Antipedagogie del piacere (Sade e Fourier)
E altri erotismi
“L’uomo può cercare di dare un nome all’amore, attribuendogli tutti quelli che ha a disposizione, ma cadrà sempre vittima di infiniti autoinganni. Se dispone di un granello di saggezza, deporrà le armi e chiamerà l’ignoto con il più ignoto, ignotum per ignotius, cioè con il nome di Dio” (C.G.Jung)
Indice:
Preambolo
Piccola rapsodia erotica
“Mia cara, la passione che mettevi ieri sera…”
Eros Magister
“O voi così tenere a volte entrate…”
Amor mortis
La morte e la fanciulla
Saggi ipocriti méntori
“Nessuno capiva il profumo dell’oscura magnolia…”
Eros Magus
Il sonno di Albertine
Vis chordis
“Che là soltanto dove tu sei, tutto sia sempre d’infanzia…”
“Come un frutto avevo aperto sul mio corpo…”
“Ecco il fanciullo acquatico e felice…”
Prossemica scolastica
Antipedagogie del piacere (Sade e Fourier)
Godimento e conoscenza
Tutto dire tutto godere
Filosofia del/la foutre
Iniziazione al dandismo erotico e vitalismo sessuale
La pedagogia del boudoir
Gratta-talloni e carezza-capelli
Patafisica ermetica
Dinamiche d’analogia
La civiltà dei cocu
Verso l’ “orgia armonica”
Comunismo dionisiaco
Epilogo (o epistòmio)
Preambolo
“Amabo, mea dulcis Ipsililla,
meae deliciae, mei lepores,
iube ad te veniam meridiatum.
Et si iusseris, illud adiuvato,
nequis liminis obseret tabellam,
neu tibi lubeat foras abire,
sed dormi maneas paresque nobis
novem continuas fututiones.
Verum, siquid ages, statim iubeto:
Nam pransus iaceo et satur supinus
Pertundo tunicamque palliumque”
(Gaius Valerius Catullus)
“Non dormimmo più, stesi nell’ingranaggio della tristezza,
e piegammo come verghe le lancette,
ed esse scattarono indietro e sferzarono a sangue il tempo,
e tu dicesti crepuscolo montante,
e dodici volte io dissi tu alla notte delle tue parole,
ed essa s’aprì e aperta rimase,
ed io le posi un occhio in grembo e l’altro l’intrecciai ai tuoi capelli,
e tra l’uno e l’altro stesi serpeggiante la miccia, la vena aperta-
e una giovane saetta nuotò verso di noi”
(Paul Celan)
“Ero la ragazza della catena di S. Antonio,
la ragazza tutta discorsi di bare e serrature,
quella delle bollette del telefono,
la foto sgualcita e i contatti persi,
quella che continuava a dire
Ascoltami! Ascoltami!
Mai! Mai!
e cose del genere
Quella con il bavero
tirato su fino agli occhi,
con gli occhi blu canna di fucile,
con una venuzza sulla piega del collo
che vibrava come un diapason,
con le spalle nude come un palazzo,
con quei piedini e quei ditini,
con un vecchio gancio rosso in bocca,
una bocca il cui sangue gocciolava
nelle regioni orrende della sua anima
La ragazza che si addormentava sempre,
era vecchia come i sassi,
ogni mano un pezzo di cemento,
per ore e ore
e poi si svegliava,
dopo la breve morte,
ed era tenera come,
delicata come
tenera e delicata come
luce in eccesso,
per niente pericolosa,
come un barbone che mangia
o un topo su un tetto
senza botole,
con niente di più onesto
che la tua mano nella sua,
con nessun altro, nessun altro che te!
E cose del genere.
Nessun altro, nessun altro che te!
Oh, non si può tradurre
quell'oceano
quella musica
quel teatro
quel campo di pony.”
(Anne Sexton)
“Così piccola e così grande! Solo qui sei a tuo agio, uomo finalmente degno di questo nome, solo qui ti ritrovi all’altezza dei tuoi desideri. In questo luogo –e non temer di avvicinare ad esso il tuo volto, vedi, già la tua lingua, così petulante, non star più ferma- in questo luogo di delizie e d’ombra, questo patio ardente, dai contorni iridescenti, splendida immagine del pessimismo. O fessura, fessura umida e dolce, caro abisso vertiginoso!”
(Louis Aragon)
“Sete di te m’incalza nelle notti affamate.
Tremula mano rossa che si leva fino alla tua vita.
Ebbra di sete, pazza sete, sete di selva riarsa.
Sete di metallo ardente, sete di radici avide.
Verso dove, nelle sere in cui i tuoi occhi non vadano
In viaggio verso i miei occhi, attendendoti allora.
Sei piena di tutte le ombre che mi spiano.
Mi segui come gli astri seguono la notte.
Mia madre mi partorì pieno di domande sottili.
Tu a tutte rispondi. Sei piena di voci.
Àncora bianca che cadi sul mare che attraversiamo.
Solco per il torbido seme del mio nome.
Esista una terra mia che non copra la tua orma.
Senza i tuoi occhi erranti, nella notte, verso dove.
Per questo sei la sete e ciò che deve saziarla.
Come poter non amarti se per questo devo amarti.
Se questo è il legame come poterlo tagliare, come.
Come, se persino le mie ossa hanno sete delle tue ossa.
Sete di te, sete di te, ghirlanda atroce e dolce.
Sete di te, che nelle notti morde come un cane.
Gli occhi hanno sete, perché esistono i tuoi occhi.
La bocca ha sete, perché esistono i tuoi baci.
L’anima è accesa di queste braci che ti amano.
Il corpo, incendio vivo che brucerà il tuo corpo.
Di sete. Sete infinita. Sete che cerca la tua sete.
E in essa si distrugge come l’acqua nel fuoco”
(Pablo Neruda)
“Ordre, Désordre,
Unité, Anarchie,
Poésie, Dissonance,
Rythme, Discordance,
Grandeur, Puérilité,
Génerosité, Cruauté”
(Antonin Artaud)
“Médie si nascondeva nelle erbe della riva. Appena raggiunto lo spessore umido, ne afferrava gli steli a piene mani. Un poco immersa, un poco trasportata, godeva a farsi cullare con esse. I suoi capelli di un biondo profondo, ora verdeggianti, fluttuavano fra i ciuffi. Il sole colpiva l’acqua, la faceva risuonare. Le macchie brillanti si aggregavano in continui mutevoli scambi. Si raggruppavano, una famiglia. Si disfavano, una fortuna. L’acqua, così blu quando la si osservava dall’alto delle scarpate erbose, non cessava d’esserlo, blu, per la ridente dalla mano guantata. Médie adorava il gusto e la carezza di questa profondità nuda. Sul limitare della riva il blu si addolciva, esitava. Le molte alghe del fondo tendevano a imbrunirlo, a renderlo color bronzo. Lei sapeva che, invitata da questo nastro, avrebbe abbandonato ben presto le erbe, una dopo l’altra, queste erbe un poco taglienti, che gelavano il sangue in cima alle dita. Le ultime si sarebbero spezzate. Allora, felice, lei sarebbe morta. Ella gioiva di morire, perdersi, scomparire. Con il suo vestito, o senza, si tuffava, nell’acqua chiara, così come una pietra s’insabbia. Più nulla ormai esisteva fuori da un’estasi di suono più blu che ogni cosa al mondo, attraversata da enormi pesci immersi nel medesimo segreto. …”
(Jacques Audiberti)
“Chiudi gli occhi, amore, lascia che io ti faccia
Cieca. Ti hanno insegnato solo a leggere
Problemi sulla superficie delle cose, e
Algebra negli occhi degli uomini accesi
Dal desiderio: in dio vedi un geometra
Che interseca i suoi cerchi, per
Confonderci.
Vorrei baciarti sugli occhi sino a baciarti
Cieca. Se io potessi – se qualcuno potesse…
Allora forse nel buio troveresti quello che vuoi:
la soluzione che è sempre troppo profonda per la
mente, fusa nel sangue:
che io sono il cervo, e tu la cerva
tenera.
Ora basta indagare intorno a me! Vuoi che ti
Odi? Sono un caleidoscopio, io, che tu agiti
E agiti, e non dà mai l’immagine
Giusta? Sono condannato a penetrarti
In un lungo coito di parole, io? Ora
Basta. Non c’è speranza tra le tue
Cosce, lontano, lontano dallo scrutare del tuo
Sguardo?
(David Herbert Lawrence)
“A quel tempo tu eri
Ancora così giovane che
Ti stupivi quando
Mi chinavo su di te.
Questo infatti accadeva nell’erba,
accadeva in mezzo alle colline
dove mai il tuo maestro
ti avrebbe celato il volo degli uccelli o delle nuvole
né chiuso la tua bocca che
forse voleva porre
alcune questioni di storia
naturale. Ma tu sembravi
appartenere al numero di coloro
che non dànno nessun valore
alle minuzie perché
la forma è già presente
in loro. Per questo
a lungo in quella sera
non ti lasciai libera la vista”
(Otto Sahmann)
“Con timoroso stupore accedo alla tua nudità
(guizza il pesce di marzo alla luce),
inguini, anfratti, e già un corallo pallido
di vene traccia mappe d’eldorado,-
Dormi, e il silenzio è cembalo stregato
Che ci percorre il sangue ricongiunto.
Scivola sul pendio di neve azzurra
La mano-luna in brividi e tepori.
Amarti…Ma il linguaggio è una gabbietta
Di cornacchie assai rauche. La più saggia
Eloquenza sarà tacerti accanto,
mio germoglio che dormi nella neve”
(Maria Luisa Spaziani)
“Un’estranea è venuta
A spartire con me la mia stanza nella casa lunatica,
una ragazza folle come gli uccelli
Che spranga la notte della porta col suo braccio di piuma.
Stretta nel letto delirante
Elude la stanza a prova di cielo con ingressi di nuvole
E la stanza da incubi elude col suo passeggiare,
su è giù come i morti,
o cavalca gli oceani immaginati delle corsie maschili.
Venne da ma invasata,
colei che fa entrare dal muro rimbalzante l’ingannevole luce,
invasata dal cielo
dorme nel truogolo stretto e tuttavia cammina sulla polvere
e a piacer suo vaneggia
sopra l’assito del manicomio consumato dai passi del mio pianto.
E rapito alla fine (cara fine) nelle sue braccia dalla luce
Io posso senza timore
Sopportare la prima visione che diede fuoco alle stelle”
(Dylan Thomas)
“Come spostando pietre:
geme ogni giuntura! Riconosco
l’amore dal dolore
lungo tutto il corpo.
Come un immenso campo aperto
Alle bufere. Riconosco
L’amore dal lontano
Di chi mi è accanto.
Come se mi avessero scavato
Dentro fino al midollo. Riconosco
L’amore dal pianto del venerdì
Lungo tutto il corpo.
Vandalo in un’aureola
Di vento! Riconosco
L’amore dallo strappo
Delle più fedeli corde
Vocali: ruggine, crudo sale
Nella strettoia della gola.
Riconosco l’amore dal boato
-dal trillo beato-
Lungo tutto il corpo!”
(Marina I. Cvetaeva)
“Mi piace il mio corpo quand è col tuo
corpo. E’ una cosa tanto nuova.
Muscoli meglio e nervi di più.
mi piace il tuo corpo. mi piace quel che fa,
e il come. mi piace sentir la spina
dorsale, le sue ossa e il tremolante
-liscio-sodo che bacerò
ancora ancora e ancora
di te mi piace baciare questo e quello,
mi piace, lentamente accarezzare, il folto
elettrico pelo, e quel che viene a carne
che si separa…E occhi grandi briciole d’amore,
e forse mi piace il brivido
di sotto me te così nuova”
(Edward E. Cummings)
“Se la tipografia del destino
Mi avesse impresso
Sul tuo corpo con tecnica
D’indelebile tatuaggio e
Non quale labile decalcomania,
ti sarei rimasto addosso.
Malgrado il nostro patto
Di sbiadire accoppiati,
ho sorpreso il tempo
che stinge di nascosto;
non sarà perché ti lavi troppo?”
(Valentino Zeichen)
“Io riposo le notti
Sopra il tuo volto.
Sulla steppa del tuo corpo
Pianto mandorli e cedri.
Nel tuo petto instancabile cerco
Le gioie d’oro del Faraone.
Ma sono dure le tue labbra
Irrimediabili ai miei prodigi.
Togli allora i tuoi cieli di neve
Dalla mia anima-
I tuoi sogni di diamante
Mi tagliano le vene.
Io sono Giuseppe e sulla pelle dipinta
Porto una cintura di dolcezze.
Tu godi al mormorare spaurito
Delle mie conchiglie.
Ma il tuo cuore non lascia più entrare
Alcun mare –O tu!”
(Else Laser-Schüler)
“Ha braccia di corrente trasparente
E tersa, lunga e pallida sul greto
Delle gambe. E’ un ruscello
Dove nuotano i pesci delle orecchie
Dolci, lenti, gemelli,
sotto la superficie fibrata del suo sguardo”
(Valerio Magrelli)
“Pure quanno m’addormo te penzo
Pecché dormo leggiero leggiero
Pe’ chissà te venesse ‘o penzero
‘e te sòsere e correre ccà.
L’ata notte in’ ‘o meglio d’ ‘o suonno
Ca nu zumpo me songo scetato:
me trovavo cu ttico abbracciato.
Era n’ombra…e che vuo’ cchiù durmì!
Ma chell’ombre ca pàreno ‘o vero,
ca se mòveno e fanno remore,
ca respirano e siente ‘o calore
‘e nu sciato ca sciata pe’ tte,
ca respirano e appannan’ ‘e lastre
ca po’ restano overo appannàte.
Comme a dinto ‘a nu cunto d’ ‘e ffate
Tu te ncante e te miette a parlà.
‘Sei venuta?’ ‘E tu nun me vulive?’
‘Neh, guardate! Mò nun te vulevo!
Solamente can un ‘o sapevo
Ca sarisse venuta addu me’.
‘E te siente nu poco sperduto?’
‘Nun me sento né nterra né ncielo’…
Tutto nzieme è scennuto nu velo
E te sento sultanto parlà.
‘Damm’ ‘a mano’, e tu ‘a mano me daie,
e restammo accussì dint’ ‘o scuro.
Cchiù t’astregno cchiù songo sicuro
Ca stu velo cchiù fitto se fa.
‘Isabè’, ma tu nun me rispunne.
