ISSN 2532-8190
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Editore: Associazione Culturale ANTROS - registrazione al tribunale di Matera n. 02 del 05-05-2017 - 21 set/20 dic 2018 - Anno II - n. 5 - € 7,50
Ius primae noctis
un mito
da sfatare
Le cinte murarie
dei Lucani
in Basilicata
1
Infanticidi nel Materano
fra Ottocento
e Novecento
MATHERA
Il presente Pdf è la versione digitale in
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Indicazioni per le citazioni bibliografiche
Gambetta - Paolicelli - La masseria di San
Francesco al Bradano: evoluzione storica,
in "MATHERA", anno II n. 5,
del 21 settembre 2018, pp.79-87, Antros, Matera;
Gambetta - Quando l’acqua del fiume Bradano
arrivò improvvisa e silenziosa, pp. 88-89;
Foschino - Lo stemma francescano, pp. 90-92.
MATHERA
Rivista trimestrale di storia e cultura del territorio
Fondatori
Raffaele Paolicelli e Francesco Foschino
Anno II n.5 Periodo 21 settembre - 20 dicembre 2018
In distribuzione dal 21 settembre 2018
Il prossimo numero uscirà il 21 dicembre 2018
Registrazione Tribunale di Matera
N. 02 DEL 05-05-2017
Il Centro Nazionale ISSN, con sede presso il CNR,
ha attribuito alla rivista il codice ISSN 2532-8190
Editore
Associazione Culturale ANTROS
Via Bradano, 45 - 75100 Matera
Direttore responsabile
Pasquale Doria
Redazione
Sabrina Centonze, Francesco Foschino, Raffaele Paolicelli,
Valentina Zattoni.
Gruppo di studio
Domenico Bennardi, Ettore Camarda, Olimpia Campitelli, Domenico Caragnano, Sabrina Centonze, Anna Chiara
Contini, Gea De Leonardis, Franco Dell’Aquila, Pasquale
Doria, Angelo Fontana, Francesco Foschino, Giuseppe Gambetta, Emanuele Giordano, Rocco Giove, Gianfranco Lionetti, Angelo Lospinuso, Mario Montemurro, Nunzia Nicoletti,
Raffaele Paolicelli, Marco Pelosi, Giulia Perrino, Giuseppe
Pupillo, Caterina Raimondi, Giovanni Ricciardi, Rosalinda
Romanelli, Angelo Sarra, Giusy Schiuma, Nicola Taddonio.
Progetto grafico e impaginazione
Giuseppe Colucci
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MATHERA
3
SOMMARIO
articoli
- Pensare il territorio
7 Editoriale
per non essere pensati da altri
di Pasquale Doria
nel Materano
8 L’infanticidio
tra Ottocento e Novecento
di Salvatore Longo
12
Cinte murarie della Basilicata
e le fortune dei Lucani
di Nicola Taddonio
21
Approfondimento: Le armi dei guerrieri:
un indicatore archeologico dei cambiamenti
della società lucana
di Nicola Taddonio
e nozze a Matera
24 Sponsali
fra Cinquecento e Settecento
di Giulio Mastrangelo
Termini desueti riscontrati
30 Glossario:
negli atti matrimoniali di Archivio
di Giulio Mastrangelo
romanici e perle di saggezza.
34 Gatti
Un ricordo di Pina Belli D’Elia
di Giulia Perrino
38
Il complesso rupestre di San Pellegrino
in contrada Ofra a Matera
rubriche
101
Grafi e Graffi
Il ritratto di presenza nei graffiti materani
106
HistoryTelling
Lo squarcio nel tempo
di Sabrina Centonze
di Gaetano Panetta
111
Voce di Popolo
La leggenda del lupo mannaro
113
La penna nella roccia
Gli aspetti geomorfologici della Cappadocia
e del Materano: dati e considerazioni
118
Radici
Il timo: una pianta nobile caduta in sinonimia
di Domenico Bennardi e Gea De Leonardis
di Federico Boenzi
di Giuseppe Gambetta
124
Verba Volant
Osservazioni sul lessico dialettale relativo alle
denominazioni di alcune malattie
128
Scripta Manent
Inedite spigolature d’archivio sulla città settecentesca
134
Echi Contadini
La mammèrë
136
Piccole tracce, grandi storie
Canti all’altalena e solchi all’architrave
di Emanuele Giordano
trascrizione di Roberto Acquasanta e Maria Emilia Serafino
di Angelo Sarra
di Francesco Foschino
di Gianfranco Lionetti e Marco Pelosi
Appendice: Casale dell’Ofra: storiografia,
50 toponomastica
e fonti documentali
145
C’era una volta
Rosario Dottorini
“Così mi salvai il 21 settembre 1943”
148
Ars nova
L’onirico tra favola e realtà
nei dipinti di Mimmo Taccardi
152
Il Racconto
“Illusione perduta”
di Gianfranco Lionetti e Marco Pelosi
53
Approfondimento: La chiesa rupestre
di San Pellegrino all’Ofra
di Ettore Camarda
di Gianfranco Lionetti e Marco Pelosi
56 di Simona Spinella
fotografie di Federico Patellani per il film
62 Le
“La Lupa” diretto da Alberto Lattuada
Josè Garcia Ortega, un artista contro
di Nunzia Nicoletti
di Nicola Tarasco
di Luciano Veglia
e la fanciulla: la fine del Tramontano
66 Iltratiranno
storia e folklore
di Ettore Camarda
72
Approfondimento: Lo ius primae noctis,
un mito da sfatare
di Ettore Camarda
masseria di San Francesco al Bradano:
74 La
contesto geografico e toponomastico
di Giuseppe Gambetta e Raffaele Paolicelli
masseria di San Francesco al Bradano:
79 La
evoluzione storica
di Giuseppe Gambetta e Raffaele Paolicelli
88
Approfondimento: Quando l’acqua
del fiume Bradano arrivò improvvisa e silenziosa
di Giuseppe Gambetta
90 di Francesco Foschino
Basilicata
94 Exploring
Reportage di Gundolf Pfotenhauer
Appendice: Lo stemma francescano
In copertina:
Parziale veduta notturna del casale rupestre dell’Ofra a Matera, foto di
Rocco Giove.
