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Lo stemma francescano

2019, Mathera, Anno III, n7

What is the meaning of the franciscan coat of arms?

ISSN 2532-8190 80005 9 772532 819009 Editore: Associazione Culturale ANTROS - registrazione al tribunale di Matera n. 02 del 05-05-2017 - 21 set/20 dic 2018 - Anno II - n. 5 - € 7,50 Ius primae noctis un mito da sfatare Le cinte murarie dei Lucani in Basilicata 1 Infanticidi nel Materano fra Ottocento e Novecento MATHERA Il presente Pdf è la versione digitale in bassa risoluzione della pubblicazione cartacea della rivista Mathera. L’editore Antros rende liberamente disponibili in formato digitale tutti i contenuti della rivista, esattamente un anno dopo l’uscita. Sul sito www.rivistamathera.it potete consultare il database di tutti gli articoli pubblicati finora divisi per numero di uscita, autore e argomento trattato. Nello stesso sito è anche possibile abbonarsi alla rivista, consultare la rete dei rivenditori e acquistare la versione cartacea in arretrato, fino ad esaurimento scorte. Chi volesse disporre della versione ad alta risoluzione di questo pdf deve contattare l’editore scrivendo a: [email protected] specificando il contenuto desiderato e il motivo della richiesta. Indicazioni per le citazioni bibliografiche Gambetta - Paolicelli - La masseria di San Francesco al Bradano: evoluzione storica, in "MATHERA", anno II n. 5, del 21 settembre 2018, pp.79-87, Antros, Matera; Gambetta - Quando l’acqua del fiume Bradano arrivò improvvisa e silenziosa, pp. 88-89; Foschino - Lo stemma francescano, pp. 90-92. MATHERA Rivista trimestrale di storia e cultura del territorio Fondatori Raffaele Paolicelli e Francesco Foschino Anno II n.5 Periodo 21 settembre - 20 dicembre 2018 In distribuzione dal 21 settembre 2018 Il prossimo numero uscirà il 21 dicembre 2018 Registrazione Tribunale di Matera N. 02 DEL 05-05-2017 Il Centro Nazionale ISSN, con sede presso il CNR, ha attribuito alla rivista il codice ISSN 2532-8190 Editore Associazione Culturale ANTROS Via Bradano, 45 - 75100 Matera Direttore responsabile Pasquale Doria Redazione Sabrina Centonze, Francesco Foschino, Raffaele Paolicelli, Valentina Zattoni. Gruppo di studio Domenico Bennardi, Ettore Camarda, Olimpia Campitelli, Domenico Caragnano, Sabrina Centonze, Anna Chiara Contini, Gea De Leonardis, Franco Dell’Aquila, Pasquale Doria, Angelo Fontana, Francesco Foschino, Giuseppe Gambetta, Emanuele Giordano, Rocco Giove, Gianfranco Lionetti, Angelo Lospinuso, Mario Montemurro, Nunzia Nicoletti, Raffaele Paolicelli, Marco Pelosi, Giulia Perrino, Giuseppe Pupillo, Caterina Raimondi, Giovanni Ricciardi, Rosalinda Romanelli, Angelo Sarra, Giusy Schiuma, Nicola Taddonio. Progetto grafico e impaginazione Giuseppe Colucci Consulenza amministrativa Studio Associato Commercialisti Braico – Nicoletti Tutela legale e diritto d’autore Studio legale Vincenzo Vinciguerra Stampa Antezza Tipografi - via V. Alvino, Matera Per contributi, quesiti, diventare sponsor, abbonarsi: Contatti [email protected] - tel. 0835/1975311 www.rivistamathera.it Rivista Mathera Titolare del trattamento dei dati personali Associazione Culturale ANTROS I contenuti testuali, grafici e fotografici pubblicati sono di esclusiva proprietà dell’Editore e dei rispettivi Autori e sono tutelati a norma del diritto italiano. Ne è vietata la riproduzione non autorizzata, sotto qualsiasi forma e con qualunque mezzo. Tutte le comunicazioni e le richieste di autorizzazione vanno indirizzate all’Editore per posta o per email: Associazione Antros, Via Bradano, 45 - 75100 Matera; [email protected] L’Editore ha acquisito tutti i diritti di riproduzione delle immagini pubblicate e resta a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare o per eventuali omissioni o inesattezze. Mathera non riceve alcun tipo di contributo pubblico. Le biografie di tutti gli autori sono su: www.rivistamathera.it Mathera viene resa liberamente disponibile online, in formato digitale, dodici mesi dopo l’uscita. MATHERA 3 SOMMARIO articoli - Pensare il territorio 7 Editoriale per non essere pensati da altri di Pasquale Doria nel Materano 8 L’infanticidio tra Ottocento e Novecento di Salvatore Longo 12 Cinte murarie della Basilicata e le fortune dei Lucani di Nicola Taddonio 21 Approfondimento: Le armi dei guerrieri: un indicatore archeologico dei cambiamenti della società lucana di Nicola Taddonio e nozze a Matera 24 Sponsali fra Cinquecento e Settecento di Giulio Mastrangelo Termini desueti riscontrati 30 Glossario: negli atti matrimoniali di Archivio di Giulio Mastrangelo romanici e perle di saggezza. 34 Gatti Un ricordo di Pina Belli D’Elia di Giulia Perrino 38 Il complesso rupestre di San Pellegrino in contrada Ofra a Matera rubriche 101 Grafi e Graffi Il ritratto di presenza nei graffiti materani 106 HistoryTelling Lo squarcio nel tempo di Sabrina Centonze di Gaetano Panetta 111 Voce di Popolo La leggenda del lupo mannaro 113 La penna nella roccia Gli aspetti geomorfologici della Cappadocia e del Materano: dati e considerazioni 118 Radici Il timo: una pianta nobile caduta in sinonimia di Domenico Bennardi e Gea De Leonardis di Federico Boenzi di Giuseppe Gambetta 124 Verba Volant Osservazioni sul lessico dialettale relativo alle denominazioni di alcune malattie 128 Scripta Manent Inedite spigolature d’archivio sulla città settecentesca 134 Echi Contadini La mammèrë 136 Piccole tracce, grandi storie Canti all’altalena e solchi all’architrave di Emanuele Giordano trascrizione di Roberto Acquasanta e Maria Emilia Serafino di Angelo Sarra di Francesco Foschino di Gianfranco Lionetti e Marco