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Versare miele sulle ferite

Una delle proprietà terapeutiche del miele (dimostrata da studi scientifici e ampiamente utilizzata) è l'azione sulle ferite, dovuta alle sue proprietà antibatteriche, all'attività osmotica, alla viscosità, all'acidità, all'attività antiinfiammatoria.

Ambasciatori dei mieli di P. Faccioli VERSARE MIELE SULLE FERITE Finalmente si comincia a sapere di cosa si sta parlando, quando si dice che il miele “cura” Una fioritura senza precedenti di studi clinici, accompagnati da prove di laboratorio e resoconti di esperienze pratiche, stanno conferendo al valore terapeutico del miele una nuova dignità. L’attenzione del mondo medico va soprattutto (ma non solo) all’uso del miele nella medicazione di ferite, ulcere e ustioni, e quasi ognuno degli autori di questa nuova ondata di studi, che quasi ogni settimana si arricchisce di nuovi contributi, ama far riferimento alla storia più antica dell’uso del miele. Il fine di questo richiamo storico è molto puntuale. Non si tratta, per intendersi, di quel tipo di suggestiva elencazione spesso utilizzata dagli apicoltori e dai gastronomi per presentare il miele sotto un’aura di antichità e tradizione, anche un po’ miracolistica, citando precedenti in cui si mescolano mito, magia, rituale, simbolismo, a proprietà più reali. A partire dal Papiro Edwin Smith (detto il “papiro chirurgico”, un testo databile al 1600 avanti Cristo che presenta una summa della medicina razionale dell’epoca, senza nessuna concessione ad aspetti magici o rituali) si intravede tutta una tradizione di medicina pratica che percorre i secoli e pervade ogni territorio del pianeta, e sembra interrompersi in un momento preciso: gli anni ’40 del secolo scorso, quando la scoperta degli antibiotici origina una speranza che porta, negli anni ’60 e agli inizi degli anni ’70, alla presunzione di aver sconfitto una volta per tutte le malattie infettive. Questo riferimento storico serve a render conto del perché di questo rinnovato interesse per l’uso terapeutico del miele, un interesse che è indipendente dall’ ondata di riscoperta di cibi e prodotti naturali, ma che nasce da un’emergenza pratica: il rapido sviluppo di resistenza agli antibiotici sviluppata dai microorganismi. Fin dal 1947, dopo soli pochi anni di popolarità della penicillina (il primo antibiotico), si cominciò a manifestare resistenza da parte dello Staphilococcus aureus, un batterio che può causare tra l’altro ascessi, infezioni di ferite, impetigine, infezioni del tratto urinario, polmoniti, e che è tra quei batteri che provocano infezioni in ambiente ospedaliero e soprattutto nell’ambito delle ferite. Affrontato successivamente con sempre nuovi tipi di antibiotici, è continuato a evolvere Papiro Edwin Smith (detto il “papiro chirurgico”, un testo databile al 1600 avanti Cristo. Ambasciatori dei mieli L’Apis | N. 8 NOVEMBRE 2012 43 più velocemente di quanto la comunità medica riuscisse a “inseguirlo”, così come tanti altri batteri. L’uso generalizzato degli antibiotici ben oltre le situazioni di reale bisogno ha infatti eliminato i batteri più sensibili e messo i più forti nelle condizioni di riesumare i geni che erano evoluti in un lontano passato nella darwiniana lotta per la “sopravvivenza del più adatto”. Un episodio può rendere l’idea della lunga pausa di oblio del miele. Il dottor Raj Mani, oggi a capo del laboratorio vascolare all’ospedale universitario di Southampton, trent’anni fa era un giovane ricercatore. Un giorno, nei corridoi dell’ospedale, si imbattè in un eminente primario e la conversazione si indirizzò subito verso le ricerche che il giovane medico stava conducendo sulla guarigione delle ferite. Approfittando dell’occasione, chiese al medico anziano “Ha qualche idea su come si potrebbero guarire?” E si sentì rispondere “Il miele funziona. Anni fa, quando ero tirocinante, si usava”. Un altro motivo