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L'antipedagogia che passa il convento

2020, "Pedagogia e vita", 78, 1

Sulla scuola che non funziona più come dovrebbe c'è tutta una bibliografia che ormai si potrebbe prendere sul serio come oggetto di studio. Il contributo di Ernesto Galli Della Loggia ne ha segnato lo snodo italiano più recente. L'aula vuota è stato un libro atteso [...]. Bisogna distinguere: fra i temi su cui questa pubblicistica insiste volentieri ce ne sono alcuni di lungo corso. Si può andare indietro all'infinito in cerca di precedenti. Solo in alcuni casi sono precedenti significativi perché segnalano dei mutamenti di scenario [...]. Se vogliamo identificare l'alveo di cui L'aula vuota è tributario bisogna mettere a fuoco i nuovi temi che si affacciano fra gli anni Settanta e Novanta del secolo passato: temi legati alle crisi espansive dei sistemi d'istruzione e alle riforme che ne accompagnano il decorso.

Vincenzo Schirripa L’antipedagogia che passa il convento Sulla scuola che non funziona più come dovrebbe c’è tutta una bibliografia che ormai si potrebbe prendere sul serio come oggetto di studio. Il contributo di Ernesto Galli Della Loggia ne ha segnato lo snodo italiano più recente. L’aula vuota è stato un libro atteso: i suoi antecedenti vanno osservati almeno dall’inizio del 2017, fra la scomparsa di Tullio De Mauro e il cinquantenario milaniano. In quei mesi la polemica sulla decadenza della scuola ha avuto una reviviscenza, riproponendo con una certa potenza di fuoco il suo assortimento tematico: gli articoli di Galli, Mastrocola, Tomasin e altri sul “Corriere”, sul “Sole” e su “Repubblica” da un lato, dall’altro il riaffiorare qua e là di una vena di progressismo antipedagogico anch’essa non nuova ma di nuovo attuale: per limitarsi a un esempio rappresentativo, la rilettura di Gramsci per la scuola da parte di Benedetti e Coccoli (2018). Bisogna distinguere: fra i temi su cui questa pubblicistica insiste volentieri ce ne sono alcuni di lungo corso. Si può andare indietro all’infinito in cerca di precedenti. Solo in alcuni casi sono precedenti significativi perché segnalano dei mutamenti di scenario: possiamo leggere così le reazioni ottocentesche al prender piede della burocrazia scolastica e della sua metodica o, più tardi, le invettive novecentesche contro lo zelo invadente di certi approcci socio psico pedagogici nell’imporre un loro ordine, una “programmazione” velleitaria e cogente alle cose di questo mondo. Nella stratificazione di questo repertorio ci sono quindi delle discontinuità che consentono di periodizzare. Se vogliamo identificare l’alveo di cui L’aula vuota è tributario bisogna mettere a fuoco i nuovi temi che si affacciano fra gli anni Settanta e Novanta del secolo passato: temi legati alle crisi espansive dei sistemi d’istruzione e alle riforme che ne accompagnano il decorso. Pedagogia e Vita 78 (2020/1) 192-196 ISSN 0031-3777 Vincenzo Schirripa - L’antipedagogia che passa il convento Quanto e come questi fenomeni siano originari rispetto alla “scuola di oggi” si può discutere; lo sono per tutta una letteratura postraumatica. La diagnosi di Galli focalizza le cause della decadenza entro un tempo contratto, come se gli anni della democrazia scolastica (da lui sopravvalutata, così come altri bersagli polemici) e quelli dell’autonomia e del riformismo compulsivo coincidessero; come se nulla fosse cambiato fra lo scenario di Figlioli miei, marxisti immaginari (V. Ronchey, 1975) e quello di Segmenti e bastoncini (L. Russo, 1998) o di La scuola raccontata al mio cane (P. Mastrocola, 2004), per citare altre tre pietre miliari del genere in Italia. Per quanto l’autore si rammarichi di esser stato preso alla lettera, la cornice è quella che il “decalogo della predella” (4 giugno 2018) ha efficacemente marcato – e che tarpa anche i possibili sviluppi della porzione storiografica del libro. Vale per le pagine dedicate al maggior riformatore della scuola italiana: c’è ancora molta distanza tra il Gentile degli specialisti e quello dell’opinione comune, per la quale l’aggettivo “gentiliano” evoca classismo, autarchia culturale, autoritarismo pedagogico. L’autore rilegge un po’ di storiografia educativa, rifacendosi soprattutto a Scotto Di Luzio, e potrebbe rendere un buon servizio all’uditorio più largo cui ha accesso; ma la cornice rischia di confermare il luogo comune e finisce per depotenziare l’esercizio di intelligenza storica. Vale per le pagine su Rousseau: qualche specialista potrebbe scrutare le note con sussiego ma non è il caso; in un libro così è maggior perdita l’occasione non colta di prendere il largo da qui verso una critica liberale alla piega paneducazionale che le società scolarizzate possono prendere a partire dalle loro premesse ideologiche; una traccia che sarebbe nelle corde dell’autore – infatti vibra in sottofondo – ma sono i toni dell’invettiva a determinare assortimento timbrico e partitura. È un deficit di storia, più che di pedagogia. Un pamphlet antipedagogico di questo tipo si può sempre leggere come un libro di pedagogia, perché comunque finisce per far emergere una sua visione dei rapporti fra gli adulti, i ragazzi, i loro oggetti di lavoro e il contesto scolastico che li tiene insieme. Non si può leggere come un libro di storia, invece, perché muove proprio dalla riluttanza a vedere le scuole come oggetto di storia. ISSN 0031-3777 193 Confronti Fra le implicazioni della inarrestabile scolarizzazione delle società contemporanee ce n’è una curiosa: da una parte, come sappiamo, la scuola e le pratiche