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La colonia come eccezione

2006, Rechtsgeschichte - Legal History

1 La colonia come eccezione Un’ipotesi di transfer Transfer: dalla metropoli alla colonia Il ricorso alla suggestiva immagine del transfer o a quella più prosaica della recezione per leggere i rapporti tra metropoli e colonia, tra cittadino metropolitano e suddito coloniale è per il giurista un’operazione spontanea, naturale. Nei discorsi dei giuristi lo spazio coloniale appare infatti uno spazio che si trasforma, un vuoto che si riempie, prima dei valori e della simbologia giuridico religiosa dell’Europa cristiana, poi delle idee di civiltà e di progresso propugnate dalla modernità occidentale e codificate negli Atti generali con i quali si chiuse la Conferenza di Berlino sullo stato libero del Congo. 1 Non solo. È proprio quello spazio formato, o meglio deformato, dalla nuova testualità che permette di pensare giuridicamente l’alterità delle popolazioni barbariche e di includerle nella dimensione civile delle sue leggi. Si tratta di una molteplicità di rappresentazioni condivise che si nutrono di stereotipi altrettanto diffusi e resistenti in grado di creare una realtà differente da quella che immaginarono descrivere, capaci di produrre l’identità e la coscienza del sé attraverso una dialettica negativa del riconoscimento. 2 »Il colonizzatore – scrive Antonio Negri – produce il colonizzato in quanto negazione, ma con un rovesciamento dialettico, l’identità negativa del colonizzato viene a sua volta negata per fondare il sé positivo del colonizzatore.« 3 Anche i giuristi, quindi, con antropologi, etnografi, storici economisti, parteciparono alla formazione di una »coscienza coloniale« della nazione, sia preoccupandosi, nella costruzione del loro oggetto, della definizione dell’io e dell’i- 1 Cfr. Luigi Nuzzo, Il linguaggio giuridico della conquista. Strategie di controllo nelle Indie Spagnole, Napoli: Jovene, 2004; Id., Dal colonialismo al postcolonialismo. Tempi e avventure del soggetto indigeno in: Quaderni Fiorentini, 33–34 (2004–2005), B. 1, 409– 53. 2 Cfr. Homi K. Bhabha, La questione dell’Altro. Stereotipo, discriminazione e discorso del dentità nazionale, sia mirando alla mobilitazione della società interna affinché condividesse e partecipasse al progetto espansionistico del liberalismo europeo. Al ceto dei giuristi e alla razionalità della legge si riconobbe un ruolo fondamentale per la riorganizzazione amministrativa delle colonie, per la loro normalizzazione e per stringere centro e periferia in vincoli di dipendenza più saldi di quelli che poteva assicurare il potere militare. E ancora, al diritto e al suo sistema sociolinguistico di giustificazione della realtà, si affidò il compito di rappresentare oltremare la modernità occidentale, intessuta delle immagini della codificazione e dello stato-nazione, di mettere in scena la sua universale forza liberatrice e la potenza dell’individuo-soggetto, ma anche di imporre un nuovo ordine morale e di attivare quelle antiche categorie gius-politiche come la guerra giusta, sempre attuali per punire chi osasse rifiutare o soltanto resistere alla avanzata della civiltà europea. Giuristi, amministratori coloniali, militari imbrigliarono spazi e soggettività in una rete testuale di leggi, regolamenti, ordinamenti giudiziari, provvedimenti amministrativi e decisioni giurisprudenziali. Minuziose normative che scandirono ad un’altra velocità il tempo della vita in colonia, declinarono il diritto di cittadinanza dei nuovi sudditi, o ne sancirono l’esclusione, assorbirono usi e consuetudini locali, ma che restituiscono anche un’immagine più complessa di quella cui ci rinvia immediatamente l’utilizzo di un sostantivo come transfer o ancora di più come recezione. Ciò non vuol dire