‘Isabella!’, e nun sento cchiù ‘a voce,
ma te sento cchiù viva e cchiù doce
quanno ll’ombra t’ ‘a chiamme addu te”
(Eduardo De Filippo)
Piccola rapsodìa erotica
[Immagine Boucher – nudo disteso]
“ Mia cara, la passione che mettevi ieri sera a scomporti meticolosamente davanti a me, la tua confusione, non avrebbero potuto riscuotere maggior successo, fino al punto di ignorare –ed è solo un dettaglio- che il gioco di pazienza dei cento ossi del tuo piede spiccava a meraviglia sul velluto del tuo intestino” (Bellmer, 2001, 50)
“C’è silenzio, e tepore
In questa romita stanza ov’io ti attendo,
e una purpurea rosa,
già stanca, sul ciglio di languire,
anch’essa ansiosa del tuo bruno sguardo,
così tenera è l’ora
ch’io mi trasmuto in taciturna grazia,
mite rosa,
tepore sulle palpebre, carezza d’ombra”
(Sibilla Aleramo)
La poetica della penombra dischiude le lacrime di un Eros crepuscolare, ripiegato e estenuato, febbricitante di desideri oscuri e tumidi. Così respira ore tenere e umbratili, piegato sui suoi Cahiers, Jöe Bousquet, lo scrittore “spezzato” (perchè paralizzato da una scheggia di granata a soli vent’anni), alla ricerca della sua “trasmutazione” amorosa, della sua “metamorfosi androginale”.
Come emigrare dentro il corpo femminile, come scendere grado a grado nella “notte di fonte”, minerale e organica, che il suo stesso corpo reciso gli offre, notte spalancata e inerte come un sarcofago, affinchè in essa, in quella cavità soffusa d’’”Oltre-nero”, si realizzi la reintegrazione all’essere?
(Il poeta gnostico, figlio della caduta organica della ferita inferta dal campo di battaglia, ma anche interprete di una caduta più radicale, originaria, cercava nelle foto di Germaine il riscatto dalla condizione di esule e reietto, entità fratturata nel pulviscolo celeste. Il suo corpo giovane e nudo, e, in particolare, il suo deretano mirabile…)
Eccolo, il poeta, mentre ammaestra la sua giovane eletta, la piccola Germaine il cui nome ha tramutato nel linguaggio materico, floreale, immaginifico, nella fluida lucentezza d’un Poisson d’Or: La incoraggia a condividere il misterioso senso della diffusione e della dissoluzione necessaria per generare l’integrità e la totalità agognata: “Je me sens vivre dans tes entrailles, come si tes souvenirs avaient lentement introduit mon âme dans tout la profondeur de ta chair. De même, je te porte en moi: à chaque battement de mon coeur, mon corps se traverse de la blancheur du tien, une flamme me parcourt. Ta bouche est dans mes lèvres, ta voix est le trésor de ma voix. Ton être est dans le mienne et si tu étais là, si je me faisais une révélation de ton corps, si je le pressais sur moi, je ne ferais que me pénétrer davantage de cette âme à ton image qui brûle au-dedans de moi” (Bousquet, 1967, 90).
“Mi sento vivere nelle tue viscere, come se i tuoi ricordi avessero lentamente infuso la mia anima della profondità della tua carne...”. Jöe si impegna a rendere “femme par le coeur” la sua piccola Germaine, conscio com’ è che la fisiologia sottile del cuore è quella che apre la via luminosa dell’immaginazione creatrice, la sola forma d’immaginazione capace di assicurare la guarigione dei mondi (dei corpi), la complexio oppositorum tra i lembi lacerati del cosmo di cui la piaga che gli affligge le vertebre è il sigillo e al tempo stesso la soglia. Passio sympathetica…
“ Nello stesso modo io ti porto in me: a ogni battito del mio cuore, il mio corpo è attraversato dal candore del tuo, una fiamma mi percorre...”.Bousquet è l’agente chimico dallo sguardo crepuscolare capace di secernere dentro di sé la donna, dalle profondità telluriche della sua “notte tiepida” e generativa. Bousquet strappa alle sue viscere la “femme au fond de mon être”, frutto della rinuncia durata e insistita alla condizione egoica, alla destituzione di ogni possesso, di ogni dominio. Proprio la rinuncia alla disponibilità del mondo come strumento rende il poeta chiave del ricongiungimento, una riconnessione carnale che si innerva dal fondo delle sue “entrailles”. In lui rinviene, come Ofelia dal fondo delle acque, la femme profonde, la donna nascosta.
“Il tuo essere è nel mio e se tu fossi qui, se mi facessi una rivelazione del tuo corpo, se lo premessi sul mio, io non farei che penetrarmi ancor più di quest’anima a tua immagine che brucia dentro di me.” Occorre uno sguardo capace di riversarsi dentro la cavità del corpo femminile per ritrarne la “conoscenza della sera”, quella che sottrae e risitua e che, come la vibrazione che squarcia il tessuto compatto del ghiacciaio, ne dischiude progressivamente la fenditura. “Avevo bisogno di oscurare in me stesso tutta la mia realtà d’uomo, di stringerla in fondo al mio sguardo, per non rinascere se non come una pietra preziosa in cui cullare in lei tutta la profondità da cui il mio sguardo mi ha sottratto, immergermi nella mia carne come in una notte dove il mio amore avrebbe avuto tutto il mio essere per trasparenza e si sarebbe risvegliato in fondo alla rugiada.” (Bousquet, 2000, 141)
La dissoluzione della coscienza frontale, diretta, la coscienza che da sempre nomina e domina il mondo, apre la via alla rinascita dell’uomo come materia, come zolla di terra in cui ammirare e venerare l’epifanìa della donna sommersa. Allo stesso modo l’uomo diffuso scopre, nella cavità iridata della meditazione così prossima di Roger Caillois, la provvisorietà di cui è fatto dinanzi al mistero perfetto di una pietra al cui interno riluca una polla d’acqua: “il vivente che la guarda comprende che egli non è, in sé, né così duraturo né così stabile. Né così agile né così puro. Si riconosce privo di gioia all’estremità di un altro impero, e improvvisamente straniero all’universo: un intruso attonito. Io mi figuro che meditazioni, per ossessione personale, che rêverie vaghe per lo meno, un viandante del mondo possa cominciare ad alimentare a partire da questi ciottoli infiltrati di liquore, da un poco d’acqua rimasta prigioniera nella tasca trasparente di una pietra ermetica” (Caillois, 1966, 65).
E non è forse così? Non è il corpo rientrato nella sua carne, come un guanto che si rivolta nelle sue profondità, il vaso ermetico in cui si consuma il riattingimento della primordiale benedizione di un senso di unione profonda con la natura femminile, corpo, terra, acqua da cui da sempre la visione eretta ci priva? La contemplazione assorta e perfettamente immaginaria del posteriore femminile e della sua luminosa fenditura è la via di una nuova gnosi: “c’era una sorta di voragine per i miei occhi nello splendore di quella carne in cui essi penetravano per sognarvi la mia carne e scoprirle un’aurora in un albero di freschezza dal cui stordimento non poteva riprendersi. E’ molto semplice: così curvata verso terra e dominata dallo splendente frutto del suo culo, scopriva in fondo al mio sguardo un precipizio nel quale sarei precipitato” (Bousquet, 2000, 145).
Bousquet è il poeta –Artifex di questa ricerca filosofale- che realizza nel mondo immaginale della sodomia, attraverso la penetrazione virtuale dell’intestino femminile, la realizzazione dell’abbraccio sotterraneo con l’essere. Proprio in virtù di questa copula, egli celebra le nozze dei poli, celeste e uranico, del cui senso ogni erotica ha mantenuto i lembi separati per poi avvertirne la dirompente nostalgìa: “il passaggio degli amanti per l’abisso della degradazione e dell’abiezione che rappresentano le sostanze fecali, feccia della materia, è in virtù della legge di sostituzione dei contrari e del ritorno ciclico, la condizione del loro accesso alla purezza primaria della Materia, che risplende nell’Essere” (Bhattacharya, 1998, 160).
Questo cataro dal corpo interrato, inumato, offeso, il poeta che raccoglie nella fossa notturna una lungimiranza e una sete d’infinito, è magister dell’iniziazione ad una sessualità poetica che rinsalda oscenità e illuminazione, come in ogni autentica opera alchemica. La generosità della compagna, che non casualmente Bousquet interpreta sotto il segno della “carità”, permette le nozze cosmiche, lo ierogamos: “Così mi legavo in lei al mio seno materno, mi immergevo in lei nella materia della mia carne e mescolavo la mia saliva e il sole prigioniero della voce alla profondità organica da cui ero uscito. Mi accecavo” (Bousquet, 2000, 153).
Quasi per analogìa l’impressione sospesa che uno sguardo può rapire alla luna che trafigge le fronde dell’albero nella notte che incalza alla finestra, questa piccola traccia che l’amplesso delle cose incide sulla superficie iridante della pupilla, può trasmutarsi nel gesto magico della rêverie poetica, manifestazione concisa e inafferrabile delle nozze cosmiche:
“Une mer bouge autour du monde
L’arbre et son ombre en sont venus
Ravir à des doigts inconnus
La faux qui luit dans l’eau profonde” (Bousquet, 1998, 82)
Forse allora che la conoscenza della sera è proprio quella dischiusa nel coito immaginale dell’ombra e della luce, della perfetta rotondità del culo e del volto che s’interpenetrano in una gnosi che risarcisce la materia della sua minorità ontologica? Riunione finale delle due afroditi, in cui alle spalle dell’una, che volge le terga allo sguardo del piacere, si leva il sorriso dell’altra divina fanciulla?
“Il culo è metafora dell’apertura al cosmo” (Marchetti, 2000, 258). Lo sguardo trasfigura la carne in mitofanìa, è uno sguardo mitopoietico che legge ogni particolare del corpo femminile come analogon della natura. Lo dice lo stesso Bousquet, definendo questo effetto “alchimia del riflesso”: “esiste uno stretto rapporto – messo in evidenza nel desiderio – tra la forma esteriore del corpo percepito e la curvatura interiore delle viscere e dei loro supporti: seni, natiche, globi oculari, testicoli, lobi cervicali, curvatura interna del cranio, e questo rapporto implica delle analogie con il profilo del pianeta, dal momento che sottende delle somiglianze con le stratificazioni minerali e la distribuzione nel corpo degli elementi nobili e degli elementi d’escrezione. Occorre introdurre una nozione della forma, ci permetterebbe di percorrere nel corpo tutti i settori del desiderio, costituendovi la mappa del firmamento fisiologico e delle sue case” (Bousquet, in Marchetti, 2000, 252). Sarà questa mappa a rifornire l’immaginario particolareggiato e inquietante di Hans Bellmer.
La geografia carnale e intracorporale replica il corpo del mondo in una singolare riedizione del rapporto sottile tra microcosmo e macrocosmo, in una sorta di organologia o di riapparizione del corpo flebotomico dell’amore. Ma qui a dettare l’analogìa è l’anelito del desiderio che salda nella forma immaginativo-simbolica la mappa di un cosmo riconciliato all’insegna dell’androgino.
La celebrazione poetica del culo feminile rimedia all’inaccessibilità dell’altro irriducibile: “proprio il culo è il simbolo dell’insondabilità, l’accesso all’inaccessibile” (Marchetti, 2000, 258). Singolare rievocazione ontocosmologica della predilezione sadiana, rivolta però nel caso di Donatien Alphonse alla perfetta uniformazione delle fonti del piacere, facendo della pelle femminile e maschile un’unica grande superficie “penetrabile”.
L’opera inattuale e vertiginosa di Bousquet, il poeta sprofondato nella penombra e proprio per questo portatore d’elisir, del filo per rammendare la frattura, per immaginare una “sutura”, raggiunge il culmine della sua mistica e della sua alchimia onirica probabilmente proprio nella erotica del Cahier noir ed è alla luce di essa che la corrispondenza con Germaine e con Ginette acquista il peso che merita, come lezione estrema sulla terapia d’amore: “Penetrarti di me è impregnarti tutta del tuo stesso sguardo che mi dona a te, assorbirti nel ricordo delle nostre parole e della mia voce e, per questo, fare di ciascuno dei tuoi sensi un’anima profonda, intatta, di cui il tuo corpo sarà il sogno” (Bousquet, 1967, 90).
“Vuoi che domani sistemiamo il cappello con i tulipani neri del tuo utero e proviamo stavolta a sollevare la pelle a partire dal sedere lungo la schiena fino a velarti tutta la faccia, tranne il sorriso?”(Bellmer, 2001, 50)
Eros magister
Eros è atteso. Sempre e comunque. Accendendo una speciale attenzione, tentando di penetrare nei brevi momenti di silenzio che si incuneano perfino nella rumorosità fiacca di un’aula scolastica a inizio lezione, una sensibilità avvertita può riconoscerne il debole richiamo. Proprio lì, nel luogo che sembra averlo fugato per sempre, nell’ossario che ha prosciugato ogni traccia di desiderio, specie il desiderio che può essere suscitato dal profumo del sapere, proprio lì una traccia persiste.
E in realtà occorrerebbero piccoli gesti per rianimarlo, per richiamarlo almeno a manifestarsi, anche se in maniera ancora ottusa e lenta, come un malato convalescente, di fronte alla curiosità improvvisamente trepida di un corpo collettivo di giovani stupefatti.
L’ Eros fuggito e bandito da tanto tempo, e pervicacemente, attraverso una successione di atti inequivocabile e zelante, come l’arringa dell’inquisitore. Da secoli si piange la morte di Pan, ma da meno tempo e con non minore violenza si perpetra l’omicidio progressivo e silenzioso di Eros nei luoghi dove aveva soggiornato a lungo: Templi, Ginnasi, luoghi dell’esercizio tenace e un po’ morboso dell’inquieta ricerca, dove si desidera ricercare e dove chi ricerca al tempo stesso si desidera.
L’Eros fuggito dai testi e dalle scritture, seviziato dal tono estenuato e inaridito dei ripetitori e dei dotti insipienti. L’Eros strangolato dalle ferite aperte nel corpo integro della Cultura ancora viva dai suoi sviluppi infausti in feretri disciplinari, in specializzazioni e in disperate orge classificatorie, prive anche del fascino indiscreto di un “teatro della memoria” o di un ordine di segnature.
Potrebbe forse risiedere una traccia di Eros, il dio che accende i legami e intima la manifestazione al nucleo latente del molteplice, il demone che irradia dei suoi vapori sanguigni la corteccia minerale delle parole, che allaga la mente con la propulsione irrefrenabile di una fisiologia che ha per centro il cuore e per orizzonte l’infinito,- nei manuali delle “scienze”, nei protocolli didattici, nella prosa prosciugata dei sussidiari?
Come non rimanere sconvolti, ma ancor più tramortiti, dal clima perpetuamente annoiato e disperato che si respira negli ambienti dell’insegnamento, solo a tratti ravvivato da qualche insolenza, da qualche trasgressione, da qualche gesto inatteso e fuorviato? Come d’altra parte non smarrire la propria originaria speranza di fronte all’impero di un regime frantumatore di ogni forma di legame, di desiderio, di simpatìa nell’organismo ormai macchinizzato dell’istituzione educativa?
La forma degli edifici evoca con la nettezza di un’analogìa implacabile la torsione violenta che ha trasformato un sapere integro e plurale in un’alveare di scomparti e di camere stagne, che ha insinuato il suo veleno cancerogeno nella interiorità integra che rendeva ogni sporgenza di bellezza la fluorescenza di un immenso organismo, una carne proteiforme, dai mille volti.