Pelosi Appendice: Casale dell’Ofra: storiografia, 50 toponomastica e fonti documentali 145 C’era una volta Rosario Dottorini “Così mi salvai il 21 settembre 1943” 148 Ars nova L’onirico tra favola e realtà nei dipinti di Mimmo Taccardi 152 Il Racconto “Illusione perduta” di Gianfranco Lionetti e Marco Pelosi 53 Approfondimento: La chiesa rupestre di San Pellegrino all’Ofra di Ettore Camarda di Gianfranco Lionetti e Marco Pelosi 56 di Simona Spinella fotografie di Federico Patellani per il film 62 Le “La Lupa” diretto da Alberto Lattuada Josè Garcia Ortega, un artista contro di Nunzia Nicoletti di Nicola Tarasco di Luciano Veglia e la fanciulla: la fine del Tramontano 66 Iltratiranno storia e folklore di Ettore Camarda 72 Approfondimento: Lo ius primae noctis, un mito da sfatare di Ettore Camarda masseria di San Francesco al Bradano: 74 La contesto geografico e toponomastico di Giuseppe Gambetta e Raffaele Paolicelli masseria di San Francesco al Bradano: 79 La evoluzione storica di Giuseppe Gambetta e Raffaele Paolicelli 88 Approfondimento: Quando l’acqua del fiume Bradano arrivò improvvisa e silenziosa di Giuseppe Gambetta 90 di Francesco Foschino Basilicata 94 Exploring Reportage di Gundolf Pfotenhauer Appendice: Lo stemma francescano In copertina: Parziale veduta notturna del casale rupestre dell’Ofra a Matera, foto di Rocco Giove. A pagina 3: Dettaglio della Madonna Glykophilousa o della tenerezza presso la chiesa rupestre di Madonna delle Tre Porte a Murgia Timone, Matera, XV sec, opera del Maestro del sepolcro di Martino Dechello (giá Maestro di Miglionico). Il Premio Antros, che presentiamo nella pagina seguente, adotterà il simbolo di un melograno. MATHERA 5 La masseria di San Francesco al Bradano: evoluzione storica di Giuseppe Gambetta e Raffaele Paolicelli N on sono stati trovati documenti circa l’origine della vecchia masseria di San Francesco. Consultando la Platea dei Padri Conventuali Minori di San Francesco nelle mappe in essa contenute si osserva che nel 1682, anno in cui fu redatta, la masseria non esisteva ancora. Grosso modo nella zona dove poi sorgerà si nota, però, la presenza di quello che potrebbe essere il primo nucleo della stessa, ossia delle cortaglie a poca distanza da un muncituro, due trulli o pagliai e un corpo di fabbrica (fig. 1). Nelle pagine iniziali la Platea infatti riporta: «il canale quale taglia detto luoco, e sopra detto canale, e sopra detta strada vi sono le cortaglie di detto convento di San Francesco» [ASM aa 1682-1772, f. 4 v]. Quindi il complesso che poi diventerà la masseria denominata San Francesco potrebbe essere nato come insediamento pastorale a fine Seicento in prossimità della Fiumara del Bradano. Del resto il paesaggio materano a Sud-Ovest della città era caratterizzato da una vasta zona collinare intorno all’ampia vallata del fiume (fig. 2). Buona parte di quel territorio era suddiviso tra i tanti enti ecclesiastici, che possedevano vaste proprietà terriere. La presenza di acqua, macchie e boschi, con la conseguente possibilità di sviluppo dell’attività agro-pastorale, rese la contrada del Bradano una delle zone più contese e appetibili del territorio materano. Il possesso della zona comportò diverse dispute tra enti ecclesiastici e famiglie di grandi proprietari terrieri. Notizie più certe della presenza della masseria ed anche una breve descrizione sono contenute nel Catasto Onciario di Matera del 1754 nel quale è riportato che il Convento di San Francesco possiede «una massaria di versure mille ottanta nel luogo chiamato Bradano, e Monte di Timmaro, con varie commodità di fabbriche, pozzo sorgivo, confina colli feudi di Miglionico, Grottole, Sign.ra Malvinni, Cap.lo Mag- Fig. 1 - Particolare dell’illustrazione tratta dalla Platea relativa ai possedimenti dei francescani “Sotto Timbaro”. Corporazioni religiose, Convento di San Francesco, Platea dei beni, aa 1682-1772, c. 5r, Archivio di Stato di Matera (su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, prot. n. 1302/28.34.04/7.10) giore, ed altri, porzione de’ quali, e propriamente di Timmaro si è dato a piantar vigne, e giardini a molte persone la di cui rendita stimata docati quattrocento novanta due, che sono once 1640» [ASM 1754, f. 482 v]. Le commodità di fabbrica o comodi rurali citati nell’Onciario riguardano gli ovili, le suppenne per MATHERA 79 Fig. 2 - Particolare Mappa d’Impianto, Comune di Matera, foglio n. 120 le mucche, i magazzini di deposito dei cereali, il caciolaio, le stalle, il deposito degli attrezzi, il forno ed altri piccoli comodi. «Fino a tutto il Settecento, le masserie materane non ebbero in genere, funzioni residenziali per i proprietari; quelle realizzate per conto degli Enti Ecclesiastici, si presentavano in forme più semplici: come aggregati di più “casoni” intorno a una corte per il ricovero notturno dei salariati fissi e degli animali e senza alcuna funzione di immagazzinamento dei prodotti che invece venivano trasportati nei depositi annessi alle residenze urbane» [Pontrandolfi 2004, p.50]. Nel caso della Masseria San Francesco abbiamo a che fare con una vera e propria masseria da campo con una forma di conduzione del fondo in parte a seminativo e in parte a pascolo. Anche a Matera era in uso in alcune masserie, come in quella di San Francesco, un sistema di gestione dei fondi non più solo attraverso braccianti o salariati, ma soprattutto attraverso fittavoli, in alcuni casi appartenenti anche al ceto nobiliare o alla borghesia agraria o professionale. La zona in questione era caratterizzata anche dalla presenza di una vasta area demaniale che riguardava soprattutto l’Agnone