A pagina 3:
Dettaglio della Madonna Glykophilousa o della tenerezza presso la chiesa rupestre di Madonna delle Tre Porte a Murgia Timone, Matera, XV sec, opera
del Maestro del sepolcro di Martino Dechello (giá Maestro di Miglionico).
Il Premio Antros, che presentiamo nella pagina seguente, adotterà il simbolo di un melograno.
MATHERA
5
La masseria di San Francesco al Bradano:
evoluzione storica
di Giuseppe Gambetta e Raffaele Paolicelli
N
on sono stati trovati documenti circa l’origine della vecchia masseria di
San Francesco. Consultando la Platea
dei Padri Conventuali Minori di San
Francesco nelle mappe in essa contenute si osserva che nel 1682, anno in cui fu redatta, la masseria
non esisteva ancora. Grosso modo nella zona dove
poi sorgerà si nota, però, la presenza di quello che
potrebbe essere il primo nucleo della stessa, ossia
delle cortaglie a poca distanza da un muncituro, due
trulli o pagliai e un corpo di fabbrica (fig. 1). Nelle
pagine iniziali la Platea infatti riporta: «il canale
quale taglia detto luoco, e sopra detto canale, e sopra
detta strada vi sono le cortaglie di detto convento di
San Francesco» [ASM aa 1682-1772, f. 4 v]. Quindi il complesso che poi diventerà la masseria denominata San Francesco potrebbe essere nato come
insediamento pastorale a fine Seicento in prossimità della Fiumara del Bradano. Del resto il paesaggio
materano a Sud-Ovest della città era caratterizzato
da una vasta zona collinare intorno all’ampia vallata del fiume (fig. 2). Buona parte di quel territorio
era suddiviso tra i tanti enti ecclesiastici, che possedevano vaste proprietà terriere. La presenza di
acqua, macchie e boschi, con la conseguente possibilità di sviluppo dell’attività agro-pastorale, rese la
contrada del Bradano una delle zone più contese e
appetibili del territorio materano. Il possesso della
zona comportò diverse dispute tra enti ecclesiastici e famiglie di grandi proprietari terrieri. Notizie
più certe della presenza della masseria ed anche
una breve descrizione sono contenute nel Catasto
Onciario di Matera del 1754 nel quale è riportato
che il Convento di San Francesco possiede «una
massaria di versure mille ottanta nel luogo chiamato
Bradano, e Monte di Timmaro, con varie commodità
di fabbriche, pozzo sorgivo, confina colli feudi di Miglionico, Grottole, Sign.ra Malvinni, Cap.lo Mag-
Fig. 1 - Particolare dell’illustrazione tratta dalla Platea relativa ai possedimenti dei francescani “Sotto Timbaro”. Corporazioni religiose, Convento di San
Francesco, Platea dei beni, aa 1682-1772, c. 5r, Archivio di Stato di Matera
(su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, prot. n. 1302/28.34.04/7.10)
giore, ed altri, porzione de’ quali, e propriamente di
Timmaro si è dato a piantar vigne, e giardini a molte
persone la di cui rendita stimata docati quattrocento
novanta due, che sono once 1640» [ASM 1754, f.
482 v].
Le commodità di fabbrica o comodi rurali citati
nell’Onciario riguardano gli ovili, le suppenne per
MATHERA
79
Fig. 2 - Particolare Mappa d’Impianto, Comune di Matera, foglio n. 120
le mucche, i magazzini di deposito dei cereali, il caciolaio, le stalle, il deposito degli attrezzi, il forno
ed altri piccoli comodi.
«Fino a tutto il Settecento, le masserie materane
non ebbero in genere, funzioni residenziali per i proprietari; quelle realizzate per conto degli Enti Ecclesiastici, si presentavano in forme più semplici: come
aggregati di più “casoni” intorno a una corte per il
ricovero notturno dei salariati fissi e degli animali
e senza alcuna funzione di immagazzinamento dei
prodotti che invece venivano trasportati nei depositi
annessi alle residenze urbane» [Pontrandolfi 2004,
p.50]. Nel caso della Masseria San Francesco abbiamo a che fare con una vera e propria masseria
da campo con una forma di conduzione del fondo
in parte a seminativo e in parte a pascolo. Anche
a Matera era in uso in alcune masserie, come in
quella di San Francesco, un sistema di gestione dei
fondi non più solo attraverso braccianti o salariati, ma soprattutto attraverso fittavoli, in alcuni casi
appartenenti anche al ceto nobiliare o alla borghesia agraria o professionale.
La zona in questione era caratterizzata anche dalla presenza di una vasta area demaniale che riguardava soprattutto l’Agnone di San Francesco riservata agli usi civici della popolazione, quali il diritto
di pascolo e, soprattutto, di legna. Già a partire
dalla fine del Settecento i demani dell’Università
di Matera furono oggetto di continue occupazioni
abusive da parte di famiglie nobili materane e an80
MATHERA
che, nel nostro caso, da parte dei frati del convento
di San Francesco, usurpazioni denunciate più volte
dall’Università e dai cittadini ricorrenti. La natura
demaniale dell’Agnone portò all’arbitrio da parte
dei frati di sottrarlo alla possibilità da parte dei cittadini di esercitare nell’antico bosco golenale l’uso
civico di legnare a secco, raccogliere cioè legna dagli
alberi che perivano naturalmente. Questo diritto
non venne più permesso e, addirittura, durante la
Rivoluzione Napoletana del 1799, subito dopo
l’insediamento della municipalità repubblicana, si
verificò un episodio particolarmente drammatico
che Raffaele Giura Longo così riporta: «nel bosco
usurpato dai Francescani i contadini trovano resistenza. I mazzieri e le guardie giurate al soldo dei
frati si oppongono a quel diritto, impediscono il taglio della legna e, nello scontro così provocato, viene
addirittura ucciso un uomo, il 18 febbraio» [Giura
Longo 1981, p. 100].