Le scuole, le Università, ma ancor più i libri, le disposizioni delle aule, le biblioteche, tutto è stato plasmato irreparabilmente dalla figura mortifera di un’organizzazione separatrice e sterminatrice della materia unitaria dell’esperienza e del sapere vivente che lo riguardava.
Le Università moderne, ma non meno le scuole, nell’apparente alleggerimento delle strutture, come simulacri aerodinamici della loro stessa deriva, esibiscono con ancor maggior disinibizione la vergogna dell’inscatolamento cui l’evoluzione enciclopedica ed illuministica dei saperi ha dato luogo. Nulla più respira né in un’aula scolastica, né in una Biblioteca, men che meno in un Museo, cui neppure la respirazione artificiale di qualche percorso per l’infanzia può porre rimedio.
Il delitto è stato compiuto e ogni giorno la cancrena si allarga. La microspecializzazione si rafforza e dilaga e l’insegnamento diventa un processo di sempre maggior ingabbiamento, di imprigionamento in celle sempre più ridotte, senz’aria, senza contatto, senza corpo.
Ricoveri per ossessivi pervertiti, gli istituti di ricerca e di educazione, periscono della lacerazione insistita e caparbia cui il volto del sapere è stato implacabilmente sottoposto, e con esso tutti i suoi sigilli, le sue forme, i suoi luoghi e i suoi devoti.
Come appassionare i cuori ancora pulsanti e rare volte ancora ispirati, laddove qualcosa di questa attitudine sopravviva, degli aspiranti cercatori, a un corpo morto, anatomizzato, fatto a pezzi e surgelato?
Alla grande fame di materia vivente, di smisurate forme di legame all’interno di un organismo molteplice e febbricitante quale potrebbe ancora essere quello dell’esperienza del mondo e della sua rappresentazione così come ad esempio ancora tenta qualche volta di restituirla un poeta, o la spiritualità incosciente di un matematico infuocato di assoluto, o la confessione ispirata di un filosofo o di un’anacoreta impazzito, a questa grande fame cosa si offre se non porzioni monodose di un alimento ghiacciato o liofilizzato?
Eppure l’Eros è atteso, ancora, e chi ha pazienza e desiderio di intercettarne il respiro un po’ ansante sotto il velo opaco del rumore quotidiano e disturbante di uno spazio di educazione, ma anche di uno spazio di lavoro, e persino di uno spazio affettivo, può udirlo a farsene ancora ammaestrare e farsene ancora ispirare. Ancora.
“O voi così tenere a volte entrate
Nel respiro che di voi non dice,
lasciatelo dividersi sulle vostre guance,
vibrar dietro di voi, nuovamente unito.
O voi beate, o voi intatte, o voi
Che sembrate del cuore il primo inizio.
Archi di frecce e bersaglio di frecce,
più eterno splende in voi pianto sorriso.
Non temete il patire, quel peso
Rendete alla gravità della terra.
Pesanti sono i monti, pesanti i mari.
Anche gli alberi da voi nell’infanzia
radicati divenuti son da troppo tempo
grevi; non li reggete. Ma l’aria…Ma gli spazi…
(Rilke)
[immagine di Balthus: “I bei giorni”]
A che cosa allude Balthus nella figurazione ripetuta e sospesa, in quell’immobilità che è l’ “illuminazione all’estremità dell’attesa”, come dice finemente Bonnefoy (1982, 51), una improvvisa cristallizzazione delle forme nel silenzio e nella pace, del corpo androgino dei suoi soggetti, quel “corpo reso già muscoloso dal gioco, (che) ha lasciato le pieghe e le rotondità dell’infanzia, ma non si è ancora sottomesso alla differenziazione sessuale che ne accentuerà diversamente le proporzioni”? (Clair, 1999, 35). Una “pienezza sensibile” che possiede la grazia dell’attimo e la sua caducità. Una caducità tanto più affermata nella sua vulnerabilità e nel suo travagliato attingimento dall’apparizione frequente di fantasmi notturni e di figure mostruose e tentatrici. Una grazia perfetta, rapita nel punto in cui l’infanzia si dissolve e l’adulto deve ancora apparire, punto di giunzione impossibile di cui la “nascita dei seni”, “la presenza nuda, esposta e assai lontana da ogni linguaggio, dell’elevazione stessa in sé semplicemente compiuta, acquietata, d’un peso leggero e immobile”, sigilla la sottile soglia.(Nancy, 2006, 11).
Molti i ritratti di fanciulle allo specchio, in Balthus. Specchio come calice dell’immaginario se è vero che ogni cognizione del mondo per l’anima separata dal divino pleroma può essere attinta solo nello specchio di materia trasparente che l’immaginale rinvia alla vista umana, ma anche simbolo orfico e dionisiaco che risorge costantemente come scenario e come monito nei sonetti a Orfeo di Rilke. Lo specchio impugnato da Dioniso in virtù del quale soltanto il mondo ci è dato. E’ nello specchio di Dioniso che noi possiamo assaporare il fulgore delle cose, che ci si rivela per quello che è: pura illusione, tragica e comica reversibilità di termini. Ed è d’altra parte proprio in quello specchio che lo stesso Dioniso è attratto ludicamente dai Titani affinchè, distratto, possa essere catturato e fatto a pezzi.
Allora: “I sonetti a Orfeo di Rilke sono il grande poema della conoscenza umana che sa di non poter attingere al vero e all’immortale. Sono il poema dell’uomo destinato alla morte e al congedo che pure vive e dice l’esultanza e l’euforia dei sensi toccati dagli oggetti…”(Lavagetto, 1995, II, 698). Tra estasi e abisso sembra librarsi la prospettiva orfica dell’amore e farne armonia.
E’ pittura orfica anche quella di Balthus, tuffata nell’alveo destinale dell’arte moderna, che secondo Jean Clair è impregnata da un’ irriducibile Trauerarbeit: dopo il dissolvimento della sua potenza evocativa e teurgica, quello che conduceva il contemplante a inginocchiarsi, Hegel dixit, all’arte non resta che celebrare il perpetuo lutto, la perpetua e melanconica nostalgia del sacro e dell’ultimo. In tal modo in essa si potrebbe allora finire, perversamente, per “lasciare cadere” infinitamente, come il nichilista descritto da Nietzsche, e accanirsi a “uccidere il morto”, idealizzando l’orrore per anestetizzare meglio il senso della perdita. O, diversamente, alternativamente, come Balthus, insistere nello “sforzo incessante della malinconia” (Clair, 1999, 32), volgersi verso la “cultura dell’incompiutezza”, e allora quale incompiutezza, quale smarrimento inciso nella carne più sensibile dell’incompiutezza dell’infanzia, sempre abbandonata, sempre tradita dall’incedere irrefrenabile del divenire?
Balthus, come solo appena diversamente Rilke, con cui condivise forse non per caso il ludus di “Mitsou”, persiste nella custodia affettuosa e sorvegliata di questo transito, insiste a celebrare “l’incompiutezza infinita dell’infanzia” sul punto di sfaldarsi, cercando di coglierla nell’attimo di grazia in cui si accende nella “pienezza” inconcepibile della pubertà e dell’Eros.
Allo stesso modo le fanciulle di Rilke appaiono affaccendate a filare e riconnettere la trama smagliata e smarrita dell’essere. La Kore delle Elegie è la reviviscenza della ninfa della fonte dipinta da Cranach, custode del silenzio e del passaggio dall’altra parte del mondo. Parente della Klage, della Lamentazione che condurrà infine il giovane della Decima Elegia all’ “Aperto”, alla sua destinazione. Anche in Rilke è la mediazione femminile che può realizzare il compito trasmutativo e celebrare le nozze alchemiche tra l’uomo e la natura ormai disertata. Così la sua Saffo: “quando sapeva che con l’unione non si può intendere null’altro che una crescita di solitudine; quando, con il suo scopo infinito, spezzava il fine temporale del sesso. Quando nel buio degli abbracci non scendeva a dissotterrare l’acquietamento ma il desiderio. Quando disprezzava che di due uno fosse l’amante e uno l’amato, e le deboli amate che si portava nel letto le incendiava con se stessa in amanti, che la lasciavano. In tali addii il suo cuore diveniva Natura” (Rilke, in Jesi, 1976, 107).
La donna, che è “spossessata”, non presa nel vortice dell’agire, è l’agente del dissolvimento. Proprio in quanto figura del non-possesso può intercedere nel fenomeno della dissoluzione dei legami materiali e intervenire come “Natura” nell’essere degli uomini e del cosmo. Le donne, nell’immaginario rilkiano, ma non meno in quello balthusiano, sono le figure che consentono di trapassare nell’invisibile. Non affermatrici, non pro-duttrici, le figure consegnate al fascino della seduzione inesauribile, che è il proprio del femminile, dischiudono la trasmutazione poetica del mondo.
Nella fanciulla del pittore la solidità pierfranceschiana delle forme dischiude la consapevolezza tragica del dissolvimento. Ma, a differenza di Rilke, la Kore di Balthus, assorta in sé stessa, in special modo laddove è immersa nell’autocontemplazione allo specchio, rivela il carattere sacro e trasgressivo insieme, letteralmente inattingibile, di profondissima superficialità, che connota l’apparire sensibile del femminile. Essa appare simultaneamente come ierofanìa, e come avvento del “fascinosum”, buco al centro dell’essere che risucchia il desiderio, se il desiderio è proprio, come suggerisce Baudrillard, vestito del segreto e del suo esoterismo: “la bellezza assorbita dalla mera cura che ha di sé stessa è immediatamente contagiosa perché, quando è all’eccesso, è privata di sé; e ogni cosa privata di sé piomba nel segreto e assorbe ciò che la circonda. L’attrazione esercitata dal vuoto è alla base della seduzione…” (Baudrillard, 1980, 109). Come, seppur differentemente in Bonnard, che sfrutta all’infinito il tema lustrale della giovane donna alla toeletta, lo specchio di Balthus fa della presenza femminile un’epifanìa dell’assoluto, una conferma della consistenza sensibile di ciò che resta pur sempre inappropriabile, e proprio per questo fonte di desiderio: “il riflesso dello specchio qui non infirma né deforma la realtà, ma la conferma; si apre sulla superficie del quadro come un occhio dall’acqua più pura” (Clair, 1999, 53). E in quest’occhio, come se fosse l’occhio che fa risplendere tutto il narcisismo della natura, quello che Bachelard indovinava nella superfici inebriata dello specchio lacustre in una sorta di “catottromanzìa naturale” (Bachelard, 1987, 28), il femminile celebra l’epifanìa erotica della lontananza.
Le fanciulle di Rilke e di Balthus richiamano nel luogo in cui Eros muove nella direzione dell’invisibile e della sottrazione: figure sospese sulla soglia del dissolvimento esse sono anche le Vestali di un’iniziazione. L’iniziazione alla costitutiva incompiutezza dell’esperienza sensibile, all’incontro, segnato dalla nostalgìa e dalla malinconìa, con il destino della separatezza.
Manifestazione figurale della valle d’anima dell’essere, quella che l’affaccendarsi del concetto e la presa del discorso avvertono delusivamente in fuga, le Kore di Balthus e di Rilke appaiono segnare la provincia dell’Eros come sviamento dalla postura predatoria dello sguardo e simultaneamente come riaccasamento oltre le ingiunzioni del Senso e del Logos.
Esse appaiono intatte e beate nelle parole del poeta, ma anche figure della beanza che induce stupore e perdita nella tela del pittore.
Si sa di loro che sono come frecce infuocate e che il loro divampare è imprevedibile, forse ineludibile, ma ad esse si rivolge il poeta per somministrare la benedizione del patire in chi ne sa portare fin dall’infanzia la vocazione come un compito sovrano e ineccepibile. Figura d’infanzia è la fanciulla nuda di Balthus, mentre s’avvia a deporre l’asciugamano, come quella riversa sulla poltrona della Chambre, o ancora la Kore violata (forse) con il coltello scivolato dalla mano. Perfetta e quieta, intensa come una lampada incandescente, enigmatica nel suo infinito ritrarsi (alla comprensione). Tra le mani il devoto specchio. Figura d’infanzia assorbita nel suo punto di scomparsa, specchio, vortice, enigma, fuga di prospettiva, ognuna delle giovani ninfe fa apparire sensibile tutta l’ermetica iraggiungibilità di Eros, il suo sconfinare, il suo luogo perfettamente utopico, prossimo al dssolivimento che sembra avvolgerlo della sua aura.
Presenza ossimorica che si nega donandosi, presenza che retrocede ogni qual volta la si desidera, all’insegna di quell’amor negativo che sembra incombere come una maledizione sull’emisfero d’Occidente.
Intatta, beata, sottratta, regina di un non-luogo in cui giace per sempre perduta, la più tenera e fuggitiva. La cui sorte o deriva di prigionìa, o meglio d’esilio, sembra segnata.
Amor mortis
“Come in ogni bacio
Fosse d’addio,
mia Cloe, baciamoci amando.
Che forse già si posa
sulla nostra spalla la mano che chiama
alla barca che non viene se non vuota;
e che in un solo fascio
lega ciò che l’uno per l’altro fummo
all’altrui somma universale della vita”
(Pessoa)
Che Freud abbia dovuto rilevare la presenza di una potentissima pulsione di morte accanto alla libido, di certo non stupisce così come non stupisce che Lacan abbia poi fatto di questa pulsione l’unico autentico contenuto del desiderio, della sua impossibilità, della sua ribellione ad ogni ordine, in particolare a quello del linguaggio.
Succubi due volte, del desiderio e della morte che in esso riposa come la mummia dentro il suo sarcofago. De Rougemont ci ha fatto avvertiti che tutta la mitologia della passione in Occidente è tramata nell’oscuro abbraccio di amore e morte, di cui la verità mistica in trasparenza non fa che confermare la sentenza: di quest’ultima si sa che ogni volta indirizza all’annientamento di Sé (seppure per rinascere in Novam Infantiam).
Ogni estasi è mistica e ogni estasi è una morte –mors osculi per Pico- mediata dal bacio, come nel poema appena citato di Pessoa. Con il bacio si dà la sentenza di morte a Gesù e il bacio è il veicolo del Male, inteso come oscuramento dei pilastri della Legge, ragione e sopravvivenza, come ben sottolinea Bataille nella sua radicale esplorazione della trama misteriosa e tragica dell’erotismo.
Anche per Bataille la posta in gioco, nelle pagine mirabili che dedica al romanzo della Bronte, è la rinascita al “regno dell’infanzia”, quel regno dell’infanzia che Heathcliff e Catherine hanno condiviso e perduto, salvo ritrovarlo nella sua vera essenza: il godimento dell’istante e il desiderio di morte, l’autentico scacco di ogni “episteme”, chioserebbe Lacan. Figure dell’immaginario, non a caso, simboli della sacralità dell’atto amoroso, della sua trasgressività sacra, poiché non c’è amore senza profanazione, senza lacerazione.