che uomini e testi non furono fisicamente trasferiti, tras-locati in Africa e in Asia, o che concetti e idee giuridiche non furono recepiti colonialismo (1992), in Id., I luoghi della cultura (1994), Roma: Meltemi 2001, 97–121 3 Antonio Negri, Michael Hardt, Impero, Milano: Rizzoli 2002, 128. Debatte 1. Luigi Nuzzo 2 Rg8/2006 in contesti extraeuropei, ma che le recezioni e le traslazioni non esistettero in sé, non furono date, ma prodotte, frutto anch’esse di rappresentazioni, di strategie discorsive, di stereotipi che ne imposero la direzione, ne resero opaco il contenuto e ne definirono i limiti. Non si tratta, quindi, di accertare l’estensione della legislazione metropolitana nelle colonie o la sua eventuale immediata efficacia, ma di verificarne i presupposti, le condizioni di applicabilità, in breve di cogliere il significato più profondo dell’invenzione di una nuova disciplina scientifica. La fondazione di un diritto coloniale infatti, con le sue riviste, le sue cattedre, i suoi manuali e i compendi ad uso degli studenti contribuì all’occultamento ideologico, mediante il suo spostamento sul piano scientifico, della brutale appropriazione dei corpi e delle risorse indigeni. Attraverso il filtro della scienza giuridica, la missione civilizzatrice occidentale si depurò dai segni della violenza, trovò i titoli giuridici che la potessero legittimare e le regole con cui normativizzare i rapporti con i nativi. Nello stesso tempo civiltà e progresso costituirono i criteri guida della riflessione giuridica, ne legittimarono l’estensione oltremare, ma anche paradossalmente ne condizionarono l’ambito di operatività, rinviando alla potestà normativa dell’esecutivo il compito di scandire i tempi della vita quotidiana, di ordinare le esperienze per costruire il tessuto economico, politico, legislativo, amministrativo e giudiziario. Nella »colonia italiana primogenita«, l’Eritrea, era la civiltà infatti che riservava l’applicazione, da parte delle autorità giudiziarie della colonia, dei codici e »delle leggi che dovrebbero essere applicate in Italia« ai cittadini italiani e agli stranieri occidentali, e che invece affidava inesorabilmente i sudditi coloniali e le loro controversie ai capi indigeni e alle autorità amministrative, e ancora che filtrava nel 4 Legge concernente i provvedimenti per Assab, 5.7.1882, n. 857, art. 3, in Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del regno d’Italia, B. 66, Roma: Stamperia Reale 1882, 2245–50; vedi anche Legge portante l’ordinamento della Colonia Eritrea, 24.5.1903, n. 205, artt. 2; 3; 4, in Raccolta ufficiale, B. 1 (1903) 1138–1146. Anche in questa legge rimaneva salvo il principio (art. 3), già es- La colonia come eccezione rispetto del superiore »spirito della legislazione« le consuetudini razziali. 4 Se quindi la civilizzazione e lo sviluppo delle popolazioni indigene ispiravano il transfer, imponendo alla discorsività giuridica di provvedere alla tematizzazione del nuovo oggetto, l’insuperabile deficit di civiltà e l’arretratezza in cui esse vivevano le vincolava al principio della personalità della legge, forniva loro uno status ambiguo, la sudditanza coloniale o di una cittadinanza speciale come nel caso dei libici, e le confinava in un sistema dominato dalla presenza ingombrante dell’esecutivo. Il diritto coloniale non provvedeva però semplicemente alla codificazione di un’esclusione, o semplicemente alla testualizzazione di un’assenza. La riflessione giuridica fu più raffinata: costruì il nuovo sapere come sospeso tra il pubblico e privato, ne fece un diritto di confine per una spazialità di confine i cui protagonisti non erano assimilabili e la cui diversità richiedeva un’organizzazione del potere svincolata dalle distinzioni dello stato di diritto. Attraverso questa traslazione giuridica