuto della sua
dottrina fu uno dei pilastri su cui quella nazista poggiò.
Quando nel secondo dopoguerra i vincitori imposero l'assetto politico democratico alla
Germania, la collaborazione fra operai e padroni fu sancita, oltre che dalla persistente
natura corporativa dei sindacati, da apposite commissioni che si dovevano dedicare alla
Mitbestimmung, la co-determinazione dell'azienda. Questo cancro parasindacale aveva
colpito anche il socialismo italiano, allorché al suo interno si era fatta strada l'idea che i
proletari potessero conquistare posizioni utili alla presa del potere controllando essi stessi il
ciclo produttivo delle fabbriche, idea che appariva bislacca ai capitalisti di allora, ma che
Giolitti trovò in perfetta continuità rispetto a ciò che già succedeva con il "confronto" fra
operai e capitalisti nella normale vita sindacale. Quando nel 1920 le fabbriche furono
occupate, Giolitti se ne andò tranquillamente in vacanza, ben sapendo che gli operai erano
rinchiusi impotenti dentro le officine mentre esercito, guardia regia, polizia e carabinieri
dominavano la piazza. Nel secondo dopoguerra in Italia, come in Germania, l'assetto
sindacale prevedeva, oltre alle Commissioni Interne, i Consigli di Gestione, dove non si
elaboravano "rivendicazioni" ma si svolgeva opera congiunta operai-capitalisti per il buon
funzionamento dell'organismo comune che era la fabbrica.
La persistenza a tutt'oggi della prassi corporativista è chiaro segno dell'esistenza di una
forza sociale tesa a salvaguardare il capitalismo attraverso questa formula consociativa. La
concertazione del 1992-93 in Italia ne è una forte prova: gli accordi a livello governativo
non prevedevano alcuna partecipazione sindacale di base, nemmeno formale e vennero
sottoscritti senza che fosse in alcun modo consultata la massa dei lavoratori (la quale
sfogò la sua rabbia nelle manifestazioni di piazza prendendo a sassate i propri
rappresentanti). Altre formule, come ad esempio quella dell'azionariato operaio, non hanno
invece mai avuto fortuna, non tanto per il timore che gli operai prendessero il controllo della
fabbrica attraverso la maggioranza nei consigli di amministrazione (un takeover proletario!),
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cosa che si può evitare con una regolamentazione, quanto perché riguarda i singoli
individui che ricevono o acquistano azioni; mentre il corporativismo sancisce un patto di
classe universale.
Corporativismo tecnocratico
Una forma più sofisticata di corporativismo fu tentata da Adriano Olivetti: la fabbrica non
doveva essere concepita come unità separata dal resto della società, ma come parte
integrante di un tutto che si espandeva su di un comprensorio urbano e agricolo. Il quale,
inteso come una sintesi fra i progetti di Owen, Proudhon e Fourier, avrebbe potuto
realizzare il superamento del dualismo città-campagna, industria-agricoltura e sarebbe
stato auto-governato. Nell'ambito di questo programma, la fabbrica, quella reale, si era già
data un assetto preliminare, fondando un sindacato (Autonomia aziendale) e un partito
politico (Comunità). Nel suo libro Democrazia senza partiti, Olivetti osserva che il
fondamento della democrazia consiste in una rappresentanza che non sia mistificazione,
una delega quindi di molti a uno basata sulla fiducia e soprattutto sull'appartenenza a una
comunità; mentre nel sistema dei partiti la responsabilità viene meno in quanto il partito
diventa il contenitore della delega e della rappresentanza, diventa cioè poco per volta
autonomo rispetto a coloro che dovrebbe rappresentare.
La fabbrica, secondo Olivetti, è il serbatoio della conoscenza e dell'organizzazione, quindi
è naturale che diventi anche l'elemento portante della comunità, la quale deve scegliere
non tanto i propri rappresentanti quanto i propri dirigenti, coloro cioè che devono
fisicamente dirigere ogni aspetto della vita comune. Il partito tradizionale mortifica la
rappresentanza e la sostituisce, mentre il dirigente olivettiano svolge semplicemente i
compiti che gli sono affidati dalla comunità, ha un ruolo tecnico, non politico. O almeno: il
nuovo assetto politico della comunità è quello che poggia sulla competenza tecnica. La
democrazia basata sulla rappresentanza di partiti che usano la popolazione per i propri fini
invece di essere al suo servizio ha fatto il suo tempo. È ora di rompere il meccanismo
perverso di un sistema che è unicamente in grado di conservare sé stesso.
"La democrazia parlamentare non riconosce i grandi mutamenti che hanno
radicalmente trasformato, durate gli ultimi cento anni, la struttura della società. Essa
difende la libertà anche a favore delle forze che tendono a distruggerla. Essa quindi non
può più dar vita a un ordine sociale giusto, ma tende ormai a diventare il ponte di
passaggio verso i regimi che causerebbero nuove dittature… Nel nuovo Stato il potere
poggerà saldamente non più su una forza sola, la democrazia, la quale è troppo facile
preda della potenza del denaro. Il potere sarà ancorato alla cultura giuridicamente
organizzata e, nel contempo, al lavoro sarà conferita una ben determinata potenza
politica… Alla fine del fascismo la maggior parte degli intellettuali vedeva nei partiti uno
strumento di libertà. Io no. Sono organismi che selezionano personale politico
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inadeguato. Un governo espresso da un Parlamento così povero di conoscenze
specifiche non precede le situazioni, ne è trascinato." (Adriano Olivetti, Democrazia
senza partiti, Edizioni Fondazione Olivetti).
Conferire potenza politica al lavoro. Nella concezione "sindacale" della rivoluzione non c'è
più posto per la tradizionale rappresentanza di tipo elettorale: la rivendicazione viene
superata dalla realtà produttiva perché operai e capitalisti sono ora legati ai compiti che
devono svolgere; la comunità li lega a sé allo stesso titolo, gli uni e gli altri lavorano agli
stessi risultati, e in fabbrica – è normale – per ottenere un certo risultato occorre che tutte
le forze collaborino allo scopo. Mai definizione fu più appropriata di quella leniniana di
sindacato come cinghia di trasmissione tra partito e masse. Che sia affermato in senso
rivoluzionario o che lo sia in senso reazionario, la realtà materiale del rapporto sindacatimasse è data. Non esiste altra forma organizzativa che possa sostituire il sindacato in
quanto cinghia di trasmissione. E la borghesia, volutamente o meno, ha rubato al partito
rivoluzionario l'arma più potente che esso ha per avvicinarsi alla classe.
Ma è attraverso il sindacato corporativo che avanza la religione del lavoro. Sembra
ragionevole: se una struttura rivendicativa difende i lavoratori dalla voracità dei capitalisti,
non si vede perché la stessa struttura non possa attaccare strappando ai capitalisti molto di
più. Per esempio delle regole atte ad esprimere finalmente l'idoneità della classe operaia a
gestire direttamente la fabbrica. E questa condizione fu realizzata, non troppo
paradossalmente, proprio dal fascismo, quando decise di espropriare i capitalisti incapaci
di produrre e vendere, sostituendoli con funzionari stipendiati, capaci di rimettere in sesto
le fabbriche disastrate e di venderle sul mercato. Tra l'altro, se lo stato interviene
direttamente nel salvataggio delle aziende, la banca e il credito in generale si dimostrano
del tutto inutili.
Lo sciopero-mito
Il positivismo aveva liberato la scienza dal ghetto in cui l'aveva gettata la borghesia, e con
la nuova visione del mondo, razionale e meccanica, sembrava che nulla potesse fermare il
"progresso". Bergson aveva corretto il tiro introducendo qualche dose di spiritualismo e
Sorel aveva contaminato il tutto con un po' di marxismo edulcorato attraverso Blanqui e
Bernstein.
Mussolini ammette di aver contrabbandato Bergson e Blanqui fra le file del Partito
Socialista. Non ancora padrone del campo parlamentare, e quindi non ancora pronto per
una chiara dichiarazione di intenti, in un discorso del 1921 a Montecitorio riconosce il
debito nei confronti di tutti quanti i personaggi citati e tenta ancora di tingere di rosso la
propria politica, giungendo a proporre alla Confederazione Generale del Lavoro una
collaborazione attiva, cominciando dalle proposte riformiste, come quella delle otto ore. In
un articolo sul Comunista, Bordiga risponde che proprio questa coloritura superficiale
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caratterizza i grandi rinnegati: Mussolini si muoveva, come i Turati e i Noske, sul piano di
un movimento operaio "politicamente incolore, indipendente, sogno di una borghesia
decadente. " Bergson, chi era costui? Si chiede Bordiga. E aggiunge: "Ci pare che sia ora
di finirla con questa storia di Bergson".
Fra tutte le contaminazioni, quella bergsoniana era la più sfacciatamente idealistica ed
aveva un notevole peso, per cui doveva essere rintuzzata. Ma tutte furono in varia misura
sponsorizzate da Mussolini, non certo un'aquila per quanto riguarda finezze politicofilosofiche. Sta di fatto che la "fermentazione del suo bergsonismo" o i soldi arrivati dalla
Francia, lo fecero diventare interventista e maestro dell'idealismo di allora. Ma non pescò il
maggior numero di seguaci fra i socialisti bensì fra i destri e gli ultrasinistri sindacalisti
rivoluzionari alla Sorel. Anzi, furono questi ultimi a rappresentare la struttura portante del
futuro Partito Nazionale Fascista.
Sorel si richiamava sia a Bergson che a Marx. Dal primo ricavava una superiorità della
coscienza istintiva (sintetica) su quella razionale (analitica); dal secondo i riferimenti alla
lotta di classe. Nel suo schema ha un posto rilevante la coscienza, nella quale sarebbe
depositata una concezione fantastica del mondo, motore della volontà: quell'immagine del
mondo che in ognuno di noi rappresenta uno stimolo per l'istinto (mito). Il mito si
contrappone all'utopia, esso è forza direttamente e immediatamente disponibile per
l'azione, mentre l'utopia può essere vagliata e discussa attraverso il raziocinio. Non importa
se il mito, come l'utopia, sia realizzabile o meno: l'importante è che stia alla base
dell'azione. Si può parlare in eterno di rivoluzione senza produrre un movimento
rivoluzionario; mentre il mito, se è quel complesso di immagini capace di evocare
istintivamente lo scontro sociale nelle masse, produce nuova realtà. Lo sciopero generale è
la manifestazione pratica del mito soreliano.
Uno dei movimenti più perfetti della manifestazione del mito sarebbe, per Sorel, il
cristianesimo. Che il suo programma fosse realizzabile o meno, ha assunto forma sociale
coinvolgendo milioni di persone, indipendentemente dalla razionalità delle premesse. Allo
stesso modo, trasportato all'oggi, il mito prende la forma di lotta di classe, quindi la classe
oppressa diventa il soggetto dello scontro per il cambiamento; e lo sciopero generale la
sua arma, "il mito nel quale si racchiude tutto intero il socialismo".
Soltanto lo sciopero generale avrebbe il potere di rappresentare la catastrofe necessaria al
sorgere di una umanità nuova. Diventa del tutto comprensibile, quindi, il rifiuto preconcetto
da parte dei riformisti che invece predicano un gradualismo pacifico, una trasformazione a
tavolino. È su tale terreno che si saldano Bergson, Sorel, Proudhon e le correnti
anarchiche: la violenza non è un fenomeno razionale che possa essere guidato secondo
un programma, è piuttosto uno "slancio vitale e creatore", un'esplosione spirituale, unica
premessa possibile a forme di organizzazione di più alto livello.
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Il carattere spontaneistico di questo distillato storico è evidenziato dal fatto che l'assunto di
partenza è vero: le rivoluzioni non sono il risultato di un processo intellettuale; il loro
programma non è stabilito da qualcuno che voglia instaurare una nuova società con
caratteristiche predeterminate. Ma le spinte spontanee verso il cambiamento, in una
situazione rivoluzionaria, si dispongono e orientano secondo una polarizzazione storica,
fino a dar luogo alla potenza indirizzatrice del partito della rivoluzione. La violenza non è un
aspetto "etico" della rivoluzione, è una forza materiale che va orientata: "i partiti e le
rivoluzioni non si fanno, si dirigono", disse la nostra corrente. Senza partito rivoluzionario
non c'è rivoluzione.
Sorel raccoglie ciò che era nell'aria e, nonostante le roboanti frasi sulla violenza, non riesce
a nascondere il vero aspetto riformista del suo programma. In L'avvenire socialista dei
sindacati assegna alle cooperative, agli uffici di collocamento, agli ispettorati del lavoro e
ad altre istituzioni "sociali" la facoltà di allenare la classe operaia alla gestione del potere.
Attribuendo a questo aspetto un'importanza esagerata, lo eleva addirittura a "lotta definitiva
per i poteri politici":
"È una lotta per svuotare di ogni vita l'organismo politico borghese e trasferire quanto
conteneva di utile in un organismo politico proletario, creato in modo da corrispondere
allo sviluppo del proletariato".
Se Mussolini anticipa Gramsci nel discorso di Dalmine, Sorel anticipa Mussolini. Solo che il
fascismo fa propria la dinamica della rivoluzione: non serve conquistare funzioni particolari,
bisogna conquistare lo stato. Nella nostra rivoluzione lo si conquista per distruggerlo e
sostituirlo con un organo transitorio; nella controrivoluzione lo si conquista per rafforzarlo
ed elevarlo a reale potere esecutivo, libero dalla mistificazione democratica.
Rispetto allo schema di tutti i discendenti di Proudhon il fascismo si manifesta a un livello
superiore. In Sorel è contemplata una graduale lotta del proletariato per il potere nelle
pieghe della società così com'è,
"per ottenere una legislazione sociale favorevole allo sviluppo dell'organizzazione
politica… per strappare allo stato e al comune, una ad una, tutte le loro attribuzioni, per
arricchire gli organismi proletari in via di formazione, ossia i sindacati".
Nel fascismo la questione del potere si pone in modo sbrigativo: adoperando il
meccanismo democratico e nello stesso tempo assorbendo dalla dottrina rivoluzionaria i
caratteri che gli sono utili, il potere è oggetto di conquista subitanea e non di rivendicazione
graduale.
L'ambiguità creatrice
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Non è lo scopo di questo lavoro fare una critica a Sorel o a Bergson, ma ci interessa
descrivere l'ambiente bergsoniano in cui matura il carattere "sindacale" del fascismo.
Possiamo anche chiederci perché mai Sorel fosse una delle letture preferite di Mussolini,
ma soprattutto è importante capire perché a un certo punto la rivoluzione lasci il campo alla
controrivoluzione e lo stato prenda la forma di istituto corporativo, inglobando i sindacati e
attivando una politica del lavoro che sarà, da quel momento in poi, la religione laica dello
stato borghese, diventando non per caso l'articolo numero uno della costituzione italiana,
cioè quella del primo paese a diventare fascista.
Sovente si è sostenuto che l'impianto teorico di Sorel ebbe un'influenza sproporzionata
rispetto ai suoi contenuti elementari. Sarebbe più corretto dire che la grande confusione
esistente durante la fallita transizione di fase dei primi anni '20 ebbe il suo sbocco nella
necessità di semplificare i programmi politici di fronte a masse disorientate. Il
comportamento di Sorel fu comunque ambiguo. Oscillando fra anarco-sindacalismo e
fascismo, ebbe simpatie verso l'estrema destra antiparlamentare francese ma avversò il
movimento dannunziano, considerò Lenin come il più grande teorico rivoluzionario dopo
Marx ma si allontanò dal marxismo.
Non stupisce che fosse più letto in Italia che in Francia: secondo lo storico Zeev Sternhell
l'impostazione teorica di Sorel, abbinata al realismo opportunistico di Mussolini, fornì la
base programmatica del fascismo oltre che, fenomeno massimamente indicativo, quasi
tutto l'apparato dirigente del partito fascista, i cui quadri almeno per l'80% provenivano
dalle file del sindacalismo rivoluzionario di matrice soreliana, mentre per il restante 20 per
cento addirittura dalle file socialiste (Zeev Sternhell, Nascita dell'ideologia fascista,
Akropolis).
Questo percorso-tipo fu condiviso da molti, come dimostra ad esempio quello di un altro
esponente del sindacalismo francese, Hubert Lagardelle, che Mussolini stesso, in La
dottrina del fascismo, accomuna alla medesima corrente storica:
"Nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal
Lagardelle del Mouvement Socialiste, dal Péguy, e dalla coorte dei sindacalisti italiani,
che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell'ambiente socialistico italiano,
già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana, con le Pagine libere di
Olivetti, La Lupa di Orano, il Divenire sociale di Enrico Leone."
Seguace di Proudhon e di Sorel e attratto da Marx, Lagardelle aveva fondato il periodico
Le mouvement socialiste (1899-1914), manifestando simpatie, dopo la guerra, per la
Rivoluzione d'Ottobre. Ma, constatata la degenerazione di Mosca, se ne allontanò
avvicinandosi alla destra e finendo per aderire, nel 1926, al fascismo francese.
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La socializzazione fascista e il comunismo (1)
Mussolini parlava di "grande fiume del fascismo", ma avrebbe dovuto più correttamente
parlare di "grande fiume della controrivoluzione", la quale stava rastrellando tutte le
posizioni e i movimenti che potevano essere utilizzabili per bloccare l'altro potente fiume,
anzi il mare, della rivoluzione russa. Il movimento fascista era uno dei tanti finché le
circostanze, e certo anche quell'animale politico che era Mussolini, non lo condussero a
prendere il sopravvento. Tra i personaggi che egli rivendica può sembrare strano trovare
Enrico Leone, che fu figura di spicco del sindacalismo "rivoluzionario" italiano di stampo
marxista. Ne fu anzi il principale animatore e capo finché i sindacalisti rivoluzionari furono
corrente all'interno del PSI; nel quale Leone era vicino ad Arturo Labriola, anch'egli
sindacalista, e ad Enrico Ferri, capo della frazione intransigente. Nella rivista da lui fondata,
Il divenire sociale, veniva pubblicato molto materiale di Sorel. La definizione di
"sindacalismo puro" in uso in quegli anni deriva dal suo impegno a favore della lotta
sindacale autonoma. Leone rimase nel PSI quando dal partito uscirono i sindacalisti
rivoluzionari (1907), schierandosi poi con i massimalisti e appoggiando la rivoluzione
bolscevica, dalla quale però prese le distanze dopo i primi segni di cedimento. Scrisse
contro l'idealismo attivistico di Sorel e contro l'intuizionismo metafisico di Bergson. Era
quindi un uomo politico di una certa coerenza a confronto di ciò che usava a quel tempo.
Ma Mussolini non si sbagliava: anche Leone faceva parte della schiera che auspicava una
autonomia della classe operaia dalla politica dei partiti. Lottare però per quella autonomia
significava, come precisò la nostra corrente, rinchiudere il proletariato nel sistema chiuso
della fabbrica e delle categorie di mestiere. Significava avere come interlocutore non tutta
la società con il suo stato ma un rappresentante del capitale con la sua fabbrica. Il tutto
sancito dalla legge e dal controllo dello stato. La nuova corporazione, immaginata dalla
piccola borghesia prima che il fascismo la facesse propria, non era una riedizione di quella
medioevale, ma un qualcosa di completamente diverso e pericoloso: non era più un
organismo formato da elementi della stessa classe di artigiani (tessitori, fabbri, vasai,
armaioli, ecc.), quindi con gli stessi interessi da difendere, ma un organismo formato da
elementi di due classi dagli interessi inconciliabili. Il nuovo corporativismo si annunciava
come la più tremenda sconfitta del proletariato da quando questa classe poté definirsi tale.
È dunque vero che uno dei criteri, forse il più importante, per definire gli insiemi oggettivi in
cui si dividevano le classi all'epoca della rivoluzione reazionaria è quello del riformismo
accompagnato dal corporativismo dell'epoca imperialistica. C'è un filo logico che unisce
Bergson a Mussolini, Bottai a Lama, Sorel a Gramsci, Leone a Buozzi, Rigola, d'Aragona.
Non si scervelli il lettore sui nomi di persona: anche se non li conosce, il denominatore
comune è, appunto, il "sindacalismo puro", il confronto fra operai e capitalisti rappresentati
dall'insieme "lavoro come fattore della produzione", senza intermediari, vera
transustanziazione di una realtà materiale (lavoro) in un effetto politico (tentata
eliminazione della lotta di classe).
(#)
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(socializzazione_fascista_comunismo2.htm)
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La socializzazione fascista e il comunismo (1)
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La socializzazione fascista e il comunismo (2)
(socializzazione_fascista_comunismo1.htm)
(socializzazione_fascista_comunismo3.htm)
2. Socializzazione spinta
D'Annunzio, paradigma delle mezze classi
Il comportamento della piccola borghesia e delle non-classi non è mai autonomo, ma
dipende dal rapporto che esse instaurano con le due grandi classi che si fronteggiano nella
società capitalistica; e oscillano da una parte all'altra a seconda dei rapporti di forza che si
stabiliscono tra borghesia e proletariato. Il comportamento di D'Annunzio e dei suoi
seguaci sarà il prodotto di questa oscillazione.
Abbiamo citato Bergson, Sorel, Mussolini, e compariranno altri personaggi, ma i nomi ci
servono soltanto come riferimento mnemonico, dato che, specialmente studiando la genesi
del fascismo "sindacalista", sarà agevole dimostrare che personaggi e termini ricavati dai
loro nomi sono prodotti e non fattori della storia. La storia umana, da quando è nata la
proprietà, è sempre stata storia di lotta di classe e questa la scrivono masse di uomini, non
i loro capi che vengono spinti alla ribalta da questo o quell'avvenimento cruciale. Parleremo
dunque del movimento "dannunziano" come espressione di forze operanti nella società
dell'epoca; forze che non si limitarono a caratterizzare detto movimento, e neppure si
disponevano semplicemente sullo sfondo degli avvenimenti, ma erano attive e numerose,
quasi tutte mosse da principi che avevano molto in comune e in base ai quali trovarono il
modo di aggregarsi.
In tale quadro si può tratteggiare una biografia di D'Annunzio come sintesi di biografie di
anonimi partecipanti agli eventi di quell'epoca. Certo, il poeta era famoso per le sue opere
letterarie, era un eroe di guerra, aveva una particolare attrazione per il gesto eclatante, ma
la sua vita fu come quella di tanti che furono trascinati negli stessi fatti.
Nel 1897 D'Annunzio ebbe la prima esperienza politica. Eletto nelle file della destra, si fece
portavoce di una necessità che avrebbe più tardi coinvolto masse di uomini: il
superamento, finalizzato, dei vecchi schieramenti e la formazione di altri nuovi, suggeriti da
sconvolgimenti sociali di vasta portata come la guerra e la rivoluzione. Da buon erede del
trasformismo, passò subito alla sinistra spiegando il gesto con la famosa frase "Vado verso
la vita" (Mussolini avrebbe poi percorso il cammino inverso, ed entrambi si incontrarono
nello stesso schieramento interventista). Nei primi cinque o sei anni del '900 fu dunque
molto vicino al Partito socialista e partecipò alle proteste contro l'eccidio di Bava Beccaris a
Milano. Nel 1901 fondò una loggia massonica, e massoni furono alcuni suoi compagni di
lotta. Nel 1910 aderì al movimento nazionalista di Corradini. Proposto per una posizione
accademica, rifiutò consigliando ai suoi interlocutori di lottare per l'eliminazione della
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scuola. Nel settembre del 1919 organizzò un reparto di soldati, ex combattenti e volontari
civili per l'occupazione di Fiume, che le potenze vincitrici non avevano assegnato all'Italia
(la "Vittoria mutilata").
Vedremo in seguito il significato di questi eventi, per il momento ci limitiamo a ricordare che
all'impresa fiumana parteciparono forze miste, fra le quali termini come "destra" e "sinistra"
non avevano più alcun senso. D'Annunzio fu comandante delle Forze Armate fiumane e,
con Alceste de Ambris, dirigente della UIL, un sindacato patriottico d'ispirazione
sindacalista rivoluzionaria, scrisse una costituzione (la Carta del Carnaro, 1920)
sorprendente dal punto di vista "sociale". Nel 1920 la Reggenza del Carnaro fu l'unico stato
al mondo a riconoscere la Repubblica Sovietica Russa. E nel 1922, in occasione della
Conferenza di Genova sul commercio internazionale, fu D'Annunzio ad ospitare nella
propria abitazione il Commissario sovietico agli Esteri Čičerin.
La vecchia società non aveva alcuna intenzione di morire e quella nuova non ce la faceva
a nascere. Nell'immane scontro fra modi di produzione, rivoluzione e reazione si
travestivano a seconda dei rapporti di forza o dei rapporti fra le correnti politiche giunte a
livelli di confusione irrecuperabili a un qualche ordine, a meno di non ri-formare il potere
esecutivo della classe dominante.
Scoppia il dopoguerra
Al termine del primo conflitto mondiale in Italia "scoppia" il dopoguerra. Nei primi giorni di
settembre del 1918 si svolge a Roma il XV congresso nazionale del Partito Socialista. I
convenuti constatano che il partito ha retto bene alla prova della guerra e che nel frattempo
sono maturate forti simpatie per la Rivoluzione d'Ottobre. L'aria che si respira al congresso
è ben descritta dal discorso di Luigi Repossi a favore della lotta a fondo per il potere:
"Più nessuna blandizie, classe contro classe, da una parte la borghesia tutta insieme
contro di noi, dall'altra noi soli contro tutto il mondo, questo il compito dei socialisti."
All'interno del partito è in corso uno scontro tra la parte super riformista (i "destri") e
l'estrema sinistra (mozione Salvatori) che raccoglie la maggioranza congressuale sia
sull'onda dei disastri umani e materiali dovuti alla guerra, sia sull'eco potente dei fatti di
Russia.