Eppure è proprio la morte, la morte della vittima a ripristinare la totalità, che è di fatto l’epifania del sacro. Bataille sembra in questo un bizzarro alleato di Aristofane, l’Aristofane dagli uomini mitici umoristicamente figurati come sfere (che tanto ripugnavano a Lacan, certo non per caso), che vide, nella finzione platonica, l’erotismo come atto di riconquista della totalità ad opera dell’essere frammentario. “Fondamento dell’effusione sessuale è la negazione dell’isolamento dell’io, che conosce il pieno soddisfacimento soltanto estenuandosi, oltrepassando sé stesso nell’abbraccio in cui la solitudine dell’essere si perde. Che si tratti di erotismo puro (amore-passione) o di sensualità fisica, l’intensità è tanto più grande quanto più si manifestano la distruzione e la morte dell’essere” (Bataille, 1973, 15).
Profonda implicazione di morte, che fa dell’amante una vittima virtuale e dell’amato la sua forca. E del gesto amoroso un sacrificio, consacrato: “il sacro è esattamente la totalità dell’essere rivelato a coloro che in un rito solenne contemplano la morte di un essere frammentato” (Bataille, 1986, 80).
“Passione della notte”, definisce la tragedia del Tristano Karl Jaspers (in Bonardel, 1993, 224). De Rougemont è più violento: “il terzo atto del dramma di Wagner descrive ben più che una catastrofe romanzesca: descrive la catastrofe essenziale del nostro sadico temperamento, questa smania repressa di morte, questo gusto di sperimentarsi nel limite, dell’urto rivelatore che è senza dubbio la più inestirpabile fra le radici dell’istinto della guerra che portiamo in noi” (De Rougemont, 1993, 96).
Eppure questa passione è anche l’effetto dell’aver scelto la “sovranità”, come la chiama Bataille, dell’istante, l’istante che infrangendo la regola delle separazioni vota sì alla morte ma anche all’estremo atto di ricongiunzione, di “fusione cosmica”, così esplicitamente solennizzati dal moto ondoso, dalle spirali crescenti e dalla deflagrazione di masse di materia sonora nella musica struggente che Wagner crea per siglare il canto di Isotta sulla salma di Tristano in riva al mare.
L’amore, come ripete Jaspers, è davvero “l’oscura negazione di ogni manifestazione”, è questa la posta in gioco dell’autentica vertigine erotica?
“La “Passione della notte” è qui, come in Novalis, rivendicazione di un mondo altro, ossia dell’Altro dal mondo (la morte), in cui assaporare l’annientamento finale di ogni “mondo” (Bonardel,1993, 224). Come dice perentoriamente Bataille “l’erotismo ha, fondamentalmente, il senso della morte” (1986, 241). Ma qui, per il filosofo francese, si afferma la logica sovrana dell’eccesso e della trasgressione che realizza l’effusione nell’essere. Attrazione inesorabile del Nirvana che si cela appena dietro il volto promettente di vita di ogni libido? Si tratta di un movimento paradossale, sovversione dell’ordine del principio vitale, oscurato dalla inclinazione verso la Ding di cui parla Lacan, l’oggetto piccolo “a”, che ci attrae inesorabilmente e cui si cerca di opporre la resistenza del significante: “esiste una sfera in cui la morte non significa più soltanto la scomparsa, ma anche l’intollerabile movimento in cui noi scompariamo nostro malgrado, mentre a ogni costo sarebbe necessario non scomparire. E’ proprio questo a ogni costo, è proprio questo nostro malgrado a contraddistinguere il momento dell’estrema gioia e dell’estasi ineffabile e meravigliosa” (247), Proprio come nei mistici, che anche per De Rougemont sono gli autentici ispiratori dell’amore cortese come di quello romantico che segna l’Occidente fino a nostri giorni.
Nei rapimenti mistici si tratta infatti, secondo la descrizione di Bataille, di un “distacco rispetto alla conservazione della vita, dell’indifferenza a tutto ciò che tende a garantirla, dell’angoscia provata in queste condizioni fino al momento in cui le facoltà dell’essere crollano, e infine dell’apertura a quel movimento immediato della vita che abitualmente viene soffocato, e che si libera all’improvviso nello straripamento di un’infinita gioia di essere” (.229).
Così per Lacan l’amore è desiderio dell’altro, ma di un altro che ci riconosca secondo la lezione hegeliana, amore di riconoscimento, desiderio di essere desiderato, dove infine quello dilegua, diventa pretesto, puro oggetto immaginario e al suo posto trionfa la morte. E’ il “Convitato di pietra” che viene a vedere, come alle carte, se il nostro desiderio è sostenuto da una qualche forma di referenzialità o si affaccia sull’abisso del vuoto.
Ma forse si potrebbe pensare la morte come il traguardo gratuito del gioco distruttivo che la seduzione erotica impone ai partner della sua scena. Ancora un a volta, secondo la lettura suggestiva che Baudrillard propone dell’ Impero dei sensi, film votato a rovesciare le logica del godimento in quella della seduzione, sarebbe il femminile a farsi vettore della spinta vertiginosa, e in pura dépense, del morire: “è la logica della sfida, il cui impulso nasce da un gioco al rialzo tra i due contendenti. Più precisamente, la vicenda essenziale è il passaggio da una logica del piacere, che è quella dell’inizio del film, dove l’uomo conduce il gioco, a una logica della sfida e della morte, che si crea sotto l’impulso della donna –ella diventa padrona del gioco, mentre prima era soltanto oggetto del sesso” (Baud. 1980, 66). Così lo sviluppo mortale della tensione sessuale apparterrebbe alla dimensione agonistica del teatro seduttivo e illusionistico dell’Eros, in cui si dissolverebbe la sua presunta finalità performativa e produttiva: qui “l’atto sessuale è visto come un atto rituale, di cerimonia e di guerra, di cui la morte è la conclusione obbligata (come le tragedie antiche sul tema dell’incesto), la forma emblematica del compimento della sfida” (66-67).
La morte ritroverebbe così il suo spazio nella simbolica erotica non come destino ineluttabile di una coazione distruttiva inscritta in una problematica tradizione che legge la vita e la morte come polarità antagonistiche, bensì come riuscita dépense, come accesso ritualizzato al più elevato dono che il femminile, come memoria di una prospettiva ludica e improduttiva dell’amore, imporrebbe alla giostra agonale degli amanti. Dissolvimento finale di cui Sade, impareggiabilmente, ci ha consegnato il cospicuo e probabilmente definitivo atlante.
La morte e la fanciulla
“Sì, per me, per me sola, io fiorisco, deserta!
Voi lo sapete, fiori d’ametista, celati
Senza fine in abissi sapienti ed abbagliati,
ori ignoti, il cui lume millenario s’adima
sotto l’oscuro sonno di qualche terra prima,
voi, pietre, onde i miei occhi, come puri gioielli,
prendon la loro chiarezza melodiosa, e voi belli,
voi lucidi metalli, che alle mie chiome in fiore
date un peso massiccio e un fatale splendore!”
(Mallarmè)
[immagine Delvaux “le fasi della luna”]
L’algida sovranità dell’Erodiade mallarmeana pare viatico adeguato per ripensare brevemente un altro e bizzarro accostarsi di amore e morte questa volta nell’opera inattuale e ipnotica di Paul Delvaux. L’accostamento ossessivo della bellezza femminile esposta nella sua folgorante nudità e nell’impenetrabilità del suo silenzio con le forme ossificate del paesaggio, della città e di un universo ingombro delle suppellettili della civiltà e delle sue scienze e tecniche produce uno stridore allo stesso tempo fragoroso e immoto, come lubrificato da una remota armonia. Vi si respira un’atmosfera incantata, ma di un incanto raggelato, come se la perfetta incisione delle forme archetipe del tempo, in particolare le vestigia della classicità, fossero il teatro desueto dell’incontro impossibile tra l’universo dei dispositivi che la ratio umana ha prodotto per dominare la catastrofe del tempo e la perfetta e inossidabile presenza perturbante e inattingibile al tempo stesso di una corporeità e vitalità della natura di cui il femminile appare l’icona.
Guardando “Le fasi della luna”, in particolare la prima versione del 1939: dentro la cornice di un’architettura esangue, un modesto caseggiato a sinistra e una palazzina che sporge il suo terrazzo sulla destra, si aduna una piccola folla di personaggi e d’oggetti illuminati dal chiarore lunare, mentre sullo sfondo un paesaggio desolato al cui centro troneggia la forma di un basso vulcano si dissolve nella foschia.
In primo piano appaiono due uomini vestiti alla moda ottocentesca, presumibilmente il geologo e l’astronomo che compariranno anche nelle versioni successive e in special modo nella terza, quella del ‘42. Il geologo rimira una roccia mentre l’astronomo appare impietrito in un’assorta riflessione: alla sinistra di quest’ultimo un oggetto apparentemente indecifrabile sta poggiato su una cassa. Quest’oggetto, inquadrato in una prospettiva che lo dissimula e lo carica di mistero, si rivela, ad uno studio più accurato, un teschio. Sulla destra, seduta su una sedia nel terrazzo che si affaccia vicino ai due uomini, una donna nuda, un grande fiocco rosa allacciato sul seno, appare serena e rapita in sé stessa, lo sguardo che oltrepassa i due come senza vederli. I personaggi maschili, assorti nella loro osservazione e riflessione, nulla colgono della bellezza folgorante della donna alla loro sinistra, così smaccatamente adornata del fiocco che pare, nella tinta e nelle pieghe, alludere sia alle proprie carni che al suo smisurato potere di donare, di essere “dono”. In fondo al cortile, davanti ad una fitta vegetazione, un giovane seminudo che suona un flauto conduce una processione di giovani donne spogliate, inscenando -il passo lento e l’incedere maestoso delle figure discinte- una sorta di marcia rituale.
Forse che il giovane sia il pittore stesso, come in altre tele è apparso e apparirà, per esempio nella terza versione delle Fasi lunari in cui lo si vede passare rapido a fianco degli scienziati, guardandoli di sfuggita, la tela sotto il braccio, appena incuriosito o forse più che altro indispettito?
Di sicuro la posa seria dei due uomini vestiti, intenta all’osservazione scientifica, così come la presenza del teschio accanto a loro, sembrano indicare la cesura irrimediabile tra il mondo squillante e vitale, desiderabile, che divampa loro vicino e il mondo di morte, macchinico e astratto, di cui essi sembrano portatori.
In effetti essi appaiono, nell’iconografia di Delvaux, figure dell’assenza, dell’oblìo, oblìo della bellezza, oblìo della natura, oblìo e assorbimento cieco in una colpevole distrazione, in un affaccendamento che trascura la carne sfolgorante e superba della passione, un soggetto questo ricorrente in modo quasi ossessivo nelle tele del periodo centrale (1937-45) dell’opera del pittore.
Le sue figure muliebri appaiono ripetutamente, come ad alimentare la percezione di uno smarrimento, di un accecamento tanto più imperdonabile quanto più abbacinante, proprio nel mezzo delle attività egli uomini, dei loro strumenti immobili o in azione, sovranamente inattingibili, sfingiche, mentre intorno ad esse trascorrono tram, treni, mezzi di navigazione, tutta la tecnologia che la civiltà ha posto al servizio del dominio dello spazio e del tempo.
L’astronomo e il geologo, le figure che tentano di controllare la materia sfuggente del cielo e della terra, e dunque di racchiudere in un unico disegno razionale ciò che più appare sottoposto agli influssi inalterabili dei moti celesti, della “fasi della luna”, così come degli abissi della materia, sembrano apparizioni di un teatro dell’assurdo, fuori tempo e fuori luogo, manichini disseppelliti dalla letteratura per l’infanzia
Jean Clair (1998) individua nell’uno il professor Lindenbrock del “Viaggio al centro della terra” di Verne e catapultati, in un raptus di stupore e di impotenza, in un cosmo governato dalla placida sorveglianza di figure femminili che lasciano piovere su di loro uno sguardo mite, ironico e beffardo. Sguardo, il loro, che parla di un’autonomia, di una pienezza che sembra del tutto mancare agli ingessati esponenti di un sapere prosciugato e anacronistico.
Ma chi sono queste donne misteriose, denudate e voluttuose, e quale forma di Eros o forse di Ethos introducono in una pittura così precisa, così minuziosa, e allo stesso tempo così immersa e quasi dissolta dentro a fondali mitici, saturi di simboli, di apparizioni fantastiche e prive di ogni apparente relazione con ciò che le attornia?
Forse, a comprenderlo, può aiutarci questa bella interpretazione di Jean Clair, che sembra aver colto la luce sottile che pervade e permette di penetrare in questo mondo siderato dall’origine e dal sogno: “La donna, presente nei consessi degli studiosi, familiare ai colloqui e alle conversazioni erudite, che si aggira nei corridoi di biblioteche e musei, appare portatrice –ma nell’ignoranza e nell’innocenza del proprio agire- del grande scandalo squisito, quotidiano e sempre ripetuto, della sua nudità. Fra tanti uomini in giacca e pantaloni, nei quali l’abito, nella metamorfosi che passa dallo scheletro allo scorticato fino al corpo, sembra la metamorfosi finale, la conclusione “culturale” di tale metamorfosi, la Donna si ostina a ricordare la presenza della carne e del pelo, di elementi così vicini, banali e familiari, e tuttavia più inquietanti di quanto non sia la faccia della luna all’occhio dell’astronomo. Essa celebra in silenzio il suo mysterium fascinans e il suo mysterium tremendum. Alle false evidenze del mondo intelligibile dell’uomo, oppone l’ostinata persistenza del sensibile.
Infatti tutte queste donne feconde e crinite introducono con la loro presenza un elemento che la pittura non ci aveva affatto abituati a incontrare: il panico, il terrore e la superbia di Pan. Con la “chioma superba” e il “ciuffo ragguardevole” le loro effigi sovrane ci ricordano curiosamente quanto ci diceva Parmenide di questo strano elemento del corpo: il pelo, vestigio di una remota animalità, in cui egli riconosceva la parte più irriducibile dello specifico del sensibile. Se le donne errano, bianche e rosate, fra le figure nere di dottori e scienziati, è soltanto per denunciarne insidiosamente le attività. Si contrappongono al mondo dell’archivio, dell’algebra e della glossa con il loro silenzio inquieto; al minerale e al metallico, con l’inesausto scandalo delle loro carni cedevoli e inafferrabili(…). Evidenti ma riservate, attente ma segrete, queste donne che non parlano aboliscono la Parola” (Clair, 1998, 21-22).
Le donne come monito della natura più profonda e selvatica ma anche come sfida “seduttiva”, per tornare a Baudrillard, contro la quale l’opificio mai dòmo e sempre gravido della produzione e del sapere, del significato, dominato dal Logos e dalla Chiacchiera, si erge, rivelandosi tuttavia ancor più che impotente, perduto e dimentico, fatalmente distratto.