non si trasferì quindi solo qualcosa di dato, di già esistente. Trasferire, nella semantica latina di transferre, significa infatti trasportare, ma anche trascrivere, tradurre, e da qui adattare, cambiare. Assistiamo allora a trasferimenti che implicano traduzioni, ma anche, come in un gioco di specchi, a traduzioni che implicano trasferimenti. La moltiplicazione soggettiva, il pluralismo normativo, i poteri enormi dell’esecutivo e degli apparati militari tradivano l’appartenenza del diritto coloniale ad un’altra epoca, potevano convivere con le forme metropolitane dello stato di diritto perché il tempo della colonia non era quello della metropoli. La modernità giuridica resuscitava la premodernità e sul presupposto di una differenziazione temporale tra centro e periferia rappresentava la colonia come differenza. Uno scar- presso nelle legge sopracitata, che l’eventuale promulgazione da parte del governo di nuove leggi per la colonia, sentiti il governatore e il consiglio coloniale, al fine di adeguare le leggi già in vigore nel regno alle esigenze locali, non potesse riguardare lo stato personale e di famiglia degli italiani. 3 5 Sul tempo della colonia rinvio a Bhabha, I luoghi della cultura, (nt. 2) 334–354. 6 Santi Romano, Corso di diritto coloniale, Roma, Athenaeum, 1918, B. 1, 123; ma vedi tutto il cap. VI, 114–123; dello stesso autore cfr. anche Principi di diritto costituzionale generale, Milano: Giuffrè 1946, 180–185; Umberto Borsi, Principi di diritto coloniale, Padova: Cedam 1938, 221–26. tra principe e Stato, si presenta oggi tra metropoli e colonia«. 7 2. La colonia come eccezione Il diritto coloniale italiano era definitivamente altro rispetto a quello della metropoli, era un »diritto eterogeneo« per la molteplicità delle sue componenti disciplinari, prevalentemente consuetudinario e aperto alle esperienze giuridiche musulmane ed indigene, »un complesso di disposizioni particolari le quali si distinguono dalle disposizioni che formano il diritto comune dello stato che concerne la metropoli«. 8 Il discorso giuridico e politico italiano nella sua applicazione coloniale perdeva quindi quei caratteri di generalità e di astrattezza, di scientificità e di apolicità che rivendicava in patria e, paradossalmente, ribadiva la centralità della legge e l’autorità dello stato di diritto ritornando ad un pluralismo normativo e ad un paternalismo autoritario premoderni. 9 Leggendo il manuale di Romano non sembrano esserci soluzioni differenti; altre possibilità o altre temporalità in cui immergere il nostro oggetto. »Il diritto coloniale non può costituirsi sulla stessa base e con gli stessi criteri del diritto metropolitano« perché, scrive Romano, i suoi destinatari indigeni glielo impedivano. »Esso si riferisce a popolazioni di civiltà meno sviluppata di quella europea, per le quali è compatibile un governo simile a quello vigente presso di noi in epoca più antica, e viceversa non sarebbe possibile adottare i principi del moderno costituzionalismo.« 10 L’inciviltà e l’arretratezza delle popolazioni africane non lasciavano scampo, attivavano i differenti circuiti normativi, uno per italiani e stranieri, e un altro per gli indigeni e i loro assimilati, soggettività il cui tempo era scansito da due matrici politico- 7 Romano, Corso di diritto coloniale (nt. 6) 104. 8 Romano, Corso di diritto coloniale (nt. 6) 23; sul concetto e sulle fonti del diritto coloniale cfr. anche Ernesto Cucinotta, Diritto coloniale italiano, Roma: Società Editrice del »Foro Italiano« 1938, 6–76. 