Nello stesso anno il VII congresso nazionale della FIOM (ramo metalmeccanici della CGL)
approva come ordine del giorno la giornata lavorativa di otto ore, il minimo salariale
garantito, il pagamento delle ferie, la parità per il lavoro femminile e la regolamentazione
della vita di fabbrica, mentre la Confederazione Generale del Lavoro lancia la proposta
della convocazione di una Costituente, raccogliendo l'adesione dei repubblicani e dei
riformisti.
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La direzione socialista respinge invece la proposta della CGL sulla Costituente poiché la
ritiene una rivendicazione borghese, per di più portata avanti da coloro che avevano voluto
la guerra. Anche la frazione astensionista la attacca a fondo considerandola un diversivo
per distogliere l'attenzione dalla questione del potere. La Costituente era concepita come
un'assemblea nazionale eletta con largo suffragio, un organismo senza funzione
legislativa, chiamato semplicemente a rinnovare la costituzione esistente entro i rapporti
borghesi. Una mistificazione in più per dar fiato alla leggenda della sovranità popolare,
argomento da sempre usato per illudere la classe operaia. Una mistificazione che
oggettivamente tendeva a far passare fra i proletari la falsa esigenza di unità fra
schieramenti politici differenti, in un'ottica interclassista. È chiaro che il Partito socialista
tende con la sua opposizione a far saltare l'ipotesi di una partecipazione dei socialisti al
governo, situazione che avrebbe legato le mani al partito, proprio come speravano i
sostenitori (ad esempio, Nitti) di un coinvolgimento che allontanasse il pericolo di
sommosse.
Nel gennaio del 1919 nasce il Partito popolare di Don Sturzo, e nelle elezioni del novembre
dello stesso anno i voti che raccoglie, sommati a quelli del Partito Socialista, raggiungono
la maggioranza. Ma i presupposti politici per un governo formato dai due partiti mancano
del tutto. Tutti gli equilibri politici che si erano determinati in tempo di guerra sono saltati e il
nuovo panorama politico è caratterizzato da una situazione di difficile governabilità per la
borghesia italiana.
Instabilità politica, cresce la lotta
Il succedersi di governi che sono "frutto di alchimie parlamentari" (De Felice, Mussolini il
rivoluzionario) non assicura certo la stabilità di cui avrebbe bisogno l'economia del
dopoguerra e soprattutto è un fattore di sfiducia nel sistema parlamentare. Con la fine della
guerra cade la ragion d'essere della coalizione tra le forze politiche che avevano dato vita
nel 1917 al Fascio parlamentare di difesa nazionale (oltre 150 deputati e 90 senatori), e
che si era basata sull'intento comune di salvaguardare le condizioni per il proseguimento
della guerra stessa fino alla vittoria. Difficile, nella confusione politica crescente, mantenere
unite forze in realtà incompatibili. Ma molti (tra i quali Antonio Salandra, ex presidente del
Consiglio), auspicano la sopravvivenza del Fascio parlamentare, aggregazione nata per
rispondere alle medesime esigenze che avevano dato vita al Fascio d'azione rivoluzionaria
interventista, e il cui manifesto politico era stato steso verso la fine del 1914 da interventisti
di sinistra allo scopo di spingere i proletari a combattere per difendere la nazione.
L'interventismo aveva presentato una gamma di posizioni che andavano dal liberismo
conservatore dei nazionalisti ai progetti più radicali dei sindacalisti rivoluzionari e dei
repubblicani. Alla fine del 1917, in seguito alla pubblicazione del Patto di Londra da parte
dei bolscevichi giunti al potere, firmato il 26 aprile 1915 dall'Italia e dai rappresentanti della
Triplice Intesa e rimasto sino ad allora segreto, scoppiano forti contrasti politici in seno alla
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borghesia italiana. Secondo il Patto, l'Italia, scendendo in guerra contro gli Imperi Centrali,
avrebbe dovuto ottenere una parte della Dalmazia, il Trentino, il Tirolo meridionale, la
Venezia Giulia e altro ancora. Ma la politica del presidente Wilson non contemplava una
soluzione del genere: gli Stati Uniti erano entrati in guerra in un secondo tempo, e non
avevano firmato alcun accordo.
All'interno del fronte nazionalista italiano emerge ora tutta una serie di posizioni legate
all'accettazione o meno dei contenuti espressi nel Trattato. I più oltranzisti sostengono che
non si può cedere in nulla rispetto alle promesse fatte ed è assolutamente necessario
ottenere l'aggiunta di Fiume, che nel 1915 l'Intesa aveva invece aggiudicato alla
Jugoslavia.
Fiume
A questo punto è utile una breve storia della città di Fiume per capire la posizione dei
nazionalisti filo-italiani i quali sostenevano che la città dovesse necessariamente diventare
italiana in ragione del voto espresso in tal senso dal Consiglio nazionale italiano di Fiume
del 29-30 ottobre 1918. Tale organismo, il cui presidente era l’istriano Antonio Grossich,
aveva appunto l’obiettivo di includere Fiume nel regno d’Italia.
Durante i secoli XVIII e XIX Fiume, pur trovandosi all'interno del territorio croato, era stata
sotto sovranità magiara, passando attraverso vicende alterne, finché nel 1867 fu unita al
regno ungherese come Corpus separatum, conservando dunque un certo grado di
indipendenza. Aveva una propria amministrazione e un proprio governatore, e poté così
mantenere i propri statuti e i propri privilegi, come quello di utilizzare ufficialmente la lingua
italiana.
Gli ungheresi, esercitando il loro dominio a distanza, pur di contrastare le mire di
annessione da parte della Croazia, avevano spinto la città a sviluppare rapporti
commerciali con l'Italia, agevolando in tal modo la formazione di una borghesia italiana e,
indirettamente, la nascita, nel 1905, di un movimento irredentistico, "La Giovine Fiume",
che chiedeva l'annessione di Fiume all'Italia e che il governo ungherese scioglierà nel
1911. Con il crollo dell'impero austro-ungarico la situazione cambia completamente e
Fiume, alla fine della Prima Guerra Mondiale, viene occupata da truppe multinazionali
(inglesi, francesi, italiane, americane). In questa situazione, che si rivela subito carica di
tensioni, si inserisce l'azione spettacolare di Gabriele D'Annunzio.
Scontro tra riformisti
Torniamo ai fatti italiani del dopoguerra. Un tenace difensore del Patto di Londra era il
Ministro degli Affari Esteri Sidney Sonnino il quale non aveva mai nascosto la sua
avversione alla politica delle nazionalità di Wilson. In nome del principio di nazionalità,
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formula alquanto vaga, c'era chi chiedeva l'annessione di Fiume all'Italia e chi vi si
opponeva.
Il problema assume un peso internazionale e il clima si fa sempre più rovente. Pensiamo
alle forze interventiste democratiche e al suo esponente, Leonida Bissolati, secondo il
quale bisogna ormai mettere da parte gli interessi italiani in Dalmazia perché l'unico modo
per contrastare il pericolo bolscevico è la politica delle nazionalità di Wilson, con cui si
incontra il 4 gennaio del 1919. Il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e
Sonnino vedono invece nel nazionalismo l'unica difesa contro il comunismo. Due posizioni
in antitesi che costringono Bissolati a dare le dimissioni dal governo e a pronunciare il
discorso "rinunciatario" della Scala (11 gennaio 1919), in cui propone di rinunciare alla
Dalmazia, al Tirolo ed al Dodecaneso. Arditi, futuristi e fascisti, che hanno organizzato una
dimostrazione patriottica pro-Dalmazia davanti al teatro, lo attaccano duramente.
Orlando e Sonnino incoraggiati dall'intransigenza del re Vittorio Emanuele III abbandonano
la Conferenza di Pace, in corso a Parigi, organizzata dai paesi vincitori dalla Prima Guerra
Mondiale (18 gennaio 1919) al fine di delineare nuovi equilibri geopolitici in Europa e stilare
i trattati di pace con i paesi sconfitti. Manifestando in maniera chiara la loro contrarietà alla
politica di Wilson, essi riassumevano la loro posizione nella formula "Trattato di Londra +
Fiume". Dovranno però tornare al tavolo delle trattative, che erano comunque continuate
anche in loro assenza. Il ritorno dell'Italia alla Conferenza è visto dai nazionalisti italiani
come una capitolazione e contribuisce a rafforzare la componente più intransigente. Da
notare che nei primi mesi del 1919 la situazione economica è pessima e vi sono scioperi
contro il caro vita in tutta la penisola. Da una parte le critiche dei nazionalisti, dall'altra gli
scioperi operai portano alla crisi del governo Orlando e alla costituzione di quello Nitti nel
giugno del 1919.
Riorganizzazione delle forze interventiste
Il nuovo governo non riesce a produrre nessun effettivo miglioramento economico, e sul
piano politico peggiora la situazione vista l'ostilità della destra per il nuovo presidente del
Consiglio. In alcuni ambienti della destra nazionale si comincia a discutere della necessità
di un colpo di stato o di un'azione armata per difendere l'italianità di Fiume.
Come abbiamo anticipato, con la fine della guerra le forze interventiste si trovano spiazzate
e cercano di sopravvivere riorganizzandosi. La classe dirigente italiana è completamente
screditata e servono nuovi programmi, nuove parole d'ordine e nuovi leader per
rivitalizzare il capitalismo. Mussolini ha molti punti in comune con il riformismo socialista e
con le teorie produttivistiche: egli sostiene che il proletariato deve puntare all'incremento
incessante della produzione, unica fonte di benessere e sviluppo sociale dei produttori. Gli
articoli che vengono pubblicati su Il Popolo d'Italia tra la fine del '18 e i primi mesi del '19
esaltano da una parte la vittoria militare italiana e dall'altra puntano a darle un contenuto
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sociale. In un articolo di questo periodo, intitolato "Andate incontro al lavoro che tornerà
dalle trincee" (Il Popolo d'Italia, 9 novembre 1918), Mussolini lancia l'idea del "sindacalismo
nazionale" e dell'unità d'azione di ex combattenti e lavoratori.
I suoi interlocutori privilegiati sono ora i trinceristi, gli ex combattenti e i gruppi di reduci di
ritorno dal fronte. Ricordiamo che se a guerra iniziata le forze armate avevano 142
generali, alla fine se ne contano 1.246, un numero enorme se si pensa all'intera scala
gerarchica degli ufficiali. C'era inoltre chi aveva guadagnato denaro e garanzie durante la
guerra e non intendeva rinunciarvi. L'esercito non era da meno: Gli ufficiali ovviamente si
opponevano alla decisione del governo di riportare il loro numero ai livelli prebellici.
Una parte di queste forze si organizza, nel marzo del 1919, nell'Associazione Nazionale
Combattenti, esprimendo tutta una serie di rivendicazioni che ricalcano quelle del
riformismo socialista: convocazione della Costituente, abolizione del Senato, distribuzione
della terra non coltivata agli ex combattenti secondo la promessa fatta dal governo in
tempo di guerra.
Il tentativo di Mussolini di estendere la sua influenza sull'Associazione non ottiene i risultati
sperati vista la moderazione politica che la caratterizza, ma l'operazione riuscirà con
l'aggancio ai futuristi e agli arditi.
Fascisti, futuristi e arditi
La nascita del futurismo, come movimento artistico e culturale, va collocata all'inizio del
'900, al confine fra la decadente Belle époque e la nuova era delle macchine e del capitale
finanziario. In Italia il 5 febbraio del 1909 viene pubblicato il Manifesto futurista, scritto da
Filippo Tommaso Marinetti, che ben interpreta questa fase di passaggio:
"Noi vogliamo cantare l'amore del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. Il
coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La
letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo
esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo
schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di
una bellezza nuova; la bellezza della velocità."
Gran parte dei futuristi proveniva da esperienze anarchiche e non era influenzata dalle
sbruffonate di Marinetti, ma dopo la guerra il loro movimento si avvicinò al fascismo. La sua
natura sintetizza perfettamente il dualismo di un'epoca di transizione in cui si decide la
vittoria o la sconfitta del movimento rivoluzionario. In quanto corrente artistica, quindi
riflesso semplificato delle condizioni materiali in cui versano le classi, esso si adegua ai
rapporti di forza reali: perciò al suo interno si formano correnti analoghe a quelle che si
sono formate nella società, tutte "rivoluzionarie" anche se con modalità e posizioni diverse.
La modalità fascista prevarrà sotto l'insegna del tronfio linguaggio di Marinetti, quello
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socialista rimarrà in sordina per poi estinguersi. La prova di questo camaleontismo artistico
si ha in Russia, dove il futurismo si schiera decisamente con la rivoluzione, almeno finché
questa risulta vincente.
In Italia i futuristi, soprattutto quelli che poi si allinearono con il fascismo, si trovano a loro
agio nel mondo aggressivo dell'interventismo, glorificano la guerra ("sola igiene del
mondo"), il militarismo, il patriottismo, il gesto di rottura dei libertari e le idee per cui vale la
pena morire. Nel 1914 sono i primi a scendere in piazza contro l'Austria e nel 1915
partecipano alle "radiose giornate di maggio", un susseguirsi di manifestazioni interventiste
svoltesi in molte città italiane. Anche D'Annunzio partecipa a questa ubriacatura patriottica
e il 5 maggio, presso lo Scoglio di Quarto a Genova, con un discorso bellicoso invita l'Italia
a scendere in guerra al fianco della Triplice Intesa al grido di "Viva Trento e Trieste! Viva la
guerra!"
Il movimento futurista, che fino ad allora aveva avuto un carattere perlopiù artisticoletterario, dopo la guerra si dà una struttura e degli obiettivi politici. Il 20 settembre del
1918, nella capitale, vede la luce Roma Futurista, "Giornale del partito politico futurista",
diretto da Mario Carli, Tommaso Marinetti ed Emilio Settimelli. Il partito, che avrà vita breve
(1918-1920), svilupperà un'azione di propaganda soprattutto presso gli arditi.
Gli arditi, una specialità dell'arma di fanteria del Regio Esercito, erano gruppi d'assalto
costituitisi durante la Prima Guerra Mondiale, nella primavera del 1917, per iniziativa del
generale Luigi Capello, con il compito di compiere incursioni nelle linee nemiche e aprire la
strada alla fanteria. L'esercito li presentava come combattenti che andavano incontro al
pericolo cantando, spavaldi, alla ricerca della "bella morte". Questi reparti speciali
acquistarono fama soprattutto in occasione delle battaglie del Piave e di Vittorio Veneto. Al
fronte avevano dei pessimi rapporti con i carabinieri a causa della loro indisciplina, e a
guerra finita il corpo degli arditi venne sciolto.
Parecchi di loro, soprattutto quelli che prima del conflitto bellico erano stati vicini al
futurismo, nel dopoguerra riprendono i contatti. Le adesioni al Partito politico futurista non
sono comunque numerose: dal dicembre del '18 cominciano a costituirsi i primi fasci
futuristi e nel febbraio del '19 sono una ventina. Mario Carli, il 20 settembre 1918 pubblica
su Roma Futurista un "Primo appello alle Fiamme", in cui chiama a raccolta gli arditi:
"A me Fiamme Nere! Con questo grido di guerra che non fu mai lanciato invano…
chiamo a raccolta spirituale attorno a questo foglio tutti gli "Arditi" d'Italia… Li chiamo a
raccolta agitando un tricolore nella mia mano di scrittore tuttora spezzata e li informo di
questa nuova battaglia. C'è da fare moltissimo quaggiù. C'è da sventrare, spazzare,
ripulire in ogni senso... Ormai noi abbiamo una missione. L'Italia ha creato gli arditi
perché la salvino da tutti i suoi nemici. Bisogna sperare tutto e chiedere tutto agli arditi."
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Il nemico, quindi, è anche interno: è composto dai profittatori di guerra, dai neutralisti e
dalla borghesia parassitaria e arricchita. Nel gennaio del '19 Carli fonderà l'Associazione
fra gli arditi d'Italia e nel maggio dello stesso anno questa comincerà a pubblicare il
giornale L'Ardito, che Carli stesso dirige insieme a Ferruccio Vecchi. Il giornale farà
campagna per l'annessione di Fiume all'Italia sotto la bandiera della "Vittoria mutilata".
Tra il 1918 e il 1919 futuristi, arditi, ex combattenti e fascisti si incrociano in almeno quattro
occasioni: nel dicembre del '18 molti futuristi aderiscono al progetto di Mussolini per una
costituente dell'interventismo; nel gennaio del '19 Mussolini e Marinetti partecipano alla
manifestazione della Scala contro Bissolati; nel marzo i futuristi partecipano a Milano alla
fondazione dei Fasci di combattimento; e ad aprile con arditi e fascisti assaltano la sede
dell'Avanti a Milano.
L'azione contro la sede dell'Avanti è da inserirsi nel clima surriscaldato del Biennio Rosso,
è il risultato di quel dinamismo che diventa esaltazione ideologica cui si dà lustro filosofico
tirando in ballo il bergsoniano "slancio vitale" contro ogni passatismo. "Marciare non
marcire", questo il motto di Marinetti, dei futuristi e degli arditi. Mussolini cerca di dare
ordine e inquadrare questo ribollente magma sociale in funzione anti-socialista. Intervistato
pochi giorni dopo i fatti di Milano dal Giornale d'Italia, dichiara:
"Tutto quello che avvenne all'Avanti! fu spontaneo, movimento di folla, movimento di
combattenti e di popolo stufi del ricatto leninista. Si era fatta un'atmosfera irrespirabile.
Milano vuol lavorare. Vuole vivere. La ripresa formidabile dell'attività economica era
aduggiata da questo stato d'animo di aspettazione e di paura specialmente visibile in
quella parte di borghesia che passa i pomeriggi ai caffè invece che alle officine. Tutto
ciò doveva finire. Doveva scoppiare. È stato uno scoppio climaterico, temporalesco. A
furia di soffiare l'uragano si è scatenato. Il primo episodio della guerra civile ci è stato.
Doveva esserci in questa città dalle fiere impetuosissime passioni. Noi dei fasci non
abbiamo preparato l'attacco al giornale socialista, ma accettiamo tutta la responsabilità
morale dell'episodio."
Sansepolcrismo
Il 23 marzo 1919 si tiene a Milano, in piazza San Sepolcro, nei locali dell'Associazione
commercianti ed esercenti, una riunione programmatica, annunciata da Il Popolo d'Italia,
alla quale partecipano varie componenti. Quella più numerosa è rappresentata dalla
vecchia guardia interventista: sindacalisti rivoluzionari (con De Ambris, il loro principale
esponente) e fascisti. Le altre forze sono ex combattenti, arditi e futuristi. Il programma è
sintetico e inequivocabile. Lo riproduciamo integralmente perché riassume bene il clima
sincretistico di quegli anni e si ricollegherà alla Carta del Carnaro dell'anno successivo:
Per il problema politico noi vogliamo:
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a) Suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale,
voto ed eleggibilità per le donne.
b) Il minimo di età per gli elettori abbassato ai 18 anni; quello per i deputati abbassato ai 25
anni.
c) L’abolizione del Senato.
d) La convocazione di una Assemblea Nazionale per la durata di tre anni, il cui primo
compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato.
e) La formazione di Consigli Nazionali tecnici del lavoro, dell’industria, dei trasporti,
dell’igiene sociale, delle comunicazioni, ecc. eletti dalle collettività professionali o di
mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di
Ministro.
Per il problema sociale noi vogliamo:
a) La sollecita promulgazione di una legge dello Stato che sancisca per tutti i lavori la
giornata legale di otto ore di lavoro.
b) I minimi di paga.
c) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico
dell’industria.
d) L’affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e
tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici.
e) La rapida e completa sistemazione dei ferrovieri e di tutte le industrie dei trasporti.
f) Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sulla invalidità e
sulla vecchiaia abbassando il limite di età, proposto attualmente a 65 anni, a 55 anni.
Per il problema militare noi vogliamo:
a) L’istituzione di una milizia nazionale con brevi servizi di istruzione e compito
esclusivamente difensivo.
b) La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi.
c) Una politica estera nazionale intesa a valorizzare, nelle competizioni pacifiche della
civiltà, la Nazione italiana nel mondo.
Per il problema finanziario noi vogliamo:
a) Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma
di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze.
b) Il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense
Vescovili che costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi.
c) La revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell’85% dei profitti di
guerra.
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Sono differenti ma convergenti le storie politiche che portano allo sviluppo del programma
di San Sepolcro.
Tra la metà di aprile e la fine di maggio del 1919, De Ambris scrive su Il Rinnovamento (31
maggio 1919) un significativo articolo intitolato "I limiti dell'espropriazione necessaria", in
cui sostiene che
da un lato si tratta di fare in modo che espropriando una parte del capitale, la
produzione non diminuisca, ma invece aumenti. Dall’altro lato si tratta di fare in modo
che l’aumento della produzione si converta in maggior vantaggio per i produttori."
L'articolo è molto apprezzato da Mussolini (d’altronde alla stesura del "Manifesto dei Fasci
Italiani di Combattimento" aveva collaborato lo stesso De Ambris), che lo pubblica sotto
forma di opuscolo. Quello dell'espropriazione, da sempre un obiettivo di socialisti e
comunisti, ora viene usato anche dai nazional-socialisti. Nell'articolo "Necessarie
dissoluzioni" (n+1, n° 36), abbiamo osservato:
I punti dello stringato programma fascista avrebbero potuto benissimo essere stilati da
un Radek nel corso di una delle numerose riunioni frontiste con esponenti
socialdemocratici
o
comunque
del
nemico
opportunista.
Anzi,
in
quanto
a
'espropriazione degli espropriatori' superava tutti i programmi frontisti, mentre nelle
dichiarazioni di Mussolini comparivano netti i caratteri riformisti della futura 'nazione
proletaria', laboriosa e sindacalizzata."
Mussolini, come abbiamo visto, prende posizione anche sull'agitazione alla Franchi
Gregorini di Dalmine (marzo 1919), in cui è stato organizzato un grande sciopero. Nello
stabilimento è presente la UIL, e l'occupazione della fabbrica è un primo esperimento di
controllo operaio della produzione. Fin dai primi giorni dell'occupazione, sul tetto viene
issata una bandiera tricolore. Mussolini intuisce immediatamente quanto sia importante
inserirsi in questa lotta, si reca a Dalmine e lì, all'interno di un discorso in parte già citato,
pronuncia la celebre frase demagogica: "la crisi la paghino i ricchi" (vedete com'è moderno
e "di sinistra" il capo del fascismo), e anticipa temi che saranno sviluppati dall'Ordine
Nuovo di Gramsci, come ad esempio, appunto, il controllo operaio della produzione. L'ex
direttore dell'Avanti dichiara di beffarsi di etichette e definizioni ideologiche; i fascisti non
sono né socialisti né antisocialisti, e a seconda delle necessità decidono di marciare sul
terreno "della collaborazione di classe, della lotta di classe, e della espropriazione di
classe" . Essi sono, come annuncia, dei "problemisti" e il loro è un antipartito che non ha
principi fissi, che ha per norma solo l'azione del momento. Aggiungiamo all'insieme
controrivoluzionario il socialdemocratico Bernstein. Quando diceva che "il fine è nulla, il
movimento è tutto" ci dimostrava che Mussolini era allievo di troppi maestri; o erano i troppi
maestri, compreso Mussolini, ad essere allievi di un unico, mostruoso insieme di forze
reazionarie?
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Vittoria mutilata
Nel luglio del 1919 in diversi paesi europei migliaia di proletari e di socialisti scendono in
piazza contro i dettati imposti dal trattato di pace firmato a Versailles dalle potenze
vincitrici, contro il sostegno degli eserciti "bianchi" offerto dall'Intesa, e per la difesa delle
rivoluzioni in Russia e Ungheria. Ma lo "scioperissimo" del 20 e 21 luglio non determina
alcun movimento rivoluzionario e, anzi, rinvigorisce il fronte anti-proletario.
Le trattative di pace ancora in corso a Parigi non soddisfano gli ambienti nazionalisti
italiani. Si tengono vari comizi in cui si rivendica con forza l'annessione di Fiume all'Italia. Si
rafforza il movimento per Fiume italiana e comincia a prendere forma l'organizzazione di un
colpo di mano militare, con tanto di trattative ad alto livello. Molto probabilmente i vertici del
governo sapevano che qualcosa stava bollendo in pentola…
"Noi azzarderemo l'ipotesi che non è il fatto in sé ma certi dettagli della sua esecuzione
avessero sorpreso il Nitti: egli doveva sapere, ma fu forse giocato su certe modalità
concordate." ("Fiume e il proletariato", Rassegna Comunista del 15 settembre 1921)
E qui entra in scena D'Annunzio. Il "poeta-soldato" si arruola nell'esercito già ultracinquantenne e subito si distingue con una serie di azioni spericolate, come la famosa
beffa di Buccari, un'incursione militare effettuata, nel febbraio del '18, contro le navi austroungariche nella baia di Buccari, in Croazia, e il volo su Vienna, una trasvolata in cui
vengono lanciati nel cielo della capitale austriaca migliaia di manifestini tricolori.
D'Annunzio è carismatico, conosciuto nell'ambiente culturale e mondano italiano, ed
apprezzato anche negli ambienti militari; è un vero personaggio di rappresentanza, un
piazzista dell'ideologia di mezzo, una réclame che attira l'attenzione. Naturalmente la
nostra dottrina ha demolito da tempo la credenza secondo la quale la storia è fatta dai
grandi uomini, alla Carlyle, eroi o condottieri in grado di plasmare gli eventi. Come abbiamo
scritto in un nostro testo,
"Il culto parossistico dell'Io raggiunge l'apice a cavallo tra i due secoli, quando la grande
borghesia, affaccendata nell'accumulazione strepitosa, lascia alle mezze classi il compito
di esprimere le forme filosofiche, politiche, sociologiche e letterarie specifiche di questa
vera e propria infezione. E l'individualismo poco a poco da eroico si fa negativo. Il poetico
superuomo di un D'Annunzio precede la paura di una civiltà dell'uomo-massa negatrice
della libertà individuale profetizzata daOrtega y Gasset" (Lettera ai compagni Militanti delle
rivoluzioni, 1996).