Saggi ipocriti mèntori
“Certo ragazzo, sì, certo, incontriamoci,
ma non aspettarti nulla da questo incontro.
Se mai, una nuova delusione, un nuovo,
vuoto: di quelli che fanno bene
alla dignità narcissica, come un dolore.
A quarant’anni io sono come a diciassette”
(Pasolini)
Appare, il mèntore, a una prima ricognizione, come un patrigno selvatico, ispido, che sottrae il suo pupillo al dominio delle crisalidi tradizionali. La sua genealogia è illustre, e non solo e non tanto per quel solerte e un poco pedante antenato da cui riceve il nome, il figlio di Alcimo, amministratore di Ulisse, camuffamento di Atena, attraverso il quale la dea favorevole all’eroe proteggeva il suo figliolo Telemaco; quanto forse per l’ascendenza a Socrate. Quel Socrate testimoniato soprattutto dall’Alcibiade di Platone. Che fa infiammare di passione il giovane, e che lo rivela a sé stesso, spiegandogli come nel percepire l’anima del suo maestro può scoprire la propria, poiché ciascuna delle loro anime si rispecchia a sua volta nel dio che li possiede ( Platone, 1999a, 133b e sgg.).
Ma la figura elogiata dallo stesso Alcibiade nel Simposio, quando racconta agli astanti la sua integrità e la sua invulnerabilità al fascino della sua stessa bellezza fisica, la sua ricerca di un eros di pura conoscenza, non esaurisce la gamma, talora più ambivalente, talaltra più trasgressiva, della figura del mèntore (Platone, 1999b, 215a e sgg.). E, forse, ne addolcisce troppo, finendo per ridurla ai tratti ben noti del saggio maestro, la carica eversiva e il potere iniziatico.
Il mèntore, tirato insipientemente a lucido nella formazione odierna, circola nel discorso dei pedagoghi con non minor sospetto , e viene giudicato degno di considerazione solo se deterso e disinfettato con una radicale estirpazione di tutte i tratti perturbanti e necessari (erranza, melanconìa, seduttività, mancanza, passione, trasgressione) che lo individuano.
Per assurgere alla categoria di dignitario educativo, deve essere ridotto all’archetipologia ossificata seppur nobilitata del Vecchio Saggio, quando certo sarebbe più corretto pensarlo, sempre che anziano, come un Vecchio Stolto ( Guggenbuhl Craig, 1997).
Egli introduce una differenza di comportamento, di stile comunicativo, di approccio, che si esprime anzitutto nell’elezione di un giovane a discepolo, adepto, partner, un avvicinamento al limite e talvolta anche oltre il limite del consentito, tale da rivelarsi un evento di sovversione indimenticabile per colui che ne diviene oggetto. Un “soggetto amoroso”, una “figura utopica e forse atopica, non inscrivibile in un progetto adattivo nè in un orizzonte predeterminato di significato” (Mottana, 1996, 14). Un personaggio finalmente “inaffidabile”, potente, affascinante, sorprendente, che “soppianta ogni logica di assolutizzazione del valore nell’operare educativo e rende l’educazione stessa un gioco simbolico le cui regole si fanno e si disfano secondo forme istantanee, più legate ai percorsi del consumo che della produzione, del desiderio che del rapporto” (ivi, 15).
In questa figura “barbara”, nel senso antico di questo termine, in questa figura straniera e curiosamente orfana, orfana di cura e di ascolto, si celano un insieme di tratti che rendono conto, più che in altri casi, di cosa sia l’educare, di quale groviglio di elementi spesso contorti e male amalgamati soggiaccia a questo fare che in fin dei conti ben raramente si può tradurre veramente in un mestiere.
Perché il mèntore è l’educatore allo stato puro, l’educatore naîv, se si vuole, ancora non dominato dai meccanismi di riduzione e di esclusione che la pratica istituzionale gli riserva. O piuttosto è colui che da questi meccanismi è deragliato, frequentemente. Maestro che non ammestra, prete che non catechizza, istitutore che non istituisce. Ma che, in quest’ultimo caso, re-stituisce. Restituisce al libero gioco dello scambio, del dispendio, del dono, all’interno certo di una impari parità, poiché disequilibrata dalla sempre denunciata differenza di età, differenza che tuttavia si fa propizia al divampare dell’Eros.
Non bisogna confondere l’atteggiamento del mèntore con quello di una personalità debole e deprivata (Buffière, 1980), come può essere il pedofilo che agisce fisicamente sul minore. Le motivazioni, i percorsi talvolta possono sconfinare l’uno nell’altro, ma il mèntore non esercita un’autorità costrittiva, non è un carceriere e un ricattatore. Il mèntore ama, è rapito da qualcosa che non è neppure il ragazzo, ma lo strano legame, probabilmente equidistante da entrambi, proprio come sosteneva Platone, che sottintende l’attrazione reciproca. Il mèntore è amato, non è subito. Una relazione di questo tipo, in cui certo la parola “amore” deve essere interrogata in tutta la ambiguità e irresoluzione dei suoi significati, è un evento destinale, affidata ai segreti di una indefinibile sincronìa. Non è il frutto di una scelta.
Un “virile” o un “patriarca” e un “giovincello” o un “ginnasiale”, per usare la terminologia del “mondo amoroso” di Fourier, si incontrano. E talvolta possono anche avere la medesima età. E, insieme, realizzano un legame in cui uno rapisce in un altrove e l’altro si lascia rapire, finalmente. Uno svia, e l’altro è felicemente sviato. Uno incanta e l’altro è sorprendentemente incantato. E’ un incontro che tocca note mai suonate, che accelera processi vitali spesso mai neppure presentiti, è l’irruzione di un processo liberatore, come quello auspicato da Nietzsche proprio a proposito del vero educatore nelle sue considerazioni su Schopenhauer. Il mèntore è atteso, ma non saputo.
Il mèntore è finalmente l’Altro che arriva. Eppure, benché altro, benché apparentemente imprevisto, è riconosciuto. Così come accade talvolta, per benedizione, nell’amore. In lui si vede, forse come accadeva proprio ad Alcibiade che riconosceva gli “agalmata”, le divine immagini, percepibili, della vita interiore di Socrate (Platone, 1999b, 216e), (sulle quali, detto per inciso, Lacan edifica una delle sue figure paradossali, rivelando la necessaria “terzietà” erotica (Alcibiade verso Agatone tramite Socrate) e l’autentico movimento del desiderio del dialogo, (cfr. Moroncini 2005)), un desiderio inespresso e ancora sconosciuto. Qualcosa che attendeva di emergere e che viene ritrovato nell’incontro con l’altro. Che cosa sia questo è difficile dirlo. Angelo Franza, decifrando i misteri di Dioniso negli affreschi di Pompei e soffermandosi sulla pittura che ritrae il rito inziatico che il sileno impartisce al giovane satiro, vi rintracciava soprattutto un gioco di rispecchiamento in cui, attraverso un’illusione, una maschera, si compie il rituale del ritorno alla giovinezza, per il mèntore, e dell’ingresso all’età adulta, per il giovane. Un rituale di iniziazione, un passaggio, dunque, denso ciononostante di ombre e di ambiguità (cfr. Franza 1996).
Platone nobilita questo rituale. Nella lettura che ne dà Francesco Donfrancesco, questa relazione viene intesa, sulla scorta dell’Alcibiade, e non diversamente da Franza, come speculare, ma trova il suo punto di simmetria non nell’altro come proiezione in avanti o all’indietro di sé, ma nell’immagine del Dio cui entrambi si trovano ricongiunti: “allo specchio che è l’anima dell’amato non apparirà allora il volto dell’amante, ma il simulacro del Dio che lo possiede e lo costituisce: il suo volto e quello dell’amato ne saranno illuminati, come per un lampo venuto d’altrove, da un altro mondo, oltreumano. Amante e amato saranno così ricongiunti, non l’uno all’altro, ma ciascuno al suo luogo d’origine, verso il quale li ha incamminati la nostalgìa” (Donfrancesco, 1996, 137).
Hillman, come detto, fornisce una visione ancor più positiva del mèntore, proponendone tuttavia una interpretazione più selettiva, e dunque più pedagogica. Il mèntore sarebbe colui, e solo colui, che si dimostri in grado di offrire all’allievo eletto il riconoscimento della vocazione, della “ghianda”, del daimon interiore. Mèntore è chi sa guardare con l’ “occhio del cuore”, chi possiede “percezione immaginativa”, dove quest’ultima è una qualità sottile del vedere, che consente di cogliere ciò che soggiace al visibile, il suo sfondo rivelatore .
La teoria di Hillman fa del mèntore un bravo talent-scout, in un certo senso, o più poeticamente il detentore di un occhio benedicente, capace di accorgersi di quelle pieghe sottilissime che rendono unico una certo stile d’esistenza. Perché la ghianda, il “dèmone” che fonda la “ciascunità” di ognuno è proprio lì, sotto gli occhi di chi guarda, ma per vederla, per farla emergere, occorre una disposizione paziente, forse un certo grado di elaborazione delle proprie proiezioni, forse una disposizione magica, nel senso in cui questo termine indica la capacità di cogliere i legami invisibili posti all’orizzonte del visibile.
Infatti “l’invisibilità della ghianda sta nel come di una prestazione visibile, nelle sue tracce, se preferite. L’invisibile è perfettamente visibile in ogni punto e momento della quercia e non è altrove o prima della quercia, ma si comporta come un ordine implicito tra le pieghe del visibile, come il burro nella sfoglia dei croissant o l’aria fragrante nel pane che lievita: invisibile, ma non letteralmente tale, bensì l’invisibile fatto visibile” Qualcosa come “lo spirito del luogo, la qualità di una cosa, l’anima di una persona, l’atmosfera di una scena, lo stile di un’opera d’arte” (Hillman, 1997, 160-161). Il vedere del mèntore, come spiega Hillman, è attratto dal particolare, e sa innamorarsi proprio di quella piega specifica, di cui sa annunciare e restituire tutto il potenziale trasformativo, tutto l’avvenire. “Innamorarsi della fantasia di un altro”, ecco l’espressione impagabile per descrivere la specifica operatività del mèntore che, in una tale chiave, certo risulta accattivante anche al severo giudizio del pedagogista barbogio.
Ma forse, pur offrendo un ritratto fra i più seducenti di un tale personaggio, anche Hillman sembra essersi troppo affezionato alla sua idea. Idea che alimenta, arricchisce, sfaccetta e approfondisce un ritratto già molto composito. E che dunque aggiunge molto. Ma che nondimeno non lo risolve, forse neppure lo incornicia.
Di lui bisogna ancora restituire il lato istintivo, selvatico, l’inafferrabilità ermetica, l’esilio essenziale, la captazione erotica. Perché il mèntore che la storia ci consegna, pur non essendo proprio un briccone -se non nel senso stratificato dell’archetipo junghiano, e dunque nel suo tratto specificatamente ermetico, - truffatore e opportunista, ma anche inestimabile comunicatore e psicopompo- non è neppure un risoluto geniomante, se si può azzardare questo neologismo. Perché anch’egli, sembra, deve appagare una sete che lo prosciuga, deve curare le ferite incurabili che gli conferiscono il suo inconfondibile tratto sofferente. Non si diventa mèntori per caso, da questo punto di vista, né si può diventare mèntori per formazione. Forse, semmai, lo si diventa per via di danno.
Vi è una storia esemplare che, interrogata con vaglio e flemma, molti tratti del mèntore, così come qui lo si sta circoscrivendo, ci offre quasi stipati e incolonnati in diacronica progressione. E’ la storia narrata nel film, a firma dell’attore americano Mel Gibson (ma la sceneggiatura è tratta dal romanzo omonimo, seppur differente in particolari non insignificanti di Isabelle Holland, 1973) L’uomo senza volto (1993).
In questo film (cfr. Mottana, Franza 1997, ) si narra la storia di un insegnante emarginato dalla società dopo che in un terribile incidente un suo allievo, che era in auto con lui, resta ucciso. Impariamo a conoscere l’insegnante quando oramai egli vive in una casa-mausoleo, fuori dalla città, isolata e oscura, ed egli stesso ha assunto i tratti poco raccomandabili di un “mostro”, il volto tremendamente sfigurato dall’incidente, silenzioso e appartato, unico compagno della sua solitudine un grosso cane pastore. Nessuno si avvicina a lui, e di lui si congetturano i più sinistri caratteri. Unico a venirne in contatto è un ragazzo, tormentato anch’esso, forse dalla debordante demenza di una famiglia tutta piegata al femminile, isterica e nevrotizzante, nella quale egli finisce per apparire svagato e scemo (cioè mancante). Colpito frequentemente da crisi di assenza, il ragazzo è sottoposto alle cure, provenienti dalla regione femminile dell’agire, della psichiatria, ma il caso vuole che la sua deriva lo porti a incrociare l’esule professore dal volto combusto.
La loro relazione assume subito i tratti della clandestinità, dell’elezione a rituali esoterici, della ruvidezza e dell’insopprimibile autenticità. Il ragazzo scopre nella casa e nella vita dell’uomo un universo di significanti inedito e la possibilità altrettanto inedita di essere riconosciuto e amato. L’insegnante forse ritrova nell’allievo la ferita la cui guarigione può essere il riscatto della propria. Questa simmetria di sanguinamenti e di mancanze fonda un incontro che non ha tuttavia i tratti semplicemente di una paternità ritrovata. Perché il mèntore non è paterno, egli incarna un codice diverso, sfuggente e enigmatico, spigoloso e vulnerabile al tempo stesso, attraverso il quale il giovane è condotto in un luogo di apprendimento profondo della propria unicità, del proprio istinto segregato. L’insegnante qui non cura, non massaggia, non simula un’affettività amniotica e vischiosa. E’ scostante, laconico, ellittico, brusco. L’uomo “peloso in fondo al lago” di cui parla la fiaba di Giovanni di ferro (cfr. Bly, 1990) o la poetica di Ted Hughes, vi appare nella sua più propria densità simbolica. Qui è il cavallo nero, il cane che spolpa le ossa, la casa sepolcrale e disseminata di oggetti come un museo –un po’ come la casa dell’ebreo in Fanny e Alexander di Bergman, nel quale l’ebreo ha una funzione forse non molto diversamente taumaturgica- a fornire lo scenario di un codice altro, che non si può ridurre all’impronta genitoriale (nella fattispecie paterna).