Quindi a metà Settecento la masseria aveva già
diverse strutture architettoniche e un pozzo sorgivo (figg. 3 e 4). Non si sa bene come fosse diventata
di proprietà dei Conventuali. Certo è che, come
si desume dalla Platea del 1682 e dal Catasto Onciario del 1754, il patrimonio posseduto dai Padri
Conventuali Minori di San Francesco era assai vasto, formato soprattutto da ben sei masserie nell’agro materano, un ricco patrimonio di terreni e vigne, case, cantine, magazzini, botteghe, osterie, speciarie, concerie, caciolai in città. Esso si era formato
Figg. 3 e 4 - Masseria S. Francesco al Bradano, elaborazione digitale fotorealistica di Laide Aliani e Stefano Sileo
grazie a legati, testamenti, acquisti, permute, donazioni, lasciti. Numerosi sono i testamenti ad pia
causas, con i quali alcuni cittadini donavano loro
proprietà in cambio di un certo numero di messe
di suffragio per la salvezza della loro anima. Come
ricorda il già citato Giura Longo «intere famiglie e
molti cittadini furono legati alle chiese non in nome
dell’amore cristiano ma in nome dei censi e dei prestiti, … esigenze che pur sempre trovarono un pretesto
spirituale, quello della celebrazione dei suffragi per
l’anima dei testatori » [Giura Longo 1967, p. 44].
Dal Catasto Onciario del 1754 risulta pure che il
Convento di San Francesco possedeva 7.910 tomoli di terra, 1.670 ovini, 185 bovini, 60 equini. La
masseria di San Francesco superava i 3.000 tomoli e
altre due i 1.000. Il Gattini nelle “Note storiche sulla città di Matera” [Gattini 1882, p. 306], riporta
che il Barone di Timmari, tal Boccardo Tovarelli o
Rovarelli dei nobili De Iacovo, donò il vasto feudo
di Rifeccia e Timmari uniti ai frati francescani nel
1270. Del resto la presenza francescana a Matera,
risalente al XIII secolo e pressoché ininterrotta, ha
MATHERA
81
dato origine a conventi e confraternite laicali. Nella
chiesa di San Francesco, dei Padri Conventuali, dalla fine del Cinquecento operava l’arciconfraternita
della SS. Trinità che si dedicava alla cura dei malati
e dei forestieri e, dopo la soppressione del convento, agli inizi dell’Ottocento si instaura la confraternita dell’Addolorata che promuoverà non solo la
devozione alla Vergine, ma continuerà a mantenere
vivo anche il culto Trinitario fino alla fine del secolo [Rinaldi 1993, p.333]. Anche la toponomastica
locale risente della presenza francescana in diversi
toponimi che fanno riferimento al Poverello di Assisi da un capo all’altro del territorio.
Il 14 febbraio del 1807 il re Giuseppe Bonaparte,
fratello di Napoleone, firmava il decreto di soppressione di molti conventi. A Matera furono soppressi
i conventi dei Minori Conventuali, dei Domenicani, dei Cappuccini e degli Agostiniani [Morelli
1963, p.331]. La legge fu attuata dal suo successore
Gioacchino Murat e il 10 agosto 1809 fu emesso
il decreto di soppressione del convento con redazione dell’inventario il 1⁰ ottobre dello stesso anno
[ASP 1809]. Il 30 aprile del 1812 il Commissario
Regio Masci con una ordinanza disponeva che le
terre non pervenute alla Chiesa e ai luoghi pii per
acquisti privati fossero devolute al Comune. In seFig. 5 - Prospetto della cappella, foto d’epoca (Archivio fam. Giuralongo)
82
MATHERA
guito a ciò al soppresso Convento di San Francesco furono confiscati ben 2.400 tomoli di terreni
per essere messi in vendita. Il 5 agosto del 1867 fu
decisa la vendita per incanto, a trattative private o
per schede segrete, dei beni dell’Asse Ecclesiastico. Soppresso il convento agli inizi dell’Ottocento con i provvedimenti legislativi per la eversione
della feudalità la masseria passò al Convento di San
Lorenzo Maggiore di Napoli. Negli anni Trenta
dell’Ottocento le vaste estensioni di terre di proprietà ecclesiastica, per mancanza di capitali per
la coltura, cominciarono ad essere per tanta parte
fittate a piccoli lotti. La Masseria di San Francesco
al Bradano il 12 febbraio del 1830 fu data dal Convento di San Lorenzo al signor Enselmi Tommaso
per sei anni in enfiteusi per 300 ducati d’argento
all’anno più 200 rotoli di formaggio [Nitti 1996,
p. 125]. Il comune di Matera, secondo un verbale
dell’agente demaniale Girolamo Guida del 17 ottobre 1864, acquisì 1.045 tomoli dei 2.615 provenienti dal Monastero di San Francesco [Lapeschi
1935, p. 33]. Con l’entrata in vigore delle leggi che
seguirono all’Unità d’Italia ci fu la definitiva incamerazione di tutti i beni ecclesiastici con la chiusura di ogni convento e monastero.
In seguito alla soppressione degli enti ecclesia-
Fig. 6 - In basso a sinistra si evidenzia la presenza di una zona macchioso-boschiva indicata col termine “Macchia d’Agnone”. Rizzi, Zannoni, Atlante Geografico del Regno di Napoli, anno 1812, Basilicata, Tavola 20/03
stici nel 1871 cominciarono le vendite dei beni
relativi per terminare nel 1882. Il corpo fondiario
dell’ex monastero di San Francesco al Bradano di
640 tomoli, compresa la masseria, fu comprato
da Pietro e Giuseppe Giura Longo nel 1878 [Pontrandolfi 2004, p. 294]. La famiglia Giura Longo
ha amministrato la proprietà con grande senso di
umanità offrendo occasioni di lavoro a tante persone come testimoniano ancora oggi molti contadini
che hanno avuto terre in affitto alla masseria prima
della creazione dell’invaso. La proprietà confinava
ad Ovest-Nord-Ovest con la masseria e iazzo Malvinni e ad Est-Sud-Ovest con lo iazzo e la masseria
Ferri (poi Lauria) e, poco oltre, con lo iazzo di Porcari. Dalla parte opposta al fiume Bradano vi erano,
di fronte, la masseria di Sardone (famoso generale
dei Cavalieri della Bruna negli anni Sessanta del
Novecento), leggermente più a destra la masseria di
Catenazzo di Miglionico, poi ancora le masserie di
Montemurro e Chita. Un po’ spostate a sinistra le
masserie dello Specialicchio (Lamacchia) e di Batteria (Tortorelli).