per cui questa nuova fioritura di studi è destinata a elevare il nostro modo di conoscere e presentare il miele è che finalmente si comincia a parlare a ragion veduta di differenze in proprietà ed efficacia tra mieli di diversa origine floreale. Per intendersi, non si sta parlando della lista di proprietà (quasi tutte non dimostrate) che viene abitualmente esibita al mercato nel vendere un vasetto di miele (per cui il miele di tarassaco farebbe bene al fegato –sono in realtà le radici della pianta-, il miele di eucalipto ai bronchi –è l’olio essenziale ricavato dalle foglie che se mai fa bene, ecc.). Qui si va a misurare, per esempio, vari meccanismi di attività antibatterica in diversi mieli monofloreali, cogliendo anche una complessità in questo compito: non solo lotti diversi hanno diversa intensità antibatterica, ma essa può guadagnarci in alcuni mieli quando sono riscaldati, in altri perderci. Così da indurre a verificare l’attività antibatterica caso per caso. L’aspetto antimicrobico è forse 44 L’Apis | N. 8 NOVEMBRE 2012 quello più studiato. La constatazione empirica dei benefici del miele è antichissima, ma senza ovviamente la consapevolezza che di attività antibatterica si trattasse né a maggior ragione dei suoi meccanismi di funzionamento. E’ alla fine dell’’800 che il potere del miele si disvela come antibatterico, e agli inizi del ‘900 ci si comincia ad avvicinare all’identificazione di uno dei meccanismi di funzionamento: l’ancora misterioso fattore viene definito “inibina” (parola che si ritrova su molti testi non recenti, ma ancora in circolazione, sul miele). Questo fattore dipende da un enzima aggiunto dalle api al nettare, con la funzione di proteggerlo dalla proliferazione batterica nel periodo della sua trasformazione in miele. Si tratta della glucosio ossidasi, che rimane “dormiente” nel miele tal quale, ma che rimessa in condizioni di minore concentrazione zuccherina, forma acido gluconico e piccole quantità di perossido di idrogeno (familiarmente chiamato acqua ossigenata), un disinfettante che in concentrazione alta può danneggiare i tessuti, ma alla concentrazione in cui viene prodotta nelle condizioni di utilizzo (1/1000 della concentrazione al 3% che compriamo in farmacia) ha un effetto terapeutico senza effetti collaterali negativi. Uno studio australiano pubblicato su Frontiers of Microbiology mostra però come i livelli di perossido di idrogeno in un miele non siano attendibili di per sé per aspettarsi una autentica attività antibatterica all’atto pratico, e anche che la filtratura e il riscal- damento, in genere, riducono l’attività di perossido di idrogeno, ma che questo varia da campione a campione. I mieli più attivi producono alti livelli di perossido di idrogeno sia prima che dopo il riscaldamento, suggerendo che la stabilità del perossido di idrogeno può essere un buon indicatore di attività antimicrobica. Il problema della stabilità è rilevante nel momento che, in ambito clinico, quando si parla di miele non si sta parlando di miele del negozio, ma di miele che deve aver raggiunto la “qualità medica”. Questo avviene (oltre che con un protocollo rigoroso dall’apiario all’estrazione), attraverso processi di filtratura (poiché l’incorporazione in una ferita di particelle non biodegradabili può dare origine a un granuloma), esposizione a raggi gamma (per evitare che spore non neutralizzate dall’attività antibatterica del miele stesso germinino in presenza di una diluizione), riscaldamento (per facilitare la filtratura). In tutti i casi nuovi controlli sul miele dopo i procedimenti per renderlo “di qualità medicinale” sono ormai parte del protocollo. Ma al perossido di idrogeno si affiancano, nel determinare le proprietà antimicrobiche del miele, anche altri fattori. Nel 1982 il professor Peter Molan, dell’Università di Waikato, in Nuova Zelanda, scoprì che nel miele di manuka (il Leptospermum scoparium, una mirtacea