che le danno corpo tendono a darci l’idea di essere più antiche e ferme di quel che sono: anche su questo si regge il loro funzionamento – e le nostre pretese nei confronti dell’istituzione, che riconosciamo come riserva di autorità su cui contare. Le rappresentazioni retrotopiche (come oggi le chiamiamo echeggiando Bauman) hanno buon gioco perché allignano su questa curvatura del nostro sguardo scolarizzato: chi studia la storia può pure esibirsi nel decostruirne l’apparato mitologico – è fin troppo facile trovare fonti su “scuole di una volta” meno serie, prestigiose, aconflittuali di come ci piace credere – ma farà la figura del sofista. D’altro canto le critiche alla scuola tradizionale, ci mancherebbe altro, sono sempre “nuove”: anche quando rimestano argomenti dello scorso secolo o di quell’altro ancora. Il loro controcanto polemico, imputando le sciagure presenti a questa o quella innovazione pedagogica, aggrava l’equivoco. Argomenti hyperpedago e antipedago, come scrive Philippe Meirieu in un utile pamphlet appena tradotto da Armando, si sostengono a vicenda; si può aggiungere che godono entrambi di una luce che li fa più giovani. In ogni caso rendono più complicato parlare di scuola e di educazione nel modo franco ma serio di cui avremmo bisogno. Peccato, perché questo gioco sfibrante fa sprecare delle intuizioni e delle occasioni. Fra le occasioni, questa: la neolingua educazionale dei tempi nostri ha una storia lunga quanto la scuola di massa, che moltiplica gli scriventi e le occasioni di scrivere male nell’esercizio delle proprie responsabilità gerarchiche. Non entro nel merito di analisi più sottili che si possono fare e che qualcuno starà già facendo sul modo in cui la scuola si esprime per iscritto in questi ultimi anni. Leggo con piacere chi nel tempo ha saputo fare di questi corpora di prosa scolastica e parascolastica un buon uso satirico. Mi procura disagio il sarcasmo con note a pie’ di pagina puntate contro studiosi di solito un po’ meno noti dell’autore. Mi chiedo se l’attenzione suscitata dal libro – flebile speranza per la quale accolgo questo invito al confronto – possa incoraggiare la corporazione a prendersi carico con più energia del modo in cui si rappresenta e viene rappresentata. 194 ISSN 0031-3777 Vincenzo Schirripa - L’antipedagogia che passa il convento Fra le intuizioni, almeno questa: “quando si tratta di novità introdotte nella scuola – leggiamo nel sesto capitolo – è d’obbligo la solita premessa: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. L’istituzione scolastica e i suoi addetti, infatti, possiedono una straordinaria capacità di resistenza al cambiamento, che si manifesta attraverso il ben noto meccanismo dell’obbedienza simulata. Si finge, cioè, di applicare la novità, ma lo si fa solo formalmente, sulla carta, compilando tutte le scartoffie di prescrizione ministeriale, adoperando il nuovo lessico richiesto dalla novità stessa e facendo come se dietro tutto quel mare di parole ci fossero dei fatti: i quali invece in larga misura non ci sono”. Basterebbe prendere sul serio questo principio di saggezza storiografica: il cambiamento di un sistema complesso come la scuola può essere influenzato, cavalcato ma non determinato da progetti, riforme, intenzionalità devastatrici lette in maniera apodittica. Crollerebbe l’impianto accusatorio ma faremmo un passo avanti. Tutti, perché i danni di questa polarizzazione si leggono anche nelle più accese reazioni al libro: discutendo su questo terreno si perdono occasioni di comprensione della realtà. Del resto non bisognerebbe chiedere a un libro quello che il libro non ha in programma di offrire, per poi lamentarsene. Nessuno degli autori di questa corrente – non è loro compito – ci racconterà il modo in cui ha tentato in prima persona di fronteggiare le difficoltà che denuncia nella scuola e nell’università: non a caso riescono bene a intercettare il malessere in sala professori – può essere un merito nella misura in cui si aiuta a leggerlo meglio; un problema se i canali comunicativi si sovraccaricano di tossine, di sofferenza non rielaborata ma vestita d’autorità – ma non sono d’aiuto a quei docenti che vogliono organizzarsi per far meglio. Il mondo dell’istruzione è abbastanza complesso perché se ne possano scrivere e leggere rappresentazioni diverse: c’è da scegliere. Le aule scolastiche sono piene di ragazzi e adulti che conservano in vita la tradizione culturale di cui Galli è giustamente preoccupato; riformulandola, perché il feticcio di una sua astorica immobilità va bene solo per chi la guarda da lontano senza occuparsene sul serio. Questi adulti cercano di trovare dei modi che funzionino, ISSN 0031-3777 195 Confronti distinguendo fra la schiuma del discorso psicopedagogico idee abbastanza chiare da risuonare con la pedagogia che elaborano sul campo. Costruiscono la democrazia non attraverso cerimonie, fervorini e demagogia ma esercitando autorità attraverso la pratica di relazioni interpersonali di un certo tipo. Non disdegnano di muoversi come un nodo del sistema di Welfare prendendosi cura, per quel che possono e che tocca loro, del benessere degli alunni e di quel che c’è intorno alla classe. Probabilmente questi adulti hanno (anche) altri libri sulla loro scrivania; degli altri bisogna occuparsi, magari incoraggiando gli uni ad assumersi le proprie responsabilità anche sul resto della corporazione e a raccontarla loro, la scuola. Senza autoindulgenza: di antipedagogia c’è sempre bisogno, a patto di non contentarsi di quella che passa il convento. 196 ISSN 0031-3777