9 Sul pluralismo giuridico coloniale come strumento di controllo rinvio a Michael Barry Hooker, Legal Pluralism. An Introduction to Colonial and Neocolonial Laws, Oxford: Clarendon Press 1975; Lauren Benton, Law and Colonial Culture. Legal Regimes in World History, Cambridge: University Press 2002, 127 ss. 10 Romano, Corso di diritto coloniale (nt. 6) 167. Debatte to temporale o un luogo marginale che poteva essere investito degli effetti benefici della temporalità moderna e divenire oggetto dei suoi miti, ma la cui storia doveva ancora iniziare o iniziava in quel preciso momento con la colonizzazione europea. 5 Essa era uno »spazio in ritardo«, rinviato in un premoderno senza fine nello stesso momento in cui veniva costruito dai canoni narrativi performanti e deformanti della modernità metropolitana. Uno spazio sospeso tra quello della metropoli e quello degli stati stranieri, uno spazio molteplice che legittimava valutazioni e legislazioni differenti a seconda della diversa natura delle colonie stesse. Un’appendice, un frammento non essenziale dello stato, scriveva Santi Romano, oggetto di un suo singolare »diritto reale pubblicistico«, giustificato semanticamente dal comune utilizzo dei termini possedimenti o domini per indicare le colonie e storicamente per l’affinità tra il diritto coloniale e l’ordinamento giuridico dello stato di antico regime. »Lo Stato patrimoniale, era infatti, concepito, almeno in un certo senso e secondo un opinione diffusa, come oggetto di un diritto del sovrano: così pure la colonia si concepisce come un diritto di natura patrimoniale.« 6 Se infatti il diverso livello di civiltà non impediva solo ogni forma di coincidenza tra l’ordinamento giuridico della metropoli e quello della colonia, ma anche ogni ipotesi di raffronto tra i due diversi sistemi, la lente attraverso cui guardare alle esperienze d’oltremare non poteva essere lo stato costituzionale, cioè una forma di organizzazione politica i cui i poteri fossero separati, ma lo stato patrimoniale, ossia »lo Stato che vigeva prima dello Stato costituzionale. Lo Stato era allora considerato, almeno secondo un’opinione molto diffusa, come oggetto di dominio della potestà del monarca; e quello stesso rapporto che nell’antico Stato patrimoniale si aveva Luigi Nuzzo 4 Rg8/2006 giuridiche diverse: quella del potere legislativo, delle leggi e dei codici, e quella del potere esecutivo, delle consuetudini, dei regolamenti e dei provvedimenti amministrativi. Esse producevano un diritto speciale perché i rapporti che lo attraversavano, per l’alterità dei soggetti e dei luoghi, »normalmente e di regola richiedevano un trattamento giuridico a sé«. Un diritto speciale che non poteva, come è ovvio, essere utilizzato per interpretare il diritto della madrepatria, ma poteva da quest’ultimo essere letto e integrato. Un diritto speciale infine sempre sul punto di scivolare nel paradigma dell’eccezionalità. 11 Sebbene infatti il diritto eccezionale era per il giurista siciliano un complesso di norme che poteva derogare il diritto comune per »cause e considerazioni straordinarie« e non per la natura intrinseca dei rapporti, la specialità del diritto coloniale si traduceva nella possibilità di fare delle colonie un luogo dell’eccezione, uno spazio in cui l’ordinamento giuridico dello stato veniva ad essere sospeso sul presupposto di un differente livello di civiltà e in cui i colonizzati erano compresi in un ordine giuridico che sarebbe erroneo definire nuovo perché era semplicemente quello in vigore nell’Europa premoderna. Non molti anni prima Gennaro Mondani, inaugurando il corso di diritto e storia coloniale della Regia Università di Pavia, aveva argomentato e difeso questa tesi. Nella prolusione, pubblicata nella Rivista coloniale, il giurista sottolineava l’eccezionalità dei concetti e degli istituti introdotti dal diritto coloniale nel tessuto delle discipline giusinternazionalistiche. Settlement, concessione in affitto, hinterland, sfera di influenza, protettorati costituivano certamente un vulnus rispetto al diritto comune ma anche una novità assoluta, il segno di una forte energia in grado di travolgere il diritto scritto e di imporre a quest’ultimo di modellarsi sulle esigenze della 11 Romano, Corso di diritto coloniale (nt. 6) 22. Insiste sul carattere speciale del diritto coloniale anche il Borsi, Principi di diritto coloniale (nt. 6) 128. 