Alla fine della guerra a D'Annunzio viene concesso un titolo nobiliare. Oltre che Vate, poeta
di un'epoca, medaglia d'oro al valore militare, ora è principe di Montenevoso. Con la sua
condotta in guerra si è assicurato il privilegio di essere ascoltato ma, scherzi della storia, la
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sua influenza finirà per creare non pochi problemi ai governi italiani. Problemi passeggeri
comunque, dato che il fascismo sarà in grado di fagocitare e utilizzare per i propri fini
anche l'ingombrante personaggio.
(socializzazione_fascista_comunismo1.htm)
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(socializzazione_fascista_comunismo3.htm)
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La socializzazione fascista e il comunismo (3)
(socializzazione_fascista_comunismo2.htm)
(socializzazione_fascista_comunismo4.htm)
3. Zona temporaneamente autonoma?
La spedizione legionaria
L'organizzazione pratica dell'impresa di Fiume prende il via nell'estate del 1919 quando
nasce un Comitato per le Rivendicazioni nazionali di cui fanno parte varie associazioni
irredentiste tra le quali la Dante Alighieri, l'Associazione Trento-Trieste, l’Associazione
combattenti e l’Associazione Mutilati di guerra, in contatto con i fascisti, i futuristi e gli arditi.
Si forma una rete che raccoglie in breve tempo tutti gli elementi ultra-nazionalisti italiani,
con collegamenti anche in settori dell'imprenditoria e nell'esercito, pronta alla "difesa"
dell'Adriatico. E che interessa anche ambienti governativi, con cui tiene i contatti un
industriale italiano sostenitore della causa dell'italianità di Fiume (e finanziatore
dell’impresa), Oscar Sinigaglia. Altro attore sulla scena fiumana è Giovanni Giuriati,
avvocato veneziano volontario nella prima guerra mondiale e presidente dell'Associazione
Trento-Trieste, che in seguito diventerà il capo di gabinetto di D'Annunzio.
Già da giugno si vociferava della preparazione di un'azione su Fiume con l'obiettivo di
difenderne l'italianità contro le prevedibili decisioni della Conferenza di Pace. Si prendono
contatti con Badoglio, con il comando dell'esercito italiano, ma il tentativo di coinvolgimento
non va a buon fine e allarma le autorità: il 31 luglio Badoglio ordina di aumentare la
sorveglianza sui confini italiani.
Un fatto fa precipitare la situazione. Come abbiamo visto, a Fiume dopo la guerra si
stabilisce una presenza militare multinazionale. Ci sono truppe francesi, inglesi, americane
e italiane che si spartiscono il controllo della città. Nel mese di luglio si verificano scontri tra
truppe italiane (i granatieri di Sardegna) e soldati francesi. Gli scontri lasciano sul terreno
una decina di morti e si genera una situazione complicata, tanto che viene nominata una
commissione d'inchiesta, e in agosto viene deciso lo spostamento dei granatieri da Fiume
a Ronchi, una cittadina in territorio italiano, vicina a Monfalcone. Il malcontento per la
partenza da Fiume, spinge sette ufficiali di stanza a Ronchi a contattare Peppino Garibaldi,
Corradini, Federzoni e Mussolini, ma solo D'Annunzio accetta di dirigere un'impresa che
miri ad ottenere l'annessione di Fiume all'Italia. In un articolo della nostra corrente si trova
la descrizione in dettaglio dell'occupazione:
"Nella notte del 12 settembre 1919 Gabriele D'Annunzio, partito da Venezia nel
pomeriggio, muoveva dal cimitero di Ronchi presso Trieste, con forse 1000 uomini
marcianti su autocarri, alla volta di Fiume. Fiume era occupata per conto degli alleati da
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forze italiane. Forze italiane vigilavano attorno alla città, la linea di armistizio. Tutta la
Venezia Giulia e contorno di Trieste erano tuttora tenuti da forze imponenti dell'esercito
italiano, i "legionari" […] passarono senza difficoltà, e insieme al battaglione fiumano
che loro era venuto incontro sulla linea di armistizio, entrarono in Fiume, prendendone
possesso." ("Fiume e il proletariato", Rassegna Comunista del 15 settembre 1921).
All'impresa prendono parte granatieri e bersaglieri ribelli, oltre a gruppi di arditi accorsi
prontamente e personaggi di varia provenienza politica. Il loro arrivo determina una
situazione estremamente tesa perché si configura come un atto di diserzione e di
ammutinamento, sia da parte dei granatieri che erano di stanza a Ronchi sia da parte
dell'esercito di frontiera che doveva impedire il passaggio dei ribelli.
C'è chi in Fiume dannunziana vede l'avamposto del nazionalismo, chi vede la capitale
futurista d'Italia, qualcuno parla addirittura di repubblica dei Soviet. Alcuni anarchici parlano
di Fiume come di una comune, la nostra corrente nell'articolo appena citato scrive:
"Abbiamo avuto recente occasione di visitare la città, e non intendiamo scrivere con
intenti critici, ma solo per illuminare i lettori con i dati che abbiamo raccolti. Gli elementi
fiumani a noi più vicini, i lavoratori e i compagni comunisti o simpatizzanti, si esprimono
nel senso che il regime d'Annunziano era intollerabile e che le prepotenze e le
vessazioni contro i lavoratori erano continue, ma attribuiscono questi fatti più
all'ambiente che s'era formato intorno al 'comandante' che a lui stesso, di cui da pochi
si sente parlare con avversione."
A Fiume non c'era ovviamente nessuna comune, nessun soviet e nessuna repubblica
socialista. Ma è interessante il fatto che molti protagonisti lo pensassero, indotti dalla
sovrapposizione e ibridazione di programmi e aspettative.
L'occupazione di Fiume
Nel settembre del '19 la maggior parte dei legionari, tra loro soprattutto i graduati
dell'esercito, pensano a un'azione simbolica che provochi effetti immediati a livello
governativo con una sua conclusione in un tempo breve. Ma questo non succede perché "il
fuoco acceso a Fiume" non provoca alcun incendio: il governo Nitti non cade, la
popolazione italiana della Dalmazia non insorge e non ci sono nemmeno grossi movimenti
di piazza in Italia.
Si pone quindi ai legionari il problema di come gestire la loro presenza a Fiume, come
impostare l'attività di ordinaria amministrazione e come stabilire rapporti con il governo
italiano e le altre forze presenti in città.
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Facilita il lavoro dei legionari la partenza dei contingenti americano, francese e inglese, che
lasciano la città per evitare conflitti, ma con la garanzia da parte del governo italiano che la
situazione si risolverà a breve. Fiume resta nelle mani dei dannunziani e dei carabinieri.
D'Annunzio lascia l'amministrazione della città al consiglio nazionale, che si è formato dopo
la guerra, e si occupa dei rapporti con l'estero.
Già da ottobre, a un mese dall'occupazione di Fiume, cominciano a verificarsi dei
mutamenti politici che provocano malumori negli ambienti borghesi e militari presenti in
città. Il discorso Italia e vita di D'Annunzio del 24 ottobre del 1919 ci dà l'idea del nuovo
clima che vi si respira:
"Tutti gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno. E gli inermi
saranno armati. E la forza sarà opposta alla forza. E la nuova crociata di tutte le nazioni
povere e impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi, contro le nazioni
usurpatrici e accumulatrici d'ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta
degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, [...]. Ogni
insurrezione è uno sforzo d'espressione, uno sforzo di creazione. Non importa che sia
interrotta nel sangue, purché i superstiti trasmettano all'avvenire [...]. Per tutti i
combattenti, portatori di croce che hanno salito il loro calvario di quattr'anni, è tempo di
precipitarsi sopra l'avvenire."
L'appello ai popoli poveri contro le nazioni usurpatrici è tutto volto contro il trattato di
Versailles e la politica delle nazionalità di Wilson. Ad ingarbugliare ulteriormente la
situazione ci pensa Giuseppe Giulietti, il presidente della Federazione Italiana dei
Lavoratori del Mare (FILM), un sindacalista interventista che ha contatti con gli anarchici e
con i sindacalisti rivoluzionari. Giulietti il 10 ottobre organizza con la FILM la cattura della
nave italiana Persia che trasporta 1.300 tonnellate di armi destinate alle armate bianche
che in Russia stanno combattendo i bolscevichi.
Quello del Persia è un fatto che desta scalpore in Italia sia per il quantitativo di armi
sequestrate sia perché queste sono dirottate a Fiume. L'impresa di Fiume, che all'inizio si è
connotata chiaramente come nazionalista, con l'entrata in scena di Giulietti e del sindacato
della "gente di mare", va assumendo coloriture politiche differenti. Un altro fatto rilevante si
verifica il mese successivo: la spedizione di D'Annunzio a Zara mentre si stanno
organizzando in Italia le elezioni. Zara è controllata dall'ammiraglio Millo, a capo di un
contingente militare italiano. D'Annunzio arriva in città, accolto benevolmente
dall'ammiraglio, e tiene un appassionato discorso in cui dichiara legittimo il ventilato
passaggio di Zara all'Italia, destando la preoccupazione del governo italiano il quale teme
che la ribellione si estenda a tutta la Dalmazia.
Alla ricerca di alleanze
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Fin dal settembre del '19 D'Annunzio stabilisce dei contatti con il governo italiano, si
avviano delle trattative e viene discusso un progetto che prevede il controllo italiano della
città, lasciando però il porto e la ferrovia sotto quello della Società delle Nazioni. Si tratta di
trovare un modus vivendi per la città di Fiume che accontenti tutti. Ma la parte più
intransigente dei legionari non ammette mezze misure, e reclama l'annessione immediata;
mentre all'interno si forma una fronda che ritiene necessario arrivare ad un compromesso
con il governo italiano. Le trattative si interrompono. Viene indetto un referendum che
coinvolge tutta la cittadinanza di Fiume e nella confusione risulta che la maggioranza è
favorevole al compromesso. D'Annunzio decide allora di invalidare il referendum e di
rompere definitivamente le trattative per il modus vivendi.
Da questo momento si verifica una rottura all'interno del Comando, e Giuriati, il capo di
gabinetto di D'Annunzio, si dimette. Si apre quella che possiamo definire la seconda fase
dell'impresa, forse la più interessante perché il posto lasciato libero da Giuriati viene
occupato da Alceste De Ambris, che arriva a Fiume nel gennaio del '20.
L'impresa dannunziana, partita con intenti nazionalisti e irredentisti, si trasforma ora in
qualcos'altro. Il duo Sinigaglia-Giuriati, che aveva puntato tutto sulla caduta di Nitti come
premessa per l'annessione di Fiume, è ormai fuori gioco. Fin dai primi giorni del suo arrivo
a Fiume, De Ambris comincia a elaborare quella che verrà chiamata la Carta del Carnaro,
annunciata a luglio e resa pubblica nel settembre del 1920. Oltre ai rapporti con i
sindacalisti rivoluzionari, D'Annunzio e i suoi mantengono contatti sia con i fascisti che con
la "gente di mare" di Giulietti. Quest'ultimo, nei primi giorni di gennaio, anche in seguito
all'arrivo di De Ambris, fa giungere a D'Annunzio un messaggio nel quale lo esorta a
organizzare una marcia su Roma che coinvolga la FILM, i socialisti e gli anarchici al fine di
instaurare un nuovo ordine sociale e risolvere così anche la questione fiumana.
La risposta di D'Annunzio è rivelatrice dello spostamento "a sinistra" del Comando:
"Il significato della mia impresa e della mia ostinatissima resistenza diventa ogni giorno
più manifesto. Tutte le volontà di rivolta — nel vasto mondo — si orientano verso
l'incendio di Fiume, che manda le sue faville molto lontano. Anche i Croati, desiderosi di
scuotere il giogo serbo, si volgono a me. La rivoluzione dei 'separatisti' è pronta. Deve
scoppiare prima del 15 marzo. Ho le armi, anche; ho le cartucce del Persia, a milioni."
(cit. da Michael A. Ledeen, D'Annunzio a Fiume, passim).
Ecco la testimonianza dell'anarchico Malatesta:
"Si trattò, al principio del 1920, di un progetto insurrezionale, una specie di marcia su
Roma se la si vuol chiamare così. Il primo ideatore della cosa [Giulietti], il quale
avrebbe potuto avere da Fiume soccorso di uomini e specialmente di armi, metteva
come condizione sine qua non il concorso o almeno l'approvazione dei socialisti, e ciò
sia per una maggiore riuscita sia perché temeva che lo potessero qualificare di agente
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dannunziano. Vi furono in proposito un paio di riunioni a Roma; i socialisti non ne
vollero sapere, e così non se ne fece nulla." (E. Malatesta, Lettera a Luigi Fabbri 1930,
"Pagine di lotta quotidiana", Umanità Nova, 1920-1922)
I progetti insurrezionali infine non si concretizzano. L'idea di coinvolgere il Partito
Socialista, evidentemente, non sta in piedi: l'avversione verso D'Annunzio e gli interventisti
è ancora forte nell'ambiente socialista. C'è chi sostiene a tutt'oggi che il Partito Socialista
perdette un'occasione rivoluzionaria rifiutando l'appoggio alle vicende fiumane (Basile e
Leni, Amadeo Bordiga politico). Ma un atteggiamento del genere da parte del partito era
impensabile: i massimalisti di Serrati, pur essendo avvezzi ai compromessi (non avevano
mai negato il loro appoggio alla destra ultrariformista) non potevano rinnegare fino a quel
punto la politica di Bissolati, contraria all'annessione di Fiume. D'altra parte la Sinistra
Comunista "italiana" aveva già dimostrato una forte coerenza nell'individuare tutti gli
ostacoli che si frapponevano tra il proletariato e la rivoluzione, primo fra tutti proprio
l'interclassismo. Comunque la classe operaia si era mantenuta estranea ai fatti fiumani
anche se (o proprio perché!) erano presenti molti dei suoi capi sindacali. È vero che l'intero
movimento para-insurrezionale di quegli anni presentava aspetti valutabili in termini
favorevoli al proletariato, ma l'occupazione di Fiume non poteva essere analizzata allo
stesso modo. I fattori in gioco erano troppo legati alla oggettiva composizione interclassista
dei protagonisti, alla inevitabile preminenza dei fattori nazionalisti. Se è plausibile che
anche Lenin vedesse nell'avventura fiumana un'occasione rivoluzionaria perduta, occorre
osservare che l'estrema lucidità tattica del grande rivoluzionario per la difficile situazione
della Russia, non aveva il suo corrispettivo per la situazione dei paesi occidentali. In
periodo rivoluzionario l'ossessione frontista e la tattica elettorale sono armi mortali del
nemico contro la rivoluzione.
Anche Gramsci, scrivendo nel gennaio del 1921 su L'Ordine Nuovo, tracciava un bilancio
non negativo dell'impresa e criticava l'opera del PSI che aveva dimostrato, "per gli
avvenimenti di Fiume, la stessa incapacità politica e la stessa inettitudine a organizzare il
proletariato in classe dominante, che aveva dimostrato" in altre occasioni. Nicola Bombacci
andava oltre, sostenendo che "il movimento dannunziano è perfettamente e
profondamente rivoluzionario; perché D’Annunzio è rivoluzionario" (La tribuna, 30 dicembre
1920, cit. in C. Salaris, Alla festa della rivoluzione). È del tutto naturale che di fronte a
questo tipo di infatuazione per la teoria delle occasioni perdute si finisca per cercare
occasioni che dovrebbero essere coscientemente non solo "perdute" ma rifiutate. Fu ad
esempio duramente criticata dalla nostra corrente la tattica nazional-bolscevica presentata
da Radek all'Internazionale (cfr. "La questione nazionale", Prometeo n. 4 del 1924). Radek
aveva manifestato simpatia nei confronti di un militare nazionalista tedesco, un certo
Schlageter, fucilato dai francesi per aver messo in atto degli attentati contro il trattato di
Versailles.
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Tra l'altro non era mancata l'attenzione della Sinistra rispetto ai fatti fiumani: Il Soviet,
nell'articolo "Parva favilla" (28 settembre 1919), pur irridendo all'azione romantica di
D'Annunzio, valuta le possibili conseguenze del suo gesto, scorgendo la possibilità per i
comunisti di inserirsi autonomamente nel marasma sociale in corso per sferrare un colpo
alla borghesia italiana:
"La parva favilla minaccia di provocare l'incendio. L'occasione è propizia, il ministero
può andare a gambe in aria e subito le speranze si affacciano e le ambizioni si
esaltano. […] Il gesto di D'Annunzio è superbo dice l'aspirante ministeriale; è
deplorevole dice il ministro in carica che non vuole mollare. La corona è tirata in ballo.
La borghesia è tutta in subbuglio. La classe lavoratrice non può e non deve essere
inerte, essa deve vigilare. Non si tratta di impedire nuove follie soltanto e di dare
manforte ai così detti antimilitaristi della borghesia contro gli altri. [...] Si accapiglino
bene tra di loro i borghesi, noi stiamo alla vedetta e prepariamo le nostre armi pronti a
dare loro addosso nel momento propizio. Gli avvenimenti possono precipitare, sarebbe
colpevole se non sapessimo trarne il nostro vantaggio."
Niente indifferentismo dunque da parte del gruppo de Il Soviet, ma ferrea difesa dei confini
di classe e, allo stesso tempo, necessità di prepararsi all'azione qualora si presenti
l'occasione giusta.
Nei primi mesi del 1920 nasce la Lega di Fiume, un tentativo di promuovere un'anti-Società
delle Nazioni schierata contro il trattato di Versailles e a favore dei popoli colonizzati, con
l'obiettivo di trasformare la città in "Patria delle patrie". Uno degli ideatori del progetto è il
poeta belga Leon Kochnitzky, che vi è giunto affascinato dall'impresa dannunziana e che
dalla città cercherà di tessere rapporti con i nazionalisti irlandesi ed egiziani, e i
rivoluzionari russi.
In aprile a Fiume si verifica un grande sciopero dei lavoratori, D'Annunzio svolge un ruolo
di mediazione e si trova un accordo per mettere fine all'agitazione; ma a sciopero concluso
gli imprenditori non rispettano i patti e si scatena una repressione a cui però sembra che il
poeta non abbia partecipato.
La costituzione della Lega inasprisce ulteriormente i rapporti con la componente militare
più moderata di stanza nella città. Nel maggio del '20 la compagnia dei reali carabinieri, il
cui comandante si era messo in luce per la repressione dello sciopero operaio di aprile,
abbandona Fiume con alcune centinaia di uomini impegnando anche uno scontro a fuoco
con gli arditi che vi si opponevano. Si tratta di un ammutinamento nell'ammutinamento.
Per riuscire ad avere un quadro più chiaro della caotica situazione gli anarchici inviano a
Fiume un redattore di Umanità Nova, Randolfo Velia, che riporta:
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"Appena giunto a Fiume ho voluto sentire la voce delle caserme, e ho dovuto
convincermi che qui la disciplina non è quella ferrea dominante nelle file di tutti gli
eserciti, ho visto soldati scherzare con ufficiali, anzi costoro mi si affollavano d'intorno
per convincermi che non erano loro a comandare, ma i soldati a ubbidire. Il giuramento
delle reclute non è più quello usato in Italia, le bandiere non hanno più la corona del re
e la "marcia reale" è stata abolita. Fra i soldati ed ufficiali riconobbi molti che furono con
noi nei moti della Settimana Rossa, ma che poi furono trascinati da un malsano
entusiasmo nella infame guerra. Tutti mi espressero un ardente desiderio di
rinnovazione sociale; tutti si dichiararono rivoluzionari più di noi; tutti mi promisero di
trovarsi con noi nell'imminente rivoluzione sociale. Un capitano, credendo ch'io ridessi
incredulo mi disse: 'Non rida con ironia e dica a Malatesta che qui [sic] non c'è la feccia
dell'esercito, com'egli ha scritto, ma c'è un piccolo esercito pronto a sacrificarsi per il
trionfo delle più alte idealità sociali'."
La Carta del Carnaro
Da parte sua D'Annunzio dichiara all'inviato anarchico:
"Io sono per il comunismo senza dittatura [...]. Nessuna meraviglia, poiché tutta la mia
cultura è anarchica, e poiché in me è radicata la convinzione che, dopo quest'ultima
guerra, la storia scioglierà un novello volo verso un audacissimo progresso. [...] È mia
intenzione di fare di questa città un'isola spirituale dalla quale possa irradiare un'azione,
eminentemente comunista, verso tutte le nazioni oppresse." (Randolfo Velia, "Lettera
sulla situazione fiumana", Umanità nova del 9 giugno 1920).
Il Poeta passa dunque dal nazionalismo al "comunismo" con una certa disinvoltura, in una
sorta di schizofrenia politica tipica delle mezze classi in crisi.
L'autonomizzazione del Comando dalla madrepatria è testimoniato dal contenuto della
costituzione della Reggenza Italiana del Carnaro:
"La vostra vittoria è in voi. Nessuno può salvarvi, nessuno vi salverà: non il Governo
d'Italia che è insipiente ed è impotente come tutti gli antecessori; non la nazione italiana
che, dopo la vendemmia della guerra, si lascia pigiare dai piedi sporchi dei disertori e
dei traditori come un mucchio di vinacce da far l'acquerello... Domando alla Città di vita
un atto di vita. Fondiamo in Fiume d'Italia, nella Marca Orientale d'Italia, lo Stato Libero
del Carnaro." (Discorso di D'Annunzio del 12 agosto 1920 in cui proclamò la Reggenza
Italiana del Carnaro).
La "Reggenza" non fu riconosciuta giuridicamente che dalla Russia e fu trasformata nello
Stato libero di Fiume nel dicembre dello stesso anno.
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Un articolo sul movimento dannunziano comparso su Prometeo del 1924 ne analizza in
una prima parte la dottrina partendo dalla Carta del Carnaro, e in una seconda la politica.
Al di là dei richiami aulici alla romanità imperiale, al Risorgimento, ai Comuni italiani, nella
Carta sono presenti tutte quelle rivendicazioni "popolari" che possiamo ritrovare nel
fascista Programma di San Sepolcro e nel programma del Partito politico futurista, il voto
alle donne, il suffragio universale, la laicità della scuola, il referendum, la nazionalizzazione
del porto. Non mancano quelle di carattere sociale, come il minimo salariale, unito alla
garanzia statale contro la disoccupazione, l'assistenza agli infermi e agli invalidi, le
pensioni di vecchiaia. Sono punti riguardanti la questione sociale che non sono in antitesi
con uno statuto borghese classico.
L'impianto della Carta è chiaramente corporativo: lo stato deve tutelare tutti i produttori; ma
se nel Programma di San Sepolcro è contemplata la costituzione di uno stato corporativo
dove vi sia una rappresentanza paritaria di ogni categoria, nella Carta del Carnaro è
previsto che le corporazioni dei lavoratori nell'eleggere il Consiglio dei Provvisori, l'organo
che governerà lo Stato, abbiano un maggior numero di voti rispetto alle corporazioni che
rappresentano la borghesia e le mezze classi. È una differenza non da poco rispetto al
programma dei fascisti:
"[La Reggenza] amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei
produttori".
L'espressione può giudicarsi piuttosto vaga ma certo essa ha un valore tendenziale: in
quanto vi è, nel sottofondo, una "preferenza" per i cittadini produttori.
Nella Carta compare un altro concetto particolare, ripreso direttamente dalla Costituzione
francese del 1793 dettata da Robespierre, in cui si dice che la proprietà è il diritto di cui
gode ogni cittadino di disporre della porzione di beni garantita dalla legge; il diritto di
proprietà è limitato, come tutti gli altri diritti, dall'obbligo di rispettare quelli altrui; esso non
può recare pregiudizio né alla sicurezza né alla libertà.
Dunque si sancisce una limitazione al diritto di proprietà, che viene rispettato finché non
danneggia altri cittadini. Ma vengono introdotte alcune aggiunte: lo Stato non riconosce la
proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa ma la considera come la più
utile delle funzioni sociali. L'unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di
produzione e di scambio è il lavoro: lo Stato deve quindi intervenire espropriando industrie
inutilizzate o terre incolte. Sono punti che spostano più a "sinistra" la Carta dannunziana
rispetto al fascismo sansepolcrista.
Nell'articolo di Prometeo citato, viene sfatata l'illusione di alcuni anarchici che avevano
visto in uno stato come quello di Fiume, basato sulle corporazioni, una somiglianza con il
sistema soviettista. Inutile dire che la differenza tra le due esperienze è abissale: mentre da
una parte si esaltano le categorie professionali (interclassismo), dall'altra i soviet si basano
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su una rete proletaria di tipo territoriale che esclude gli appartenenti alle altre classi. I
comunisti basano la loro dottrina sulla lotta di classe, mettendo in primo piano, rispetto a
quella sindacale, la forma partitica, che va oltre gli interessi immediati di questa o quella
categoria e ha come fine l'abolizione di tutte le classi e della divisione sociale del lavoro. È
giusto quindi cogliere un parallelo tra lo spiritualismo dannunziano e il sindacalismo: lo
spirito di categoria è imparentato con l'individualismo e il sindacalismo è la morale
soreliana del produttore:
"Lo spiritualismo dannunziano sente come poco la società attuale sia moralizzabile ed
'eroicizzabile', se non nelle vergini forze che erompono dal proletariato: esso non sa
andare più oltre del saluto che leva a questi fermenti del domani." ("Il movimento
dannunziano").
Il futurismo a Fiume
Almeno dal 1848, data di pubblicazione del Manifesto, abbiamo a disposizione tutti gli
strumenti teorici per legarci saldamente al futuro e lottare efficacemente contro il vecchio
ambiente. Nessun movimento interclassista può avere strumenti altrettanto efficaci. Per
legarsi al futuro bisogna seppellire il passato, occorre non solo proclamare intenzioni per
l'avvenire ma rifiutare il presente nei fatti. Non si può essere socialisti e nazionalisti
mantenendo una coerenza. Questo ossimoro, questa impossibile unione fra contrari,
obbliga i movimenti interclassisti a scegliere, ed essi scelgono sempre la controrivoluzione.