affine all’albero del the che vanta numerose varietà, diffusa in quel paese e abbondantemente visitata dalle api) era presente un principio antibatterico non sensibile alla Ambasciatori dei mieli luce e al calore. Per evidenziarne la presenza i ricercatori aggiungono un enzima chiamato catalasi, che elimina la produzione di perossido di idrogeno nel miele. Una volta neutralizzato il perossido di idrogeno, il miele di manuka continua ad esercitare una forte attività antibatterica. Nel 2007 uno scienziato tedesco dell’Università di Dresda, Thomas Henle, ha svelato il mistero, attribuendo a un composto specifico, il metilgliossale, l’azione battericida. Eppure il mistero non è completamente risolto in quanto, come per il perossido di idrogeno, anche per il metilgliossale i livelli reperibili nel miele non sono direttamente correlati all’attività antibatterica reale, il che fa presupporre qualche forma di sinergia. Questa peculiare proprietà battericida è stata denominata UMF (Unique Manuka Factor) e viene indicata con un valore, specifico per ogni campione di miele di manuka, che indica la percentuale di fenolo in soluzione che abbia lo stesso potere battericida. Questo vuol dire per esempio che un miele di manuka UMF 10 ha un potere battericida pari ad una soluzione al 12% di fenolo. Sembra che il miele di manuka con UMF più alto sia quello raccolto nelle regioni di Waikato e NorthIand, nella parte più settentrionale della Nuova Zelanda, dove crescono prevalentemente le varietà Leptospermum scoparium var. incanum e var. linifolium. E’ interessante notare come l’UMF non è da mettere in relazione con l’olio essenziale di manuka: infatti le aree che forni- Ambasciatori dei mieli scono miele con UMF più alto non sono quelle in cui l’olio essenziale di manuka ha proprietà maggiormente antibatteriche. Una bella fortuna comunque, per il miele di manuka, dal sapore ostico, aspro e astringente, certamente non gradito a molti! Ci sono altri meccanismi antibatterici ascrivibili al miele: uno è la sua capacità igroscopica, quella cioè di assorbire umidità succhiando dai batteri l’acqua e la vita ed eliminando quindi anche quei batteri che hanno sviluppato resistenza agli antibiotici. A impedire la proliferazione batterica può essere anche l’alta acidità del miele (che ha un pH che varia da 3.2 a 4.5 a seconda della sorgente botanica). Ma in azione non ci sono semplicemente zuccheri, tant’ è che per ottenere lo stesso effetto del miele con una miscela artificiale di zuccheri ce ne vuole una quantità da 5 a 10 volte maggiore. Queste componenti sono importanti nel momento in cui la catalasi, che abbiamo nominato sopra come soppressore del perossido di idrogeno, è presente, oltre che in certi mieli (che hanno perciò un basso livello di perossido di idrogeno), anche nelle cellule del corpo umano, e quindi è importante che il miele possa contenere un principio antibatterico indipendente dal perossido di idrogeno nel momento in cui l’essudato delle ferite diluisce e diminuisce il potere dell’acidità e dell’alto contenuto zuccherino. Sorge spontanea la domanda se anche al miele si possa opporre col tempo una resistenza da parte dei batteri, dal momento che, con poche eccezioni, l’introduzione di ogni nuovo antimicrobico nella pratica clinica ha avuto questo esito. Sono stati fatti esperimenti usando dosi subletali di miele di manuka, per vedere se era possibile selezionare ceppi batterici mutanti, resistenti al miele. Ma i risultati sono stati negativi, mentre esperimenti simili per isolare ceppi batterici resistenti hanno dato esiti positivi. A differenza degli antibiotici, il miele di manuka colpisce una molteplicità di obiettivi e anche se la possibilità di resistenza non può essere esclusa, risulta improbabile. Inoltre l’uso del miele per le ferite ha una storia millenaria, senza che siano mai stati segnalati casi di resistenza, mentre nel caso degli antibiotici queste