12 Gennaro Mondani, Il carattere di eccezionalità della storia e del diritto coloniale e le nuove forme giuridiche d’espansione nelle colonie in: Rivista coloniale 2 (1907) 25; sull’eccezionalità dell’esperienza coloniale in Cina La colonia come eccezione vita sociale. L’eccezionalità doveva quindi essere elevata a »principio generale informatore del diritto coloniale, a ragion d’essere e pietra angolare della sua autonomia di fronte al diritto internazionale comune, a giustificazione della sua antigiuridicità formale«. 12 Ed era sempre l’eccezionalità a permettere la convivenza degli assetti giuridici razionali della metropoli con le »anomalie« e le »mostruosità giuridiche diffuse in colonia«. L’eccezionalità dei territori coloniali e ancora una volta il differimento temporale dei possedimenti d’oltremare appartenevano infatti al mondo violento e arbitrario di antico regime, ad una società dominata dalla personalità della legge e in cui regole ed eccezioni, diritti e privilegi, iura e facta si sovrapponevano fino a divenire indistinguibili. Come in una sorta di anticamera del diritto i nativi potevano solo scorgere la luce splendente che la civiltà occidentale lasciava filtrare attraverso le sue porte e sperare un giorno, al pari del contadino di Kafka di fronte alla Porta della Legge, di essere ammessi. 13 Il tempo della premodernità in cui erano stati trans-lati li condannava ad un’infanzia senza fine, avviluppati nelle trame vischiose di un regime familiare che li proteggeva, ne favoriva la crescita intellettuale e morale, ma anche confermava, sul presupposto che il »Potere« come l’idea di famiglia dalla quale promanava era unico e doveva imporsi indistintamente in ogni materia, l’opportunità di rendere inapplicabili nei loro confronti il principio della separazione dei poteri permettendo l’attribuzione delle competenze legislative all’esecutivo. 14 Il paradosso dello stato di eccezione si mostra nelle colonie in tutta la sua violenza. Da un lato infatti i territori d’oltremare costituiscono lo spazio di inveramento della categoria di stato di eccezione costruita brillantemente da Giorgio Agamben in due testi di grande successo. 15 vedi Luigi Nuzzo, Italiani in Cina. La concessione di Tientsin, in: Diritto economia e istituzioni nell’Italia fascista, hg. von Aldo Mazzacane, Baden Baden: Nomos 2002, 251–80. 13 Luciano Nuzzo, L’anticamera del diritto e i paradossi dell’inclusione, in: Scienza e Politica 31 (2004) 89–108. 14 Nonostante le attenzioni ›affettuose‹ garantite dall’inserimento degli indigeni all’interno di un rapporto familiare, Enrico Catellani, La protezione dei diritti privati degli indigeni nella colonizzazione africana in: Rivista delle Colonie 5 (1908) 500–46, riteneva che si sarebbe continuato a manifestare »anche nell’età matura delle colonie« una »Kinderkrankheit«, quasi una sorta di debolezza congenita dovuta un’insuperabile mi- 5 Anche nelle colonie la »legge si applica disapplicandosi« o esiste una »forza di legge senza legge«, riservandosi anche l’ordinaria amministrazione alla decretazione governativa o ai provvedimenti delle autorità militari non diversamente da quanto accade nella metropoli nell’ipotesi eccezionale di dichiarazione di stato d’assedio in cui la necessità e l’urgenza, imposte dalla tutela dell’ordine pubblico, giustificano la sospensione dell’assetto costituzionale, la compressione dei diritti individuali e la dilatazione dei poteri dell’esecutivo. L’ordinamento nel caso dello stato d’assedio, sembra dirci Romano, attraverso il ricorso al principio di necessità, può disporre la sua autosospensione, assorbire la violenza fattuale che nasce dalla necessità e precede il diritto e infine permettere che lo stesso stato d’assedio sia nel medesimo tempo illegale, ma costituzionale, fuori e dentro l’ordinamento, escluso per la sua illegalità e incluso per la sua profonda giuridicità. 