di San Francesco riservata agli usi civici della popolazione, quali il diritto di pascolo e, soprattutto, di legna. Già a partire dalla fine del Settecento i demani dell’Università di Matera furono oggetto di continue occupazioni abusive da parte di famiglie nobili materane e an80 MATHERA che, nel nostro caso, da parte dei frati del convento di San Francesco, usurpazioni denunciate più volte dall’Università e dai cittadini ricorrenti. La natura demaniale dell’Agnone portò all’arbitrio da parte dei frati di sottrarlo alla possibilità da parte dei cittadini di esercitare nell’antico bosco golenale l’uso civico di legnare a secco, raccogliere cioè legna dagli alberi che perivano naturalmente. Questo diritto non venne più permesso e, addirittura, durante la Rivoluzione Napoletana del 1799, subito dopo l’insediamento della municipalità repubblicana, si verificò un episodio particolarmente drammatico che Raffaele Giura Longo così riporta: «nel bosco usurpato dai Francescani i contadini trovano resistenza. I mazzieri e le guardie giurate al soldo dei frati si oppongono a quel diritto, impediscono il taglio della legna e, nello scontro così provocato, viene addirittura ucciso un uomo, il 18 febbraio» [Giura Longo 1981, p. 100]. Quindi a metà Settecento la masseria aveva già diverse strutture architettoniche e un pozzo sorgivo (figg. 3 e 4). Non si sa bene come fosse diventata di proprietà dei Conventuali. Certo è che, come si desume dalla Platea del 1682 e dal Catasto Onciario del 1754, il patrimonio posseduto dai Padri Conventuali Minori di San Francesco era assai vasto, formato soprattutto da ben sei masserie nell’agro materano, un ricco patrimonio di terreni e vigne, case, cantine, magazzini, botteghe, osterie, speciarie, concerie, caciolai in città. Esso si era formato Figg. 3 e 4 - Masseria S. Francesco al Bradano, elaborazione digitale fotorealistica di Laide Aliani e Stefano Sileo grazie a legati, testamenti, acquisti, permute, donazioni, lasciti. Numerosi sono i testamenti ad pia causas, con i quali alcuni cittadini donavano loro proprietà in cambio di un certo numero di messe di suffragio per la salvezza della loro anima. Come ricorda il già citato Giura Longo «intere famiglie e molti cittadini furono legati alle chiese non in nome dell’amore cristiano ma in nome dei censi e dei prestiti, … esigenze che pur sempre trovarono un pretesto spirituale, quello della celebrazione dei suffragi per l’anima dei testatori » [Giura Longo 1967, p. 44]. Dal Catasto Onciario del 1754 risulta pure che il Convento di San Francesco possedeva 7.910 tomoli di terra, 1.670 ovini, 185 bovini, 60 equini. La masseria di San Francesco superava i 3.000 tomoli e altre due i 1.000. Il Gattini nelle “Note storiche sulla città di Matera” [Gattini 1882, p. 306], riporta che il Barone di Timmari, tal Boccardo Tovarelli o Rovarelli dei nobili De Iacovo, donò il vasto feudo di Rifeccia e Timmari uniti ai frati francescani nel 1270. Del resto la presenza francescana a Matera, risalente al XIII secolo e pressoché ininterrotta, ha MATHERA 81 dato origine a conventi e confraternite laicali. Nella chiesa di San Francesco, dei Padri Conventuali, dalla fine del Cinquecento operava l’arciconfraternita della SS. Trinità che si dedicava alla cura dei malati e dei forestieri e, dopo la soppressione del convento, agli inizi dell’Ottocento si instaura la confraternita dell’Addolorata che promuoverà non solo la devozione alla Vergine, ma continuerà a mantenere vivo anche il culto Trinitario fino alla fine del secolo [Rinaldi 1993, p.333]. Anche la toponomastica locale risente della presenza francescana in diversi toponimi che fanno riferimento al Poverello di Assisi da un capo all’altro del territorio. Il 14 febbraio del 1807 il re Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, firmava il decreto di soppressione di molti conventi. A Matera furono soppressi i conventi dei Minori Conventuali, dei Domenicani, dei Cappuccini e degli Agostiniani [Morelli 1963, p.331]. La legge fu attuata dal suo successore Gioacchino Murat e il 10 agosto 1809 fu emesso il decreto di soppressione del convento con redazione dell’inventario il 1⁰ ottobre dello stesso anno [ASP 1809]. Il 30 aprile del 1812 il Commissario Regio Masci con una ordinanza disponeva che le terre non pervenute alla Chiesa e ai luoghi pii per acquisti privati fossero devolute al Comune. In seFig. 5 - Prospetto della cappella, foto d’epoca (Archivio fam. Giuralongo) 82 MATHERA guito a ciò al soppresso Convento di San Francesco furono confiscati ben 2.400 tomoli di terreni per essere messi in vendita. Il 5 agosto del 1867 fu decisa la vendita per incanto, a trattative private o per schede segrete, dei beni dell’Asse Ecclesiastico. Soppresso il convento agli inizi dell’Ottocento con i provvedimenti legislativi per la eversione della feudalità la masseria passò al Convento di San Lorenzo Maggiore di Napoli. Negli anni Trenta dell’Ottocento le vaste estensioni di terre di proprietà ecclesiastica, per mancanza di capitali per la coltura, cominciarono ad essere per tanta parte fittate a piccoli lotti. La Masseria di San Francesco al Bradano il 12 febbraio del 1830 fu data dal Convento di San Lorenzo al signor Enselmi Tommaso per sei anni in enfiteusi per 300 ducati d’argento all’anno più 200 rotoli di formaggio [Nitti 1996, p. 125]. Il comune di Matera, secondo un verbale dell’agente demaniale Girolamo Guida del 17 ottobre 1864, acquisì 1.045 tomoli dei 2.615 provenienti dal Monastero di San Francesco [Lapeschi 1935, p. 33]. Con l’entrata in vigore delle leggi che seguirono all’Unità d’Italia ci fu la definitiva