Il posto prescelto per la realizzazione della masseria si trovava in ottima posizione per via dell’ampia
pianura esistente intorno e per la presenza di pasco-
li, macchie e boschi. Il fiume Bradano era distante
non più di 700 metri. La struttura era felicemente
esposta a Sud-Sud-Ovest. Il corpo di fabbrica, che
è situato a circa 96 metri sul livello del mare, dominava un vasto orizzonte intorno. La tipologia
architettonica dell’intero complesso è quella tipica
della struttura a corte chiusa da muri, all’interno
dei quali sono ospitate le stalle e i recinti per gli animali. Il portale d’ingresso era ad arco a tutto sesto.
Il cortile chiuso rispondeva all’esigenza di difesa
Fig. 7 - Eustachio Antezza, contadino. Testimone vivente della vita in masseria e della ripartizione degli spazi lavorativi interni ed esterni della stessa
MATHERA
83
Fig. 8 - Particolare dei muri di fondazione del mungituro
da parte di attacchi di chicchessia o anche di briganti durante il periodo del Grande Brigantaggio.
Non bisogna dimenticare che a pochi chilometri
di distanza, e precisamente presso il Ponte di San
Giuliano, il 4 marzo del 1862 il brigante Carmine
Donatelli Crocco si scontrò con la fanteria italiana,
ma riuscì, tra agguati e contrasti, a riportarsi vicino
ai luoghi per lui più sicuri [Giura Longo 1992, pp.
155-156]. La stessa contrada della Rifeccia e la collina di Timmari erano battute periodicamente dalle bande dello stesso Crocco e di Paolo Serravalle,
suo gregario. Lo iazzo delle pecore e capre si trovava leggermente a valle, in direzione sud, in pendenza per lo scolo dei liquami. Gli spioventi dei tetti
sono realizzati con il cotto locale. Poco più a monte della masseria si possono osservare ancora oggi
due aie quadrangolari su uno spiazzo o basamento
pavimentale in mattoni in cotto, delimitate lungo
il perimetro da cordoli di tufo. I laterizi in cotto
erano prodotti praticamente in loco. Infatti durante
la grande siccità del 2017 sono riemerse dall’acqua
in una area golenale poco distante alcune fornaci
per la cottura di mattoni; fornaci presenti anche in
prossimità del Ponte di San Giuliano, del Vallone
di San Francesco e in località Due Gravine [Fiore
1998, p.36]. La distanza dalla masseria e la posizione leggermente più elevata rispetto alla stessa rendono queste aie più esposte al vento per agevolare le
operazioni della trebbiatura del grano che avveniva
con dei setacci grandi che cernevano il grano come
del resto anche altri cereali e le fave. Per questo le
due aie erano anche chiamate cerniture. La cappella
si trovava all’estremità sinistra della masseria avendo il fiume Bradano alle spalle (fig. 5). Essa serviva
ai frati e non ai proprietari che non vi risiedevano
visto che non esisteva un secondo piano ad uso di
abitazione. Fino a prima del fatidico anno della
sommersione la cappella fungeva da abitazione del
massaro di campo. Ospitava nel campaniletto una
campana della quale non si ebbe più notizia già dai
84
MATHERA
primi anni del secolo scorso. Sul portale della cappella era ammurata l’arma partita dei Conventuali,
scolpita in pietra calcarea che poi fu fatta trasferire
su un lato della facciata della nuova masseria. Non
è più leggibile per cui un accurato restauro sarebbe
auspicabile. La versione dipinta della stessa campeggia sul frontespizio della Platea del 1682 (per
una descrizione di essa vedere l’Appendice “Lo
stemma dell’Ordine dei frati Minori” in questo
numero). Rispetto al disegno catastale del 18981902 alla masseria in tempi relativamente recenti
sono stati aggiunti alcuni corpi di fabbrica come la
scappetta per il deposito di oggetti agricoli, traini,
trebbiatrice e il lambione di abitazione per i fittuari.
L’Agnone di San Francesco all’interno del quale
la masseria era stata costruita che, come si vede dalle mappe del Rizzi Zannoni di inizio Ottocento,
era ancora per tanta parte incolto e macchioso (fig.
6), fu interessato già dalla prima metà dell’Ottocento da profonde trasformazioni colturali per ricavare terreni seminatoriali e pascoli. Il paesaggio
naturale del bosco, della macchia e delle comunità
vegetali lungo i bordi della fiumara cominciò così,
a poco a poco, a cedere il passo all’agricoltura.
La masseria San Francesco negli ultimi decenni
di vita
La conduzione della masseria nella prima metà
del Novecento continuava ad essere a terre in affitto
connotando così la figura del contadino-fittuario.
Sei-sette contadini avevano in fitto le loro lenze di
terra, corrispondenti ognuna normalmente a 4-5
tomoli di terreno. Tutti avevano più lenze, disseminate qua e là, qualcuna anche della estensione di
20 tomoli e più pagando in natura nella misura di
un quintale di grano all’anno per ogni tomolo di
terreno. Sommando si arrivava a 35-40 tomoli di
partite di terra per ogni fittavolo. Tanti erano i terreni seminativi che arrivavano quasi in prossimità
del vecchio Ponte di San Giuliano.