16 D’altro lato però le colonie non solo producono nel loro interno situazioni eccezionali, ma sono esse stesse eccezione, concetto limite e oppositum logico della metropoli, lato oscuro della razionalità occidentale su cui proiettare pulsioni in Europa ancora represse. Come comprendere quindi l’alterità assoluta di uno spazio che »non è parte integrante del territorio del Regno, ma né è un appendice« (Romano, cit., p. 91) e di soggettività etnicamente diverse e per questo condannate ad un’inclusione differenziata e marginalizzante senza mettere in discussione l’intero assetto dell’ordinamento e la centralità di quello statale ? Per Romano, nel suo Corso di diritto coloniale pubblicato significativamente nello stesso anno in cui dava alle stampe il celebre L’ordinamento giuridico, non era la necessita a permettere la tenuta del »sistema« oltremare, ma il differimento temporale in cui 3. Controtransfer: dalla colonia alla metropoli Paradossalmente però non sono solo gli indigeni a muoversi sul confine, a vivere l’incertezza della soglia, della linea politica giuridica e simbolica che divide e unisce metropoli e colonia e le loro differenti temporalità. L’eccezione coloniale riguarda tutti coloro che vivono la colonia, compreso colui cui è stato affidato il compito di incarnare la razionalità normativa occidentale e ne deve, come rappresentante ufficiale del governo metropolitano, proiettare le immagini rassicuranti e benefiche. L’eccezione coloniale non può cioè non essere condivisa anche dal governatore, da colui di fronte al quale, nel caustico racconto di Celine, »militari e funzionari osavano appena respirare quando lui si degnava di abbassare lo sguardo sulle loro persone«. Nella colonia di Bambola-Bragamance, infatti, »al di Calabria, in Id., Scritti minori, B. 1, Milano: Giuffrè 1990, 349– 77. Una ricostruzione storica dello stato di eccezione dall’angolo di osservazione dello stato di necessità è offerta da François SaintBonnet, L’état d’exception, Paris: Presses universitaires de France 2001. Debatte nore età di quei territori e di quelle popolazioni che avrebbe dovuto impegnare maggiormente gli stati europei nella tutela dei loro diritti. 15 Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi 1995; Id., Lo stato d’eccezione, Milano: Bollati Boringhieri 2000. 16 Santi Romano, Sui decreti-legge e lo stato d’assedio in occasione del terremoto di messina e di Reggio uomini e cose erano immersi. Era cioè il tempo di epoche più antiche che si imponeva su quello del presente e che rendeva possibile disapplicare l’ordinamento lasciando emergere al suo posto uno spazio vuoto in grado di assicurare, in linea di principio, il primato del potere legislativo e la centralità della legge, ma anche di attribuire tranquillamente all’esecutivo il compito di riempirlo. Gli indigeni e il loro territorio erano fuori e tuttavia appartenevano. Collocati in una zona di indistinzione essi erano esclusi dallo stato di diritto ma inclusi in quello assoluto, lontano dalla modernità ma dentro la premodernità, assoggettati alle autorità italiane, al suo apparato normativo, giudiziario, burocratico e militare, e all’applicazione di quelle consuetudini che esso avrebbe provveduto a ›tradurre‹ e filtrare attraverso i nuovi e più civili valori. Luigi Nuzzo 6 Rg8/2006 sopra di tutti trionfava il governatore« e a lui lo scrittore riserva il privilegio di muoversi internamente ed esternamente allo spazio coloniale. Egli fa parte del mondo della colonia, ne è appunto il massimo esponente, governa e coordina un mondo popolato da militari, commercianti, funzionari, indigeni. Allo stesso tempo il governatore è l’unico fuori dalla colonia, l’unico che »si concedeva Vichy ogni anno«, l’unico che »leggeva solo il Journal Officiel«, l’unico che poteva coltivare il sogno di sottrarsi alla ›corruzione‹ della colonia. 