Se vi è un senso nell’archetipo duplice di Puer-Senex (cfr. Hillman, 1988) dove la mobilità delle posizioni è costantemente in opera, il mèntore e il ragazzo dell’ Uomo senza volto ne incarnano felicemente la dinamica. La costellazione Ermes-Saturno , mercurio-piombo, volatile-fisso, vi emerge costantemente, fluendo dall’uno all’altro dei personaggi come in materiali conduttori strettamente comunicanti. L’incontro nasce dal vaso rotto delle due ferite ed è votato al reciproco risanamento, la relazione è una schermaglia di approssimazioni e allontanamenti, filata sul crinale del rito –scavare le buche- delle rivelazioni –la scoperta della ferita e del suo sale, la confessione del mèntore-troll sulla roccia a picco sul lago- della compromissione sovvertitrice – le accuse di pedofilia
Nel romanzo il ragazzo (che nel film è un preadolescente piuttosto piccolo e infantile) è un quattordicenne atletico e consuma un atto sessuale con il mèntore. e il rinnovato esilio-, dell’innalzamento e del distacco –il volo sull’idrovolante e il congedo sofferto, la cesura dal codice femminile- .
Il “ratto pedagogico” di cui parlano Hocquenghem e Schérer (cfr. 1979) è qui l’opportunità per una rinascita, e il mèntore è davvero l’altrove che strappa al soffocamento della melassa famigliare, del “brodo padremadre”. Clandestinità, oscurità, contatto con la ferita appaiono alcuni dei moltissimi elementi di una trama ricchissima, che sfrutta anche la transazione con la natura, prima nello scavare (scendere nella terra, nigredo), poi nell’ascendere (salire nel cielo, albedo), al fine di ritrovare una postura di rinnovato accesso al mondo e di realizzazione del sogno (rubedo).
Il film suggerisce, reprimendolo, lo sfondo erotico della relazione, tenendolo però sostanzialmente al riparo da ogni sospetto di agito. Ma è chiaro che l’Eros scorre, proprio nella sua passionalità e forza di rottura, nel congiungimento con l’invisibile, lo spirituale. Nella sua capacità di alimentare nei due sensi tutta la dinamica della relazione e di renderla autentica, intensa, sincera.
E tuttavia, fra i molti significati riposti in questa storia e nelle sue immagini, dobbiamo anche riconoscere il peso delle ferite precedenti, in particolare di quella del mèntore, che diventa mèntore forse proprio perché percosso dal suo stesso Eros, dalla sua stessa ubris di educare. Sono lo scacco, il fallimento, la morte, l’esilio, che ne propiziano la solitudine quintessenziata, la consegna a un destino irrecusabile. Il mèntore è scelto, e accetta: accetta di portare su di sé il segno del suo errore e soprattutto l’indicazione di deragliamento, di scomunica e di isolamento che esso comporta, ma che presumibilmente ne certifica anche il potenziale salvifico e terapeutico. L’infelicità del mèntore, la sua umiliazione¸ nel senso etimologico del termine, il suo atterramento¸ sono la garanzia della sua vocazione, e della sua efficacia. E’ ancora una volta la storia del Graal e del Re pescatore: solo chi è stato ferito e porta con sé il sale prodotto dalla ferita, senza sconfessarla né anestetizzarla, potrà a sua volta curare e guarire (cfr. S.Weil, J.Bousquet, 1994).
Il mèntore è questo personaggio sinistro e allo stesso tempo sovrano, non per virtù o per abilità, quanto per destino. Destino globale, come nel caso dell’insegnante dell’ Uomo senza volto, o parziale, perché il più delle volte la postura del mèntore accade, per un complesso intrecciarsi di motivi, in una relazione in cui i lembi di ferite e di attese vengono a collabire improvvisamente per circostanze impreviste, e forse mai più ripetibili.
Nessuno è mèntore per professione, mèntore è uno stato dell’esistere, o forse dell’essere. Accade di trovarsi mèntori o di trovarsi adepti di mèntori, per breve tempo e per sorte, per un elezione che è tramata da sottili percorsi degli affetti e dei sensi, delle simpatie che attraggono gli elementi, specialmente quelle dei fluidi e delle materie, di una mancanza che si incastra con una effusione, o di due nostalgie che si illuminano attraverso la medesima sorgente.
Di essi l’esperienza, la mitologia, la tradizione folklorica, la letteratura, l’arte, forniscono molteplici esempi. Da Socrate a Mefistofele, dall’Uomo di Ferro alla Baba Yaga, da Settembrini e Nephta di Thomas Mann al Bruno di Daniele Del Giudice in Staccando l’ombra da terra, esiste una teoria infinita di mèntori le cui caratteristiche sono assai differenti, ma di cui forse alcuni tratti si possono tentare di isolare e nominare.
Certamente le manifestazioni dinamiche, il modo in cui egli emerge nella trama esistenziale, spesso nei panni del seduttore, dell’iniziatore, e addirittura del rapitore (cfr. Sorrenti, 1996), soprattutto in senso metaforico, sono un modo di individuarlo. Così pure le costanti archetipiche, le ascendenze mitologiche, che lo vedono ispirato da Ermes, specialmente nella mancanza di confine, e al tempo stesso nella capacità di allacciare parti separate, distanti, di consentire l’accostamento alla materia profonda, all’incognito, e di dischiudere orizzonti. Ma non meno evidente è l’influsso di Eros, nel senso soprattutto in cui Eros propizia, abitando lo spazio intermedio della metaxy (cfr. Mottana Lucatelli 1998, 46), l’incontro fra la dimensione quotidiana e la dimensione trascendente, crea uno spazio di transito e di mediazione fra umano e divino. Inebria, accende, infiamma.
Il mèntore è a suo modo illuminato da una passione trascendente, è figura “numinosa”, febbricitante e trascinatrice. Accende perché è acceso, innamora perché è innamorato, trasporta perché è trasportato. In fondo, come soggiungeva proprio Socrate ad Alcibiade, in lui si riflette la fonte divina, ed è ben quest’ultima che attrae e sovverte, come nel caso di Gesù, egli stesso forse più che maestro mèntore. Egli può essere dovunque, nella scuola, nella chiesa, nella famiglia e nella strada, ma ovunque il suo profilo rompe con la linea diritta della prescrizione. Di ogni contorno è insofferente e lo si riconosce dal piglio iconoclasta, dalla vena profetica, dalla dismisura e dal desiderio mal dissimulato. Ma è riconoscibile anche e forse soprattutto nella sua malinconia, nella condizione di orfano ferito, di cercatore inesausto ma anche sospinto al margine dalla sua eccezionalità. Il mèntore è un solitario, il suo genio erra sempre verso un altrove in eterna fuga, non ha compagni, ma solo adepti transitori, il cui destino è poi di abbandonarlo per ritrovarsi. Ma ha questa singolare capacità del vedere, del riconoscere e dell’attribuire. Sebbene non chiunque e non tutto.
La sua specifica inclinazione, la sua postura, il suo sbandamento peculiare, figlio della sua storia, lo orientano a riconoscere una certa vocazione, lo indirizzano a percepire, con un’immaginazione sofferta e acuta, l’incespicare che promette, lo smarrimento che addita un futuro, e solo a coloro che la sua stessa storia gli riverbera. Esperto di immagini, sensibile al flusso elettrico delle emozioni sottili e indagatore di pieghe, il mèntore coglie, come uno specchio inquieto, chi orbita nella sua costellazione d’attese, chi conferma, per cenni impercettibili, una deficienza da cui egli stesso è affetto, o la compensa. Per questo è allo stesso tempo amico e amante, come l’amico affine e come l’amante opposto. Figura selvatica e in fuga, egli stesso è vittima della sua sensibilità esasperata e talvolta esibisce un eccesso di puerizia in un accesso di devozione.
Figura che come Narciso ricerca in una fonte l’immagine di sé perduta, o inseguita, ha, più di Narciso, la capacità di condividere la ricerca con chi, più giovane, si è perso anch’egli nel fluido ingannatore. E dello specchio sa ritrovare il riferimento teologico all’anima, più che a un doppio evanescente. In tal senso ogni mèntore è un’avventura, un imprevisto e anche un rischio. Non c’è rete nella relazione mentoriale, ma c’è sovversione, sorpresa, talvolta scacco. Il mèntore non è risolto, non ha adempiuto ad uno ad uno tutti compiti prescritti dalla maturità, e proprio perché non risolto è ancora aperto all’irresolutezza che un incontro trasformatore richiede. Senex-che-è-anche-Puer, sa interloquire con l’incerto e con il segreto, con il sogno che si apre dinanzi a sé e al suo eletto.
Figura scabrosa, scandalosa, eppure necessaria, il mèntore non si confina in alcuna tavola di funzioni, in alcun profilo. Egli è per l’altro nel modo specifico in cui un’attesa coglie il suo dono, e ogni volta le singolarissime condizioni che concorrono a questo evento, plasmano la forma della relazione secondo un destino imprevisto e imprevedibile. Ma l’evento dell’incontro con il mèntore non può non essere trasformativo, nel bene e nel male, o al di là del bene e del male, perché il demone riconosciuto e risvegliato chiederà di manifestarsi, e ogni cosa non potrà più essere come prima. Questo riscatto, che fa del mèntore un sovvertitore dell’ordine, ma anche talvolta l’instauratore di un nuovo ordine più profondo, rende l’adepto più complesso, più problematico, talvolta più sofferente, proprio perché il balenare del talento è talvolta il prezzo più insostenibile per ognuno. Il mèntore è un differenziatore, è un momento di rottura, un’infrazione della superficie levigata del romanzo educativo programmato dal codice istituzionale, nella sua scansione famiglia, scuola, gruppo di pari ecc.
Egli sottrae alla coppia fangosa di padre-madre e inaugura un altro mondo, come quello rappresentato dal vagabondaggio nelle Cevennes di Fernand Deligny (cfr. Deligny 1973 e 1977) con i suoi bambini silenziosi, che appaga il desiderio di fuggire dalla sedentarizzazione coatta della clausura familiare. Il discepolo del mèntore è provvisoriamente liberato dal giogo dell’appartenenza e “il taglio del tessuto compatto della sua alienazione gli permette, con uno spostamento trasversale, di trovarsi con l’adulto su un piano di complicità” (Sorrenti 1996, 55).
E’ questa complicità, nella sua ambivalenza, a costituire il carattere inconfondibile, magico e rischioso, della relazione che il mèntore genera, sconvolgendo e riorientando il tessuto prevedibile d’ogni storia di formazione.
“Nessuno capiva il profumo
dell’oscura magnolia del tuo ventre.
Nessuno sapeva che martirizzavi
Un colibrì d’amore fra i tuoi denti.
Mille cavallini persiani dormivano
Sulla piazza con la luna della tua fronte,
mentre per quattro notti io stringevo
la tua vita, nemica della neve.
Fra gesso e gelsomini, il tuo sguardo
Era un pallido ramo di sementi.
Cercai, per darti, nel mio cuore
Le lettere d’avorio che dicono sempre
Sempre, sempre: giardino della mia agonìa,
il tuo corpo fuggitivo per sempre,
il sangue delle tue vene nella mia bocca,
la tua bocca senza luce per la mia morte.”
(Garcia Lorca)
Come arginare l’impressione pervasiva, sierosa, morbosa e lancinante che diffonde lentamente ma pervicacemente la visione del film “L’isola” di Kim Ki-duk (1999)?
Di cosa parla, cosa ci mostra, dove ci conduce, effettivamente, questo film, qual è la sua deriva?
Questo film che strappa e cuce continuamente, che contamina e inonda, che matura in un’acqua devastata, quasi fosse veleno, la forma immobile di un microcosmo in cui si radunano, invisibili, i fili di tutte le reti, quelle che collegano urano e la terra, e quelle più sottili che incatenano i corpi, i sensi, le nature, i regni, quello vegetale, quello animale, quello minerale. Un’acqua che evoca il paesaggio indicato da Bachelard quando parla della poetica di Edgar Allan Poe. Acqua “lourde”, “silencieuse”, “sombre”, “insondable”.
Siamo consegnati ad una prospettiva statica, quasi monoculare, letteralmente risucchiata nella caligine sospesa di una bruma densa, solo a tratti smossa dalle acque dentro le quali getta le sue radici filamentose. In questa prospettiva, che salda insieme acqua e cielo in un’unica materia in perpetua metamorfosi, in incessante scambio, l’occhio del regista sembra consumare un suo bizzarro esperimento, un suo rituale inesorabile, come se la densità in dissoluzione dell’elemento liquido fosse lo scenario ideale in cui celebrare un rito di sesso e di sangue, un rito iniziatico, a cui non possono che partecipare, proprio perchè tenuti legati dalla stessa placenta inafferrabile, tutti gli altri elementi: piante, animali, uomini, il cane, la barca, il motorino che cede anch’esso alla lusinga della laguna, i pesci, le rane, la pioggia. Mondo contagiato e contagioso, siderato nel suo immobile dinamismo da un morbo inesorabile.
La trama è essenziale: la giovane Hee-jin affitta piccole baracche, abitazioni in miniatura ancorate in un bacino acquatico presumibilmente collegato al mare, ai pescatori. La donna vende loro cibo e attrezzature da pesca, di giorno, e il proprio corpo di notte. Un giorno arriva sull’isola all’interno della quale si trova il lago un giovane, Hyun-shik, che ha ucciso l’ex fidanzata a causa della sua infedeltà. L’uomo tenta di uccidersi a sua volta, ma Hee-jin glielo impedisce e lo seduce. La loro relazione deve tuttavia attraversare un complesso rituale crudele e sanguinoso, per compiersi e sanare le reciproche ferite e forse non solo quelle.
Kim Ki-duk allestisce il suo acquario corrotto, un mondo brulicante in miniatura, microcosmo e macrocosmo radunati insieme, in uno scenario che dichiara e nasconde al tempo stesso tutto il suo artificio teatrale, poche minuscole case-giocattolo edificate sopra la materia fluida, e in queste case figure d’uomo disancorate, condotte al loro ritiro da una barca che non può non evocare un trapasso infernale piuttosto che un transito d’evasione, in particolare nel suo mesto e affascinante Caronte: meraviglioso sembiante, silente e oscuro, in cui sembrano convergere la Sirena e la Medusa, l’Erinni e la Furia, l’Arpia e la Ninfa lunare di un rito più antico dell’uomo, che dell’uomo – uomini in fuga, uomini alla deriva- sembra accogliere l’invocazione disperata a dissolversi, a farsi acqua, in questo vaso femminile che è la laguna, la vagina, la barca.
Resurrezione di una divinità minore ma potentissima, arcaica, la bella del lago, dall’espressione cupa e dagli occhi scurissimi, che ordisce una sua trama invisibile ma inesorabile, punitiva per chi non sa accogliere il dono di sé che ella dispone con la dovuta devozione, crudele con gli animali, di cui si sa parente, ferita e capace di ferire, l’unica perfettamente a suo agio dentro il mondo amniotico di cui conosce e domina l’impassibile dinamismo.
Gli altri personaggi, uomini e animali, appaiono suoi ostaggi, rinchiusi in case minuscole, più tane che abitazioni, che simulano il giocattolo infantile, confinate in mezzo all’acqua, alla mercè della disponibilità della donna a rifornirle, di nutrimento e d’amore, come se fossero le stanze in cui alloggiano i suoi figli smarriti, stanze d’isolamento, ove cercare e cercarsi, pescare ed essere pescati.