incamerazione di tutti i beni ecclesiastici con la chiusura di ogni convento e monastero. In seguito alla soppressione degli enti ecclesia- Fig. 6 - In basso a sinistra si evidenzia la presenza di una zona macchioso-boschiva indicata col termine “Macchia d’Agnone”. Rizzi, Zannoni, Atlante Geografico del Regno di Napoli, anno 1812, Basilicata, Tavola 20/03 stici nel 1871 cominciarono le vendite dei beni relativi per terminare nel 1882. Il corpo fondiario dell’ex monastero di San Francesco al Bradano di 640 tomoli, compresa la masseria, fu comprato da Pietro e Giuseppe Giura Longo nel 1878 [Pontrandolfi 2004, p. 294]. La famiglia Giura Longo ha amministrato la proprietà con grande senso di umanità offrendo occasioni di lavoro a tante persone come testimoniano ancora oggi molti contadini che hanno avuto terre in affitto alla masseria prima della creazione dell’invaso. La proprietà confinava ad Ovest-Nord-Ovest con la masseria e iazzo Malvinni e ad Est-Sud-Ovest con lo iazzo e la masseria Ferri (poi Lauria) e, poco oltre, con lo iazzo di Porcari. Dalla parte opposta al fiume Bradano vi erano, di fronte, la masseria di Sardone (famoso generale dei Cavalieri della Bruna negli anni Sessanta del Novecento), leggermente più a destra la masseria di Catenazzo di Miglionico, poi ancora le masserie di Montemurro e Chita. Un po’ spostate a sinistra le masserie dello Specialicchio (Lamacchia) e di Batteria (Tortorelli). Il posto prescelto per la realizzazione della masseria si trovava in ottima posizione per via dell’ampia pianura esistente intorno e per la presenza di pasco- li, macchie e boschi. Il fiume Bradano era distante non più di 700 metri. La struttura era felicemente esposta a Sud-Sud-Ovest. Il corpo di fabbrica, che è situato a circa 96 metri sul livello del mare, dominava un vasto orizzonte intorno. La tipologia architettonica dell’intero complesso è quella tipica della struttura a corte chiusa da muri, all’interno dei quali sono ospitate le stalle e i recinti per gli animali. Il portale d’ingresso era ad arco a tutto sesto. Il cortile chiuso rispondeva all’esigenza di difesa Fig. 7 - Eustachio Antezza, contadino. Testimone vivente della vita in masseria e della ripartizione degli spazi lavorativi interni ed esterni della stessa MATHERA 83 Fig. 8 - Particolare dei muri di fondazione del mungituro da parte di attacchi di chicchessia o anche di briganti durante il periodo del Grande Brigantaggio. Non bisogna dimenticare che a pochi chilometri di distanza, e precisamente presso il Ponte di San Giuliano, il 4 marzo del 1862 il brigante Carmine Donatelli Crocco si scontrò con la fanteria italiana, ma riuscì, tra agguati e contrasti, a riportarsi vicino ai luoghi per lui più sicuri [Giura Longo 1992, pp. 155-156]. La stessa contrada della Rifeccia e la collina di Timmari erano battute periodicamente dalle bande dello stesso Crocco e di Paolo Serravalle, suo gregario. Lo iazzo delle pecore e capre si trovava leggermente a valle, in direzione sud, in pendenza per lo scolo dei liquami. Gli spioventi dei tetti sono realizzati con il cotto locale. Poco più a monte della masseria si possono osservare ancora oggi due aie quadrangolari su uno spiazzo o basamento pavimentale in mattoni in cotto, delimitate lungo il perimetro da cordoli di tufo. I laterizi in cotto erano prodotti praticamente in loco. Infatti durante la grande siccità del 2017 sono riemerse dall’acqua in una area golenale poco distante alcune fornaci per la cottura di mattoni; fornaci presenti anche in prossimità del Ponte di San Giuliano, del Vallone di San Francesco e in località Due Gravine [Fiore 1998, p.36]. La distanza dalla masseria e la posizione leggermente più elevata rispetto alla stessa rendono queste aie più esposte al vento per agevolare le operazioni della trebbiatura del grano che avveniva con dei setacci grandi che cernevano il grano come del resto anche altri cereali e le fave. Per questo le due aie erano anche chiamate cerniture. La cappella si trovava all’estremità sinistra della masseria avendo il fiume Bradano alle spalle (fig. 5). Essa serviva ai frati e non ai proprietari che non vi risiedevano visto che non esisteva un secondo piano ad uso di abitazione. Fino a prima del fatidico anno della sommersione la cappella fungeva da abitazione del massaro di campo. Ospitava nel campaniletto una campana della quale non si ebbe più notizia già dai 84 MATHERA primi anni del secolo scorso. Sul portale della cappella era ammurata l’arma partita dei Conventuali, scolpita in pietra calcarea che poi fu fatta trasferire su un lato della facciata della nuova masseria. Non è più leggibile per cui un accurato restauro sarebbe auspicabile. La versione dipinta della stessa campeggia sul frontespizio della Platea del 1682 (per una descrizione di essa vedere l’Appendice “Lo stemma dell’Ordine dei frati Minori” in questo numero). Rispetto al disegno catastale del 18981902 alla masseria in tempi relativamente recenti sono stati aggiunti alcuni corpi di fabbrica come la scappetta per il deposito di oggetti agricoli, traini, trebbiatrice e il lambione di abitazione per i fittuari. L’Agnone di San Francesco all’interno del quale la masseria era stata costruita che, come si vede dalle mappe del Rizzi Zannoni di inizio Ottocento, era ancora per tanta parte incolto e macchioso (fig. 6), fu interessato già dalla prima metà dell’Ottocento da profonde trasformazioni colturali per ricavare terreni seminatoriali e pascoli. Il paesaggio naturale del bosco, della macchia e delle comunità vegetali lungo i bordi della fiumara cominciò così, a poco a poco, a cedere il passo all’agricoltura. La