Ciò vuol dire, banalmente, conservare il passato. Infatti, dannunziani e futuristi italiani, pur
dichiarando di volere un radicale cambiamento della società, si limitano ad esprimere la
loro simpatia, anche attraverso azioni eclatanti, per i "fermenti del domani", senza però
essere in grado di dare l'assalto alle vecchie forme per distruggerle. Si può dire che la
cartina di tornasole per valutare un movimento rivoluzionario non è il grado di costruzione
che riesce a inserire nel proprio programma, bensì il grado di distruzione, di annientamento
del passato.
Marinetti e D'Annunzio si conoscono da prima della guerra nell'ambiente dell'interventismo
e criticheranno entrambi la politica delle nazionalità di Wilson. Il 13 settembre 1919
Marinetti, venuto a conoscenza dell'impresa dannunziana si reca a Fiume, dove i futuristi
organizzeranno delle performance artistiche. A ottobre egli torna in Italia e interviene al
primo congresso fascista apertosi a Firenze al teatro Olimpia il 9 ottobre plaudendo
all'avvento degli artisti al potere a Fiume. Al secondo congresso dei Fasci, che si tiene al
teatro Lirico di Milano nel maggio del 1920, si verifica una spaccatura tra Marinetti, Carli
(che abbiamo già ricordato) e Mussolini. I fondatori del partito futurista non sono d'accordo
con la politica reazionaria del fascismo che si scaglia contro gli scioperi abbandonando le
pregiudiziali antimonarchiche e anticlericali (Marinetti: "Noi veniamo verso il Carso. Ma non
andremo verso la Reazione!").
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I risultati elettorali del 1919 sono pessimi per il fascismo e lo costringono a correre ai ripari.
Con il secondo congresso esso abbandona tutto l'armamentario rivendicativo di "sinistra" e
vira decisamente a destra. Nulla di nuovo, il trasformismo è una specialità inventata in
Italia. Tra coloro che rompono con il fascismo Mario Carli, che a Fiume dirige il giornale La
testa di ferro sul quale esprime una tendenza nazional-bolscevica, è uno di quelli che più
incarnano l'ossimoro passato/futuro.
Per Carli il bolscevismo ha quella carica mistica di cui l'Occidente è privo. La sua estetica
di massa e le sue vittorie militari, al confronto, fanno apparire le manifestazioni operaie
italiane non come eserciti in marcia ma come "processioni di innocenti agnellini". Il soviet,
questo spauracchio della borghesia nostrana, è così funzionale al processo rivoluzionario
che non si capisce come vi siano resistenze a introdurlo nella vita politica e militare.
"Tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e
Mosca sono due rive luminose. Bisogna al più presto, gettare un ponte fra queste due
rive." (Mario Carli, "Il nostro bolscevismo", in La Testa di Ferro, 15 febbraio 1920).
Lenin è visto dal periodico diretto da Carli come un eroe carlyliano in grado di dare alla
guerra di masse anonime, dedite alla furiosa distruzione dell'esistente, il carattere di
costruzione gigantesca della volontà. Non è da Lenin che debbono difendersi le masse
occidentali ma dalla coalizione dei plutocrati che le opprimono. Il "gigante di Mosca" ci
avvicina alla lotta comune contro il comune nemico. Intanto Gabriele D'Annunzio è
chiamato compagno dai proletari di Fiume. "Poi si vedrà".
Fa un po' d'impressione sentir chiamare compagno un tipo come D'Annunzio, ma questa è
la realtà percepita da troppi per essere accantonata come se non esistesse.
"Prendendo la Russia come modello tipico di rivoluzione sociale, si vede anzitutto che il
bolscevismo è stato un movimento, non tanto grettamente espropriatore, quanto
rinnovatore, perché ha voluto ricostruire in base a ideali vasti e profondi l'edificio
sociale, assurdamente sbilenco sotto il decrepito regime zarista" (Ibid.).
A Fiume c'è quindi una componente che simpatizza per la Russia bolscevica e cerca
collegamenti con essa. Una simpatia analoga la possiamo trovare anche in un testo di
Marinetti intitolato "Al di là del comunismo", pubblicato il 15 agosto del 1920, sempre su La
testa di ferro:
"Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi e che l'arte futurista
fu per qualche tempo arte di Stato in Russia. Le città russe, per l'ultima festa di maggio,
furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all'esterno con
dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo
onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra. Tutti i Futurismi del mondo sono figli
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del Futurismo italiano, creato da noi a Milano dodici anni fa. Tutti i movimenti futuristi
sono però autonomi. Ogni popolo aveva o ha ancora un suo passatismo da rovesciare.
Noi non siamo bolscevichi perché abbiamo la nostra rivoluzione da fare."
L'adesione incondizionata a tesi semplificatrici, se va bene per Sorel e la sua teoria del
mito stimolatore di azione, si presta a critiche razionali. L'avvicinamento del futurismo al
fascismo può anche essere spiegato con pulsioni sociali e individuali. Ma nei fatti, se il
futurismo ha un effettivo carattere di rottura inerente persino al suo nome, il fascismo non
può vantare altrettanta coerenza. Il giornalista scrittore Giuseppe Prezzolini ad esempio
scrive lucidamente:
"Il Fascismo, vuole essere, se non erro, gerarchia, tradizione, ossequio all'autorità. Il
Fascismo si compiace di rievocare Roma e la classicità… Vuol mantenersi nelle linee
segnate dai grandi italiani e dalle grandi istituzioni italiane, compreso il Cattolicesimo.
Ora il futurismo è tutto l'opposto di questo. Il Futurismo è protesta contro la tradizione; è
lotta contro i Musei, contro il classicismo, contro le glorie scolastiche… Il Fascismo è
uno sforzo politico essenzialmente italiano… Invece il Futurismo è un movimento di
carattere internazionale. Lo stesso Marinetti ammette che vi sono ormai futuristi russi,
americani, australiani, tedeschi, di tutte le parti del mondo… Quanto al Futurismo
bisogna riconoscere che esso si è logicamente trovato al suo posto in un solo stato: in
Russia. Colà Bolscevismo e Futurismo hanno fatto alleanza. L'arte ufficiale del
Bolscevismo è stata il futurismo. I monumenti della rivoluzione, i cartelloni di
propaganda, i libri hanno portato l'impronta dell'arte e delle idee futuriste. E ciò è
perfettamente logico e coerente. Le due rivoluzioni, le due antistorie, si sono alleate.
L'una come l'altra vogliono distrutto il passato e tutto rifare su basi nuove, di tipo
industriale. La fabbrica è stata la sorgente delle idee politiche bolsceviche; ed è stata la
inspiratrice dell'arte futurista. Ma come possa l'arte futurista andare d'accordo con il
Fascismo italiano, non si vede." (Il secolo del 3 luglio del 1923).
Per la nostra corrente il linguaggio è un mezzo di produzione, fa parte di ogni struttura
sociale perché è il mezzo con cui l'uomo rovescia la prassi (progetta); ma non è da
materialisti confondere il linguaggio con l'ideologia che esso può veicolare. Il futurismo,
come rileva anche Prezzolini, è un movimento di rottura, un linguaggio internazionale, in
Italia viene inglobato dal fascismo, mentre in Russia riesce ad esprimersi al meglio
assumendo un profilo rivoluzionario e internazionalista (finché non sarà bandito e sostituito
dal reazionario "realismo socialista").
Un ambiente "creativo"
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Le rivoluzioni quando sono tali agiscono così profondamente sulla società da cambiarne,
oltre che la struttura, ogni aspetto della vita. Prendono l'impronta dalla classe rivoluzionaria
ma trascinano nella lotta tutte le classi e sottoclassi. Ciò non significa che sono
interclassiste, ma che obbligano tutte le classi a ballare alla musica rivoluzionaria. In un
tale contesto può succedere quindi che uomini di una certa classe siano portati a lottare
per gli interessi di un'altra classe. In una rivoluzione l'appartenenza è data dal programma
per cui si combatte, non dalla scheda anagrafica. Nel caso di Fiume e del fascismo la
piccola-borghesia si mette al servizio della grande borghesia, ma poteva non essere un
dato scontato. Durante la Rivoluzione francese si ebbe da questo punto di vista la massima
confusione a proposito di appartenenza: i borghesi, coloro che avrebbero tratto reali
vantaggi dai risultati della rivoluzione furono quelli che meno vi parteciparono. I sanculotti,
che sarebbero diventati gli sfruttati del futuro, combatterono in prima linea. Molti dei
borghesi, nobili e intellettuali piccolo-borghesi che avevano preparato la formidabile
enciclopedia-programma erano ormai morti. Si mossero dunque i senza riserve con
bottegai falliti, nobili decaduti, militari che saltarono il fosso dopo la battaglia di Valmy (cfr.
"Fiorite primavere del Capitale"). Fu il tentativo estremo di difendere le conquiste e le
garanzie ottenute nel passato a costringere gli uomini a mettere in discussione la vecchia
società.
Le posizioni ambigue dei D'Annunzio, De Ambris o Marinetti furono frutto di un periodo
storico estremamente contraddittorio, soprattutto per la piccola borghesia, oscillante tra
conservazione e cambiamento. E forse è per questo motivo che le opere letterarie possono
contenere più informazione di quelle storiche. Racconti, diari o carteggi come quelli di
Guido Keller, Giovanni Comisso, Mario Carli e persino D'Annunzio, ci offrono uno spaccato
della società che ci mostra la struttura delle rivoluzioni non mediante ricostruzioni a tavolino
ma attraverso dinamiche di vita, quelle che rivelano le ragioni per cui migliaia o milioni di
uomini si muovono in massa verso l'obiettivo del cambiamento. E se i capi tradiscono o
tralignano, la rivoluzione non si ferma, afferra gli strumenti che trova e se ne serve. Il
fascismo è più "moderno" della democrazia: venute meno le possibilità di prendere il potere
da parte del proletariato, la rivoluzione si focalizzò sulla forma sociale borghese più adatta
a rappresentare il dominio del capitale. Il fascismo è la socializzazione del capitalismo, è
quell'involucro che Lenin dichiara non corrispondere più al suo contenuto.
Come ha ricordato la nostra corrente, le rivoluzioni (e le controrivoluzioni) hanno uno
scenario storico, un motore sociale, attori e comparse, e anche un'estetica, un linguaggio,
attraverso il quale si esprimono. Accanto alla documentazione originale e alla saggistica
storica, è utile collocare il materiale che veicola questo linguaggio. Il romanzo Il porto
dell'amore e la raccolta Le mie stagioni di Giovanni Comisso aiutano ad avere la
percezione dell'ambiente scaturito dalla guerra e maturato nel terribile dopoguerra che
vede sovrapporsi il Biennio Rosso con l'esperienza fiumana (dal settembre 1919 al
dicembre 1920). A Fiume avveniva una sintesi, dove la componente "creativa" dei legionari
portava
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"il popolo a vivere fuori dalle città, da distruggere, verso la terra e il mare. Godere dello
spirito, credere nella vastità della propria individualità, ridurre al minimo le esigenze
materiali, disprezzare il denaro, il lusso, generatori di stupidità." (Le mie stagioni).
In quelle pagine è ricordato Henry Furst, giornalista e regista teatrale, addetto della stampa
straniera nella segreteria di D'Annunzio. Furst, e il poeta Leon Kochnitzky,
"pensavano che il mondo dovesse andare verso il comunismo e si illudevano di
influenzare le decisioni del Comandante, definito da Lenin ai comunisti italiani, andati a
Mosca, il solo capace di fare una rivoluzione in Italia".
Altre opere ci consentono di cogliere l'atmosfera legionaria: Con D'Annunzio a Fiume,
Trillirì e Arabeschi fiumani di Carli e La quinta stagione di Kochnitsky. Interessante per lo
stesso motivo il recente (2002) saggio di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione. Artisti
e libertari con D'Annunzio a Fiume, che ricorda tra le figure che circondavano il
Comandante quella di Guido Keller, descritto come un hippy ante litteram e vero
contemporaneo del dadaismo. Salaris vede nelle più originali espressioni del fiumanesimo
l'anticipazione di idee, stili e iniziative che caratterizzeranno l'esperienza dei movimenti
giovanili di contestazione degli anni Sessanta: l'uso delle droghe, la libertà sessuale e la
messa in discussione dell'autorità. Sembra che la "ribellione" che si respirava a Fiume
avesse contagiato anche alcuni religiosi: un gruppo di frati cappuccini residenti in città
tentarono una riforma radicale che avrebbe dovuto comprendere il controllo sui fondi
dell'ordine e l'elezione dal basso dei loro superiori; e in segno di sfida verso Roma fecero
sventolare sul monastero una bandiera con il motto latino ripreso da D'Annunzio: "Hic
manebimus optime" (qui staremo benissimo).
Hakim Bey, scrittore cyber-punk e libertario, parla di Fiume dannunziana come di una TAZ
(Zona Temporaneamente Autonoma), un luogo liberato provvisoriamente dal potere:
"La festa non finiva mai. Ogni mattina D'Annunzio leggeva poesia e proclami dal suo
balcone; ogni sera un concerto, poi fuochi d'artificio. In questo consisteva l'intera attività
del governo."
Nel libro di Marco Rossi, Arditi, non gendarmi! si fa menzione della varia umanità che arrivò
a Fiume durante i mesi dell'occupazione: i giornalisti giapponesi Harukichi Shimoi e Takeo
Terasaki; il medico ungherese allievo di Freud e già ministro nel governo di Béla Kun,
Miklos Sisa; il poeta ungherese Szandor Garvay e Luigi Bakunin, nipote napoletano di
Michail; irredentisti irlandesi, comunisti ungheresi fuggiti al terrore bianco di Horthy, croati
di Radic e persino nazionalisti indiani seguaci di Gandhi.
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A Fiume viene fondata la rivista Yoga, diretta da Comisso e Mino Somenzi, da cui nascerà
il gruppo "Unione Yoga", detta "l'Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione" con
l'obiettivo – ricorda Comisso – di
"organizzare un gruppo tra i legionari più intelligenti e di preparare con adunate e
discussioni un movimento per scalzare dal Comandante tutta la gente pesante e
arruffona."
I temi che vi si affrontano spaziano dall'abolizione del denaro al libero amore,
dall'abolizione delle carceri all'abbellimento delle città, prefigurando una sorta di rivoluzione
culturale. Il manifesto del gruppo ricorda quello degli anarco-futuristi russi e dei dadaisti
tedeschi. Guido Keller, aviatore, che del gruppo faceva parte, compie un gesto eclatante
diventando famoso perché dopo la firma del Trattato di Rapallo (12 novembre 1920),
quando il governo italiano minaccia di sgomberare Fiume con la forza, vola in Italia e lascia
cadere un vaso da notte sopra il parlamento.
La beffa di Keller è suggerita dal poema L'aeroplano del Papa di Marinetti, in cui il futurista
immaginava di compiere un viaggio di propaganda in aereo sorvolando Roma e di
rovesciare escrementi sopra i passatisti. Il suo gesto comunque non è solo una pensata
individuale, ma va inserito in un movimento internazionale di rottura: si pensi al Manifesto
L'antitradizione futurista di Guillaume Apollinaire, oppure alle azioni spettacolari dei futuristi
e alle opere "irrazionali" del Club Dada di Berlino. Gli artisti del tempo vogliono tagliare i
ponti con il passato, puntano a rompere tutti i canoni, hanno come obiettivo la critica della
vita quotidiana.
Nell'estate del 1920, caduto il governo Nitti, cui succede Giovanni Giolitti, De Ambris da
Fiume cerca contatti con il nuovo presidente del Consiglio al fine di trovare un
compromesso per la soluzione della questione fiumana. Ma questi tentativi non hanno
successo in quanto Giolitti ha una posizione più rigida rispetto a Nitti ed è determinato a
mettere fine all'anomala situazione. Mentre viene pubblicata la Carta del Carnaro, nel
settembre del 1920 in Italia è in corso il vasto movimento di occupazione delle fabbriche e,
in un contesto sociale rovente, l'arenarsi delle trattative con il governo porta D'Annunzio a
proiettare la sua azione verso i Balcani tentando l'organizzazione di improbabili
insurrezioni. I risultati dell'attivismo del Poeta non portano a niente, il tempo della
Reggenza del Carnaro sta per scadere.
(socializzazione_fascista_comunismo2.htm)
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(socializzazione_fascista_comunismo4.htm)
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La socializzazione fascista e il comunismo (4)
(socializzazione_fascista_comunismo3.htm)
(socializzazione_fascista_comunismo5.htm)
4. Gabriele Benito Proudhon
Il tempo sta per scadere
Nel novembre 1920, il ministero Giolitti firma con la Jugoslavia il Trattato di Rapallo. Con
esso, l'Italia ottiene alcune isole dalmate, la sovranità su Zara e una frontiera strategica
che corre lungo la linea di displuvio alpina, attraverso il Monte Nevoso; rinuncia, in cambio,
alla Dalmazia ed accetta che Fiume sia eretta a stato libero. Secondo Mussolini si tratta di
una soluzione accettabile della "questione adriatica".
A un ultimatum del governo italiano D'Annunzio risponde con l'occupazione di alcune isole
assegnate alla Jugoslavia, come Veglia e Arbe. Giolitti invia le navi della Regia Marina a
cannoneggiare la residenza del poeta. Il 24 dicembre in città tra i volontari dannunziani e i
soldati dell'esercito regolare italiano scoppiano scontri a fuoco che si protraggono per
cinque giorni provocando decine di morti. Nell'articolo "Natale di Sangue "del dicembre
1920, con il suo caratteristico stile, D'Annunzio scrive:
"Il delitto è consumato. Le truppe regie hanno dato a Fiume il Natale funebre. Nella
notte trasportiamo sulle barelle i nostri feriti e i nostri morti. Resistiamo disperatamente,
uno contro dieci, uno contro venti. Nessuno passerà, se non sopra i nostri corpi.
Abbiamo fatto saltare tutti i ponti dell'Eneo. Combatteremo tutta la notte. E domani alla
prima luce del giorno speriamo di guardare in faccia gli assassini della città martire"
(Gabriele D'Annunzio, Natale di Sangue, Fiume, dicembre 1920).
Nonostante i propositi battaglieri del Poeta, i legionari sono costretti ad arrendersi e
D'Annunzio consegna infine la città al Consiglio nazionale fiumano perché tratti la resa. Si
conclude così l'esperienza di Fiume legionaria.
Prima del tentativo disperato di provocare una reazione all'ultimatum di Giolitti, De Ambris
aveva stabilito contatti con Mussolini in vista dell'organizzazione di non meglio precisati
tentativi insurrezionali in Italia, aventi come obiettivo la realizzazione dei princìpi contenuti
nella Carta del Carnaro. Ma benché per tutto il 1920 Il Popolo d'Italia avesse appoggiato
l'impresa di Fiume sostenendo una politica annessionistica, Mussolini non mette in atto
nulla di pratico per sostenere i legionari dannunziani, se non una innocua colletta
(evidentemente i tempi per una "marcia su Roma" non erano ancora maturi).
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I fascisti lasciano dunque che la repressione militare si compia senza intervenire in nessun
modo, e questo comporta una rottura tra D'Annunzio e Mussolini. Comunque, se
l'avventura fiumana è finita, con essa non muore la sua Costituzione, la Carta del Carnaro.
D'Annunzio invita infatti i legionari a riunirsi in una loro specifica associazione, a pubblicare
un giornale e a rompere ogni rapporto con "i traditori della causa".
Il movimento dannunziano dopo Fiume
Nasce dunque la Federazione Nazionale Legionari Fiumani, fondata a Milano nel gennaio
del 1921. I legionari decidono di portare avanti il loro programma in Italia, coinvolgendo
anche l'Associazione Arditi d'Italia che adotta la Carta del Carnaro come proprio manifesto
politico e designa come presidente onorario D'Annunzio. Ciò nonostante, agli inizi del
1921, l'Associazione Arditi è quasi completamente in mano ai fascisti che potevano vantare
una parentela fra la Carta del Carnaro e il programma di San Sepolcro. D'Annunzio si
pronuncia però per l'autonomia dell'Associazione e riesce a ottenere una presa di
posizione "a sinistra". La componente fascista dissidente si riunisce allora a Bologna il 22 e
23 ottobre del 1922 e fonda la Federazione Nazionale Arditi d'Italia di chiaro orientamento
fascista. Dal 1921 al 1924 continuano le aggregazioni e le scissioni all'interno del
movimento che vede legionari fiumani e arditi contendersi la scena. Nel 1921
l'aggregazione fra l'Associazione Arditi d'Italia e la Federazione Legionaria dà luogo a un
movimento che conta su 11 federazioni regionali e una novantina di sezioni locali agli ordini
di D'Annunzio. La struttura dispone di una decina di periodici, i più importanti dei quali sono
La Vigilia di Milano e La Riscossa dei legionari fiumani di Bologna. Rinsalda inoltre i legami
con la FILM, il sindacato dei portuali.
La differenza sostanziale tra legionari e fascisti è lucidamente analizzata da Amadeo
Bordiga nella seconda parte dell'articolo di Prometeo sul movimento dannunziano:
"I dannunziani rappresentano quegli elementi delle classi medie, nutriti di una ideologia
di guerra, che fecero proprio il primo programma del fascismo, che ostentava attitudini a
tendenze di sinistra. Il fascismo è una mobilitazione delle classi medie "operata da parte
ed a beneficio dell'alta borghesia industriale, bancaria ed agraria, mobilitazione che le
classi medie medesime scambiano dapprincipio col problematico avvento di una loro
funzione storica autonoma e decisiva, quasi di arbitre nel conflitto fra borghesia
tradizionale e proletariato rivoluzionario. Così il fascismo, che appare il concentramento
di tutte le forze antiproletarie a difesa del fortilizio antico del capitalismo trova i suoi
effettivi e i suoi quadri in tutta una gamma di elementi sociali, messi in moto dal grande
sconvolgimento bellico, che si illudono di compiere uno sforzo originale, e in certo
senso rivoluzionario."
Consolidatosi il fascismo e dimostratosi macchinario in mano alle cosiddette classi
parassitarie
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"difficile riesce agli elementi piccolo-borghesi il distaccarsene per seguire una propria
via, mancando ad essi i mezzi adeguati ad un compito indipendente, e restando la più
parte dei loro capeggiatori soddisfatti o imprigionati nei posti di direzione del complesso
movimento fascistico. Ma qualche nucleo di idealisti sinceri o di concorrenti delusi nella
spartizione della torta, rimane e tende a differenziarsi: con questo si può dire di aver
tratteggiato una certa spiegazione del formarsi del movimento dannunziano."
L'idea che la guida dal paese debba andare a chi la guerra l'ha combattuta accomuna
all'inizio fascisti e dannunziani,
"ma mentre per i primi la formula non è che il passaporto della difensiva borghese
contro il proletariato rosso, che la guerra non voleva, e che dalle conseguenze di essa è
spinto alla lotta per la sua dittatura rivoluzionaria, per i secondi la formula è accettata
come autentica, come affermazione volta anche contro le vecchie caste dirigenti
borghesi e imbevuta di un certo spirito eroico di rinnovamento, come condanna non
tanto del disfattismo estremista quanto di quello degli speculatori e dei parassiti del
fronte interno, veri profanatori del sacrificio e della vittoria. Questa seconda ala, sia pure
in modo molte volte equivoco, vorrebbe orientarsi verso le forze libere del proletariato:
la prima organizza i pretoriani del capitale e gli schiavisti dell'Agraria."
Il magma da cui esce il movimento dannunziano è lo stesso dal quale provengono i
sansepolcristi, ma quando il fascismo mostra di essere diventato uno strumento in mano
alle classi considerate "parassitarie", una parte di idealisti sinceri – come vengono definiti –
si stacca e si volge con simpatia verso il proletariato. L'articolo di Bordiga si chiude così: si
esprima D'Annunzio, si esprimano i legionari… dicano con chi vogliono schierarsi.
Se per i fascisti lo sbocco obbligato è il nazionalismo e il corporativismo, per i dannunziani
(gli ex combattenti, i trinceristi, i futuristi) bisogna estromettere dal potere coloro che dalla
guerra hanno tratto profitti e dare il paese in mano alle forze vive del lavoro perché
costruiscano uno stato federale dei produttori. Dirigenti della Federazione come De Ambris,
Mecheri, Foscanelli, che provengono dalle file del sindacalismo rivoluzionario, vogliono,
secondo quanto teorizzato nel Manifesto dei sindacalisti di Angelo Oliviero Olivetti, una
repubblica sociale federativa. La rottura tra dannunziani e fascisti (apostrofati ora con
l'epiteto di "schiavisti") diventa inevitabile e viene formalizzata ufficialmente dal giornale
legionario La Vigilia con l'articolo "Ai Legionari!", del 29 gennaio 1921:
"In guardia dunque! Sappiano i Legionari che chiunque li incita ad occupare il posto di
uno scioperante, può forse essere amico dei pescecani, ma non è sicuramente amico
della Causa nostra, che non si propone certo di Combattere chi lavora per tutelare
quella borghesia che plaudiva ai reali carabinieri ed alle guardie regie quando
compivano l'assassinio di Fiume."