Non è facile risalire da un ammasso di ruderi
all’antica struttura architettonica della masseria
qual era fino a metà degli anni Cinquanta del Novecento. Ma, per nostra fortuna, ci siamo potuti avvalere dei ricordi vividi e puntuali del signor Eustachio Antezza (fig. 7) che avendo avuto dapprima il
nonno, poi il padre ed alla fine egli stesso al servizio
della masseria per diversi anni, ci ha spiegato dettagliatamente l’impianto e la gestione della stessa
prima dell’abbandono. Essa comprendeva diversi
Fig. 9 - Masseria riemersa dalle acque del lago, foto d’epoca (Archivio fam. Giuralongo)
lambioni (piccoli locali per il ricovero temporaneo
di persone e attrezzi agricoli) e le corti per pecore
e vacche. Queste chiudende erano caratterizzate da
alcuni archi di ingresso, parte dei quali si possono
osservare ancora oggi. Tra i tanti locali presenti,
ognuno di pochi metri quadrati, si ricordano: un
lambione coperto, chiamato la loggia, di pochi
metri quadrati dove contadini e salariati si trattenevano, soprattutto nelle sere d’inverno, al calore di una fucagna. Poi vi erano i magazzini, quelli
del proprietario e quello degli zappatori dove poi
d’estate dormivano le donne, in molti casi madri,
mogli o figlie dei contadini e salariati che, contro
il pregiudizio che considerava le donne che andavano a lavorare nelle masserie di facili costumi, aiutavano nei duri lavori della mietitura e trebbiatura
o quando si trattava di zappare le fave e scƏppƏnè
(espiantare) le piante dei ceci. Così pure le stalle
erano costituite da due lambioncini per l’alloggio
dei tre muli del proprietario e quella per i muli dei
lavoranti. La spenta, corruzione del lemma suppenna che si incontra in tanti documenti antichi, era
uno spazio coperto con tettoia adibito al deposito di mietitrici, traini e dove sostavano all’ombra i
muli d’estate, prima della realizzazione della scap-
petta. Pure vi era un piccolo ambiente, detto rizzolaro, dove erano conservate le rizzole per l’acqua.
La struttura comprendeva anche piccoli casotti per
conigli e galline, queste ultime oggetto di predazione da parte dei nibbi. Questi avevano i loro nidi
sugli alberi, anche ad una certa altezza. Il massaro
di campo incoraggiava i bambini che frequentavano la masseria a ricercare le loro uova dando in
cambio per ognuna di esse due uova di gallina. Se
si riusciva a consegnare un nibbio vivo o morto si
aveva diritto ad un gallo. Spesso i nibbi morti erano
crocifissi, ad ali aperte, su una nicchia sopra il portone di ingresso o sopra la cappella. Il pavimento
dei locali interni alla masseria erano realizzati con
i “lapiddoni”, grosse puddinghe che si andavano a
prendere nel letto del fiume stesso o lungo le sue
rive. Pure i guadi sull’acqua, il cui livello in tempi normali raggiungeva un’altezza di 20-30 cm,
erano costituiti da grossi lapilli per un più agevole attraversamento e per non bagnarsi o rimanere
impantanati. Il correntino dell’acqua occupava una
superficie di circa 10-20 metri di larghezza mentre
la valle del fiume era assai più ampia. Sotto queste
puddinghe si rinvenivano spesso le anguille, molto
ricercate e la cui pesca rappresentò una attività abMATHERA
85
Fig. 10 - Ruderi della masseria riemersa dalle acque del lago nell’estate del 2017
bastanza diffusa fino a qualche decennio fa. A poca
distanza dalla masseria, poco a destra dell’ingresso
principale, vi era il luogo dove sostavano e dormivano 3-4 vaccari: era detto la “Morra”. I pastori, dal
canto loro, avevano un casone attaccato allo iazzo,
sottostante la masseria, costituito da ben tre locali
per il riposo e per il confezionamento dei prodotti lattiero-caseari. Poco sotto c’era il mungituro
costituito da due recinti circolari affiancati messi
in comunicazione da un piccolo locale nel quale i
pastori mungevano le pecore che una alla volta venivano trasferite da un recinto all’altro (fig. 8). A
poca distanza da esso vi era il pozzo sorgivo detto
di San Francesco, profondo 8-9 metri, con arredo
di due colonne in tufo, macenula, boccaglio e ben
4 pile in mazzaro. L’acqua era tirata su mediante
l’utilizzo di funi realizzate con pelo bovino o di
capra (zoche) e secchi di legno (ialette). I vaccari
effettuavano una transumanza breve trasferendo le
mucche in inverno sui pascoli intorno alla città di
Laterza. Quando questi andavano via i contadini
approfittavano dei loro locali per produrre carbone
e carbonella, che in seguito venivano venduti. Le
diverse categorie di lavoranti erano coordinate dai
massari: il massaro delle pecore, quello delle mucche e quello dei campi (quest’ultimo sovrintendeva
a tutte le attività). A destra della chiesa, dalla parte
meridionale c’erano i vari orticelli riservati al pro86
MATHERA
prietario, ai massari e ai contadini per coltivare un
po’ di cipolla, aglio e qualche altro ortaggio o verdura. Assai coltivati erano pure i meloni. Ogni contadino aveva la sua aia, due delle quali si possono
osservare ancora oggi. A un po’ di distanza della
masseria c’era la fossa per conservare il letame.
D’inverno si raccoglievano, utilizzando i traini, i
tronchi (menatori) di tante specie di alberi abbandonati dal fiume lungo le rive nelle ondate di piena.
Era ottima legna per tanti usi domestici compreso
il riscaldamento. Con essi si approntavano delle
vere e proprie mete a poca distanza dalla masseria.