masseria San Francesco negli ultimi decenni di vita La conduzione della masseria nella prima metà del Novecento continuava ad essere a terre in affitto connotando così la figura del contadino-fittuario. Sei-sette contadini avevano in fitto le loro lenze di terra, corrispondenti ognuna normalmente a 4-5 tomoli di terreno. Tutti avevano più lenze, disseminate qua e là, qualcuna anche della estensione di 20 tomoli e più pagando in natura nella misura di un quintale di grano all’anno per ogni tomolo di terreno. Sommando si arrivava a 35-40 tomoli di partite di terra per ogni fittavolo. Tanti erano i terreni seminativi che arrivavano quasi in prossimità del vecchio Ponte di San Giuliano. Non è facile risalire da un ammasso di ruderi all’antica struttura architettonica della masseria qual era fino a metà degli anni Cinquanta del Novecento. Ma, per nostra fortuna, ci siamo potuti avvalere dei ricordi vividi e puntuali del signor Eustachio Antezza (fig. 7) che avendo avuto dapprima il nonno, poi il padre ed alla fine egli stesso al servizio della masseria per diversi anni, ci ha spiegato dettagliatamente l’impianto e la gestione della stessa prima dell’abbandono. Essa comprendeva diversi Fig. 9 - Masseria riemersa dalle acque del lago, foto d’epoca (Archivio fam. Giuralongo) lambioni (piccoli locali per il ricovero temporaneo di persone e attrezzi agricoli) e le corti per pecore e vacche. Queste chiudende erano caratterizzate da alcuni archi di ingresso, parte dei quali si possono osservare ancora oggi. Tra i tanti locali presenti, ognuno di pochi metri quadrati, si ricordano: un lambione coperto, chiamato la loggia, di pochi metri quadrati dove contadini e salariati si trattenevano, soprattutto nelle sere d’inverno, al calore di una fucagna. Poi vi erano i magazzini, quelli del proprietario e quello degli zappatori dove poi d’estate dormivano le donne, in molti casi madri, mogli o figlie dei contadini e salariati che, contro il pregiudizio che considerava le donne che andavano a lavorare nelle masserie di facili costumi, aiutavano nei duri lavori della mietitura e trebbiatura o quando si trattava di zappare le fave e scƏppƏnè (espiantare) le piante dei ceci. Così pure le stalle erano costituite da due lambioncini per l’alloggio dei tre muli del proprietario e quella per i muli dei lavoranti. La spenta, corruzione del lemma suppenna che si incontra in tanti documenti antichi, era uno spazio coperto con tettoia adibito al deposito di mietitrici, traini e dove sostavano all’ombra i muli d’estate, prima della realizzazione della scap- petta. Pure vi era un piccolo ambiente, detto rizzolaro, dove erano conservate le rizzole per l’acqua. La struttura comprendeva anche piccoli casotti per conigli e galline, queste ultime oggetto di predazione da parte dei nibbi. Questi avevano i loro nidi sugli alberi, anche ad una certa altezza. Il massaro di campo incoraggiava i bambini che frequentavano la masseria a ricercare le loro uova dando in cambio per ognuna di esse due uova di gallina. Se si riusciva a consegnare un nibbio vivo o morto si aveva diritto ad un gallo. Spesso i nibbi morti erano crocifissi, ad ali aperte, su una nicchia sopra il portone di ingresso o sopra la cappella. Il pavimento dei locali interni alla masseria erano realizzati con i “lapiddoni”, grosse puddinghe che si andavano a prendere nel letto del fiume stesso o lungo le sue rive. Pure i guadi sull’acqua, il cui livello in tempi normali raggiungeva un’altezza di 20-30 cm, erano costituiti da grossi lapilli per un più agevole attraversamento e per non bagnarsi o rimanere impantanati. Il correntino dell’acqua occupava una superficie di circa 10-20 metri di larghezza mentre la valle del fiume era assai più ampia. Sotto queste puddinghe si rinvenivano spesso le anguille, molto ricercate e la cui pesca rappresentò una attività abMATHERA 85 Fig. 10 - Ruderi della masseria riemersa dalle acque del lago nell’estate del 2017 bastanza diffusa fino a qualche decennio fa. A poca distanza dalla masseria, poco a destra dell’ingresso principale, vi era il luogo dove sostavano e dormivano 3-4 vaccari: era detto la “Morra”. I pastori, dal canto loro, avevano un casone attaccato allo iazzo, sottostante la masseria, costituito da ben tre locali per il riposo e per il confezionamento dei prodotti lattiero-caseari. Poco sotto c’era il mungituro costituito da due recinti circolari affiancati messi in comunicazione da un piccolo locale nel quale i pastori mungevano le pecore che una alla volta venivano trasferite da un recinto all’altro (fig. 8). A poca distanza da esso vi era il pozzo sorgivo detto di San Francesco, profondo 8-9 metri, con arredo di due colonne in tufo, macenula, boccaglio e ben 4 pile in mazzaro. L’acqua era tirata su mediante l’utilizzo di funi realizzate con pelo bovino o di capra (zoche) e secchi di legno (ialette). I vaccari effettuavano una transumanza breve trasferendo le mucche in inverno sui pascoli intorno alla città di Laterza. Quando questi andavano via i contadini approfittavano dei loro locali per produrre carbone e carbonella, che in seguito venivano venduti. Le diverse categorie di lavoranti erano coordinate dai massari: il massaro delle pecore, quello delle mucche e quello dei campi (quest’ultimo sovrintendeva a tutte le attività). A destra della chiesa, dalla parte meridionale c’erano i vari orticelli riservati al pro86 MATHERA prietario, ai massari e ai contadini per coltivare un po’ di cipolla, aglio e qualche altro ortaggio o verdura. Assai coltivati erano pure i meloni. Ogni contadino aveva la sua aia, due delle quali si possono osservare ancora