In questo cosmo tutto è in relazione con tutto, e non solo sul piano funzionale di un ecosistema, ma anche e soprattutto su quello simbolico, per via di metafora e di metonimia, che fa degli uomini dei pesci e dei pesci degli uomini e delle ferite reciprocamente inferte una sintassi enigmatica ma irrecusabile come un destino. Che fa di tutti delle prede e dei predatori in continuo interscambio e del dolore, della morte e del sesso le forme autentiche di legame, le forme essenziali, radicali. Come uno scenario tragico, che si invera solo nella scena finale, l’unica scena di una tragedia che non smette di culminare, in virtù della perenne metamorfosi che l’andamento ciclico del mondo acquatico induce, e che si ripete fino a che lei stessa, la dea del luogo, numen loci, non decide di ritirarsi e di dissolversi nella sua stessa trama.
E’ lei che decide chi salvare e chi perdere, chi può ricevere i suoi doni e chi li deve sospirare, chi curare e chi abbandonare, chi tenere a galla e chi lasciare andare a fondo, o spingervelo. In questa sua amministrazione in cui l’Eros, un Eros selvaggio e primitivo, ma tessuto anche di una perturbante e tenera capacità di attesa tutta infantile, che trova la sua metafora più appariscente nel gioco esibito dell’altalena, -simbolo anche del perpetuo andare e venire d’ogni cosa, acqua, vita, morte, amore, dolore- ella rintraccia il suo partner nell’uomo feritore e ferito, il giovane suicida che, unico fra i molti, rifiuta di trattenere la preda pescata e la riaffida alle profondità della laguna sostituendola con un pesce di latta, con una ironica finzione.
Forse è proprio questa trasgressione minima ma inattesa alla legge del lago, che fa di tutti dei pescatori e dei pescati, a sollecitare l’attenzione di Hee-jin, impegnata ora quasi a restituire l’equilibrio ad un sistema sottilmente turbato. Ma l’attenzione della donna è anche attratta dalla caparbia volontà di autoannientamento del giovane, che anche in questa quête tende a sottrarsi alla vocazione curatrice (come madre e come prostituta) che Hee-jin incarna all’interno del suo mondo acquatico. Irretita essa stessa dalla rinuncia dell’uomo a piegarsi al suo tributo (tributare ed essere tributato, donare ed essere fatto oggetto di doni), la donna è attratta da Hyun-Shik.
La loro danza è inizialmente un piccolo teatro di seduzione, mediato dal riconoscimento –il pescatore regala alla donna una minuscola scultura di una donna sull’altalena- ma il contatto è difficile, è duro. L’uomo è ferito e non riesce a sciogliere il suo grumo di dolore nel grembo della donna, che quasi violenta. Riesce però, in seguito, a ricevere sesso da una giovane prostituta che non chiede troppo in cambio, notificando così quanto ogni insidia del sentimento gli sia insopportabile. Ma la divinità delle acque scure si mostrerà implacabile e vendicativa prima neutralizzando e poi, attraverso l’ufficio dell’acqua del lago, suo alter ego, sopprimendo la rivale. Hee-jin sarà così costretta in seguito a compiere la sua pulizia di morte facendo scomparire a breve distanza di tempo insieme a lei anche il suo mezzano e ogni altra sua traccia (il motorino abbandonato) in fondo al lago. Sotto la sua amministrazione muta e inflessibile tutto sembra naufragare e dissolversi nell’acqua scura, compagna e artefice, che si incarica di trattenere nel suo grembo le vittime predestinate.
Piccoli gesti feroci tramano l’accerchiamento intorno al giovane, come cerchi nell’acqua, mentre i pesci sembrano i testimoni, anch’essi muti, delle violenze che si abbattono dentro lo spazio concluso. Uomini come pesci, pesci come uomini, fino all’apoteosi che si celebra alla maniera di un rito di purificazione. In essa l’uomo e la donna si feriscono profondamente con gli ami. Li affondano nella loro carne, come tributo ad un universo in cerca di vittime, di gesti sacrificali, lui in fondo alla gola, lei in fondo al suo sesso, come a rendere manifesta la loro differenza e a issare sull’altare del supplizio, in questo autentico teatro della crudeltà che è il mondo dell’isola, le loro parti più rappresentative, metonimiche, forse archetipiche, il luogo della parola per l’uomo, il luogo della generazione per la donna.
Entrambi dovranno reciprocamente trarsi in salvo, dopo il sacrificio, ancora appesi ad un amo, tirati dal filo della canna da pesca, proprio come i pesci, come i pesci e gli altri animali anch’essi strettamente intrecciati nell’incontro ineludibile di amore e tragedia che sembra sigillare in questo film il senso profondo dei legami e dei loro prezzi. In particolare il pesce sezionato e rigettato nell’acqua che mostra la sua volontà o la sua necessità di resistere e sopravvivere nuotando ancora.
L’accesso alla donna, che celebra per intero la simbolica di un amore non bonificato e civilizzato, fatto di lotta e di sangue, di dolore e di morte, di piacere e di perdita, non può avvenire che in virtù di un’immolazione radicale, di un farsi acqua, pesce, profondità –l’affondamento nella cloaca al centro della casetta sarà la posta simbolica chiesta a Hyun-Shik-. Ma tale immolazione è simmetricamente rispecchiata nell’atto che la donna infligge a sé stessa accomunandosi nell’abbassamento fisico e simbolico al livello della materia cui entrambi si affidano, l’universo acquatico, spazio della trasmutazione.
Solo quando tutto questo è consumato, quando le carni hanno sanguinato, quando la laguna ha accolto le vittime e il siero carnale che inerisce ad ogni trasformazione, l’uomo potrà essere trascinato, insieme alla donna, a bordo della piccola casa ridipinta di un giallo squillante, come un’ improvvisa alba, in un “trapasso” lento e silenzioso, il veicolo fattosi corpo pneumatico, all’ultima metamorfosi, quella del dissolvimento in “utero”.
Vediamo Hyun-shik, nella penultima scena, rimasto solo a camminare nelle acque, in uno porzione di laguna confinante con la prima, forse una sua estensione utopica. Qui egli penetra nella vagina della donna, simboleggiata da una piccola foresta di bambù posta al centro del lago, come la porta di un percorso di discesa al tempo stesso nel cosmo (la natura) e nel corpo (la donna).
Nell’ultima immagine del film, infine, resterà soltanto la donna, affondata, nuda nella sua barca, essa stessa acqua, verosimile simulacro dell’iniziazione, le vestigia del dissolvimento nell’invisibile cui la vicenda ha dato luogo.
Questo film proviene da altrove, da un diverso luogo, luogo di natura selvaggia e di abissale riaffioramento di principi mitici e di sacrifici primordiali. Ma celebra una passione radicale che sembra provenire in via diretta dalla crudeltà raffinata di Mishima o di Artaud, mette in scena il denudamento e la scorticazione degli elementi essenziali di ogni rapporto erotico, il desiderio, la violenza, la ferita, la distruzione, il dissolvimento reciproco. In questo spazio artificiale eppure connotato come una natura vergine, in cui ogni traccia umana appare un giocattolo sospeso nelle braccia di un universo estraneo e maleficato, contagioso, una divinità acquatica, femminile, implacabile, organizza il rituale della morte e resurrezione del maschio nel suo grembo.
Figura che sovrintende implacabilmente la legge delle simpatie e delle cesure ma fondamentalmente secondo una misura di equità e di restituzione, la Sirena interpretata da Hee-jin recupera i significati occulti di un rito esoterico, quello di ogni opera riuscita di trasmutazione, attraversando e facendo attraversare, senza dissimulazioni di sorta, semmai in una integra e feroce complicità con ogni altro elemento presente, in particolare in feconda unità con il mondo animale, la nigredo dello strazio più acuto, strappato alle proprie carni, e l’affacciarsi- rinascere –anche in virtù del proprio venir meno- in un luogo di pura dissoluzione, secondo la legge ciclica di cui appare l’incarnazione.
E ancora, tuttavia, l’immagine che l’autore ci affida per abbandonare le acque magiche della sua tragica finzione teatrale, restano quelle del corpo bellissimo e desiderabile della donna, trattenuto come sotto vetro, nella teca ondeggiante costituita dalla barca d’acqua che oscilla sull’acqua…
Eros magus
“…Ella gli dà i suoi denti, legando le radici allo spillo centrale del suo corpo
Egli sistema i piccoli anelli sulla punta delle sue dita
Ella ricuce il suo corpo qua e là con seta viola d’acciaio
Egli olia i delicati ingranaggi della sua bocca
Ella intarsia con cartigli a tagli fondi la nuca del suo collo
Egli sprofonda in posizione l’interno delle sue cosce
Così, ansando per la gioia, con grida di stupore
Come due divinità di fango
Sdraiandosi nello sporco, ma con cura infinita
Portano l’un l’altro a perfezione”
(Hughes)
La simbolica sciamanica e alchemica al contempo che Ted Hughes adotta in questo poema della sua raccolta Cave Birds, in cui l’uomo e la donna accuratamente incernierano e accomodano i propri corpi nell’unità in un processo di reincarnazione che segue l’interramento, proprio come nelle nozze mistiche del Re e della Regina nell’athanor, coglie probabilmente nel segno uno degli aspetti più celati nella modernità ma non meno coltivati e persistenti nel tessuto profondo, anzi sarebbe meglio dire occulto, delle pratiche erotiche e sessuali.
“Il sesso è la più grande forza magica della natura”, proclama Julius Evola alla fine del suo massiccio trattato sulla “Metafisica del sesso” (1976, 399) e in tal modo rivendica una conoscenza diffusa almeno fino al Rinascimento, se lo stesso Giordano Bruno nel suo De vinculis in genere poteva fare dell’Eros la chiave di volta del sapere magico, il “daemon magnus” capace di realizzare e consolidare tutti i legami: “Il vincolo fondamentale e più potente di tutti è certo quello di Venere…”(Bruno, 2000, 521).
Allo stesso modo Marsilio Ficino aveva indicato nell’Amore il Mago supremo: “tutta la forza della Magica consiste nell’Amore. L’opera della Magica è un certo tiramento de l’una cosa a l’altra per similitudine di natura” (Ficino, 1998, 111). La visione di Ficino e di Bruno riguarda la natura tutta e travalica, in questo seguendo Platone, la sfera singolare.
Il cosmo tutto è impregnato dalla forza magica dell’amore ed è per questo che resta integro e ciascun elemento vi trova nella dinamica di attrazione e repulsione il suo luogo e il suo significato: “così dalla concavità della spera lunare si tira il fuoco in alto, per congruità di natura; dalla concavità del fuoco è tirata similmente l’aria: dal centro del mondo la terra: ancora dal suo luogo l’acqua. Di qui la calamita tira il ferro: l’ambra la paglia: il zolfo il fuoco. Il Sole volge inverso sé fiori e foglie: la Luna muove l’acqua, e Marte i venti: e varie erbe tirano a sé varie spezie d’animali. Così nelle cose umane ciascuno è tirato a suo piacere. Adunque le opere della Magica, sono opere della Natura, e l’arte è ministra” (112). Arte dell’interconnessione simpatetica del tutto, tale è la sfera infinita dell’esercizio ipercomplesso della Magia erotica.
“Amore è il fondamento della possibilità della magia” dirà qualche secolo dopo Novalis (1993, II, 280). Nel cuore del sapere più ricco del Rinascimento, che il Romanticismo resusciterà, l’amore è il collante del tutto, l’elemento mediatore, il Demone che connette, l’autentico legislatore dei rapporti e delle gerarchie del reale. “Amore è il nome che si dà alla forza che assicura la continuità dell’ininterrotta catena degli esseri; Pneuma è il nome che si dà alla sostanza comune e unica che mette tali esseri in mutua relazione. A causa dell’eros, e per suo tramite, l’intera natura si trasforma in una grande maga” (Couliano, 1991, 142).
Il legame stretto, pneumatico, di magia ed erotica è celebrato ovunque nel sapere rinascimentale, sapere che fonda la possibilità di intervento sul reale ancora su di una cognizione qualitativa del mondo, riconosciuto come animato, leggibile come tela fittissima di relazioni influenzabili proprio attraverso l’arte di regolare i fenomeni di attrazione e di repulsione, ars erotica per eccellenza, la Magica di Ficino.
L’amore è dunque il perno di una cognitio affettiva e immaginativa del mondo. Tutto si riconduce ad amore: “è provato, giacché tutte le altre passioni che si possono produrre e rappresentare non sono fondamentalmente e originariamente nient’altro che amore; l’invidia infatti è un certo amore di sé, che non sopporta chiunque sia migliore o pari a sé. L’indignazione è amore della virtù, per il quale mal si sopporta che gli indegni abbiano buona sorte, i degni invece per nulla; il pudore, il timore, null’altro se non amore dell’onestà e di ciò per cui si teme. In modo simile si deve ragionare per tutte le altre passioni. Perfino l’odio di una cosa null’altro è se non amore del suo contrario o del suo opposto. Anche l’ira pertanto è un tipo d’amore. Avrebbe fatto, quindi, già un bel progresso colui che fosse giunto a quella filosofia o magia che sa occuparsi del vincolo sommo, principale e generalissimo d’amore. Ed è forse per questo che i platonici chiamarono l’amore “grande demone”” (Bruno, 2000, 399).
Il legame d’amore deve poi realizzarsi assolutamente per il tramite della fantasìa. E’ la fantasia il medium dell’operazione magica e dunque l’erotica magica è fondamentalmente una scienza dell’immaginario: l’azione magica avviene per contatto indiretto. Così la “bellezza passa dall’occhio fino alle potenze più profonde dell’anima, per cui sorgono l’amore, il piacere e la gioia” (347). E’ l’amore, così come nella trasmutazione alchemica operata nella poesia di Hughes, il principio igneo del perfezionamento: “il vincolo d’amore, infatti, si stabilisce in obbedienza alla regola, comune sia al principio attivo sia al principio passivo, per la quale tutte le cose –sia che agiscano, sia che patiscano, sia che facciano entrambe le cose- desiderano essere ordinate, congiunte, unite e condotte a perfezione, dal momento che la natura pratica ordine ,congiunzione, unione e perfezione, e senza questo vincolo nulla è, così come senza natura nulla è”. (517). L’amore che per Bruno è comunque perfetto pur essendo l’agente del perfezionamento, secondo la regola per cui non può condurre a perfezione se non ciò che non sia già in sé perfettissimo (“poiché, quando una cosa imperfetta ama essere condotta a perfezione, essa consegue il suo scopo certo attraverso l’imperfezione, ma non a partire dall’imperfezione(…); s’infiamma certo di amore più ardente per il sommo bene ciò che è più perfetto di ciò che è imperfetto” (519).