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Si determina quindi una situazione di scontro tra legionari e fascisti che si protrae per tutto
il 1921. I fascisti accusano i legionari di essere degli apolitici in quanto forza trasversale
che non si schiera chiaramente fra quelle in campo. I legionari ricambiano accusando i
fascisti di essersi schierati apertamente con il padronato. In questo contesto si inserisce
l'analisi di Gramsci secondo cui la differenza tra fascisti e legionari non è solo politica, ma è
una differenza di classe:
"Vi è che mentre i fascisti, specialmente in Torino, sono giovani benestanti, studenti
fannulloni, professionisti, ex ufficiali viventi di ripieghi, ecc. ecc., gente insomma che
non sente gran che i bisogni materiali della vita perché vive alle spalle di qualcheduno
(famiglia, clienti, erario pubblico), nei Legionari sono numerosi coloro che sentono
invece le strettezze della crisi economica generale [...] È gente che [...] non vede altra
via di uscita collettiva che in un movimento che abbia il carattere militare insieme e
insurrezionale di quello di Fiume" (Antonio Gramsci, "Fascisti e Legionari", L'Ordine
Nuovo, 19 febbraio 1921).
Nel libro Nino Daniele: un legionario comunista con D'Annunzio a Fiume, di Vito Salierno,
l'autore riferisce di un tentativo di incontro tra Gramsci e D'Annunzio a Gardone, nella
primavera del '21, che però non si sarebbe verificato. A Gramsci interessava stabilire
contatti con i legionari che in quel momento avevano assunto un profilo antifascista. A
Torino nel corso del 1921 sono frequenti gli scontri tra dannunziani e fascisti: riunioni
impedite con la forza, aggressioni squadriste, che vengono sminuite da Mussolini il quale
non ha nessun interesse a contrapporsi all'ingombrante figura di D'Annunzio. E infatti
Mussolini ne propone addirittura la candidatura a Zara nelle liste dei Blocchi Nazionali. Ma
D'Annunzio rifiuta e risponde al futuro Duce con la candidatura di Alceste De Ambris a
Parma in una lista autonoma, in funzione antifascista. Una situazione oscillante insomma,
che fa pensare a una svolta a sinistra dei legionari. A Roma nell'estate del '21 la
componente maggioritaria si distacca dall'Associazione Arditi d'Italia e dà vita agli Arditi del
Popolo, un'associazione istituita per la difesa dei lavoratori contro le violenze fasciste,
capeggiata da Argo Secondari, ex combattente, ardito e anarchico (coinvolto nel complotto
del Forte di Pietralata a Roma, un tentativo insurrezionale organizzato da arditi e anarchici
nell'estate del '19 e stroncato sul nascere dalla polizia). Al momento essa sembra
svilupparsi rapidamente raccogliendo anarchici, mazziniani, radicali, dannunziani e anche
qualche comunista, ma avrà vita breve.
Gli Arditi del Popolo
Nell'autunno del 1921 gli Arditi del Popolo si sciolgono, lasciando uno strascico politico
nelle file del Partito Comunista d'Italia. La sezione romana del PCd'I vorrebbe infatti
partecipare attivamente alle azioni antifasciste degli Arditi del Popolo, ma il C.E. del partito
diffida i propri iscritti dall'aderire ad organizzazioni militari fuori dal suo controllo:
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"Ciò vuol dire che il lavoro per la costituzione e l'esercitazione delle squadre comuniste
deve dunque continuare ad iniziarsi dove ancora non lo si è affrontato, ma attenendosi
al rigoroso criterio che l'inquadramento militare rivoluzionario del proletariato deve
essere a base di partito, strettamente collegato alla rete degli organi politici del Partito;
e quindi i comunisti non possono né devono partecipare ad iniziative di tal natura
provenienti da altri partiti e comunque sorte al di fuori del loro partito". ("Per
l'inquadramento del Partito", Il Comunista del 14 luglio 1921).
In agosto il C.E ritorna sull'argomento con un lungo comunicato che ribadisce l'ordine di
non partecipare all'attività degli Arditi del Popolo, illustrandone chiaramente i motivi.
"L'inquadramento proletario militare, essendo l'estrema e più delicata forma
d'organizzazione della lotta di classe, deve realizzare il massimo della disciplina e deve
essere a base di partito […] Il Partito Comunista è quello che per definizione si propone
di inquadrare e dirigere l'azione rivoluzionaria delle masse; di qui un'evidente e
stridente incompatibilità [con l'organizzazione degli Arditi del Popolo]." ("Inquadramento
militare delle forze comuniste", Il Comunista del 7 agosto 1921).
In effetti queste forze da una parte dichiarano di voler combattere il fascismo, dall'altra non
hanno nessuna intenzione di abbattere gli istituti politici della borghesia, anche perché –
come abbiamo visto – raccolgono i rappresentanti di varie fedi politiche. Sono insomma gli
antesignani delle formazioni partigiane: non vogliono rivoluzionare la società, ma "ristabilire
la dialettica democratica".
D'Annunzio nipote di Proudhon?
Al 1922 la situazione politica è ancora molto fluida. Tanto perché si abbia un’idea della
confusione che regnava in quel periodo nel paese, basti ricordare che a Parma le forze che
nell’agosto del 1922 si battono armi alla mano contro gli squadristi sono gruppi riconducibili
agli Arditi del Popolo e la Legione Proletaria Filippo Corridoni (che con questo nome
rendeva omaggio al sindacalista interventista morto in guerra, rivendicato poi, nel 1933, dai
fascisti con un monumento sul Carso goriziano e un'epigrafe celebrativa che recita: "Qui
eroico combattente cadde Filippo Corridoni fecondando col sacrificio della vita la gloria
della patria e l’avvenire del lavoro" ).
Altro episodio significativo: in occasione di una vertenza tra marittimi e armatori nel 1922,
Giulietti, il presidente della FILM, sotto la pressione di fascisti e capitalisti che volevano
stroncare il sindacato, chiede la protezione dei legionari, e settantamila marittimi passano
sotto il controllo di D'Annunzio. Il quale in questa fase da una parte volge l'attenzione verso
il proletariato e le sue organizzazioni, dall'altro mantiene un ruolo di pacificatore tra le
classi.
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Tutto questo marasma politico fa scrivere a Errico Malatesta su Umanità Nova (17 giugno
1922):
"Oggi l'Italia è in crisi, crisi di regime politico ed economico. D'Annunzio è, o potrebbe
essere, un fattore determinante nello svolgersi dei prossimi avvenimenti."
Ma le scelte di D'Annunzio avrebbero potuto davvero spostare il baricentro politico a favore
della rivoluzione proletaria, capovolgendo la storia politica italiana? Con il senno di poi, è
facile dire che già allora questo si potesse escludere; ma al tempo poteva sembrare
possibile, la situazione si presentava non così consolidata ma aperta a sviluppi, e quindi
andava seguita con fermezza teorica in quanto passibile di effetti materiali differenti.
Per meglio inquadrare il comportamento di D'Annunzio citiamo la lettera di Marx ad
Annenkov del 28 dicembre 1846, nel passo in cui descrive il socialismo piccolo-borghese di
Proudhon:
"In una società progredita e costrettovi dalla propria situazione, il piccolo borghese
diventa da un lato socialista, dall'altro economista, cioè egli è accecato dallo splendore
della grande borghesia ed ha compassione per le sofferenze del popolo. Egli è
borghese e popolo al tempo stesso. Nell'intimo della sua coscienza si lusinga di essere
imparziale, di aver trovato l'equilibrio giusto, che avanza la pretesa di essere qualcosa
di diverso dal giusto mezzo. Un piccolo borghese del genere divinizza la
contraddizione, perché la contraddizione è il nucleo del suo essere. Egli non è altro che
la contraddizione sociale messa in azione. Egli deve necessariamente giustificare
mediante la teoria ciò che egli è nella pratica, e Proudhon ha il merito di essere
l'interprete scientifico della piccola borghesia francese; e questo è un merito reale,
perché la piccola borghesia sarà una parte integrante di tutte le rivoluzioni sociali che si
stanno preparando."
Il contesto di schizofrenia in cui vivono D'Annunzio e il suo movimento, la pretesa di essere
qualcosa di diverso dal giusto mezzo, è confermato dal loro continuo oscillare tra le due
classi in lotta, borghesia e proletariato… finché quest'ultimo non è sopraffatto dalla
reazione capitalistica.
Nel corso del 1922, ad esempio, nella sua residenza a Gardone (che poi diventerà il
Vittoriale degli Italiani), D'Annunzio riceve la visita di alcuni esponenti del sindacalismo
italiano, come Gino Baldesi e Ludovico D'Aragona della CGL. E si incontrerà, come già
ricordato, con il commissario agli esteri sovietico venuto in Italia per la Conferenza di
Genova.
Nel frattempo nasce l'Alleanza del Lavoro, e al fronte unico operaio partecipano anche i
legionari, tanto che La Riscossa dei legionari fiumani saluta la nascita dell'Alleanza come
"primo sintomo dell'autonomia e dell'unificazione delle forze operaie" (cit. da D'Annunzio
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politico, Quaderni dannunziani). Ma il comportamento di D'Annunzio continua ad essere
ambiguo e contraddittorio. Come dimostrerà ulteriormente a Milano, quando i fascisti, dopo
aver stroncato con la violenza lo "sciopero legalitario" promosso dall'Alleanza del lavoro,
invadono la sede del Comune. D'Annunzio, che si trovava in città, viene convinto a
intervenire con un discorso a Palazzo Marino, discorso che sarà di pacificazione e di
celebrazione di una conquista anti-proletaria:
"Oggi non senza ebbrezza mi sembra di rinnovare i grandi colloqui notturni che io ebbi
sulle sponde del Carnaro sotto le vigili stelle con un popolo che non anelava se non alla
patria futura e non ebbe sul viso se non un pugno di fango. Stasera la città sembra ed è
una festa che dà l'esempio all'Italia tutta, una festa di sicura disciplina, di serena
allegrezza e di leali promesse. Oggi da qui noi segniamo un patto di fraternità e mai
come oggi, mentre sembra che più infurii la passione di parte, mentre ancora
sanguinano le ferite, mai come oggi una parola di bontà ebbe tanta potenza." (La
riscossa dei legionarii fiumani del 5 agosto 1922).
Non potrà comunque spingersi oltre in questo gioco oscillante ma in ultima analisi
capitolardo di fronte al fascismo. Di lì a poco sarà organizzata la "marcia su Roma" e in
alcuni ambienti corre voce che D'Annunzio terrà un discorso pubblico per richiamare le
Forze Armate e gli arditi sotto la propria ala in modo da vanificare la marcia. Se c'era
un'occasione per far valere la famosa autonomia era quella, ma il "compagno" poeta, di
solito ciarliero oltre misura, questa volta tace.
Tra i motivi per cui la nostra corrente seguì con attenzione l'evoluzione del movimento
legionario vi è quello offerto dall'esperienza del Comitato Nazionale di Azione Sindacale
Dannunziana. Dopo la marcia su Roma la reazione incalza e una serie di forze sindacali si
avvicinano ai legionari, che cominciano ad avere un considerevole seguito. Il Comitato
nasce su iniziativa di De Ambris, nel settembre del 1922 e si dichiara autonomo da
qualsiasi partito e fedele ai principi espressi nella Carta del Carnaro. Vi aderiscono il
Sindacato Ferrovieri Italiani, la Federazione Italiana fra i Lavoratori del Libro, i
Postelegrafonici, la Camera Toscana dei Sindacati Economici, l'Unione Italiana del Lavoro.
L'esperienza sindacale dannunziana tramonta nel corso del 1923 a causa di una serie di
misure di polizia contro i legionari più attivi e anche per l'atteggiamento rinunciatario di
D'Annunzio e il suo progressivo distacco dall'attività politica. Il Comitato si trasforma, in
breve, in una specie di circolo ricreativo fino ad essere rinominato nel marzo del 1923
Unione Spirituale Dannunziana. In essa convergono ciò che resta del Comitato Nazionale
di Azione Sindacale Dannunziana e l'Associazione Arditi d'Italia. Il regime scioglierà
l'Unione nel 1926, e la parte del movimento legionario che non passerà armi e bagagli al
fascismo, rimasta orfana del padre spirituale (ritiratosi a vita privata), confluirà nelle forze
antifasciste, Italia Libera e opposizioni aventiniane.
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Massimo di sincretismo
Negli anni '20 in tutta Europa masse di uomini premevano per il cambiamento finendo per
appoggiare chi, almeno apparentemente, questo cambiamento rappresentava. Essendosi
rivelata impossibile una radicalizzazione e generalizzazione di un moto autenticamente
anti-forma passò una ri-forma radicale del sistema capitalistico. Di fatto i fascismi non sono
altro che coordinamenti statali al servizio del capitale, indipendentemente dal colore politico
che assumono di volta in volta.
Nella Fiume dannunziana fu raggiunto il massimo del sincretismo di classe: il legionariotipo rappresentava tutte le sfumature politiche prodotte dallo scontro fra il futuro modo di
produzione e quello vecchio e decrepito del passato. Era socialista, anarchico, futurista,
sindacalista, interventista e naturalmente fascista. Purché l'appartenenza a uno di questi
insiemi significasse in qualsiasi modo, illusoriamente, cambiamento. Il nemico era il
conservatore, anche se il legionario lo era egli stesso. Di fronte alla tragedia tedesca, in cui
centinaia di migliaia di proletari armati furono sconfitti, si parlerà più tardi di "rivoluzione
conservatrice". L'ossimoro non è banale. Come ha scritto Marx ad Annenkov
"Gli uomini non rinunciano mai a ciò che essi hanno conquistato, ma ciò non significa
che essi non rinuncino mai alla forma sociale in cui hanno acquisito determinate forze
produttive."
La rivoluzione come tentativo di conservare ciò che si è raggiunto. In Russia la rivoluzione
fu spuria (democratico-proletaria) perché gli uomini non avevano ancora raggiunto il livello
di chi ha qualcosa da perdere oltre alle proprie catene. In Occidente la rivoluzione fu spuria
perché c'era troppo da perdere. In Russia come in Italia sull'onda dei disastri causati dalla
Grande Guerra milioni di uomini erano stati "forzati a modificare tutte le loro forme sociali
tradizionali", chi dalla parte della rivoluzione chi dalla parte della reazione. In Occidente
aveva vinto la reazione, in Oriente era diventato problematico salvare la rivoluzione.
È improbabile che rinasca un movimento sincretista alla maniera dannunziana.
Nasceranno sicuramente dei movimenti piccolo-borghesi contro lo status quo e, come al
solito, tenderanno a schierarsi dalla parte della classe vittoriosa. Il fascismo è stato in
grado di operare una sintesi tra le classi e di blindare la società, di darle in qualche modo
stabilità. Ma ciò non è più possibile: il ricordato leniniano "involucro che non corrisponde
più al suo contenuto" si è generalizzato al mondo. Le mezze classi rovinate sono spinte
verso il basso, verso la classe dei senza riserve e questo processo non potrà non avere
conseguenze politiche.
Si poteva auspicare che movimenti o partiti piccolo-borghesi si schierassero dalla parte del
proletariato in lotta, ma ciò non voleva dire che il proletariato dovesse stabilire un'alleanza
con essi, confondersi o, peggio ancora, rinunciare alla disciplina di partito in campo
militare, come nel caso degli Arditi del Popolo. I rivoluzionari non sono mai indifferenti di
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fronte a ciò che succede nel campo dei grandi schieramenti di classe. La Sinistra
Comunista "italiana" di fronte a movimenti come quello dannunziano ha valutato
attentamente le forze in campo, la natura degli schieramenti, i programmi, per trarne delle
previsioni. In determinati frangenti storici influenzare o quantomeno neutralizzare l'azione
politica di certi strati sociali può fare la differenza. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il
problema si era posto con le lotte anticoloniali di liberazione nazionale. In quel caso,
benché borghesi, le forze anticoloniali erano direttamente rivoluzionarie e quindi la
situazione si presentava semplificata: una sinergia di tutte le classi in quel caso era
positiva, compresa la partecipazione contingente del proletariato, a patto di non
sottomettere quest'ultimo a programmi di altre classi.
La forza dei comunisti è innanzitutto nel contenuto originale del loro programma, nella
dimostrazione che il problema del nostro tempo non consiste, ad esempio, nelle
speculazioni finanziare o nell'ingordigia di imprenditori e/o banchieri, ma nella strutturale
dissipazione insita nel modo di produzione capitalistico, superabile solo passando a
un'altra organizzazione della società. Nessuna altra classe al di fuori del proletariato ha nel
proprio programma l'abolizione di tutte le classi, abolizione possibile solo con il
superamento del capitalismo.
"Questa nuova organizzazione si differenzia per la abolizione della azienda privata e
della economia individuale concorrentistica, e la istituzione di una amministrazione
centrale e collettiva delle forze di produzione. La superiorità del rendimento di questa
nuova organizzazione sta nella sua corrispondenza alla utilizzazione scientifica delle
risorse di cui oggi la umanità dispone, vantaggio anche più alto di quello che
conseguirebbe numericamente dalla abolizione dello sciupio di ricchezza causato dal
parassitismo dei capitalisti viventi a spese del lavoro espropriato al proletariato." ("Il
movimento dannunziano" cit.).
(socializzazione_fascista_comunismo3.htm)
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(socializzazione_fascista_comunismo5.htm)
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La socializzazione fascista e il comunismo (5)
(socializzazione_fascista_comunismo4.htm)
(socializzazione_fascista_comunismo6.htm)
5. La cinghia di trasmissione
Repressione, tolleranza, cooptazione
Riprendiamo una conosciutissima osservazione di Marx sulla dinamica della produzione di
tipo capitalistico: la classe borghese non può esistere senza rivoluzionare in continuazione
il suo modo di produrre e quindi tutti i rapporti sociali (Manifesto). Se ne deduce che non è
necessario attendere la caduta del capitalismo per vedere rivoluzionati, almeno in parte, i
suddetti rapporti sociali. Ciò significa che un importante cambiamento nel modo di produrre
(siamo necessariamente sul piano tecnico, altrimenti dovremmo parlare di processo
rivoluzionario politico) deve comportare un cambiamento nei rapporti sociali.
Se prendiamo in esame il rapporto di tipo sindacale (in senso lato) fra borghesia e
proletariato, vediamo che in effetti, a ogni svolta nella crescita continua della forza
produttiva sociale si è accompagnato un cambiamento di carattere discontinuo nei rapporti
fra sindacato e "controparte" borghese. La nostra corrente ha individuato tre passaggi
chiave nella storia di questi rapporti: una fase di repressione, una di tolleranza e una di
cooptazione. Dovremmo riuscire a vedere una relazione fra atteggiamento giuridico e
realtà di fatto man mano che il modo di produzione matura.
Si ha la prima fase all'inizio della manifattura, quando gli opifici erano poco più che
assembramenti di artigiani sotto il tetto di uno stesso proprietario, ed era ancora vivo il
ricordo delle corporazioni. Forse anche per questo l'associazionismo operaio era proibito,
come se fosse un ritorno al feudalesimo nonostante la Rivoluzione. Comunque gli operai
non erano organizzati a sufficienza per negare, rendere nullo il divieto.
Si ha la seconda fase quando, con l'introduzione delle vere e proprie lavorazioni industriali,
l'operaio parziale sostituisce l'operaio completo e compaiono le prime macchine seriali. Lo
stato incomincia a disciplinare la materia inerente al lavoro e il movimento sindacale non è
più proibito ma tollerato in quanto contribuisce all'ordine industriale generale. Ciò non
significa affatto che viene meno lo scontro di classe, anzi, è proprio in questo periodo che
vengono fissate alcune "conquiste" attraverso grandi lotte.
Si ha infine la fase nella quale la produzione si fa così complessa da richiedere
necessariamente progettazione e controllo, per cui, se non si stabilisce un canale diretto
fra capitalisti e lavoratori, il sistema rischia di andare in blocco. È anche la fase in cui non è
più lo stato a controllare il capitale ma, al contrario, è il capitale che controlla lo stato. È la
fase più delicata, perché nel frattempo le macchine sono diventate sistemi di macchine, si
sono automatizzate fino a diventare robot in grado di sostituire molte delle capacità umane.
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Ora lo stato ha bisogno di un interlocutore che sia in grado di far dialogare operai e
capitalisti, così come le macchine dialogano con gli uomini (tramite appositi linguaggi e
strumenti). La cooptazione è un modo per far parlare tra loro mondi diversi fornendoli di
uno stesso linguaggio. Possiamo dire che in questa terza fase si impone l'adozione di un
lessico comune che impedisca l'incomprensione fra le parti. Il linguaggio della produzione è
semplice, non soffre di ideologismi, è uguale per il padrone e per l'operaio (la vite è una
vite, il verbo tornire vuol dire una cosa sola, un processo produttivo è descrivibile con un
vocabolario condiviso, ecc.), accomuna invece di dividere, è democratico perché tutti sono
uguali davanti a una linea di montaggio che sforna merci tutte uguali, davanti al prezzo che
non stabilisce Tizio, o Caio o Sempronio ma il mercato, anonimo e potente, globale e
omologante.
Il fascismo è moderno: il suo carattere saliente è l'adattamento darwiniano delle ideologie,
non importa quali, alla difesa degli interessi materiali della classe dominante. ("Che cosa è
il fascismo", Il Comunista del 3 febbraio 1921 ). Come diceva lo stesso Mussolini, il
fascismo non è questo o quello, è tutto insieme, basta che sia utile agli scopi per cui è
nato. È una macchina per risolvere problemi. E siccome i problemi del capitalismo sono
gravi, il fascismo non scherza in quanto a provvedimenti per salvarlo.
Al vertice della cooptazione sindacale, quando compare la corporazione sotto veste nuova,
il fascismo-sindacato è il rappresentante perfetto degli interessi materiali della borghesia: è
garante di fronte allo stato del welfare togliendo al salariato l'onere del risparmio per il
medico, per la pensione, per crescere il figlio. Con l'IRI garantisce la distribuzione privata
dei profitti e la socializzazione delle perdite; sposando la religione del lavoro garantisce uno
stakanovismo medio permanente, utile a sostenere la patria. Il sindacato operaio, "che era
nemico e il sabotatore dell'investimento bor ghese" diventa ora il garante di questo
investimento, si fa carico dell'economia nazionale in quanto bene comune di tutte le classi
("Far investire gli ignudi", Filo del tempo del 1950).
Abbiamo visto che il retroterra del fascismo è costituito in gran parte dal movimento
sindacalista rivoluzionario che vede nel "mondo del lavoro" l'ossatura produttiva della
società e quindi la struttura attorno alla quale si deve formare la "politica". Il capolavoro
politico fascista non è la dittatura in orbace ma l'inedito dialogo instaurato fra le forze
produttive, individuate non nelle classi ma nella nazione. Nel 1914-15 la corrente
interventista dell'Unione Sindacale Italiana (USI), che raccoglieva gli esponenti del
sindacalismo rivoluzionario patriottico, fu espulsa. La guerra aveva impedito la
riorganizzazione dei dissidenti, ma nel 1918 questi si riunirono e fondarono la Unione
Italiana del Lavoro (UIL), il cui congresso costitutivo fu convocato da Edmondo Rossoni,
futuro esponente del corporativismo fascista. Dal 1919 la UIL fu diretta da Alceste De
Ambris, l'autore della Carta del Carnaro, e più tardi antifascista. Come abbiamo
sottolineato, non si trattava solo di ambiguità politica, ma di un movimento che riteneva
conciliabili gli estremi di classe del rapporto di lavoro. Era una tendenza storica, che i casi
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individuali di defezione alla De Ambris non modificarono. Del resto furono pochi coloro che
voltarono le spalle alla tendenza che contribuirono a determinare. La UIL, nonostante
sostenesse la necessità di un potere legislativo basato sulle corporazioni, rimase un
sindacato con un proprio programma rivendicativo, cosa che produsse l'uscita della
componente fascista (Rossoni, Bianchi, Panunzio), la quale fece proprio il programma
politico esposto nella carta del Lavoro (1927) e posto poi alla base del corporativismo
come essenza del fascismo.
Questo ritenere conciliabili gli estremi del rapporto di lavoro passò indenne attraverso la
guerra e il ritorno del parlamentarismo democratico. In effetti dall'esperienza fascista non si
tornò mai più indietro. Ciò non significa che quei dirigenti sindacali propensi a mantenere i
Consigli di Gestione e a sottoscrivere il patto del lavoro per la ricostruzione fossero fascisti.
Ma con il loro atteggiamento collaborativo a sostegno della crescita economica, preteso
patrimonio di tutti, contribuivano a perpetuare i caratteri del sindacalismo ereditato
dall'epoca precedente. Il fatto è che dato un sistema invariante ogni attività all'interno di
esso senza lo scopo di demolirne le radici è svolta a favore del sistema stesso.
Il sindacalismo rivoluzionario
La costituzione della UIL nel 1918 è solo una tessera del mosaico sindacalista di tendenza
fascista. Anzi, come già accennato, sarebbe meglio dire "scenario fascista di tendenza
sindacalista", data la preminenza tra i quadri fascisti di uomini provenienti dal sindacalismo
rivoluzionario.
Quindi, per affrontare la storia del sindacalismo plasmato dall'epoca imperialista bisogna
partire quantomeno da quella del "sindacalismo rivoluzionario", una corrente che nasce in
ambiente internazionale, ha successo all'inizio in Francia, patria di Proudhon, Bergson e
Sorel, mette radici in Italia e trova spazio all'interno del Partito Socialista. In Italia
attecchisce non solo per una sorta di predisposizione storica dovuta a un ambiente
anarchico particolare distante dal bakuninismo (Malatesta, Cafiero, Costa), ma anche
dall'atteggiamento del Partito Socialista, partito che sostiene per principio l'indipendenza e
l'autonomia del sindacato e si pone come obiettivo lo sciopero generale espropriatore.
Sono diverse le riviste che accolgono le posizioni del sindacalismo rivoluzionario: Pagine
libere, rivista teorica apparsa nel 1906 e diretta da Angelo Oliviero Olivetti, uno dei
fondatori del PSI; Avanguardia socialista di Arturo Labriola e Il Divenire sociale di Enrico
Leone.