Questo sistema di vita e di produzione entrò in
crisi con la realizzazione dell’invaso di San Giuliano negli anni Cinquanta del Novecento. L’acqua
in pochi minuti sommerse tutta l’ampia vallata e
con essa anche le strutture rurali che insistevano in
quella zona (fig 9). In quello stesso periodo, con la
evoluzione dell’Italia da paese agricolo a nazione
industriale, si avviò quello che Pier Paolo D’Attorre e Alberto De Bernardi definiscono, in maniera
molto suggestiva, il «lungo addio» della società
rurale ossia l’abbandono dei campi che comportò
la lenta scomparsa del mondo contadino tradizionale [D’Attorre et alii 1993, p. LII], con l’esodo
dalle campagne e il tramonto di tutto un sistema
di valori, figure sociali di lavoratori legati alla terra,
comportamenti e mentalità individuali e collettivi.
La notizia che è allo studio un piano per lavori di
manutenzione del bacino artificiale della diga, per
rimuovere il materiale detritico e melmoso posato
sul fondo, alimenta la speranza che forse a breve
potremo rivedere anche il vecchio e leggendario
Ponte di San Giuliano che congiungeva i due lati
della forra della Gravina del Bradano, che pure ha
subito la stessa sorte per cui giace sepolto dall’acqua e dalla melma.
Alla fine si può dire che i pochi ruderi della masseria che periodicamente e malinconicamente riaffiorano tengono ancora viva la sua storia dandoci
la sensazione che, nonostante siano passati alcuni
decenni e nonostante la forza impetuosa del fiume
Bradano, forse nemmeno l’acqua riesca o voglia
cancellare la storia di questa tenuta (figg. 10 e 11).
Con le piogge d’inizio anno la vecchia struttura
è tornata ad essere sepolta dall’acqua avendo però
ancora una volta regalato alcune immagini di sé a
distanza di anni e in barba all’oblio del tempo.
Si ringraziano per la gentile collaborazione i signori: Eustachio Antezza, Angelo Bianchi, Immacolata Giura Longo, Mariella Giura Longo, Vincenza Pupolizio (vedova Giura Longo) e Tony Strammiello.
Bibliografia
[A.A.V.V. 1986] Matera-Piazza San Francesco d’Assisi, Matera, BMG.
[A.A.V.V.] Oasi di San Giuliano (Matera). Contributo conoscitivo, Coop.
Elce, Matera.
[ASM 1754], Archivio di Stato di Matera: Catasto Onciario di Matera, anno
1754, f. 482 v.
[ASM aa 1682-1772], Archivio di Stato di Matera: Platea dei Beni del Monastero di San Francesco d’Assisi, 1682, f. 4 v.
[ASP 1809] Archivio di Stato di Potenza, Fondo Intendenza di Basilicata,
Inventario dei beni del Monastero di S. Francesco di Matera, cart. 1284.
[Boenzi, Giura Longo 1994] F. Boenzi , R. Giura Longo, La Basilicata. I tempi. Gli uomini. L’ambiente. Edipuglia.
[D’Attorre et alii 1993] P. D’Attorre, A. De Bernardi, Il «lungo addio» una
proposta interpretativa, in P.P. D’Attorre, A. De Bernardi (a cura di), Studi
sull’agricoltura italiana: società rurale e modernizzazione, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano, p. LII.
[Fiore 1998] D. Fiore, Le fonti documentarie, in Matera: I Sassi. Manuale
del recupero, a cura di A. Restucci, Milano, Electa, p.36.
[Gattini 1882] G. Gattini, Note storiche sulla città di Matera, Napoli, Stabilimento tipografico di A. Perrotti e C., p. 306.
[Giura Longo 1967] R. Giura Longo, Clero e borghesia nella campagna meridionale, Matera, Basilicata Editrice, p. 44.
[Giura Longo 1981] R. Giura Longo, Breve storia della città di Matera, Matera, edizioni BMG, p. 100.
[Giura Longo 1992] R. Giura Longo, La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli, Edizioni del Sole, pp. 155-156.
[Lapeschi 1935] C. Lapeschi, Relazione sulla situazione dei demani comunali di Matera, dattiloscritto, 1935, p. 33.
[Morelli 1963] M. Morelli, Storia di Matera, F.lli Montemurro Editori, Matera, p.331.
[Nitti 1996] F. Nitti, Matera: le vicende storiche, in Matera 55 - Radiografia
di una città del Sud tra antico e moderno, Matera, Edizioni Giannatelli, p. 125.
[Pontrandolfi 2004] A. Pontrandolfi, La Terra - Ascesa e declino della borghesia agraria materana, Matera, Fondazione Zetema, pp. 50, 294.
[Rinaldi 1993] A. M. Rinaldi, Pietà e assistenza nelle confraternite della
città di Matera fra XVIII e XIX secolo, in Studi di Storia del Mezzogiorno
offerti ad Antonio Cestaro da colleghi e allievi, a cura di Francesco Volpe,
Venosa, Osanna, p.333.
Fig. 11 - Ruderi della masseria riemersa dalle acque del lago nell’estate del 2017
MATHERA
87
Approfondimento
Quando l’acqua del fiume Bradano
arrivò improvvisa e silenziosa
Testimonianza di uno dei fittuari della masseria di San Francesco:
il signor Eustachio Antezza
di Giuseppe Gambetta
N
ell’immediato dopoguerra sotto la
spinta degli aiuti economici del Piano Marshall fu realizzato l’invaso di
San Giuliano sbarrando le acque del
fiume Bradano nel punto detto “la Stretta di San
Giuliano”. I lavori cominciarono il 23 luglio del
1950 in occasione della famosa visita di Alcide
De Gasperi a Matera che, tra l’altro, ebbe anche il
tempo di posare la prima pietra dell’invaso, e terminarono solo nel 1957. Tante furono le difficoltà
incontrate in corso d’opera quali ad esempio la presenza, nel luogo individuato per lo sbarramento, di
strati di calcare in stato di disgregazione fisica e di
frantumazione, tale da non poter sopportare il peso
dell’opera e la spinta delle acque del lago che resero
necessario un lavoro di consolidamento della roccia mediante iniezioni di calcestruzzo e cemento.