oggi. A un po’ di distanza della masseria c’era la fossa per conservare il letame. D’inverno si raccoglievano, utilizzando i traini, i tronchi (menatori) di tante specie di alberi abbandonati dal fiume lungo le rive nelle ondate di piena. Era ottima legna per tanti usi domestici compreso il riscaldamento. Con essi si approntavano delle vere e proprie mete a poca distanza dalla masseria. Questo sistema di vita e di produzione entrò in crisi con la realizzazione dell’invaso di San Giuliano negli anni Cinquanta del Novecento. L’acqua in pochi minuti sommerse tutta l’ampia vallata e con essa anche le strutture rurali che insistevano in quella zona (fig 9). In quello stesso periodo, con la evoluzione dell’Italia da paese agricolo a nazione industriale, si avviò quello che Pier Paolo D’Attorre e Alberto De Bernardi definiscono, in maniera molto suggestiva, il «lungo addio» della società rurale ossia l’abbandono dei campi che comportò la lenta scomparsa del mondo contadino tradizionale [D’Attorre et alii 1993, p. LII], con l’esodo dalle campagne e il tramonto di tutto un sistema di valori, figure sociali di lavoratori legati alla terra, comportamenti e mentalità individuali e collettivi. La notizia che è allo studio un piano per lavori di manutenzione del bacino artificiale della diga, per rimuovere il materiale detritico e melmoso posato sul fondo, alimenta la speranza che forse a breve potremo rivedere anche il vecchio e leggendario Ponte di San Giuliano che congiungeva i due lati della forra della Gravina del Bradano, che pure ha subito la stessa sorte per cui giace sepolto dall’acqua e dalla melma. Alla fine si può dire che i pochi ruderi della masseria che periodicamente e malinconicamente riaffiorano tengono ancora viva la sua storia dandoci la sensazione che, nonostante siano passati alcuni decenni e nonostante la forza impetuosa del fiume Bradano, forse nemmeno l’acqua riesca o voglia cancellare la storia di questa tenuta (figg. 10 e 11). Con le piogge d’inizio anno la vecchia struttura è tornata ad essere sepolta dall’acqua avendo però ancora una volta regalato alcune immagini di sé a distanza di anni e in barba all’oblio del tempo. Si ringraziano per la gentile collaborazione i signori: Eustachio Antezza, Angelo Bianchi, Immacolata Giura Longo, Mariella Giura Longo, Vincenza Pupolizio (vedova Giura Longo) e Tony Strammiello. Bibliografia [A.A.V.V. 1986] Matera-Piazza San Francesco d’Assisi, Matera, BMG. [A.A.V.V.] Oasi di San Giuliano (Matera). Contributo conoscitivo, Coop. Elce, Matera. [ASM 1754], Archivio di Stato di Matera: Catasto Onciario di Matera, anno 1754, f. 482 v. [ASM aa 1682-1772], Archivio di Stato di Matera: Platea dei Beni del Monastero di San Francesco d’Assisi, 1682, f. 4 v. [ASP 1809] Archivio di Stato di Potenza, Fondo Intendenza di Basilicata, Inventario dei beni del Monastero di S. Francesco di Matera, cart. 1284. [Boenzi, Giura Longo 1994] F. Boenzi , R. Giura Longo, La Basilicata. I tempi. Gli uomini. L’ambiente. Edipuglia. [D’Attorre et alii 1993] P. D’Attorre, A. De Bernardi, Il «lungo addio» una proposta interpretativa, in P.P. D’Attorre, A. De Bernardi (a cura di), Studi sull’agricoltura italiana: società rurale e modernizzazione, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano, p. LII. [Fiore 1998] D. Fiore, Le fonti documentarie, in Matera: I Sassi. Manuale del recupero, a cura di A. Restucci, Milano, Electa, p.36. [Gattini 1882] G. Gattini, Note storiche sulla città di Matera, Napoli, Stabilimento tipografico di A. Perrotti e C., p. 306. [Giura Longo 1967] R. Giura Longo, Clero e borghesia nella campagna meridionale, Matera, Basilicata Editrice, p. 44. [Giura Longo 1981] R. Giura Longo, Breve storia della città di Matera, Matera, edizioni BMG, p. 100. [Giura Longo 1992] R. Giura Longo, La Basilicata moderna e contemporanea, Napoli, Edizioni del Sole, pp. 155-156. [Lapeschi 1935] C. Lapeschi, Relazione sulla situazione dei demani comunali di Matera, dattiloscritto, 1935, p. 33. [Morelli 1963] M. Morelli, Storia di Matera, F.lli Montemurro Editori, Matera, p.331. [Nitti 1996] F. Nitti, Matera: le vicende storiche, in Matera 55 - Radiografia di una città del Sud tra antico e moderno, Matera, Edizioni Giannatelli, p. 125. [Pontrandolfi 2004] A. Pontrandolfi, La Terra - Ascesa e declino della borghesia agraria materana, Matera, Fondazione Zetema, pp. 50, 294. [Rinaldi 1993] A. M. Rinaldi, Pietà e assistenza nelle confraternite della città di Matera fra XVIII e XIX secolo, in Studi di Storia del Mezzogiorno offerti ad Antonio Cestaro da colleghi e allievi, a cura di Francesco Volpe, Venosa, Osanna, p.333. Fig. 11 - Ruderi della masseria riemersa dalle acque del lago nell’estate del 2017 MATHERA 87 Approfondimento Quando l’acqua del fiume Bradano arrivò improvvisa e silenziosa Testimonianza di uno dei fittuari della masseria di San Francesco: il signor Eustachio Antezza di Giuseppe Gambetta N ell’immediato dopoguerra sotto la spinta degli aiuti economici del Piano Marshall fu realizzato l’invaso di San Giuliano sbarrando le acque del fiume Bradano nel punto detto “la Stretta di San Giuliano”. I lavori cominciarono il 23 luglio del 1950 in occasione della famosa visita di Alcide De Gasperi a Matera che, tra l’altro, ebbe anche il tempo di posare la prima pietra dell’invaso, e terminarono solo nel 1957. Tante furono le difficoltà incontrate in corso d’opera quali ad esempio la presenza, nel luogo individuato per lo sbarramento, di strati di calcare in stato di disgregazione fisica e di frantumazione, tale da non poter sopportare il peso dell’opera e la spinta delle acque del lago che resero