Ricordiamo che nella voce "Dottrina del fascismo" redatta per l' Enciclopedia Italiana,
Mussolini nel 1932 rivendica non soltanto la corrente che si pone in continuità storica fra
Sorel e il fascismo, ma anche quella che rimane ancorata al socialismo e che fa capo a
Enrico Leone.
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Quando la pubblicazione di Pagine Libere inizia, i sindacalisti rivoluzionari sono già in rotta
di collisione con il Partito Socialista. Nel luglio del 1907 essi si riuniscono infine a
congresso a Ferrara e decidono di uscire dal partito. La situazione rimane comunque
contraddittoria, dato che alcuni gruppi erano contrari alla scissione nonostante ne avessero
votato le motivazioni teoriche. Il caso più significativo fu quello della federazione di Roma, il
cui animatore era il futuro segretario del partito Costantino Lazzari (1912-1919). Troviamo
fra gli scissionisti Michele Bianchi (Bologna), poi diventato fascista, e Alceste De Ambris
(Parma). Usciti dal PSI, i sindacalisti rivoluzionari continuano il loro lavoro all'interno della
CGL per conquistarne la direzione, cosa che non riuscirà vista la prevalenza di elementi
moderati alla sua guida. Molto combattivi, specie fra i braccianti, in seguito al rifiuto della
CGL di organizzare uno sciopero generale, ne escono e si costituiscono in Comitato di
resistenza, dando vita, nel 1912, all'Unione Sindacale Italiana, tra i cui fondatori ci sono
Alceste De Ambris e Filippo Corridoni. I militanti dell'USI saranno molto attivi durante la
Settimana Rossa (1914) e in molte delle lotte dei metallurgici e dei braccianti che si
sviluppano nella Penisola.
L'uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo produce uno scossone
all'interno dell'organizzazione portando alcuni dirigenti sindacali a spostarsi su posizioni
interventiste; verranno tutti espulsi, e con lo scoppio della guerra alcuni di loro
abbandoneranno l'attività sindacale per mettersi "al servizio della Patria", armi alla mano. Il
nuovo segretario dell'USI è Armando Borghi.
Nel dicembre del 1914, i sindacalisti espulsi dall'USI (tra cui lo stesso De Ambris), e alcuni
personaggi come Benito Mussolini, danno vita ai "Fasci d'azione rivoluzionaria
internazionalista". Nello stesso periodo in cui si verifica la rottura tra neutralisti e
interventisti nelle file dell'USI, incomincia le pubblicazioni Il Popolo d'Italia diretto da
Mussolini, giornale socialista interventista che nella testata riporta due citazioni: "La
rivoluzione è un'idea che ha trovato delle baionette" (Napoleone); "Chi ha del ferro, ha del
pane" (Blanqui). Alla fine del conflitto alcuni sindacalisti interventisti che hanno partecipato
attivamente alla guerra si riorganizzano e fondano L'Italia nostra (Sottotitolo: "La patria non
si nega, si conquista"), settimanale diretto da Edmondo Rossoni, ex militante del PSI
passato al nazionalismo.
La definizione di patria come oggetto non di negazione ma di conquista è particolarmente
adatta a rendere evidente il passaggio storico dall'internazionalismo socialista al
nazionalismo prima interventista, poi sindacalista, infine fascista: secondo il sindacalismo
rivoluzionario anche il proletario avrà il compito di superare il negazionismo nel suo
rapporto con il capitalista conquistando l'accesso alle strutture produttive delle quali sarà
corresponsabile curatore e difensore. L'allarme lanciato per tempo dalla Sinistra Comunista
"italiana" non aveva sortito effetti: il sindacalismo rivoluzionario era un falso amico del
proletariato in quanto non solo non contemplava la funzione rivoluzionaria del partito, ma
affidava la rivoluzione alla mistica dell'unione fra "produttori". Fin da prima della guerra la
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nostra corrente dovette criticare e combattere sia il riformismo-revisionismo tipo Seconda
Internazionale sia l'inevitabile reazione immediatista del proletariato. Dovette quindi dar
battaglia per demolire la concezione evoluzionista gradualista che tendeva al "ragionevole"
superamento della dottrina catastrofista (compresa la parte integrante sulla funzione del
partito), ma anche per demolire l'altrettanto "ragionevole" concezione dell'azione diretta,
dell'organizzazione autonoma che, sola, avrebbe permesso di evitare gli effetti del
tradimento dei partiti.
La nostra corrente ha sempre rifiutato le mistificazioni ideologiche sul "santo proletariato".
Se quest'ultimo non si "erge a partito", la classe dei senza riserve non è in grado di
muoversi come classe e resta un elemento interno alla società capitalista. È il partito che
dirige la classe, che in esso si riconosce. Per il sindacalismo rivoluzionario, invece, la
classe operaia ha tutto l'interesse a conquistare autonomamente, auto-organizzandosi,
posizioni di forza entro questa società. Scrive ad esempio Angelo Oliviero Olivetti, ex
socialista passato all'interventismo:
"Di mano in mano che l'operaio, il contadino conquisteranno migliori condizioni di
esistenza, diventeranno più italiani, più cittadini, più uomini. E viceversa, o meglio
reciprocamente, l'aumento di capacità politica culturale e morale delle classi lavoratrici,
le renderanno più degne e più atte ad assumere il posto che loro compete di classe
dirigente della nazione". ("Ripresa", L'Italia Nostra, 1 maggio 1918).
Questo diffuso senso di "socializzazione", bandiera della socialdemocrazia tedesca a
cavallo tra il XIX e il XX secolo (cfr. E. Ströbel), era presente nel mondo socialistasindacalista rivoluzionario vent'anni prima che Gramsci compilasse la sua versione. La
classe operaia deve vivere per la nazione e farsi essa stessa nazione. Dalla rivendicazione
socialista si passa a quella nazional-socialista, in una sorta di patriottismo operaio, che
assume e generalizza un lessico ibrido sfacciato. Enrico Corradini, uno degli esponenti del
nazionalismo italiano, propugna ad esempio la liberazione delle nazioni proletarie dal
controllo di quelle plutocratiche: "Il socialismo è nostro maestro ma nostro avversario",
diceva. Maestro perché insegna a utilizzare la lotta di classe in una dimensione
internazionale, avversario perché pacifista. Mussolini parla di Italia proletaria e fascista, e
Pascoli declama "La Grande Proletaria si è mossa" in un incredibile discorso dannunziano
pronunciato in occasione dell'attacco alla Libia; mentre più vicino a noi nel tempo, dedica
un fremito alla nazione proletaria anche Pasolini.
Produttivismo
Si è già detto che, nel giugno 1918, un nucleo di militanti sindacali nazionalisti dà vita
all'Unione Italiana del Lavoro. Durante il congresso di fondazione del nuovo sindacato si
delineano due posizioni, quella di Edmondo Rossoni che propugna l'apoliticità
dell'organizzazione, l'autonomia e l'unità proletaria per giungere alla costituzione di uno
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stato di tipo sindacale; e quella di Alceste De Ambris, repubblicana e federalista, che vede
il sindacato convivere con gli altri istituti statali senza sostituirsi ad essi. La posizione di
Rossoni, che possiamo definire operaista, è quella che prevale: il primo articolo dello
Statuto della UIL prevede infatti la possibilità di
"Avocare direttamente alla classe lavoratrice organizzata la gestione della produzione,
della distribuzione e dello scambio della ricchezza" , e sostiene che il sindacato deve
elevare il proletariato "alla dignità ed alla capacità di risolvere tutti i problemi della
produzione, della cultura e della giustizia sociale."
I punti cardine dello Statuto della UIL sono molto simili a quelli enunciati nel Manifesto dei
fasci italiani di combattimento (1919) e discussi nella riunione fascista di San Sepolcro a
Milano, anche se Mussolini è più vicino alla posizione di De Ambris che a quella del
"sindacalista puro" Rossoni.
È il periodo in cui Mussolini sviluppa le sue teorie produttiviste (il sottotitolo del Popolo
d'Italia da "quotidiano socialista" diventa "quotidiano dei produttori") prese a prestito dalla
CGT francese e dall'americana AFL, le quali da tempo lavorano per la realizzazione di una
democrazia produttiva, un moderno corporativismo. Per queste forze sindacali, datori di
lavoro e lavoratori devono collaborare per accrescere la ricchezza nazionale
incrementando la produttività del lavoro. Il fatto che il produttivismo abbia attecchito in più
paesi contemporaneamente dimostra che il processo di fascistizzazione della società era
un'esigenza che emergeva dal profondo della struttura capitalistica, sempre più in crisi e
sempre più bisognosa di interventi dall'alto. L'argomento della nazionalizzazione, cioè
dell'intervento dello stato sulla proprietà in funzione di una utilità collettiva è sempre stato
assai controverso. Nella maggior parte dei casi, la nazionalizzazione non intacca
minimamente la struttura della proprietà, ma la trasferisce. Dal punto di vista del
funzionamento capitalistico, che le fabbriche siano in mano ai privati o siano in mano allo
stato non cambia assolutamente nulla. Non c'è alcun rapporto diretto fra la
nazionalizzazione e il socialismo. Immaginiamo pure nazionalizzata tutta la struttura
produttiva di un paese; ma se non è messa in discussione la struttura di un sistema basato
sul mercato, sulle aziende e sulla produzione di merci il rapporto capitalistico non viene
meno. Immettere denaro nel ciclo produttivo per ricavare più denaro è capitalismo a pieno
titolo, anche se non ci sono capitalisti individuali. Il sindacalismo rivoluzionario afferma che
l'espropriazione degli espropriatori è un atto politico più che una riforma economica.
Diciamo che è una condizione necessaria ma non sufficiente. Chi si pone in posizione
mediatrice fra il lavoro e il capitale può concepire la nazionalizzazione come un fattore
decisivo, ma chi si pone in decisa antitesi vede invece benissimo che la chiave del
problema economico non è la nazionalizzazione ma l'eliminazione del sistema di azienda.
Vale a dire che i nuovi parametri per valutare la produzione sociale devono essere ricavati
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dal beneficio che ne deriva alla società nel suo insieme e non dal bilancio aziendale. Il
controllo dello stato sull'economia può essere indipendente dalla proprietà fisica diretta.
Detto controllo, che è "il portato naturale di tutto il suo sviluppo storico",
"può spingersi fino all'eliminazione della forma giuridica della proprietà privata
individuale dei mezzi di produzione non solo senza eliminare, ma al contrario
potenziando, quello che è il dato fondamentale del sistema di produzione capitalistico:
lo sfruttamento del lavoro umano attraverso l'appropriazione del plusvalore." ("Le
nazionalizzazioni arma del capitalismo", Prometeo, 1946).
Questo assunto è di importanza straordinaria: in tutto il mondo, fra le due guerre, si è
imposta l'esigenza per gli stati di controllare il fatto economico: dal Portogallo all'Argentina,
dall'Italia al Giappone, dalla Germania agli Stati Uniti, dalla Russia alla Spagna. Un effetto
collaterale di queste politiche di controllo economico è il controllo sociale, che di solito,
invece, è inteso come fattore determinante, come "attacco della borghesia alla classe
operaia", come "offensiva padronale" ecc. La statizzazione dell'economia e delle strutture
sindacali è una conseguenza della crisi storica del capitale giunto alla sua fase suprema,
della combattiva risposta proletaria e della necessità di contrastare la caduta del saggio di
profitto. Non c'è una relazione meccanica fra le tappe di questa sequenza, ma è chiaro che
la caduta del saggio è dovuta al maturare della struttura capitalistica, e per contrastarla non
c'è altra via che quella di controllare le cause materiali del fenomeno e favorire
l'accumulazione.
Il Popolo d'Italia dedica molte pagine alle questioni dibattute nei primi due congressi della
UIL. Mussolini ha tutto l'interesse ad avere una sponda sindacale che faccia da cassa di
risonanza alle sue posizioni politiche, in quel periodo orientate a "sinistra". Egli ritiene
fondamentale l'unità sindacale, da ottenersi con la fusione dei vari sindacati: l'intenzione
del fascismo, che per adesso è un fenomeno perlopiù milanese, è quella di contendere al
PSI l'egemonia del movimento sindacale. Ed è in questa prospettiva che il giornale citato
dà un enorme spazio ai temi sindacali, specie se significativi per il fascismo, come lo
sciopero dei fonditori milanesi (gennaio 1919) durante il quale i sindacalisti di "destra" con
le loro rivendicazioni superano a "sinistra" CGL e FIOM sul tema dei minimi di salario e
delle paghe orarie.
Gli scioperanti che occupano la fabbrica di Dalmine issando il tricolore sul pennone dello
stabilimento non fanno che mettere in pratica alcuni punti delle teorie produttivistiche: essi
vogliono dimostrare che anche riducendo l'orario di lavoro si può produrre di più e meglio.
E infatti per tutta la durata dello "sciopero" la produzione continua sotto controllo operaio.
Quando di lì a poco l'Ordine Nuovo di Gramsci darà forma teorica alla deleteria illusione di
poter risolvere il problema sociale con una formula organizzativa dei produttori, si
generalizzerà l'occupazione delle fabbriche (1920) in continuità con l'esperienza di
Dalmine, al confine fra la socializzazione fascista e quella socialista.
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I Sindacati Economici
Per le giornate del 20 e 21 luglio del 1919 viene organizzato uno sciopero internazionale in
solidarietà con la Russia bolscevica e contro la presenza di truppe dell'Intesa in Russia e in
Ungheria. La mobilitazione non produce gli effetti voluti: i sindacati francesi all'ultimo
momento si ritirano e in Inghilterra le adesioni allo sciopero sono modeste; lo stesso vale
per l'Italia. Si tratta di una sconfitta che spinge la borghesia italiana a riprendere coraggio
per lanciare una controffensiva contro il movimento operaio.
"Sotto questo profilo — scrive De Felice — si può anzi dire che con lo 'scioperissimo'
del luglio 1919 incominciò in Italia il declino dell'ondata rossa, quel declino che,
attraverso il fallimento dello sciopero torinese dell'aprile del '20, sarà irrimediabilmente
consacrato di lì a poco più di un anno dal fallimento dell'occupazione delle fabbriche".
(Mussolini il rivoluzionario 1883-1920).
Durante lo "scioperissimo" (come verrà chiamato) alcuni gruppi di lavoratori (in prima fila i
postelegrafonici) boicottano la chiamata alla lotta e non interrompono il lavoro. Si tratta di
un primo smottamento del "fronte del lavoro": questi gruppi daranno vita di lì a poco al
fascio postelegrafonico e si organizzeranno nei Sindacati cosiddetti economici, che si
dichiarano apolitici, autonomi anche dalla UIL, considerata troppo politicizzata. Durante lo
sciopero di luglio la UIL assume una posizione ambigua: all'inizio si oppone all'agitazione in
quanto contraria a manifestare solidarietà ai bolscevichi, ma, facendo parte del comitato
internazionale dei sindacati interventisti che aderisce alla mobilitazione, decide infine la
propria partecipazione pur mantenendo una posizione autonoma.
Dopo il II Congresso dei Fasci svoltosi a Milano nel maggio 1920, il movimento fascista
abbandona il programma del fronte di unità proletaria, non sostiene più la UIL, considerata
troppo a sinistra, e simpatizza per i nuovi organismi. Nel novembre viene fondata la
Confederazione italiana dei Sindacati Economici, che, nonostante la sua pretesa apoliticità,
sarà presto improntata a un sindacalismo dichiaratamente anti-socialista. In parallelo allo
"spostamento a destra" del fascismo, si fanno più frequenti gli scioperi in solidarietà alla
Terza Internazionale, e i lavoratori aderenti al Sindacato Ferrovieri (SFI) appoggiano tutte
le azioni organizzate contro l'invio di armi in Russia destinate alle forze
controrivoluzionarie. Ma gli scioperi vengono puntualmente ostacolati dal Sindacato
Economico Ferrovieri sostenuto dai fascisti che, dimentichi delle simpatie filo-bolsceviche
della prima ora, non hanno più alcuna finalità "socializzante" e perciò alcuna motivazione
politica per assecondare l'ondata storica che era passata da Mosca.
(socializzazione_fascista_comunismo4.htm)
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(socializzazione_fascista_comunismo6.htm)
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La socializzazione fascista e il comunismo (6)
(socializzazione_fascista_comunismo5.htm)
(socializzazione_fascista_comunismo7.htm)
6. Patto firmato, lavoro ingabbiato
I sindacati fascisti
Nel novembre del 1921, al suo III congresso il movimento fascista si costituisce in Partito
Nazionale Fascista (PNF) dandosi una struttura organizzativa più rigida.
I Sindacati economici vengono via via inglobati in quelli fascisti in formazione: il PNF è per
il ripudio della lotta di classe, la condanna degli scioperi degli impiegati pubblici e il
riconoscimento giuridico dei sindacati da parte dello Stato. Afferma inoltre che l'apoliticità
dell'organizzazione sindacale è pura finzione, in quanto la neutralità, in politica, non esiste;
si tratta anzi di politicizzare sempre di più i sindacati portandoli sotto il controllo del partito.
L'ambiguità manifesta è spiegabile: il fascismo non è il movimento dell'Italia arretrata, degli
"agrari" reazionari ma il cambiamento di cui ha bisogno l'industria. La piccola borghesia e
la proprietà agraria forniscono l'ideologia sincretista, che plaude al nazionalismo, alla
patria, e anche alla Rivoluzione bolscevica e a Lenin, ma quando si arriva allo scontro i
termini della "questione sindacale" si chiariscono velocemente. Le mezze classi, che hanno
fornito teoremi politici ondivaghi e soprattutto molta manodopera squadrista, adesso
devono mettersi in riga in difesa del capitalismo concentrandosi sul tema principale per cui
hanno tanto lavorato: la collaborazione di classe.
Per arrivare a questo risultato, esse sono state indispensabili portatrici dell'opportunismo.
Hanno infiltrato nella classe operaia concezioni ideologiche loro proprie fino a quando,
esaurito lo slancio per il raggiunto obiettivo, hanno rivelato la loro vera natura. Hanno fatto
da supporto alle posizioni confuse su una indistinta "socializzazione", ma infine si sono
fatte portatrici di idee "ispirate più o meno coscientemente alle idee-madri, ossia agli
interessi sociali, della classe dominante." (Tesi di Milano, 1966)".
Il primo convegno sindacale fascista si tiene a Bologna nel gennaio del 1922, e in quella
sede Edmondo Rossoni, pur avendo aderito pienamente al fascismo, ripropone la sua
teoria sull'autonomia sindacale in contrapposizione alla visione "politica" di un sindacato
legato al partito nella sua attività operativa. La linea di Rossoni risulta sconfitta ma egli
viene comunque designato segretario della Confederazione nazionale delle Corporazioni
sindacali, e nel marzo del '22 assume la direzione de Il Lavoro d'Italia, giornale della
Confederazione.
Mano a mano che si procede nella formazione di una centrale unica delle organizzazioni
sindacali fasciste si verificano importanti scioperi, uno dei quali si svolge a Ferrara nel
maggio del 1922 e comporta una contraddizione di non poco conto all'interno del fascismo.
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È Mussolini a ricordare che i sindacati fascisti non devono in alcun modo riprodurre l'azione
del sindacalismo rosso e devono tendere alla collaborazione di classe.
Ma tra i proclami e la realtà ci sono di mezzo interessi economici contrapposti: la
Confederazione sindacale fascista per poter controllare i lavoratori deve assecondare
almeno in parte le loro rivendicazioni organizzando alcuni scioperi e mettendosi di fatto
contro gli imprenditori, gli stessi che appoggiano e sostengono il fascismo. Nascono così
discussioni e fratture negli organismi dirigenti fascisti sulle azioni da intraprendere per non
scontentare la borghesia industriale e agraria senza però inimicarsi operai e braccianti.
Nel corso del 1922, da un accordo fra sindacati di sinistra, nasce l'Alleanza del Lavoro che
proclama, come abbiamo visto, uno "sciopero legalitario" contro la cosiddetta offensiva
fascista. Si tratta di un genuino movimento di classe, appoggiato dai comunisti, che dura
pochi giorni e poi si spegne, anche a causa di una durissima repressione:
"Il 31 luglio 1922 l'Alleanza del Lavoro riesce a provocare, in risposta ai terribili attacchi
contro le organizzazioni proletarie della Romagna, lo sciopero generale nazionale. Ma i
fascisti sentono che lo sciopero non si regge e organizzano una serie di violentissime
rappresaglie che si scatenano sul finire dello sciopero durato tre giorni: famose quelle di
Genova, Milano e Parma: in quest'ultima città il proletariato, organizzato militarmente,
resiste però vittorioso a tutti gli attacchi. Ma ormai per il fascismo è indispensabile la
presa del potere: la distruzione dei sindacati, la assunzione o la conquista di numerosi
organismi e istituzioni gli ha fatto ereditare anche problemi e contrasti che non possono
essere sanati che diventando esso stesso forza dominante di governo." ("Appunti per
un'analisi del fascismo. Dalle origini alla marcia su Roma", 1946)
La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 decreta l'ascesa al potere del PNF e questo,
consolidata la sua posizione, passa immediatamente a collegare più strettamente i
sindacati fascisti attraverso la costituzione dei Gruppi di competenza, organismi che hanno
l'obiettivo di unire i sindacati operai, i sindacati dei professionisti e quelli dei capitalisti.
Essi sono poco attivi ma molto utili dal punto di vista del principio, tanto da sopravvivere
fino ai nostri giorni come "Enti bilaterali": enti che raggruppano con criterio paritetico sia gli
organismi sindacali dei lavoratori sia le associazioni dei capitalisti di una stessa categoria
professionale e aventi la funzione di discutere i contenuti dei contratti collettivi e le modalità
della loro applicazione, oltre ad altri compiti di regolamentazione. Come scrive
efficacemente l'organo della Confindustria Il Sole-24 Ore:
"Esprimono una concreta ed efficace forma di collaborazione tra capitale e lavoro,
indicativa della tendenza al superamento del modello esasperatamente conflittuale.
Hanno diversi scopi: mutualizzazione di obblighi retributivi (per esempio, mensilità
aggiuntive, ferie) per lavoratori che cambiano spesso datore di lavoro (per esempio,
nell'edilizia); formazione professionale; sicurezza del lavoro; prestazioni assistenziali.
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Da qualche anno la legge ha iniziato a promuovere il ruolo degli enti bilaterali,
riconoscendogli compiti relativamente al mercato del lavoro, alla formazione
professionale, all'assistenza della volontà delle parti nella stipulazione dei contratti e
nella disposizione dei diritti. Sarebbe opportuno, per fare certezza e ridurre il
contenzioso, che il legislatore affidasse agli enti bilaterali: la certificazione della
sicurezza del lavoro, con esclusione di qualsiasi responsabilità per il datore di lavoro
onesto che si sottoponga al controllo e si conformi alle prescrizioni dell'ente; la gestione
degli ammortizzatori sociali, per un effettivo reinserimento dei beneficiari; l'istruttoria e
l'eventuale conciliazione in azienda delle doglianze dei lavoratori su demansionamenti,
maltrattamenti, mobbing".
Abbiamo citato per esteso queste interessanti osservazioni ufficiali della Confindustria
perché nella loro sostanza propositiva sono praticamente identiche al programma di
conquista della responsabilità sindacale in Georges Sorel, citata nella prima parte di questo
articolo (L'avvenire socialista dei sindacati).
La Costituente sindacale
Mussolini, giunto al potere, non rinuncia comunque ai tentativi di coinvolgimento della CGL,
tanto che propone a Gino Baldesi, dirigente riformista del "sindacato rosso", la guida del
ministero del Lavoro.
Il 3 ottobre del 1922 si verifica l'ennesima scissione in campo socialista: dopo quella del
1921 che ha portato alla costituzione del PCd'I, si produce una spaccatura tra massimalisti
e riformisti, da cui nasce il Partito Socialista Unitario sotto la guida di Giacomo Matteotti. La
divisione del fronte socialista in tre tronconi determina la rottura del legame storico che la
CGL aveva stabilito con il PSI. All'interno della CGL convivono ormai diversi orientamenti
politici e, per evitare scissioni, il sindacato lascia liberi gli iscritti da ogni vincolo politico e si
pone "nella esplicazione della sua attività non contro né fuori della nazione", aprendo le
porte a una possibile collaborazione con il fascismo.
Nell'ottobre del 1922 Angelo Oliviero Olivetti fonda il giornale La Patria del Popolo,
"settimanale sindacalista-dannunziano". La sua linea politica è sintetizzata nel Manifesto
dei sindacalisti – adottato dalla UIL nel suo quarto congresso – in cui sostiene che
"il vero organo della rivoluzione proletaria ed insieme della ricostruzione sociale è il
sindacato, il quale non nega beotamente ed aprioristicamente il capitalismo ma lo
supera, socializzandolo e distaccando il capitale e la sua funzione utile dalla persona
del capitalista. Il sindacalismo non è anticapitalistico nel senso tecnico, ma è contrario
alla detenzione illecita ed arbitraria dei mezzi di produzione in una casta privilegiata per
ordinamenti giuridici e politici."
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In quest'ottica il sindacato non è più un organismo di lotta dei proletari ma diventa uno
strumento utile all'accumulazione capitalistica e alla difesa degli interessi nazionali:
"Il sindacalismo riconosce il fatto e l'esistenza della nazione come realtà storica
immanente che non intende negare, ma integrare. La nazione stessa anzi è concepita
come il più grande sindacato, come l'associazione libera di tutte le forze produttive di un
paese in quei limiti e con quella unità che furono imposti dalla natura della storia, dalla
lingua e dal genio profondo e invincibile della stirpe. Il fatto nazionale è immanente,
fondamentale e supremo, è il massimo interesse per tutti i produttori. Estranei alla
nazione sono solo i parassiti, gli elementi improduttivi."