17 Una speranza impossibile però perché nessuno, neppure il governatore, poteva essere immune dall’eccezione coloniale, da quella ›malattia‹ indefinibile che minava il corpo ed entrava nell’anima che trasuda dalle pagine note di Celine, di Conrad, ma anche in tempi più recenti di Lobo Antunes 18 e che ci restituisce in Apocalypse now la maschera di Marlon Brando nella parte del comandante Kurtz e il volto allucinato di Martin Sheen in quella di Marlow, nel film l’ufficiale inviato per eliminare l’eccezione, ma che, sedotto dall’orrore, oscilla ormai contagiato dalla malattia. Se la letteratura e la cinematografia ci offrono le emozioni e ci permettono di cogliere la dimensione del problema e di ri-vedere nella testualità occidentale le immagini distorte dell’alterità e dell’eccezione che quella stessa discorsività aveva costruito, la psicanalisi ce ne offre una descrizione scientifica. Da Freud sappiamo infatti che al transfer si accompagna obbligatoriamente il controtransfer, individuando con questo termine il complesso di sensazioni affettive che l’analizzato ha suscitato nell’analista e che sono speculare conseguenza dell’intenso legame che il paziente ha instaurato con quest’ultimo. 19 L’inevitabilità del controtransfer svela le difficoltà dell’analista, ne manifesta le incertezze lasciando emergere l’illusorietà della neutralità 17 F. Celine, Viaggio al termine della notte, Milano: Corbaccio 1992, 18 Antonio Lobo Antunes, In culo al mondo (1983), Torino: Einaudi 1998. 19 Cfr. in part. Sigmund Freud, Le prospettive future della terapia psicoanalitica (1910), Id., Tecnica della psicoanalisi (1911–1912), in Id., Opere di Sigmund Freud, Milano: Bollati Boringhieri 1967– 1980, B. 6, rispettivamente 197– La colonia come eccezione analitica e del rapporto medico tradizionale »che vedeva il rapporto terapeutico come rapporto di donazione (o meglio di vendita) di un bene, la guarigione, da parte di un portatore di salute nei confronti di un portatore di malattia«. »La cura psicoanalitica – continua Jervis – è compromessa dalla stessa malattia che intende curare; lo psicanalista è nella descrizione di Freud, un paziente non ben guarito, con tendenza a curare gli altri per non curare se stesso.« 20 Ritornando all’interno dei nostri confini disciplinari si potrebbe affermare allora che la rottura del rapporto terapeutico che, nelle rappresentazioni giuridiche, aveva unito metropoli e colonia e il disvelamento dell’impossibile neutralità dell’analista occidentale erano state le conseguenze di un fallimento. Al tentativo analitico, cioè, di leggere scientificamente la diversità coloniale attraverso la categoria dell’eccezione, di tematizzarla giuridicamente proiettandola in un’altra temporalità non solo era seguita l’infiltrazione di tutte quelle pulsioni che il contatto con l’altro aveva inevitabilmente attivato, e che si era forse sperato di neutralizzare mediante la creazione di una doppia dimensione temporale, ma la stessa eccezione si era affermata come categoria interpretativa della realtà europea. Rinforzata dalla sua applicazione coloniale l’eccezione era ritornata come possibilità giuridica dell’ordinamento, anche nello spazio disciplinato della metropoli, di sospendere il suo presupposto costituzionale e di aprirsi alla violenza della decisione o della necessità. Con la consolidazione del regime