Altri problemi insorsero a causa della scarsa tenuta
idraulica della sezione di sbarramento e della infelice scelta di collocare il cantiere nella sezione dove la
valle del Bradano si restringeva bruscamente nella
“stretta” col risultato che fu inondato più volte in
seguito a delle piene. Ciò successe nel 1951 e nel
1954 [Tropeano 1991, pp.24-25]. Tutto ciò creò
enormi ritardi e solo nel 1957 la diga fu completata. Questi contrattempi crearono anche un certo
disorientamento in tutti quei contadini che avevano le terre in affitto nella zona confinante col fiume
Bradano, soggetta ad invasamento. Avendo ricevuto le cartoline di sgombero dei terreni da due anni,
nel 1956, non vedendo arrivare l’acqua decisero di
approfittare dei ritardi per spigolare qualche altro
raccolto agricolo, nonostante le esortazioni dei
proprietari delle masserie ad abbandonare i terreni
per l’imminente arrivo dell’acqua. L’antica fame di
88
MATHERA
terra, mai sopita neanche con la Riforma Agraria
di inizio anni Cinquanta del Novecento, subito
riaffiorava ad ogni occasione. Così fu con le terre sanizze (sane) della contrada conosciuta come
“Bradano Vecchio di Malvinni” che dovendo finire
in parte sott’acqua furono dissodate velocemente in maniera abusiva per seminarvi il grano. Lo
stesso avvenne con le terre pianeggianti davanti la
masseria di San Francesco. Nel febbraio del 1956 fu
seminato dell’orzo che in giugno diede un raccolto
abbondante. Incoraggiati da tutto ciò i contadini
fittuari della masseria decisero anche nel novembre
successivo, in attesa del riempimento dell’invaso
che tardava ad arrivare, di seminare il grano in base
ad un accordo con i pastori della masseria secondo
il quale questi ultimi offrivano il grano da seminare e loro la manodopera. Se il raccolto fosse stato
abbondante avrebbero diviso a metà. Così al momento opportuno fu seminato il grano. I contadini
dormivano nel lambione accanto alla cappella della
masseria, che era collocata quasi all’estremità destra della stessa e i pastori nello iazzo, situato nella
parte bassa della masseria, verso il fiume. Un giorno
di fine dicembre del 1957 furono chiuse le paratie
dell’invaso che cominciò a riempirsi. Quella sera i
fittuari, ignari di tutto, andarono a riposare ma non
sulle solite lettiere di pietra alte circa un metro da
terra. Siccome nei giorni precedenti era stato più
volte avvistato un grosso ratto che scorazzava nelle parti alte del locale decisero di collocare i loro
letti, costituiti da sacconi di paglia, sul pavimento
che era situato due gradini più in basso del piano
di campagna. I topi erano temuti sia per i danni
che arrecavano alle derrate alimentari e sia perché,
di notte, rosicchiavano le parti molli del corpo
Masseria sommersa, foto d’epoca (Archivio fam. Giuralongo)
umano quali le estremità di mani e piedi, il naso,
le parti cartilaginee e i lobi delle orecchie. Avendo
un morso dolce quando entravano in azione, spesso, non erano neanche avvertiti durante il sonno.
Verso mezzanotte l’acqua cominciò ad entrare nel
lambione dalla porta allagando il pavimento. Ad un
certo punto le persone che dormivano cominciarono ad avvertire la sua presenza sotto i giacigli. A capitale di letto uno di loro aveva collocato la giacca
nella quale vi era una scatola di fiammiferi. Accesa
la luce a petrolio ci si avvide della situazione e usciti
fuori dalla porta si ebbe la sensazione di una grande
piena del Bradano perché ci si trovò davanti a un
mare d’acqua nel quale si distinguevano a malapena
le figure dei pastori che si affannavano a cercare di
mettere in salvo il gregge di pecore che ammontava
a circa 700 capi. Subito i contadini aggiogarono i
muli a due traini con i quali aiutarono a trasferire le
pecore dall’ovile allagato a quello nuovo costruito
in prossimità della nuova masseria nella zona più
in alto, detta Cugno del Pero. Sia la masseria che
l’ovile erano stati realizzati da uno dei più bravi
maestri muratori dell’epoca a Matera: Biagio Amoroso. Molte delle pecore perirono. Furono allagate
pure le mete di paglia che galleggiavano sull’acqua.
In poco tempo tutta la zona finì sott’acqua. L’onda
anomala inondò la masseria San Francesco, la masseria Lauria, ex Ferri, poco distante, i locali di proprietà del Comune di Matera in prossimità dello
sbarramento, l’antico Ponte di San Giuliano e tutta
la vasta piana che si trovava a monte della stretta di
San Giuliano. Fu così realizzato un invaso artificiale ad uso irriguo per lo sviluppo agricolo della zona
e del Metapontino, un’opera ingegneristica che col
tempo, qualche decennio dopo, ha permesso la creazione di un’oasi naturalistica di grande attrazione
turistica nonché una importante zona umida della
regione, tutelata dalla Convenzione Internazionale
di Ramsar quale ambiente primario per la vita degli
uccelli acquatici.
Bibliografia
[Tropeano 1991] E. Tropeano, Note sulla costruzione dello sbarramento, in
“Oasi di San Giuliano (Matera). Contributo conoscitivo”, Coop. Elce, Matera, pp.24-25.
MATHERA
89
Appendice
Lo stemma francescano
di Francesco Foschino
L
o stemma scolpito nel tufo recuperato dalla
Massera San Francesco al Bradano risulta
ancora riconoscibile, nonostante appaia
molto consunto (fig 1). Si tratta dello stemma
inquartato dell’Ordine francescano dei frati minori.
Le quattro parti in cui lo stemma è diviso esaltano il
tema delle stimmate, cioè le cinque piaghe che furono
inflitte a Gesù durante la crocifissione (una per ogni
arto dovute ai chiodi e una al costato procurata da una
lancia), e che San Francesco ricevette per intervento
divino il 14 settembre 1224.