necessario un lavoro di consolidamento della roccia mediante iniezioni di calcestruzzo e cemento. Altri problemi insorsero a causa della scarsa tenuta idraulica della sezione di sbarramento e della infelice scelta di collocare il cantiere nella sezione dove la valle del Bradano si restringeva bruscamente nella “stretta” col risultato che fu inondato più volte in seguito a delle piene. Ciò successe nel 1951 e nel 1954 [Tropeano 1991, pp.24-25]. Tutto ciò creò enormi ritardi e solo nel 1957 la diga fu completata. Questi contrattempi crearono anche un certo disorientamento in tutti quei contadini che avevano le terre in affitto nella zona confinante col fiume Bradano, soggetta ad invasamento. Avendo ricevuto le cartoline di sgombero dei terreni da due anni, nel 1956, non vedendo arrivare l’acqua decisero di approfittare dei ritardi per spigolare qualche altro raccolto agricolo, nonostante le esortazioni dei proprietari delle masserie ad abbandonare i terreni per l’imminente arrivo dell’acqua. L’antica fame di 88 MATHERA terra, mai sopita neanche con la Riforma Agraria di inizio anni Cinquanta del Novecento, subito riaffiorava ad ogni occasione. Così fu con le terre sanizze (sane) della contrada conosciuta come “Bradano Vecchio di Malvinni” che dovendo finire in parte sott’acqua furono dissodate velocemente in maniera abusiva per seminarvi il grano. Lo stesso avvenne con le terre pianeggianti davanti la masseria di San Francesco. Nel febbraio del 1956 fu seminato dell’orzo che in giugno diede un raccolto abbondante. Incoraggiati da tutto ciò i contadini fittuari della masseria decisero anche nel novembre successivo, in attesa del riempimento dell’invaso che tardava ad arrivare, di seminare il grano in base ad un accordo con i pastori della masseria secondo il quale questi ultimi offrivano il grano da seminare e loro la manodopera. Se il raccolto fosse stato abbondante avrebbero diviso a metà. Così al momento opportuno fu seminato il grano. I contadini dormivano nel lambione accanto alla cappella della masseria, che era collocata quasi all’estremità destra della stessa e i pastori nello iazzo, situato nella parte bassa della masseria, verso il fiume. Un giorno di fine dicembre del 1957 furono chiuse le paratie dell’invaso che cominciò a riempirsi. Quella sera i fittuari, ignari di tutto, andarono a riposare ma non sulle solite lettiere di pietra alte circa un metro da terra. Siccome nei giorni precedenti era stato più volte avvistato un grosso ratto che scorazzava nelle parti alte del locale decisero di collocare i loro letti, costituiti da sacconi di paglia, sul pavimento che era situato due gradini più in basso del piano di campagna. I topi erano temuti sia per i danni che arrecavano alle derrate alimentari e sia perché, di notte, rosicchiavano le parti molli del corpo Masseria sommersa, foto d’epoca (Archivio fam. Giuralongo) umano quali le estremità di mani e piedi, il naso, le parti cartilaginee e i lobi delle orecchie. Avendo un morso dolce quando entravano in azione, spesso, non erano neanche avvertiti durante il sonno. Verso mezzanotte l’acqua cominciò ad entrare nel lambione dalla porta allagando il pavimento. Ad un certo punto le persone che dormivano cominciarono ad avvertire la sua presenza sotto i giacigli. A capitale di letto uno di loro aveva collocato la giacca nella quale vi era una scatola di fiammiferi. Accesa la luce a petrolio ci si avvide della situazione e usciti fuori dalla porta si ebbe la sensazione di una grande piena del Bradano perché ci si trovò davanti a un mare d’acqua nel quale si distinguevano a malapena le figure dei pastori che si affannavano a cercare di mettere in salvo il gregge di pecore che ammontava a circa 700 capi. Subito i contadini aggiogarono i muli a due traini con i quali aiutarono a trasferire le pecore dall’ovile allagato a quello nuovo costruito in prossimità della nuova masseria nella zona più in alto, detta Cugno del Pero. Sia la masseria che l’ovile erano stati realizzati da uno dei più bravi maestri muratori dell’epoca a Matera: Biagio Amoroso. Molte delle pecore perirono. Furono allagate pure le mete di paglia che galleggiavano sull’acqua. In poco tempo tutta la zona finì sott’acqua. L’onda anomala inondò la masseria San Francesco, la masseria Lauria, ex Ferri, poco distante, i locali di proprietà del Comune di Matera in prossimità dello sbarramento, l’antico Ponte di San Giuliano e tutta la vasta piana che si trovava a monte della stretta di San Giuliano. Fu così realizzato un invaso artificiale ad uso irriguo per lo sviluppo agricolo della zona e del Metapontino, un’opera ingegneristica che col tempo, qualche decennio dopo, ha permesso la creazione di un’oasi naturalistica di grande attrazione turistica nonché una importante zona umida della regione, tutelata dalla Convenzione Internazionale di Ramsar quale ambiente primario per la vita degli uccelli acquatici. Bibliografia [Tropeano 1991] E. Tropeano, Note sulla costruzione dello sbarramento, in “Oasi di San Giuliano (Matera). Contributo conoscitivo”, Coop. Elce, Matera, pp.24-25. MATHERA 89 Appendice Lo stemma francescano di Francesco Foschino L o stemma scolpito nel tufo recuperato dalla Massera San Francesco al Bradano risulta ancora riconoscibile, nonostante appaia molto consunto (fig 1). Si tratta dello stemma inquartato dell’Ordine francescano dei frati minori. Le quattro parti in cui lo stemma è diviso esaltano il tema delle stimmate, cioè le cinque piaghe che furono inflitte a Gesù durante la crocifissione (una per ogni arto dovute ai chiodi e una al costato procurata da una lancia), e che San Francesco