fascista, con la trasformazione dei timori repressivi dello stato liberale nelle ossessioni bioantropologiche del regime non appare azzardato sostenere quindi che tutto era eccezione, che nulla poteva avere esistenza fuori di essa, in colonia come nella metropoli. L’Europa stessa diveniva uno spazio 206; 532–541; e la rilettura che ne offre Lacan incentrata sul passaggio dell’analista da soggetto di una relazione interpersonale ad un oggetto che egli chiama oggetto a; Jacques Lacan, Livre VIII. Le transfert (1960–1961), Paris: Seuil 1991; Id., Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Torino: Einaudi 1979; Id., Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969–1970), Torino: Einaudi 2001. 20 Giovanni Jervis, La psicoanalisi come esercizio critico. L’eredità freudiana nell’epoca della perdita dei suoi miti, Milano: Garzanti 1989, 168–171. 7 anomico in cui i poteri dello stato si sovrapponevano e si indeterminavano e in cui »la posta in gioco« diveniva la sottrazione e l’attribuzione della forza della legge. Vi sono norme che vigono ma non si applicano, ricorda Agamben, perché non hanno forza; e vi sono atti »che non hanno valore di legge, ma ne acquistano la forza«. 21 In esso Derida ha visto il fondamento mistico della legge, il punto in cui potenza e atto, applicazione e norma »esibiscono la loro separazione«. 22 Ciò significa, scrive ancora Agamben, »che per applicare una norma occorre, in ultima analisi, sospendere la sua applicazione, produrre un’eccezione. In ogni caso lo stato d’eccezione segna una soglia in cui logica e prassi s’indeterminano e una pura violenza senza logos pretende di attuare un enunciato senz’alcun riferimento reale«. 23 Non solo quindi i territori e le soggettività d’oltremare rimanevano immersi nella dimensione dell’eccezione, condannati al tempo dell’antico regime e alla violenza della sua moltiplicazione soggettiva, non ravvisandosi più nella civilizzazione la cura della malattia coloniale, lo strumento giuridico per ottenere la naturalità italiana, ma anche nella metropoli, come già sperimentato in colonia con la legislazione sui meticci, 24 l’appartenenza razziale diveniva lo strumento per costruire le categorie della cittadinanza, definire i gradi dell’esclusione e pensare l’individuo e la nazione su basi razziali. 21 Agamben, Lo stato d’eccezione (nt. 15) 54. 22 Jacques Derrida, Il fondamento mistico della legge (1989), Torino: Bollati Boringhieri 1993 (L’espressione riportata tra i caporali è però di Agamben). 23 Agamben, Lo stato d’eccezione, (nt. 15) 54. 24 I meticci comparvero per la prima volta, nei provvedimenti normativi italiani, nell’art. 3 R.D. 10.12.1914, n. 1510 concernente il personale coloniale, con cui gli si negava la possibilità di essere occupare i posti direttivi della pubblica amministrazione. Con il R.D.L. 1.6.1936, n. 1019 si rifiutò poi ai meticci il beneficio della cittadinanza già acquisito in base alla precedente legge sull’ordinamento organico dell’Eritrea del 6.7.1933, n. 999. Nel 1937 (R.D.L. 19.4.1937, n. 800) si introdusse il delitto di rapporti di indole coniugale con cui si comminava al cittadino che avesse avuto una relazione coniugale con una suddita la pena della reclusione da uno a cinque anni. Pochi anni dopo con la legge L. 13.5.1940, n. 822 si stabilì che il meticcio assumesse lo status di suddito coloniale, si escluse la sua riconoscibilità da parte del genitore cittadino, il diritto di portarne Debatte Luigi Nuzzo Luigi Nuzzo 8 Rg8/2006 il cognome e si attribuirono tutti gli oneri economici per il suo mantenimento, l’educazione e l’istruzione al genitore nativo. Cfr. Gianluca Gabrielli, Un aspetto della politica razzista nell’impero: »il problema dei meticci«, in: Passato e Presente 15 (1997) 71– 105. La colonia come eccezione View publication stats