Francesco fu il primo uomo a ricevere le stimmate. Si
narra che, intento a pregare presso la Verna, gli apparve
un Serafino crocifisso e, al termine di questa visione,
comparvero sul suo corpo le stesse ferite che Cristo
subì durante la Passione. Alla naturale sensazione che
ciò provocò fra i fedeli, si aggiunga come la presenza
delle stimmate, spesso sanguinanti, significasse la totale
condivisione fisica col dolore di Cristo.
Sostanzialmente identico allo stemma in pietra
della masseria è quello riprodotto sulla Platea dei beni
che pubblichiamo qui a lato a pagina intera (fig. 2), o
ancora quello presente a Potenza presso la chiesa di San
Francesco (fig. 3) o a Tricarico (fig. 4) presso la chiesa di
Santa Chiara (pur se in quest’ultimo è assente il collare).
Analizziamo dunque lo stemma, nelle sue singole
parti.
La corona che lo sormonta, con i gigli, è in riferimento
al Santo Patrono dei francescani, cioè re Luigi IX di
Francia, che morì durante l’ottava crociata a Tunisi e
nel 1297 fu proclamato Santo divenendo noto come
San Luigi dei Francesi (a volte chiamato anche San
Ludovico).
Nel primo quarto due braccia incrociate, una vestita
col saio e una nuda, con le mani forate dalle stimmate
e sopra di queste una croce. Si tratta dell’emblema più
comune dell’ordine francescano, e spesso compare
anche da solo, definito anche “conformità” al Crocifisso.
Le due braccia sono l’una il braccio di San Francesco
e l’altra il braccio di Cristo, unite sotto il segno della
croce.
Nel secondo quarto abbiamo le cinque piaghe di
Cristo, grondanti sangue, che Francesco patirà come
stimmate.
Il terzo quarto ci presenta la stilizzazione di un
Serafino che, come abbiamo ricordato, apparve a
Francesco durante l’episodio delle stimmate.
Nell’ultimo quarto si osserva un cuore trafitto da tre
lance. Erroneamente è stato spesso interpretato come un
cuore trafitto dai tre chiodi della Passione (uno per ogni
mano e uno per entrambi i piedi). Non si tratta però di
tre chiodi: sono chiaramente tre lance. Il riferimento è
infatti a un passo biblico del vecchio testamento dove
Assalonne, figlio del re David, morì trafitto da tre lance
conficcate nel cuore.
Il motivo per cui trova spazio all’interno dello stemma
Fig. 1, 3 e 4; nella pagina a fianco fig. 2, stemma dell’ordine francescano dalla Platea dei beni del Monastero di san francesco di Matera, 1682, ASM
90
MATHERA
MATHERA
91
francescano è da collegarsi al tema delle prefigurazioni.
Con questo termine si indicano i riferimenti esistenti
nell’Antico Testamento che “prefigurano”, annunciano
allegoricamente, episodi della vita di Cristo, che
dunque come Messia completa il vecchio con un nuovo
testamento.
Prendendo ad esempio le stimmate di Cristo,
diversi brani del Vecchio testamento sembrano farvi
riferimento, ad esempio :
«Egli è stato trafitto per i nostri delitti...per le sue
piaghe noi siamo stati guariti.» (Isaia 53,5);
«Hanno forato le mie mani e i miei piedi» (Salmi
21,17).
Tornando all’episodio menzionato, Assalonne
venne trafitto da tre lance conficcate nel cuore. Qui
vi è certamente un velato riferimento alla lancia che
trafisse il costato di Cristo, ma quest’ultima fu una
sola, invece nell’episodio di Assalonne ve ne sono tre.
La teologia francescana interpretò dunque le tre lance
di Assalonne come una prefigurazione della venuta di
San Francesco, perchè le tre lance conficcate nel cuore
rappresenterebbero una la lancia che ha ferito Cristo
(colpendolo nel corpo ma non nell’anima), una il
dolore della Madonna (colpita nell’anima ma non nel
corpo) e la terza le stimmate di San Francesco (colpito
sia nel corpo che nell’anima).
Si noti come un ricco collare circondi lo stemma,
e come nell’apice inferiore vi penda un animale.
Erroneamente interpretato da molti come un agnello di
chiara simbologia crisitana, si tratta in realtà del collare
del Toson d’oro. Si tratta di un ordine cavalleresco
di nomina regia fondato nel 1430 da Filippo III di
Borgogna e che presto divenne il più prestigioso
fra gli ordini. Inizialmente composto da soli trenta
cavalieri, fu in seguito ampliato. Ebbe lo scopo di
difendere la fede e nell’insegna riprende il vello d’oro
degli Argonauti: come questi ultimi esposero la proria
vita a rischio per conquistare il vello, così i cavalieri
sono pronti a sacrificarsi per la fede. Forse non è un
caso però che la maggior ricchezza del fondatore
Filippo III di Borgogna provenisse dalla lana (era
anche duca delle Fiandre, primo centro al mondo per
il traffico della lana e la produzione tessile), e dunque
il vello potrebbe avere un duplice richiamo allegorico.
L’insegna dell’ordine è dunque il vello di ariete, reso
con il termine francese “toison” a indicare appunto un
ariete tosato. L’investitura avveniva esclusivamente per
nomina regia. Fu il sovrano spagnolo Filippo II, nella
seconda metà del Cinquecento, ad investire del titolo
di Cavaliere del Toson d’Oro, in perpetuo, il Ministro
generale dell’ordine francescano. Poichè il titolo era in
riferimento al ruolo e non alla persona, solo lo stemma
dell’Ordine, e non quello personale, poteva fregiarsi
con il collare del Toson d’oro. Questo è composto da
acciarini, ossia il tondo meccanismo di innesco delle
prime armi da fuoco, circondato da gemme preziose.
Sul fondo, pende il vello di un ariete.
Il collare del Toson d’oro compariva naturalmente
anche nello stemma dello stesso re Filippo II (fig.
5), e continuerà ad essere usato anche per lo stemma
del Regno delle due Sicilie, in posizione centrale e
prominente rispetto ai collari di altri ordini (fig. 6).
Fig. 5
Fig. 6
92
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