Puntualizzata la funzione del "sindacalismo" e ribadito il proprio concetto di nazione,
Olivetti affronta il problema della separazione tra proprietà e capitale: il fine del
sindacalismo, per Olivetti, non è negare il capitalismo ma socializzarlo sempre più,
spostando la proprietà e la produzione dall'esclusivo controllo dei capitalisti a quello dello
Stato. Essendo la tendenza del Capitale quella alla massima socializzazione del lavoro,
serve una sovrastruttura politico-sindacal-governativa, adatta a gestire questo processo
impedendo che abbia uno sbocco rivoluzionario. D'altronde, come dice Engels,
"il carattere sociale delle forze produttive costringe gli stessi capitalisti ad abbandonare i
grandi organismi di produzione e comunicazione a società per azioni prima, a trust poi,
infine allo Stato. La borghesia diventa una classe superflua: tutte le sue funzioni sono
ora espletate da funzionari stipendiati". (Antidühring)
Una volta conclusasi l'esperienza fiumana alla fine del 1920, furono fatti dei tentativi di
unificazione tra il sindacalismo nazionale di Olivetti e quello dannunziano. La Costituente
sindacale dannunziana mirava a costruire un fronte unico indipendente dai partiti che
coinvolgesse tutte le forze del lavoro, dai sindacalisti rivoluzionari, alla CGL, dai legionari
agli anarchici, col fine dichiarato di arrivare a una pacificazione generale in Italia. Ma il
tentativo frontista non va in porto perché i rapporti di forza sono ormai a vantaggio del
fascismo e perché D'Annunzio si ritira dall'operazione. Rossoni chiude le porte a qualsiasi
idea di collaborazione con i sindacalisti socialisti, e ormai il fascismo può muoversi
autonomamente in ambito sindacale, anche se il sindacalismo "rosso" resiste.
La CGL aveva visto nella proposta della Costituente sindacale la possibilità di uscire
dall'isolamento cui era stata costretta dal fascismo e, tramite alcuni suoi dirigenti (fra questi
Rinaldo Rigola), propone addirittura la costituzione di un Partito del lavoro. Da notare che
anche in altri frangenti storici il "sindacato rosso", venuto meno il collegamento con il partito
storico di riferimento, accarezzerà l'idea di costituirsi esso stesso in partito. Un esempio
recente è la proposta avanzata il 5 dicembre 2002 da alcuni dirigenti della sinistra CGIL
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"Per una nuova rappresentanza politica del mondo del lavoro". È particolarmente
significativo il fatto che l'appello sia finalizzato alla costituzione di un nuovo "partito del
lavoro" e non "dei lavoratori".
Anche Roberto Farinacci, che sarà segretario del partito Nazionale Fascista, si scaglia
contro qualsiasi ipotesi di Costituente sindacale che dovrebbe legare insieme forze del
tutto eterogenee; il fascismo preferisce spendere le proprie energie nel più realistico
progetto di unificazione e consolidamento dei sindacati fascisti, rivendicando per le sue
associazioni il monopolio dell'organizzazione sindacale. Lo statuto della Confederazione
delle Corporazioni sindacali fa propri naturalmente i temi del produttivismo: il sindacalismo
non deve riguardare solo le categorie, ma il popolo intero che, pertanto, si deve
immedesimare nella nazione. L'elemento dinamico della storia non è più la lotta di classe
ma una evoluzione competitiva tra le categorie, al cui interno emergono quelle élite abilitate
a guidare non solo la propria corporazione ma, al limite, la patria.
Corporativismo bipolare
Per il fascismo l'azione sindacale deve dunque essere subordinata alle esigenze della
produzione, al benessere della nazione, e qualsiasi contrasto tra lavoratori e imprenditori
dev'essere mediato dai Gruppi di competenza, formati da tecnici ed esperti nei vari settori.
La corporativizzazione della società blocca sul nascere qualsiasi iniziativa autonoma degli
operai e rappresenta un freno agli scioperi.
Il corporativismo capitalista non può più raccogliere entro i singoli raggruppamenti di
mestiere gli elementi di un'unica categoria come nell'epoca feudale. Esso è moderno, nel
senso che è l'espressione di una società divisa non tanto per mestieri quanto per proprietà
dei mezzi di produzione. Invece della corporazione unipolare feudale, dice la nostra
corrente, il fascismo realizza un modello di corporazione bipolare, entro cui, volenti o
nolenti, vi sono i due poli opposti della società: chi non ha nulla oltre la propria forza lavoro
e chi ha tutto ciò che serve a produrre, dai mezzi di produzione ai capitali. Nell'economia
capitalistica, non ci sono più persone fisiche individuali a rappresentare la loro classe ma i
due blocchi contrapposti sono il risultato di una socializzazione massima del lavoro; per cui
la responsabilità verso la patria economica si traduce in un inevitabile impedimento dello
sciopero, sostituito da una collaborazione il cui esito è la salvaguardia degli interessi di una
sola parte.
Questi temi sono sviluppati in un articolo pubblicato nel 1949 dal Partito Comunista
Internazionalista (Corporativismo e socialismo), quando era vivo il dibattito intorno alla
costituzione dei Consigli del lavoro e dell'economia, organismi che dovevano facilitare il
coinvolgimento
dei
lavoratori
nelle
scelte
aziendali,
rendendo
corresponsabili
i
rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi nei settori pubblico e privato:
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"È interessante che dopo caduto il fascismo quei gruppi stessi che nel succedergli si
atteggiarono a seppellitori e distruttori di ogni sua vestigia, ritornino tuttavia con
insistenza alla richiesta di continuare a ricostruire molti degli organi di quel sistema
sociale come i Consigli del lavoro e della economia."
Se vogliamo che tutto rimanga così com'è nella sostanza, bisogna che tutto cambi
nell'apparenza, questa è la logica gattopardesca che guida l'azione della classe dominante
italiana anche e soprattutto nel secondo dopoguerra. Non a caso, dopo la fine della guerra,
nella delicata fase del passaggio fra il vecchio corporativismo fascista e quello nuovo,
democratico, Togliatti aveva gridato che si doveva raccogliere il tricolore che la borghesia
aveva lasciato cadere nel fango e combattere un nuovo risorgimento.
Il sindacalismo integrale
Ritornando alla nostra storia del sindacalismo fascista, vediamo che i Gruppi di
competenza limitando l'iniziativa sindacale alimentano una controffensiva degli industriali e
degli agrari, e di riflesso una reazione degli operai. Fortemente ridimensionato il
sindacalismo di classe, i capitalisti ne approfittano abbassando i salari e peggiorando le
condizioni di lavoro.
Il riaccendersi della lotta di classe rappresenta un problema per il PNF, e Rossoni, a capo
della Confederazione dei sindacati fascisti, pensa di risolverlo lanciando la formula del
"sindacalismo integrale", che prevede l'esistenza di una formazione sociale "organicistica"
la quale accolga tutti gli elementi del lavoro, dall'operaio, al tecnico, all'imprenditore. Per
Rossoni il sindacato dev'essere nazionale, deve comprendere al suo interno sia le forze
del capitale che quelle del lavoro.
Ma questa forma di sindacalismo incontra l'opposizione degli industriali perché mette in
discussione la loro autonomia e minaccia i loro interessi. Secondo gli imprenditori, che
hanno appoggiato il fascismo in funzione anti-comunista, Rossoni vorrebbe una
continuazione della lotta di classe in altra forma, cosa che insidierebbe l'armonia sociale
corporativa. Non li tranquillizza certo il fatto che egli dichiari che "l'indisciplina e la rivolta
bolscevica delle masse sono esiziali alla Nazione, ma lo sono altrettanto l'egoismo e la
speculazione delle classi sordide ed opache". ("Comprendere o perire", Il Lavoro d'Italia,
22 febbraio 1923).
Le polemiche arrivano al Gran Consiglio del Fascismo del 1923, al cui interno si
fronteggiano due posizioni: una per il "sindacalismo integrale" (Farinacci e Rossoni) e
l'altra per l'autonomia dei sindacati padronali (Corgini). Mussolini media: riconosce nelle
corporazioni un aspetto della rivoluzione fascista ma si dichiara contrario al monopolio
sindacale. Nello stesso anno si riunisce il Consiglio Nazionale delle Corporazioni sindacali
in cui vengono discusse e approvate due risoluzioni: 1) le corporazioni fasciste sono
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incapaci di imporre ai datori di lavoro il rispetto dei contratti liberamente stipulati; 2) l'unico
modo per uscire da questa situazione è riconoscere i sindacati come associazioni di fatto e
come organi di diritto pubblico. Sarà questa la strada che percorrerà il fascismo di qui in
avanti.
Il Patto di Palazzo Chigi
Le proposte di Rossoni non passano e sono superate con l'accordo siglato nel 1923, noto
come Patto di Palazzo Chigi. Il governo, che non intende assorbire nelle corporazioni
anche i sindacati dei datori di lavoro e mira a stroncare definitivamente la CGL, pretende
però che la Confindustria riconosca i sindacati fascisti al fine di stabilire con essa rapporti
contrattuali. Per i teorici del sindacalismo nazionale è interesse di tutti mediare i conflitti e
cercare sempre un punto di conciliazione, facendo in modo che i rapporti tra governo,
organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori siano continuativi e non saltuari.
Nell'ordine del giorno approvato sotto la presidenza di Mussolini nella riunione del 21
dicembre 1923, la Confederazione generale dell'industria italiana e la Confederazione
generale delle corporazioni fasciste, affermano
"il principio che la organizzazione sindacale non deve basarsi sul criterio dell'irreducibile
contrasto di interessi fra industriali e operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere
sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro e lavoratori e fra le loro
organizzazioni sindacali, cercando di assicurare a ciascuno degli elementi produttivi le
migliori condizioni per lo sviluppo delle rispettive funzioni ed i più equi compensi per
l'opera loro, il che si rispecchia anche nelle stipulazioni di contratti di lavoro secondo lo
spirito del Sindacalismo nazionale."
Messa quindi da parte l'idea del "sindacalismo integrale", Mussolini si garantisce l'appoggio
della Confindustria in vista delle elezioni politiche dell'aprile del 1924 che porteranno alla
vittoria del Listone (il cui simbolo è il fascio littorio). Antonio Stefano Benni, rappresentate
degli industriali, eletto deputato nella lista fascista, pronuncia al Teatro Lirico di Milano un
discorso in cui valuta positivamente l'operato del governo fascista.
Nonostante il Patto di Palazzo Chigi, il conflitto capitale-lavoro e la diffidenza tra le "parti"
non si placano, e gli scioperi continuano, come è naturale che sia in una società divisa in
classi, dove si fronteggiano interessi contrapposti.
Il Patto di Palazzo Vidoni
Un ulteriore tentativo di risolvere o quantomeno limitare l'insopprimibile lotta tra le classi è il
Patto di Palazzo Vidoni nell'ottobre 1925. Questo accordo, in continuità con l'impostazione
di quello di Palazzo Chigi, rappresenta un passo avanti dal punto di vista politico: non vi è
un semplice riconoscimento delle due forze, corporazioni fasciste da una parte e
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Confindustria dall'altra, c'è il riconoscimento della rappresentanza esclusiva dei lavoratori
da parte del fascismo con l'abolizione delle commissioni interne di fabbrica. Vengono così
scavalcate le rappresentanze di base e tutto viene assunto dai sindacati fascisti locali
controllati direttamente dal PNF:
"La Confederazione generale dell'industria riconosce nella Confederazione delle
corporazioni fasciste e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva
delle maestranze lavoratrici.
La Confederazione delle corporazioni fasciste riconosce nella Confederazione generale
dell'industria e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli
industriali.
Tutti i rapporti contrattuali tra industriali e maestranze dovranno intercorrere tra le
Organizzazioni dipendenti della Confederazione dell'industria e quelle dipendenti della
confederazione delle corporazioni.
In conseguenza le commissioni interne di fabbrica sono abolite e loro funzioni sono
demandate al sindacato locale, che le eserciterà solo nei confronti della corrispondente
Organizzazione industriale."
Questo fatto porta al blocco di qualsiasi azione autonoma dei lavoratori poiché è negata
anche la minima agibilità all'interno delle fabbriche.
Durante la seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre 1925, si affrontano i temi
del riconoscimento ufficiale dei sindacati e dell'esigenza di una Magistratura del Lavoro. La
discussione porta alla formulazione della legge del 3 aprile 1926 che disciplina
giuridicamente i rapporti collettivi di lavoro, istituisce la Magistratura del Lavoro e fissa il
principio che il mondo sindacale debba essere controllato e inquadrato nello Stato. Nasce il
Ministero delle Corporazioni, diretto da Giuseppe Bottai.
Il "riconoscimento" è concesso a un unico sindacato per ogni tipo di impresa o di categoria
di lavoratori. I sindacati che sono riconosciuti dalle istituzioni hanno il potere di stipulare
contratti collettivi di lavoro con effetto obbligatorio per tutti, mentre i sindacati non
legalmente riconosciuti possono continuare a sussistere ma solo come associazioni di
fatto.
Questo principio fondamentale del sindacalismo fascista sopravvive ai nostri giorni. Spiega
ad esempio l'angosciosa corsa dei sindacati minori al riconoscimento da parte dei datori di
lavoro. Significativo il Testo Unico sulla Rappresentanza Sindacale firmato dai tre maggiori
sindacati italiani il 10 gennaio del 2014: esso sancisce la validità formale solo degli accordi
tra le parti firmatarie del TURS, accordi ai quali tuttavia si deve attenere chiunque, anche
se contrario al loro contenuto.
(socializzazione_fascista_comunismo5.htm)
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(socializzazione_fascista_comunismo7.htm)
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La socializzazione fascista e il comunismo (7)
(socializzazione_fascista_comunismo6.htm)
(socializzazione_fascista_comunismo8.htm)
7. L'integrazione totale
I Problemi del Lavoro
In seguito alla promulgazione delle cosiddette leggi fascistissime, che trasformano di fatto
l'ordinamento giuridico del Regno d'Italia nel regime fascista, e alla dura repressione contro
le Camere del Lavoro e le sedi sindacali (il 10 novembre 1926 i fascisti devastano la CdL di
Milano e quella della FIOM a Torino), si apre una discussione all'interno dei gruppi dirigenti
della CGL che porta, nel gennaio del 1927, alla decisione di sciogliere l'organizzazione.
Dalla Francia Bruno Buozzi e altri esuli dichiarano di non condividere tale scelta. I capi
sindacalisti rimasti in Italia non si limitano a sciogliere l'organizzazione e a ritirarsi a vita
privata: dirigenti come Baldesi e Calda hanno colloqui con Mussolini e Rossoni (già nel '23
vi erano stati degli abboccamenti con Mussolini e si era delineata una tendenza frontista
all'interno della CGL), durante i quali mettono al corrente i gerarchi fascisti della volontà di
fondare una rivista che si chiamerà I Problemi del Lavoro (diretta da Rinaldo Rigola e
Ludovico D'Aragona). L'obiettivo, al solito, sarebbe quello di operare contro il fascismo
incalzandolo da sinistra. Tanto per farsi un'idea della linea politica della rivista, nel primo
numero (25 marzo 1927) si dice esplicitamente che la sostituzione dei sindacati con le
corporazioni, tutto sommato, non è da valutarsi negativamente:
"Questo obiettivo dato di fatto sta a dimostrare che un principio ha vinto, sia pure col
sacrificio di particolari concezioni e degli uomini che le incarnavano. Chi ha vissuto in
tempi in cui il sindacalismo era avversato in principio, così dalla scienza economica
come dalla politica, può fare dei raffronti. Più sindacalismo oggi di ieri, malgrado la
guerra ai sindacati."
Certo, più sindacalismo "oggi di ieri", ma che tipo di sindacalismo? La fondazione della
rivista e dell'associazione Studi del Lavoro è accettata dai fascisti, che hanno tutto
l'interesse a dimostrare di essere tolleranti e aperti verso le istanze che arrivano dal mondo
del lavoro.
I Problemi del Lavoro viene pubblicata dal 1927 al 1940. La rivista ha come scopo ufficiale
quello di aiutare il sistema politico e istituzionale a concretizzare i postulati espressi dai vari
patti e mira a dare un fondamento "socialista" allo stato fascista. Il gruppo dirigente
dell'allora Confederazione del lavoro capitola dunque su tutta la linea inserendosi nel
dibattito in corso nell'Italia fascista in merito alla realizzazione dei postulati contenuti nella
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Carta del Lavoro. Del resto il cedimento riguarda anche altri aspetti della politica fascista:
ad esempio, si arriverà a giustificare le imprese coloniali e imperialiste del regime,
sostenendo addirittura che l'Africa è un'appendice naturale dell'Italia.
La Carta del Lavoro
Arriviamo quindi, alla Carta del Lavoro (redatta da Carlo Costamagna, riveduta da Alfredo
Rocco), varata il 21 aprile 1927. Il mondo industriale poteva dirsi soddisfatto della resa del
gruppo dirigente della CGL e della progressiva istituzionalizzazione del sindacato. Non
poteva dirsi soddisfatto il proletariato che in quegli anni doveva misurarsi con la famigerata
rivalutazione della Lira a "quota 90", con l'aumento della disoccupazione e con
l'abbassamento dei salari. In seguito all'impennata della disoccupazione c'era stata una
migrazione, guidata dal governo, dal Veneto e dall'Emilia verso l'Agro Pontino dove erano
in corso le famose bonifiche mussoliniane (una realistica descrizione romanzata è in
Canale Mussolini di Antonio Pennacchi). Lo stato corporativo era intervenuto per attenuare
i processi di impoverimento con grandi opere pubbliche che da un lato risanavano territori
paludosi e dall'altro mettevano in moto nuovi cicli di accumulazione agraria locale.
Mancavano ancora dieci anni alla pubblicazione del manifesto keynesiano e il capitalismo
italiano sentiva già il bisogno di dare un assetto statale all'economia con notevoli
investimenti in opere pubbliche.
Il contenuto sindacale della Carta del Lavoro doveva, tra l'altro, porre rimedio con
miglioramenti normativi e assistenziali al processo di immiserimento della popolazione
dovuto al fatto, confessato, che le corporazioni non riuscivano a far rispettare le decisioni
presso le industrie, le quali di conseguenza si sentivano libere di tenere bassissimi i salari.
A ciò si aggiungeva la rivalutazione della Lira, poco funzionale, riguardante solo una
questione formale di prestigio; mentre l'Italia avrebbe, al contrario, avuto bisogno di
svalutare per aumentare la competitività delle proprie merci sul mercato estero. Risultato,
comunque, che si cercò di ottenere abbassando i salari con una riduzione tra il 10 e il 20%.
Insomma, la Carta del Lavoro avrebbe dovuto compensare con un welfare ante litteram sia
i sacrifici chiesti per aumentare il valore della moneta, sia la naturale tendenza dei
capitalisti ad abbassare il salario al minimo permesso dal mercato della forza lavoro.
La Carta constava di 30 enunciazioni suddivise in 4 gruppi che riguardavano lo stato
corporativo e la sua organizzazione, il contratto di lavoro e le garanzie del salario, gli uffici
di collocamento e la previdenza, l'assistenza e l'educazione del popolo italiano.
Le enunciazioni fondamentali contemplavano la collaborazione di classe e l'armonia tra i
diversi fattori della produzione, la preminenza dell'iniziativa privata sull'intervento statale in
campo economico, la contrattazione collettiva sotto la regia del sindacato unico, e la
magistratura del lavoro.
Il diritto-dovere al lavoro è messo in primo piano:
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"Il lavoro, sotto tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche,
manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo
Stato. Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi
obiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della
potenza nazionale"
Con la Carta del Lavoro l'Italia diventava un paese capitalista all'avanguardia per le
"garanzie" concesse ai suoi cittadini. Il sindacalismo fascista e le politiche del welfare
nascono quasi contemporaneamente e, se hanno come risvolto quello di impedire la lotta
di classe, dimostrano come il rivoluzionamento continuo dei rapporti di produzione non sia
un semplice paragrafo nel Manifesto di Marx ma un'esigenza materiale che ha riflessi sulla
sovrastruttura politica.
Insopprimibile lotta di classe
Nonostante i ripetuti tentativi del PNF di raggiungere la pace sociale, la lotta di classe non
è certo sopita; gli industriali se ne infischiano delle leggi e i lavoratori si muovono di
conseguenza, scioperando. Per Rossoni, l'esponente di primo piano della sinistra fascista,
l'eccessiva autonomia concessa agli industriali provoca un disequilibrio sociale che a lungo
andare può diventare pericoloso. Si verificano infatti importanti agitazioni operaie nel corso
del 1927, e ancora una volta i sindacati fascisti si trovano sotto la pressione dei capitalisti
da una parte e dei lavoratori dall'altra.
Rossoni arriva a minacciare gli industriali sostenendo che lo stato dovrebbe avocare a sé
la proprietà delle grandi industrie per affidarne la gestione a funzionari stipendiati. A mali
estremi, estremi rimedi: il capitalismo moderno ha dato troppo potere al capitale, con la
conseguenza di permettergli la massima autonomizzazione rispetto ai suoi singoli
possessori. Rossoni ha ragione. Dal punto di vista della salvezza del capitalismo sarebbe
meglio che il capitalismo facesse a meno dei capitalisti. Ancora una volta l'Italietta
sconquassata da scontri epocali, produce teoria di alto livello a disposizione del mondo: un
capitalismo senza capitalisti si sta consolidando in Russia, e negli Stati Uniti appare una
teoria sociale basata addirittura sulla nascita di una nuova classe "gestionale" formata
esclusivamente da tecnici.
La minaccia di Rossoni è estremamente significativa, ma è in realtà un segno di debolezza:
in fondo il fascismo non ha il potere e neppure il coraggio di essere radicale rispetto alle
proprie origini. In una dinamica storica da tragedia infinita come quella degli anni '20, il
sincretismo politico fra sindacalismo rivoluzionario, dannunzianesimo e corporativismo è la
montagna che partorisce il topolino. Le premesse storiche sono più potenti di quanto
sappiano raccogliere le componenti politiche. Dover riconoscere che di fronte al capitale
che si autonomizza (come del resto previsto da Marx) lo stato non è in grado di disciplinare
i singoli capitalisti, anzi permette loro di immiserire la osannata classe del lavoro, è una
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resa umiliante per i fascisti rimasti fedeli alle origini. Ma quale sarebbe la struttura del
capitalismo-fascismo se davvero i capitalisti fossero sostituiti da funzionari stipendiati? Da
notare che, nel caso di industrie sull'orlo del fallimento lo stato fascista requisisce già le
fabbriche sostituendo i proprietari con tecnici che hanno il compito di rimetterle in sesto e
presentarle di nuovo sul mercato. Rossoni dunque non fa un discorso personale ma
esprime un dato di fatto: l'ondata rivoluzionaria ha perso la sua forza e la socializzazione
dell'economia assume l'aspetto statale, accentrato e burocratico. In Italia e nella Russia dei
soviet ciò è particolarmente visibile, ma anche, con qualche anno di ritardo, in Germania e
negli Stati Uniti. In quest'ultimo paese il riflesso della socializzazione si manifesta con il
movimento tecnocratico, uno sviluppo tutto americano delle premesse fasciste.
Tale movimento nasce dopo la Prima Guerra Mondiale negli Stati Uniti e si rafforza nei
primi anni '30 sull'onda della grande crisi del '29 che, come ogni crisi, non fa che
dimostrare come il capitalismo sia un modo di produzione transitorio: se vuole ritardare la
sua fine, deve rivoluzionare sé stesso. La parola Technocracy è usata per la prima volta da
un ingegnere californiano, William Henry Smyth, nel 1919, per descrivere una "democrazia
industriale" da ottenere attraverso l'impiego di scienziati e tecnici al servizio della
produzione. I lavoratori, sotto la guida dei tecnici, devono essere integrati nei processi
decisionali. Ciò tramite scelte programmate o attraverso una rivoluzione.
I tecnocratici, a differenza dei fascisti, non danno vita a un movimento politico, propongono
"semplicemente" di opporre alla disastrosa politica tradizionale un governo di tecnici che
agisca sulla base di programmi scientifici, fondati sul calcolo con dati oggettivi. Non è da
escludere che anche all'interno del corporativismo italiano degli anni '30 ci siano state delle
spinte in questa direzione, ma se pure si sono manifestate, sono state schiacciate dagli
interessi prevalenti di una borghesia miope, incapace di realizzare il suo stesso programma
storico.
Il movimento tecnocratico sostiene che il tempo del capitalismo è finito e che bisogna
passare da una misura basata sul valore-denaro a una basata su quantità fisiche. Nel 1936
Marion King Hubbert presenta sulla rivista Technocracy (serie A, n. 8) un articolo intitolato
"Ore-uomo e distribuzione - Una quantità declinante", proprio per dimostrare l'efficienza di
una contabilità senza rapporti di valore (proponeva il calcolo in base allo scambio di
energia). Riprendendo, anche se non volutamente, il punto di vista marxista, secondo il
quale la contabilità della società futura sarà basata su quantità fisiche, come ore di lavoro,
numeri di oggetti e di persone, riguardanti il processo produttivo e distributivo, oppure,
appunto, scambio di energia.
Corporativismo e managerialismo tra le due guerre sono tentativi del capitalismo di salvare
sé stesso negando i caratteri che ne decretano oggettivamente la fine. Infatti, introducendo
l'ipotesi di nuovi elementi di governo del fatto economico, il capitalismo si spinge al confine
con una società completamente diversa. Lo shock rappresentato dalla crisi del '29 esorta a
una maggiore programmazione economica, cioè a un maggiore intervento dello stato in
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economia. Si scrivono saggi come La burocratizzazione del mondo di Bruno Rizzi e La
rivoluzione manageriale di James Burnham, che analizzano la posizione sociale dei
manager, la loro marcia verso il potere e la trasformazione in corso nei rapporti di proprietà,
necessaria a dare respiro al capitale. Per sopravvivere, il capitalismo è costretto a mutuare
strutture centrali e organismi politici di governo adatti ad assecondare il processo di
autonomizzazione del Capitale:
"Sulla traccia dello studio Proprietà e Capitale vediamo il fattore essenziale dell'attuale
fase capitalista mondiale nell'impresa - quella edilizia ne fornisce un esempio
suggestivo - che lavora senza sede e impianto proprio e stabile, con capitale minimo
ma per un profitto massimo e può fare questo perché si è asservito lo Stato che
distribuisce il capitale e incamera le perdite. Il funzionario non è figura centrale ma è
semplice mediatore; di contro al corpo di funzionari di Stato vi è quello dei contro-uffici
delle imprese dove pullulano consulenti di ogni specie e vegliano a piegare lo Stato agli
interessi delle imprese." (Lezioni delle controrivoluzioni, PCInt. 1951)
Oggi il capitalismo di stato non è più quello in cui lo stato controllava l'economia ma quello
in cui l'economia controlla lo stato. Giunta a quest'ultimo livello la società è in transizione.