segnalazioni sono cominciate non appena sono stati di uso comune. In letteratura medica, esistono ricerche sulla sensibilità di oltre 50 batteri a una grande varietà di mieli. Fin dal 1979 uno studio del tedesco Dustmann metteva a confronto alcuni mieli mitteleuropei trovando delle enormi differenze in termini di attività del perossido di idrogeno. Le proprietà antibatteriche non sono l’unico fattore che rende il miele adatto al trattamento delle ferite. Molto è dovuto alle sue proprietà fisiche. Con la sua viscosità, costituisce una barriera protettiva che previene le infezioni incrociate (malati che negli stessi locali ospedalieri si trasmettono reciprocamente batteri). La sua azione osmotica attira liquidi dai tessuti creando un L’Apis | N. 8 NOVEMBRE 2012 45 ambiente curativo idratato (osmosi è il processo per cui, se due soluzioni a differente concentrazione sono separate da una membrana semipermeabile, che permetta il passaggio della sola acqua senza il soluto, l’acqua tende a passare dalla soluzione più diluita a quella più concentrata fino a raggiungere un equilibrio). L’idratazione evita così un disseccamento che ritarderebbe il chiudersi delle ferite. Si evita così anche che la medica- 46 L’Apis | N. 8 NOVEMBRE 2012 zione aderisca alla ferita e che i tessuti, crescendo a stretto contatto con la garza, ne rendano dolorosa l’asportazione. Il flusso osmotico estrae anche le sostanze nocive dalla ferita. Il contenuto zuccherino del miele aiuta a eliminare i cattivi odori che spesso si notano provenire dalle ferite, poiché i batteri usano glucosio preferendolo agli aminoacidi, producendo perciò acido lattico anziché sostanze maleodoranti. Il miele stimola anche una naturale rimozione di cellule morte, evitando che questa rimozione avvenga chirurgicamente, in modo doloroso. L’acidità del miele accelera la guarigione e gli antiossidanti in esso contenuti neutralizzano i radicali liberi (molecole che danneggiano componenti importanti del tessuto della ferita). Il miele ha anche un’attività antiinfiammatoria, mitigando gli eccessi di quella reazione infiammatoria che di per sé inizia il processo di guarigione, ma che rischia di creare un circolo vizioso. Coi suoi zuccheri nutre i macrofagi, i più importanti mediatori del processo di guarigione. L’ambito delle ferite ci fornisce dunque un incredibile spaccato per conoscere in azione le caratteristiche nostro prodotto. L’informazione sull’uso del miele nelle ferite è soprattutto in lingua inglese. Se si vuole un buon libro a livello di studi clinici, suggerirei “Honey in Modern Wound Management” di vari autori tra cui quello che è forse il principale esperto mondiale, Peter Molan (il libro è distribuito da Bees for Development). Se si vuole invece un’esposizione lodevolmente semplice e accessibile a tutti, senza nulla perdere quanto a riferimenti scientifici, consiglierei “Two Million Blossoms” dell’americana Kirsten Traynor (Image Design Publishing), che spiega in forma divulgativa anche vocaboli che in genere si usano dando per scontato che uno debba saperne il significato (come “radicali liberi”). Molti studi sono accessibili liberamente in internet, in particolare sul sito della Waikato University, Nuova Zelanda, molti altri sono accessibili, ma a pagamento. Ambasciatori dei mieli Più coinvolgimento per i valutatori, più affidabilità per i concorrenti Il Concorso Grandi Mieli d’Italia di Castel San Pietro Terme, nel corso dei suoi trentadue anni di esistenza, è andato manifestando una continua evoluzione. Rispetto al suo obiettivo di attirare l’attenzione degli apicoltori su quei criteri di qualità che magari non avevano sufficientemente considerato, nel presentare a un concorso quelli che ovviamente ritenevano i loro mieli migliori, i risultati gli hanno dato ragione. Il numero di campioni con difetti obiettivi (umidità e HMF) è andato calando sensibilmente nel corso degli anni: quest’anno solo il 3% ha