ricevette per intervento divino il 14 settembre 1224. Francesco fu il primo uomo a ricevere le stimmate. Si narra che, intento a pregare presso la Verna, gli apparve un Serafino crocifisso e, al termine di questa visione, comparvero sul suo corpo le stesse ferite che Cristo subì durante la Passione. Alla naturale sensazione che ciò provocò fra i fedeli, si aggiunga come la presenza delle stimmate, spesso sanguinanti, significasse la totale condivisione fisica col dolore di Cristo. Sostanzialmente identico allo stemma in pietra della masseria è quello riprodotto sulla Platea dei beni che pubblichiamo qui a lato a pagina intera (fig. 2), o ancora quello presente a Potenza presso la chiesa di San Francesco (fig. 3) o a Tricarico (fig. 4) presso la chiesa di Santa Chiara (pur se in quest’ultimo è assente il collare). Analizziamo dunque lo stemma, nelle sue singole parti. La corona che lo sormonta, con i gigli, è in riferimento al Santo Patrono dei francescani, cioè re Luigi IX di Francia, che morì durante l’ottava crociata a Tunisi e nel 1297 fu proclamato Santo divenendo noto come San Luigi dei Francesi (a volte chiamato anche San Ludovico). Nel primo quarto due braccia incrociate, una vestita col saio e una nuda, con le mani forate dalle stimmate e sopra di queste una croce. Si tratta dell’emblema più comune dell’ordine francescano, e spesso compare anche da solo, definito anche “conformità” al Crocifisso. Le due braccia sono l’una il braccio di San Francesco e l’altra il braccio di Cristo, unite sotto il segno della croce. Nel secondo quarto abbiamo le cinque piaghe di Cristo, grondanti sangue, che Francesco patirà come stimmate. Il terzo quarto ci presenta la stilizzazione di un Serafino che, come abbiamo ricordato, apparve a Francesco durante l’episodio delle stimmate. Nell’ultimo quarto si osserva un cuore trafitto da tre lance. Erroneamente è stato spesso interpretato come un cuore trafitto dai tre chiodi della Passione (uno per ogni mano e uno per entrambi i piedi). Non si tratta però di tre chiodi: sono chiaramente tre lance. Il riferimento è infatti a un passo biblico del vecchio testamento dove Assalonne, figlio del re David, morì trafitto da tre lance conficcate nel cuore. Il motivo per cui trova spazio all’interno dello stemma Fig. 1, 3 e 4; nella pagina a fianco fig. 2, stemma dell’ordine francescano dalla Platea dei beni del Monastero di san francesco di Matera, 1682, ASM 90 MATHERA MATHERA 91 francescano è da collegarsi al tema delle prefigurazioni. Con questo termine si indicano i riferimenti esistenti nell’Antico Testamento che “prefigurano”, annunciano allegoricamente, episodi della vita di Cristo, che dunque come Messia completa il vecchio con un nuovo testamento. Prendendo ad esempio le stimmate di Cristo, diversi brani del Vecchio testamento sembrano farvi riferimento, ad esempio : «Egli è stato trafitto per i nostri delitti...per le sue piaghe noi siamo stati guariti.» (Isaia 53,5); «Hanno forato le mie mani e i miei piedi» (Salmi 21,17). Tornando all’episodio menzionato, Assalonne venne trafitto da tre lance conficcate nel cuore. Qui vi è certamente un velato riferimento alla lancia che trafisse il costato di Cristo, ma quest’ultima fu una sola, invece nell’episodio di Assalonne ve ne sono tre. La teologia francescana interpretò dunque le tre lance di Assalonne come una prefigurazione della venuta di San Francesco, perchè le tre lance conficcate nel cuore rappresenterebbero una la lancia che ha ferito Cristo (colpendolo nel corpo ma non nell’anima), una il dolore della Madonna (colpita nell’anima ma non nel corpo) e la terza le stimmate di San Francesco (colpito sia nel corpo che nell’anima). Si noti come un ricco collare circondi lo stemma, e come nell’apice inferiore vi penda un animale. Erroneamente interpretato da molti come un agnello di chiara simbologia crisitana, si tratta in realtà del collare del Toson d’oro. Si tratta di un ordine cavalleresco di nomina regia fondato nel 1430 da Filippo III di Borgogna e che presto divenne il più prestigioso fra gli ordini. Inizialmente composto da soli trenta cavalieri, fu in seguito ampliato. Ebbe lo scopo di difendere la fede e nell’insegna riprende il vello d’oro degli Argonauti: come questi ultimi esposero la proria vita a rischio per conquistare il vello, così i cavalieri sono pronti a sacrificarsi per la fede. Forse non è un caso però che la maggior ricchezza del fondatore Filippo III di Borgogna provenisse dalla lana (era anche duca delle Fiandre, primo centro al mondo per il traffico della lana e la produzione tessile), e dunque il vello potrebbe avere un duplice richiamo allegorico. L’insegna dell’ordine è dunque il vello di ariete, reso con il termine francese “toison” a indicare appunto un ariete tosato. L’investitura avveniva esclusivamente per nomina regia. Fu il sovrano spagnolo Filippo II, nella seconda metà del Cinquecento, ad investire del titolo di Cavaliere del Toson d’Oro, in perpetuo, il Ministro generale dell’ordine francescano. Poichè il titolo era in riferimento al ruolo e non alla persona, solo lo stemma dell’Ordine, e non quello personale, poteva fregiarsi con il collare del Toson d’oro. Questo è composto da acciarini, ossia il tondo meccanismo di innesco delle prime armi da fuoco, circondato da gemme preziose. Sul fondo, pende il vello di un ariete. Il collare del Toson d’oro compariva naturalmente anche nello stemma dello stesso re Filippo II (fig. 5), e continuerà ad essere usato anche per lo stemma del Regno delle due Sicilie, in posizione centrale e prominente rispetto ai collari di altri ordini (fig. 6). Fig. 5 Fig. 6 92 MATHERA