Lo "sbloccamento" dei sindacati
Le discussioni nel PNF in merito alla realizzazione dello stato corporativo portano allo
"sbloccamento" dei sindacati, poiché la Confederazione dei sindacati fascisti è ritenuta da
Augusto Durati (segretario del partito) e da Giuseppe Bottai, un veicolo per la
riproposizione della lotta di classe.
"Non è possibile contare su di una collaborazione corporativa delle classi e delle
categorie, se tra le classi e le categorie si continua a mantenere il sistema del 'fronte
unico' il quale, plausibile in un regime di lotta di classe, diventa illogico in un regime che
vuole affermarsi nella restaurazione dell'unità dello Stato." (Giuseppe Bottai, Esperienza
Corporativa. 1929 - 1934).
Per Bottai, la Confederazione dei sindacati fascisti era stata necessaria per inquadrare i
lavoratori e debellare il sindacalismo di classe: raggiunto l'obiettivo bisognava voltare
pagina. Uno Stato (sindacale) nello Stato non poteva essere accettato dal fascismo, che
ormai da tempo si era allontanato dalle sue origini sindacaliste rivoluzionarie. Lo Stato
doveva inglobare la società civile e non era tollerabile la persistenza di un sindacalismo
che, nonostante l'assetto corporativo e pacificatore, era ancora basato sul confronto fra le
classi. In nome di un ulteriore perfezionamento dello stato corporativo viene quindi deciso
lo smembramento del sindacato fascista, una forza che raccoglie almeno due milioni di
iscritti. Il 21 novembre del 1928 è la data dello "sbloccamento": tutte le federazioni
provinciali che compongono la Confederazione sindacale fascista vengono trasformate in
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confederazioni e unioni provinciali autonome le une dalle altre. Si formano 13
Confederazioni nazionali, sei dei lavoratori e sei dei datori di lavoro più una dei liberi
professionisti.
E siccome oltre al confronto fra classi tende a persistere anche l'unione fra proletari,
pericolosa anticamera del movimento politico, il regime pensa bene di dividerli:
"La borghesia sente che, finché si può tenere il proletariato sul terreno di esigenze
immediate ed economiche che lo interessano categoria per categoria, si fa opera
conservatrice evitando la formazione di quella pericolosa coscienza 'politica' che è la
sola rivoluzionaria, perché mira al punto vulnerabile dell'avversario: il possesso del
potere." ("Partito e classe", Rassegna Comunista del 15 aprile 1921).
Frammentato e separato, il proletariato non ha nessuna forza, sembra sparire addirittura
come classe. Lo "sbloccamento" annichilisce il dispiegarsi dell'azione sindacale e,
annientato il sindacalismo "rosso", viene meno anche la necessità di quello "nero". Poiché
gli operai sono rappresentati solo dalle corporazioni, non hanno ora alcuna possibilità di
organizzarsi autonomamente e far valere le proprie rivendicazioni: le corporazioni sono gli
unici organismi di collegamento tra il governo e i gruppi industriali, e dal 1939 la Camera
dei deputati è sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il periodo che va dal 1928 alla caduta del regime vede uscire di scena il sindacalismo, ma il
fascismo si vanterà di aver costruito una serie di "garanzie" che ancora oggi alcuni settori
della sinistra parlamentare e non, rimpiangono e vogliono preservare. Elenchiamole:
- ferie pagate;
- indennità di licenziamento;
- conservazione del posto in caso di malattia;
- divieto di licenziamento in caso di maternità;
- assegni familiari;
- diffusione delle casse mutue aziendali;
- assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro.
Se dallo "sbloccamento" dei sindacati alla legislazione sull'ordinamento corporativo (1934),
non accade nulla di rilevante dal punto di vista delle lotte operaie, abbiamo però la
formulazione di curiose teorie politiche: durante il secondo Convegno di studi sindacali e
corporativi che si tiene a Ferrara nel '32, il filosofo Ugo Spirito presenta la sua teoria per
una "corporazione proprietaria": il controllo del capitale sarebbe dovuto passare dagli
azionisti (soggetto passivo per quanto riguarda produttività e lavoro) ai lavoratori
dell'azienda, mentre la proprietà dei mezzi di produzione, e quindi dell'azienda, sarebbe
stata prerogativa della corporazione.
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Questa teoria viene illustrata nel suo libro Capitalismo e corporativismo, pubblicato nel
1933, in cui si affronta anche il tema della separazione tra proprietà e controllo nelle grandi
società per azioni. Guarda caso, negli stessi anni in Francia nasce il "planismo", una teoria
economica secondo la quale attraverso la pianificazione si può cambiare la società, o per
lo meno contrastare gli effetti perversi del capitalismo, e che influenzò socialisti, sindacalisti
e fascisti. Al convegno ferrarese partecipò anche il sociologo ed economista tedesco
Werner Sombart, che in quella sede disse: "Stato e Nazione sono due potenze e
l'economia dovrà sottostare alla forza politica. Anche in Russia si manifesta la stessa
tendenza; ma il primo paese a muovere i passi sulla strada nuova è l'Italia." (L'avvenire del
capitalismo, Introduzione di Alberto Ghislanzoni).
Un filo unico lega le teorie sindacaliste rivoluzionarie della UIL, il sansepolcrismo, il
"sindacalismo integrale" di Rossoni, la Carta del Lavoro e il Manifesto di Verona (1943)
redatto durante la Repubblica di Salò, in cui viene proposta la collaborazione all'interno di
ogni azienda tra tecnici e operai per l'equa ripartizione degli utili:
"In ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici
e degli operai cooperano intimamente (attraverso una conoscenza diretta della
gestione) all'equa fissazione dei salari, nonché all'equa ripartizione degli utili, tra il fondo
di riserva, il frutto di capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei
lavoratori . In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative
delle attuali commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i consigli d'amministrazione
con consigli di gestione, composti di tecnici e di operai, con un rappresentante dello
Stato; in altre, ancora, in forma di cooperativa parasindacale." (Manifesto di Verona).
En passant : non bisogna dimenticare che in regime borghese le nazionalizzazioni delle
imprese, la cogestione e la partecipazione alle scelte aziendali, di cui ancora oggi
cianciano tanti sinistri, s'inquadrano in un processo di esasperazione ed accelerazione del
ritmo di accumulazione capitalistica, e perciò di sfruttamento della forza lavoro.
Abbasso la repubblica borghese…
Finita la guerra, sconfitto il fascismo in "camicia nera", il corporativismo non scompare ma
si presenta in una nuova veste, quello della ricostruzione post-bellica. D'altronde, se il
fascismo è una necessità che emerge dal profondo della società capitalistica per darsi un
ordine a fronte dell'enorme complessità raggiunta, tale processo non può che continuare
ed evolversi aggiornando strumenti e metodi di intervento.
La breve esperienza della "CGL rossa" nel Sud Italia nel 1943-44, che si richiama al
sindacalismo prefascista ed è in polemica con l'interclassismo, viene presto riassorbita dal
ricostruito sindacato tricolore (cfr. L'altra Resistenza); e nemmeno le scissioni sindacali
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degli anni '40 e '50 che danno vita alla CISL e alla UIL rappresentano una rottura nel
processo di sussunzione del sindacato nelle istituzioni borghesi, anzi, non fanno che
rafforzare il processo stesso.
Può essere utile la lettura del libro di Pietro Neglie, Fratelli in camicia nera. Comunisti e
fascisti dal corporativismo alla Cgil 1928-1948, che, come dice il titolo, mette in luce la
continuità anche fisica tra corporativismo fascista e corporativismo demo-fascista, ovvero
le molteplici relazioni che esistettero, durante il Ventennio e oltre, fra stalinisti italiani e
fascisti, soprattutto in campo sindacale. Niente di nuovo per chi si richiama alla Sinistra: la
nostra corrente in Abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua costituzione (1947),
dichiarava senza mezzi termini che il processo di integrazione dei sindacati cominciato
negli anni 20' lo stavano portando a termine i governi postfascisti:
"Il sindacato economico proibito nella prassi iniziale della rivoluzione borghese viene
prima ammesso, poi corrotto, poi inquadrato nello Stato. Il gioco delle iniziative
economiche che all'inizio deve per sacro canone (versione diretta di quello sgonfione
della inviolabilità della persona) essere incontrollato, vede interventi sempre più fitti e
diretti del potere politico, in nome dell'interesse sociale!"
Nell'articolo citato c'è una lucida descrizione del lascito del Ventennio: in quanto
"realizzatore dialettico delle istanze riformiste" il fascismo sposta la forma sindacale
dall'esterno delle istituzioni borghesi, all'interno di esse per una riforma. Con la Carta del
Lavoro e con gli altri documenti fondamentali del regime i sindacati diventano una
questione di stato. Non è strano che, con la vittoria degli Alleati e della resistenza
antifascista, la nuova repubblica venga fondata sul lavoro, come recita l'articolo 1 della
Costituzione, e che la forma corporativa sopravviva.
Dal punto di vista del proletariato, inteso come classe "per sé", non è una conquista il fatto
che le organizzazioni dei lavoratori vengano riconosciute dalla borghesia: la via proletaria
non è "entro" lo Stato. A maggior ragione, gli organismi di battaglia del proletariato non
hanno nessun interesse ad essere riconosciuti dai capitalisti: essendo il sabotatore
dell'investimento borghese, il proletariato in lotta non dialoga con le istituzioni della classe
nemica, non accetta contratti che prevedano riduzioni salariali e licenziamenti, non accetta
nuove sconfitte in cambio di fantomatiche promesse come la difesa dell'occupazione, gli
investimenti produttivi o politiche monetarie per stimolare l'economia.
La tesi dell'integrazione del sindacato è una peculiarità della Sinistra Comunista "italiana",
ma è interessante notare come alcuni storici arrivino a conclusioni simili, capitolando
ideologicamente di fronte alla teoria rivoluzionaria. Ecco cosa scrive Alessio Gagliardi nel
saggio Il corporativismo fascista:
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"La […] costruzione del nuovo sistema sindacale [dopo la Seconda Guerra Mondiale] fu
influenzata da residue eredità corporative: l'impossibilità di riproporre un sistema come
quello costruito nei primi due decenni del secolo, basato sulla reciproca autonomia di
Stato e organizzazioni di rappresentanza sociale, e, nel contempo, il riconoscimento
istituzionale delle nuove organizzazioni sindacali, garantito da una legislazione che ne
regolamentava la funzione e dall'inserimento nei processi di formazione delle decisioni
in materia economica e sociale, rendevano inevitabile il delicato confronto con
l'esperienza fascista."
Non si può far girare all'indietro la ruota della storia, impossibile riproporre l'esperienza dei
primi del Novecento in cui, rispetto allo stato, le organizzazioni dei lavoratori avevano
ancora una certa autonomia. Dall'inserimento dei sindacati nei processi di formazione delle
decisioni in materia economica e politica non si torna al passato remoto. Non a caso, la
Sinistra in Tendenze e socialismo (1947), afferma provocatoriamente che chi voglia essere
progressista deve essere fascista: la successione infatti non è "fascismo, democrazia,
socialismo – essa è invece: democrazia, fascismo, dittatura del proletariato ."
(socializzazione_fascista_comunismo6.htm)
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(socializzazione_fascista_comunismo8.htm)
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La socializzazione fascista e il comunismo (8)
(socializzazione_fascista_comunismo7.htm)
(#)
8. Storicamente irreversibile
Autodefinizione
Nel 1933 viene pubblicato un breve opuscolo con una conferenza del sociologo
economista Werner Sombart (già presente al convegno di Ferrara) su L'avvenire del
capitalismo. L'introduzione, scritta da un fascista, è straordinariamente precisa in confronto
alle leggende sociali sulla vittoria militare della democrazia contro il fascismo e quindi sulla
natura di quest'ultimo:
"Sovietismo e Fascismo rappresentano due colossali tipi di costruzioni nuove per
l'assetto interno e per i rapporti esteri della vita dei popoli… Profondamente contrastanti
nella dottrina, nelle finalità politiche e sociali, i due sistemi presentano non rare analogie
di metodi, non rare analogie nella valutazione di taluni elementi, di taluni fattori della
vita. L'uno e l'altro hanno seppellito definitivamente il mondo liberale con le sue teoriche
politiche ed economiche e hanno potenziato al massimo l'autorità dello Stato, hanno
fatto sentire la necessità dell'inquadramento dei produttori nella vita collettiva. Hanno
dato al capitale una nuova funzione diversissima da quella del passato: l'uno, il
comunismo, sopprimendo la proprietà, l'iniziativa privata e concentrando tutto nello
Stato; l'altro, il fascismo, conservando proprietà e iniziativa privata, ma subordinando
ambedue alle più alte finalità nazionali e sociali e facendo intervenire lo Stato solo per
dirigere e controllare. Il Fascismo con la carta del Lavoro, come ha superato la lotta di
classe proletaria, così ha anche superato il capitalismo nell'accezione corrente della
parola. Non una volta soltanto Mussolini ha ripetuto che il capitale deve obbedire, né ha
mezzi di opporsi al volere dello Stato; che il capitale non è una divinità, ma uno
strumento."
La citazione è lunga ma necessaria. Nell'opuscolo presentato a questo modo, Sombart
analizza le possibilità di sviluppo futuro del capitalismo giungendo a considerarne tre: 1) il
capitalismo "tira a campare" rattoppando volta per volta il tessuto sociale là dove fa acqua;
situazione, questa, che nessuno auspica tranne i governanti attuali; 2) il film del capitalismo
viene proiettato all'indietro fino al periodo dell'accumulazione matura, quando nella società
è chiaro il predominio illimitato degli industriali e del mercato. Ma questo scenario non è
realistico, primo, perché un ritorno al capitalismo liberale è impedito dalla complessità
economica, sia dal punto di vista delle modalità tecniche della produzione e della
distribuzione, sia dal punto di vista dell'assetto industrial-finanziario, con gigantesche
banche e potenti monopoli, cui si affianca il sistema di controllo sia del processo
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economico sia dei rapporti fra le classi; 3) Essendo il passato definito come libertà e
arbitrio senza programma, e il presente come insieme di vincoli e regolamentazioni stabilite
ad hoc, senza programma, il futuro non potrà che essere una negazione delle due fasi
precedenti, cioè una società caratterizzata da un ordinamento programmato dell'economia.
"Si potrebbe parlare forse di economia ordinata, inquadrata, addomesticata, razionale,
che si potrebbe anche indicare come economia organica, se si è convinti di esprimere
con un'immagine la cosa, dicendo: si tratterebbe di ristabilire una connessione razionale
come se questa fosse un organismo. In ambedue i casi abbiamo a che fare con un tutto
le cui singole parti devono stare tra loro in rapporto razionale." (Sombart, op. cit.).
E siccome una programmazione parziale, come una razionalizzazione parziale è un non
senso, l'economia a programma dev'essere intesa come estesa a livello nazionale. Nel
senso che un'economia nazionale dev'essere programmata e un'economia programmata
non può che essere nazionale. Ogni programma ha bisogno di un centro programmatore
che possa fare affidamento sul principio di non contraddizione fra le parti interagenti. Ne
risulta che questo principio esclude la disarmonia sociale del rapporto contraddittorio fra le
classi. Citando Marx, Sombart osserva che l'economia-programma sarà necessaria anche
per affrontare il mercato mondiale: il saggio di plusvalore assoluto scenderà perché
saliranno i salari e si accorcerà la giornata lavorativa, mentre il saggio di plusvalore relativo
non salirà in proporzione all'aumento di produttività. La programmazione, quindi, si avvarrà
di tutti gli strumenti che il capitalismo ha escogitato nella sua crescita caotica. Guai allo
stolto capitalista che rinuncerà a qualcuno di essi nel timore che un più razionale assetto
capitalistico gli tolga potere.
Processo storico irreversibile
Ora, se noi diciamo che la forma fascista del capitalismo è la più moderna e avanzata, che
fase stiamo attraversando? Si tratta sicuramente di un periodo in continuità con quello
fascista e in più di un'occasione abbiamo parlato del secondo dopoguerra come fase
demo-fascista del capitalismo, che ha perfezionato il sistema pubblico integrando molte
funzioni sociali:
"Più volte è stato chiarito dal nostro movimento che l'attuale fase della dominazione
capitalistica è, nel fondo, fascista, in quanto tende a realizzare pur con altri mezzi lo
stesso inquadramento ferreo delle masse lavoratrici nello Stato, lo stesso svuotamento
del carattere classista degli organismi sindacali, lo stesso controllo dell'opinione
pubblica, che gli Stati totalitari erano riusciti precedentemente ad imporre. Questo
inquadramento avviene non solo attraverso il rafforzamento rapido e efficacissimo degli
organi tradizionali dello Stato capitalistico, ma anche (e con non minore efficacia)
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attraverso la rete a maglie fitte dei grandi partiti, il cui alternarsi alla direzione della 'cosa
pubblica' serve solo a far apparire meno rigido e soffocante il metodo totalitario di
governo." ("Le nazionalizzazioni arma del capitalismo", Prometeo 1946).
Con le leggi fiscali (Vanoni), i lavori pubblici (Fanfani) e l'industria statale (IRI), l'intervento
statale in economia continua e si allarga. Oggi, lasciate formalmente alle spalle la Prima e
anche la Seconda Repubblica, le politiche di assistenza pubblica, le "garanzie" sociali di
fascista memoria, si stanno dissolvendo come neve al sole. Noi non valutiamo come
negativo questo processo; avendo fatto nostro il dettato del Manifesto del Partito
Comunista siamo convinti che
"I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno soltanto da
distruggere le sicurezze e le guarentigie private finora esistenti".
Il capitalismo sta facilitando il lavoro ai comunisti: dissolvendo il welfare e mettendo ampie
fasce di popolazione con le spalle al muro rende la società dualistica, classe contro classe.
In caso di "scelta" le molecole sociali si indirizzerebbero intorno a due poli distinti. Gli stati
sono sempre più in difficoltà e riescono sempre meno ad assolvere alle loro funzioni:
l'italiana repubblica fondata sul lavoro vede una pericolosa crescita della disoccupazione,
della disuguaglianza sociale e un'incapacità delle istituzioni (Triplice sindacale compresa) a
porvi rimedio. Nel "Rapporto Giovani 2017", commissionato da banche e altri enti italiani,
sono presentate cifre pesanti sulla condizione giovanile fra i 18 e i 32 anni. Oltre il 70% dei
giovani che vivono in famiglia dichiara di non potersene allontanare per cause economiche.
E, sempre a cause economiche, l'80% dei disoccupati che non cercano più lavoro
attribuisce la propria condizione. Il 79% dei giovani occupati con contratti a termine
sostiene che non ce la fa a campare senza l'aiuto della famiglia. E l'81% di coloro che
hanno un lavoro dichiara di non poter avere figli, ancora per cause economiche. Il 92% dei
giovani della fascia di età oggetto di indagine vede la propria posizione immutata o
peggiorata rispetto al 2016. In conclusione, nella ricerca si afferma che alla gioventù non è
consentito accedere ai mezzi che permettono la riproduzione della specie. Teoricamente,
se questa situazione si protraesse fino alla scomparsa dei genitori dei giovani suddetti, nei
paesi occidentali saremmo, per cause economiche, all'estinzione di una parte dell'umanità.
La famigerata stanza dei bottoni
Saltando qualche decennio, arriviamo ai primi anni '80 in Italia quando, in seguito al rifluire
delle lotte dopo la conclusione del "Sessantotto lungo vent'anni" (cfr. articolo su questa
rivista n. 14), si formano i sindacati di base, nei quali molti raggruppamenti di sinistra
ripongono le ultime speranze sulla rinascita di un sindacato di classe.
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Per chi si collega alla Sinistra Comunista "italiana", la distinzione fra i grossi sindacati
tricolore e i piccoli sindacati minoritari (per cui i primi sarebbero corporativi e venduti in
blocco, alcuni dei secondi miracolosamente indenni) poggia, nel migliore dei casi, su
un'illusione. La natura di un sindacato non la decide il suo gruppo dirigente, o la buona
volontà dei suoi iscritti, o qualcuno che offre appoggio esterno: è un risultato storico.
Qualcuno può considerare quelli che abbiamo chiamato "i sindacatini fotocopia" come
preludi al sindacato di classe, ma di fatto sono assolutamente inutili, creano confusione e
false aspettative. Vanno alla trattativa come Nenni andava alle elezioni promettendo di
portare il PSI "nella stanza dei bottoni", cioè dei comandi, fingendo di non sapere che
bisogna cambiare l'impianto, non l'operatore. In quanto alla loro essenza "classista" non
offrono novità rispetto al panorama degli ultimi settant'anni, sono solo più piccoli di quelli
tricolore, relegati in aree di nicchia dove riempiono il vuoto lasciato dai grossi. Raccolgono
ovviamente lo scontento di alcune fasce di lavoratori, possono avere una base combattiva
e in buona fede, insomma, sono costretti ad essere radicali proprio per avere quel minimo
di consenso perduto dai concorrenti. Ignorati dalla politica sindacale ufficiale, agognano al
riconoscimento da parte dello stato e delle "controparti", cioè si candidano ad essere
perfettamente omologati.
Per cancellare l'effetto storico della cooptazione del sindacato entro lo stato borghese
occorrerebbe uno stravolgimento sociale di potenza gigantesca. Se ciò non avviene, ogni
sindacato non potrà fare altro che mediare fra capitalisti, stato e proletari secondo le regole
della concertazione e contrattazione introdotta dal fascismo e non più reversibile. Quando
sia utile, una radicalizzazione apparente è perfettamente gestita dai sindacati tricolore. Al
loro interno esistono tutti i presupposti per il recupero o l'espulsione di quella parte di iscritti
che tendesse a ribellarsi. Nel 1968-69 la CISL si pose come alternativa di "sinistra" alla
CGIL, considerata dai giovani operai di allora troppo cedevole. Nel 1980, durante i 35
giorni di sciopero alla Fiat, la CGIL finse di essere al fianco dei lavoratori con grinta, salvo
poi pugnalarli alla schiena. Quando all'inizio degli anni '90 ci fu una sollevazione interna
contro le gerarchie sindacali per il famoso Protocollo, la CGIL inviò a Torino Claudio
Sabattini e Giorgio Cremaschi, un duro della vecchia guardia e un sinistro della
generazione successiva.
Esistono forze interne alla CGIL più numerose e organizzate, passibili di radicalizzazione al
pari o più di quelle dei piccoli sindacati; ha più senso lavorare con quelle che con nuove
sigle. Di solito qui sorge inevitabile la domanda: ma se questo diventa impossibile
(espulsioni, ecc.) cosa possono fare i lavoratori? Se il proliferare di sindacatini è l'effetto di
condizioni oggettive, non ne consegue automaticamente che il fondare sindacatini possa
modificare dette condizioni. E infatti non le modifica, proprio perché il rapporto di lavoro è
basato storicamente sul presupposto contrattuale, e il contratto con firma diventa il fine di
ogni sciopero anche quando sono in ballo licenziamenti o temi che non possono/devono
essere oggetto di trattativa e compromessi.
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L'esito degli scontri per motivi sindacali non dipende dalla forma con cui tali scontri si
manifestano ma dalla forza che si riesce a mettere in campo. E non esiste una scala di
valori in cui inserire le varie sigle sindacali, l'unico criterio è quello dell'efficacia rispetto agli
obiettivi. Ma al di là dell'ovvio "uniti è meglio", neghiamo che oggi un sindacato qualsiasi
possa essere definito "di classe". Neppure come tendenza, perché nessuno al momento
può fare a meno di agire secondo regole che non ha la facoltà di cambiare. Se la natura
del sindacato odierno è il prodotto di un processo storico irreversibile, finché non cambia
radicalmente il rapporto fra le classi ogni sindacato è "opportunista" e ogni suo dirigente è
un "bonzo" come si dice fin dagli anni '20 del secolo scorso.
Letture consigliate
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Al popolo italiano, ai soldati, alle camicie nere agli ex combattenti e
volontari d'Africa
"Noi abbiamo ragione di inorgoglirci della nostra patria. Questa Italia bella, queste
ricchezze sono il frutto del lavoro dei nostri operai, dei nostri braccianti, dei nostri
contadini, dei nostri ingegneri, dei nostri tecnici, del genio della nostra gente […]. Noi
comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di
pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori; camicie nere ed ex combattenti
e volontari d'Africa, vi chiediamo di lottare uniti per la realizzazione di questo
programma […]. Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi,
fascisti della vecchia guardia e giovani fascisti, per la realizzazione del programma
fascista del 1919, e per ogni rivendicazione che esprima un interesse immediato,
particolare o generale dei lavoratori e del popolo italiano. Diamoci la mano e
marciamo fianco a fianco per strappare il diritto di essere dei cittadini di un Paese
civile qual è il nostro. Soffriamo le stesse pene, abbiamo la stessa ambizione: quella
di fare l'Italia forte, libera e felice."
"Manifesto per la salvezza dell'Italia e la riconciliazione del popolo italiano" apparso
sul n. 8 di Stato Operaio, agosto 1936. Firmato Palmiro Togliatti.
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