presentato problemi di eccessivo contenuto d’acqua, e la revisione che viene fatta di tutti i mieli premiati rispetto a inquinamento da antibiotici non ha dato alcun caso positivo: 0,0%! L’evoluzione non riguarda solo la consapevolezza dei partecipanti, ma le modalità del giudizio. Qualche anno fa il giudizio era passato a una giuria di assaggiatori professionali: persone che per mestiere assaggiano, valutano e paragonano mieli continuamente nel corso dell’anno, scelte anche in base ad una appartenenza regionale che garantisse una conoscenza più approfondita delle tipologie locali. Questa scelta mirava a rendere il giudizio più affidabile, a ridurre le differenze di opinione. Anche questa scelta è stata superata, nel momento in cui sempre si andavano formando nuove leve di assaggiatori, che si è voluto integrare in un processo di interazione formativa che coinvolgesse la “comunità” degli assaggiatori. Purtroppo la conoscenza “scolastica” dei 18 mieli classici sui quali gli assaggiatori vengono formati è a volte insufficiente a rendere conto della complessità di sfumature che può presentare, da regione a regione, uno stesso miele monofloreale. E anche se le giurie venivano formate in base alla competenza dichiarata dai partecipanti, a volte questa competenza poteva essere un po’ acerba e un po’ fragile. Quanto ai millefiori, il giudizio “edonistico” che veniva dato tendeva a equiparare il valutatore al semplice componente di un panel di “consumatori”, col proprio gusto personale indiscusso. Da queste constatazioni è nata la modalità di valutazione messa in atto quest’anno. Secondo la modifica introdotta dal 2003, il giudizio avviene tenendo ogni valutatore rigorosamente concentrato sul suo compito, senza nessuna interazione coi valutatori appartenenti alla stessa giuria per evitare condizionamenti reciproci; la valutazione “visiva” del miele (colore e pulizia) viene svolta precedentemente in laboratorio (oltre alla scrematura dei mieli non in regola con umidità e HMF), in modo da lasciare al giudizio soggettivo solo l’esame olfattivo e gustativo. La sessione di valutazione del concorso è sempre preceduta da una giornata di aggiornamento. Quest’anno, dopo una tradizionale parte comune a tutti e 66 i valutatori (per risintonizzarsi sui criteri generali dell’assaggio), i partecipanti sono stati raggruppati in piccoli gruppi costituiti ognuno da due delle giurie che sarebbero diventate attive il giorno dopo. Una rappresentanza di mieli che il giorno dopo sarebbero stati di competenza delle rispettive giurie sono stati assaggiati dapprima individualmente, ma poi commentati insieme, sotto la guida di capi-giuria considerati esperti di quei mieli. Questa pratica, che non è mai possibile in un corso di aggiornamento (anche perché chi è timido o insicuro tende a rimanere nell’ombra), ha permesso un confronto tra i partecipanti molto aperto, ricco, a tratti appassionato, su ogni singolo miele. Ognuno ha potuto convalidare o magari invece rimettere in discussione le proprie idee su come deve presentarsi un certo monoflora. Quanto ai millefiori, si è cercato di superare il giudizio puramente personale, edonistico, per cercare di riflettere un gusto più generale del proprio. E’stata in pratica una seduta di valutazione simulata, ma col beneficio del confronto finale. Questo confronto ha preparato la seduta di valutazione vera e propria del giorno dopo: ogni valutatore in totale isolamento ma, a valutazione finita e a voti ormai definitivamente assegnati, ogni giuria si è ricomposta attorno a un tavolo per confrontare a posteriori i giudizi, scoprendo le eventuali discrepanze. Questo doppio processo è stato accolto da tutti con grande entusiasmo, come un arricchimento intensivo di cui raramente è dato di fare esperienza. Ambasciatori dei mieli L’Apis | N. 8 NOVEMBRE 2012 Foto di Veronica Giangregorio Ancora una svolta al Concorso italiano più “antico” e importante 47