L’amore è il principio sovrano della congiunzione e del perfezionamento d’ogni cosa (principio che ritroveremo in Fourier). Ha dunque ragione Evola di affermare che, nel sesso, punto nevralgico della magia amorosa, “agisce un impulso che adombra il mistero dell’Uno”(1976, 399). Per Evola, che reintegra la concezione tradizionale, il sesso, ben lungi dal costituire l’aspetto naturale o, peggio, riproduttivo, dell’intesa erotica, ne costituisce invece il “precipitato” in senso alchemico. Esso è il “terminus ad quem” di tutta l’esperienza erotica. E’ esso “a racchiudere la dimensione trascendente, non individuale del sesso” (20).
Il sesso appartiene all’ordine dell’esperienza “iperfisica, invisibile” dell’esperienza umana, è il veicolo di contatto con forze primordiali che in un legame ordinario e votato alla pura perpetuazione della specie va perduto. In tal senso l’autentica esperienza sessuale ha un carattere psichico, anzi pneumatico in certo senso, e necessita di una “metafisica”. Una metafisica capace di rendere conto dei fenomeni di magnetismo e di “cristallizzazione”, per usare la bella immagine di Stendhal (che assimila la fascinazione per l’amato/a ad un processo di cristalizzazione auratica intorno ad essa di una nebula di contenuti psichici simile a quella che certi cristalli salini operano sui rami degli alberi nell’atmosfera invernale (Stendhal, 1975, 8-9)), una metafisica che faccia spazio per esempio alla teoria di Eliphas Levi, maestro di scienze magiche e di Kabbala, per il quale “l’incontro dell’atmosfera magnetica di due persone di sesso opposto provoca una completa ubriachezza di “luce astrale”(…) base della fascinazione amorosa” (43-44).
Luce astrale che è stretta parente della lux naturae di Paracelso, una sorta di “etere vitale” o “anima del mondo”, per tornare alle teorie platoniche e neoplatoniche, da cui scaturisce ogni energia vitale. Si tratta di un fenomeno prevalentemente immaginativo che ha tuttavia la natura di una partecipazione più intensa e dilatata all’atmosfera cosmica, una sorta di dissoluzione e di “ebrezza sottile”. Questa teoria si fonda sull’idea, condivisa in diverse dottrine sapienziali, che il sesso si radichi in un substrato di natura iperfisica appunto, un “corpo sottile” intermedio tra materialità e immaterialità, il “corpo sidereo” indicato da Paracelso, qualcosa di “fluido” che impregna allo stesso titolo il corpo femminile e quello maschile, fornendo all’organismo nella sua totalità una sorta di “impronta” sessuale. Di esso si parla anche come di “corpo aromale” (48), corpo legato soprattutto ad una percezione olfattiva o ultraolfattiva che sarebbe testimoniata da varie manifestazioni dell’ossessione amorosa: dal feticismo per gli indumenti, alla credenza messicana sulla generazione come effetto di scambio di respiro tra uomo e donna, alla più moderna teoria dei ferormoni.
L’incontro sessuale è considerato da molteplici tradizioni religiose ed esoteriche come un evento dai tratti sacri, come sostiene del resto lo stesso Georges Bataille, cogliendo nella dinamica trasgressiva dell’atto l’inevitabile complemento di sacralità (una volta che il sacro è stato posizionato nel punto di lacerazione del tessuto della discontinuità dell’essere come risarcimento di quella stessa discontinuità). L’amplesso è un autentico “mistero” i cui “stati” psichici appaiono impregnati di una trascendenza percepibile eppure estremamente difficile da testimoniare. Evola indica come già nelle Upanishad si accenni al “raptus estatico, alla possibilità della soppressione della coscienza del mondo esteriore e di quello interiore quando l’uomo è abbracciato dalla donna” (135-6). Si verificherebbe in esso un’esperienza analoga a quella che si verifica quando si manifesta l’âtmâ, cioè l’Io trascendente. “All’inizio dell’orgasmo sessuale avviene un cambiamento di stato – ulteriore potenza di quello intervenuto tendenzialmente già con l’innamoramento- e, al limite, nello spasimo, si ha un trauma nell’individuo, un intervento subìto, anziché assunto, del potere che “uccide”” (136).
In tal senso si può a ragione parlare di un’esperienza di tipo trascendente, proprio in quanto si tratta di un mutamento che possiede i caratteri di un attraversamento patito anziché assunto. Nel culmine orgastico si sono registrate sperimentalmente impressioni di dislocazione spaziale e temporale, di sollevamento e di inabissamento, di ascolto di “rumori assordanti senza suono”. In particolare sono state testimoniate impressioni di “congiungimento con una sostanza senza limiti, con una oscura ‘materia prima’, per cui, in una specie di ebbrezza dissolutiva (…), si è portati sul limite dell’incoscienza” (138). Una tale sensazione sembra presentificare il sentimento di riunificazione che apparirebbe in molte tradizioni come la meta del processo iniziatico in quanto “regressum ad uterum”, che, a differenza dell’interpretazione psicoanalitica, è qui considerato in funzione positiva di rinascita. Ciò è particolarmente evidente nella tradizione esoterica dell’alchimia, sia orientale che occidentale, ma è diffuso anche altrove, così come lo è la corrispondenza tra iniziazione e “morte” nel coito: “la corrispondenza tra il regressus (che implica la morte) e il coito si basa sul fatto che l’amplesso sessuale degli amanti, al momento dell’orgasmo –significativamente denominato ‘piccola morte’ in francese- si fondono l’uno nell’altro per diventare un solo essere bisessuale” (Schwartz, 2000, 26). In questo caso, e proprio al fine di superare la dualità della polarità maschile-femminile, si fa riferimento anche alla pratica del coito rovesciato: il cunnilingus, “tema centrale di alcuni riti tantrici che riscontrano in questo tipo di amplesso la possibilità per l’uomo di effettuare un regressus a livello allegorico e, per entrambi gli amanti, di identificarsi con l’altro, assorbendone l’essenza, convenzionalmente denominata Rossa (femminile) e Bianca (maschile)” (27):
“Ella dovrebbe fargli baciare il suo Padma (fiore di loto: vulva) ruotando gli occhi (per dimostrargli il piacere)…Ella dovrebbe parlargli in questo modo…”Guarda il mio loto dai tre petali, ornato al centro dallo stame. Oh, è il campo del Piacere Celeste adornato dal Buddha rosso…Oltre l’immaginabile è la pace che il piacere dà a colui che brama…” Egli dovrebbe poi risponderle: “La donna è la sola a donare la nascita, a donare il piacere reale…i meriti della donna racchiudono quelli di tutti gli esseri viventi. Sia la bontà che la protettività sono nella mente della donna…La donna, quale oggetto dei cinque sensi, è dotata di forma divina”…Respirando il suo profumo, egli dovrebbe carezzare con la lingua l’apertura della donna. E poi dire: “Come sono entrato da qui, così ne sono emerso numerose volta”. Inginocchiato egli dovrebbe leccare il Loto e assorbire con la lingua il Bianco e il Rosso…dopo che avrà lavato il Loto con la lingua, la Saggezza salirà in lui ed egli dovrebbe baciarla ed abbracciarla…le donne sono la Perfezione della Saggezza…” (Candamahārosana Tantra cit. in Schwartz, 2000, 27-28). Il denso simbolismo del rituale di accoppiamento, sottolineato anche dalla verbalizzazione degli atti, chiarisce bene il carattere iniziatico e trascendentale di cui in questo caso l’uomo (ma il caso della fellatio costituirebbe evidentemente il reciproco) si avvantaggia e che fa della donna e del suo organo sessuale il ricettacolo e dell’amplesso l’evento.
Novalis, nei suoi Frammenti filosofici, descrive una sorta di scala progressiva di accesso all’esperienza di trascendimento e di spiritualizzazione di cui l’amplesso, o meglio, l’immersione nel corpo femminile, costituirebbe il tramite. In questo caso si darebbero una serie di atti, lo sguardo, il discorso, l’unirsi delle bocche, l’abbraccio, il contatto delle parti del corpo, l’amplesso, attraverso i quali l’anima discenderebbe verso il corpo mentre simultaneamente si realizzerebbe una serie opposta attraverso la quale il corpo ascenderebbe verso l’anima. Da questo punto di vista la qualità alchemica dell’esperienza erotica sarebbe ulteriormente confermata, sia per l’equivalenza della serie corporea con quella spirituale (dell’anima) sia per l’opposizione speculare dell’abbassamento con il sollevamento. Si realizzerebbe un sottilizzarsi del corpo e un corporeizzarsi dello spirito che darebbe luogo a una condizione intermedia, verosimile quintessenza dell’ebbrezza erotica. Come sostiene ancora Evola “ove ciò si verifichi, attraverso la donna si viene, in una certa misura, alla rimozione della frontiera fra anima e corpo, in un principio di espansione integrativa della coscienza in zone profonde abitualmente sbarrate dalla soglia dell’inconscio organico: per cui, su tale linea, l’espressione “unirsi con la vita” potrebbe acquistare un significato precipuo”(Evola, 1976, 139).
Ecco dunque ricomparire lo sfondamento dell’esperienza erotica duale verso la direzione di un’espansione e diffusione cosmica, che conferma l’idea che il reticolo cui sovrintende amore, come nella filosofia neoplatonica e rinascimentale, non può essere limitato alla sfera umana, ma deve forzatamente comprendere l’infinita scala degli esseri e delle cose. Del resto questo è pienamente confermato dai testi tantrici nei quali “l’amplesso umano è mimesi del processo cosmogonico in quanto la creazione è unione sessuale” (Schwartz, 2000, 320): la creazione come copulazione. Che fa a sua volta echeggiare in certo qual modo la nozione schellinghiana, esposta nelle Età del mondo (1991), di “copula infinita” come teoria del legame, di cui la Natura è l’archetipo, in quanto Luogo e Legante, autentico principio di separazione e di unità, di rivolgimento e di interpenetrazione, che assicura la presenza della totalità, del soggetto e dell’oggetto, dell’ideale e del reale, del naturale e dello spirituale nell’unità.
L’unione di Śivā –Śakti (apparentabili, come principi maschile e femminile universali agli junghiani animus-anima) si ripete in ogni unione umana e fa di essa un atto sacro donando a chi la attarversa la condizione dell’immortalità. “L’associazione amplesso amoroso-processo cosmogonico implica anche l’associazione impulso sessuale-continuità della vita; entrambe hanno un valore allegorico che rimanda alla perennità del cosmo e all’immortalità dell’individuo” (Schwartz, 2000, 321). Il che non significa rimettere in causa l’elemento letterale della continuità della specie, ma semmai affermare il carattere prettamente simbolico del gesto copulativo come creativo e soprattutto l’attingimento della beatitudine estatica, questo sì, anche materialmente, ma, direbbe Evola, su un piano sottile, la cui percepibilità è fondamentalmente la posta in gioco di un processo di affinamento spirituale.
Nel tantrismo il sesso non ha mai scopo generativo, ma è mezzo di iniziazione e realizzazione personale. Così in generale nella maggior parte delle tradizione esoteriche che hanno posto al centro le pratiche sessuali, sia nella forma dell’amplesso e dell’esperienza dell’orgasmo che in quelle, dal carattere più spiccatamente magico e trasformativo, in cui si predilige la forma del coitus reservatus cioè dell’orgasmo trattenuto. La simbologia tradizionale ha sempre guardato ai principi del maschile e del femminile come ai due risvolti archetipici e perciostesso metafisici di una Unità originaria. Di cui l’uno, il maschile, rappresentasse il principio immutabile e spirituale e l’altro, il femminile, il principio in divenire e materiale. Di volta in volte risimbolizzati sotto il segno del Cielo e della Terra, del nous e della Psyche, del Fuoco e dell’Acqua, della Perfezione Attiva e di quella Passiva, dello Yang e dello Yin ( metafisica estremo-orientale), del Purusha e della Prakrtî (induismo), o ancora metaforicamente come Picco e come Valle, associati alle qualità del secco, caldo e luminoso da una parte e all’umido, freddo e oscuro dall’altra, il maschile e femminile appaiono i poli essenziali di una dualità irriducibile le cui nozze sacre appaiono una meta esoterica fondamentale e ineludibile.
Nel femminile si può riconoscere, oltre alla dualità uranico-pandemica descritta da Platone nel Fedro, quella demetrico-afroditica che ha importanti conseguenze sulla metafisica del sesso, in quanto il tipo afroditico si contrappone al carattere materno e tellurico del tipo demetrico come “forza dissolvente, travolgente, estatica e abissale del sesso” (Evola, 1976, 188). Vergine e inaccessibile, come Ishtar, Astarte, Anaitis essa è in pari tempo la “Grande Prostituta” e anche la “Prostituta Celeste”. Il suo principio ontologico è analogo a quello di una sorta di “materia prima” capace di ricevere infinitamente forma senza mai essere esaurita. “Vergine dunque come inafferrabilità, come abissalità, come ambiguità e elusività della ‘femina divina” (189). Di questo tipo femminile va sottolineata la componente vertiginosa della nudità, esemplificata per esempio nel rito della danza dei sette veli che originariamente era appunto una danza sacra in cui lo scioglimento dei veli corrispondeva all’accesso progressivo alla nudità dell’essere assoluto attraverso le sette sfere planetarie. A questa interpretazione misterica corrispondeva però, sul piano del simbolismo della materia, il denudarsi della potenza femminile fino al suo manifestarsi nella propria elementarità. Il carattere numinoso della nudità femminile da un tale punto di vista si rivela con evidenza nella potenza letale della visione di Diana o di Atena nuda.
La nudità, nelle diverse tradizioni, e in particolare la nudità femminile, acquista quindi un valore magico-misterico, e l’accostamento ad essa presuppone una consapevolezza iniziatica e l’impegno a misurarsi con le dimensioni profondissime ed elementari dell’essere. Da questo punto di vista Evola riconduce i Misteri Minori o Isiaci a riti in cui si tratta di reintegrarsi con il cosmo attraverso il congiungimento con la sostanza femminile. Ma la nudità femminile appare in tutta la sua grandiosa potenza di fascinazione anche proprio in quanto adombra, nella manifestazione conturbante delle sue forme, la nudità elementare e originaria, producendo in chi la contempla una “Vertigine simile a quella provocata dal vuoto, dal senza-fondo, nel segno della yle, sostanza prima della creazione” (238). In tal senso si può dire che “ogni esperienza erotica di rilievo è il rapporto che si stabilisce fra una persona e il principio nudo, l’essere, di un individuo di sesso diverso” (275). In realtà ciò che qui è adombrato è anche il fatto che la visione dell’altro è un mezzo di accesso a dimensioni esperienziali superiori o occulte. La nudità della donna, per esempio, è un mezzo per attivare la “donna della mente” o “occulta” presente a livello immaginativo in ciascun uomo e per consentirgli così di celebrare un rituale di riunificazione interiore.
La sessualità, ancora, nel mondo tradizionale, ha di frequente avuto carattere misterico e sacro, sia nelle forme di ritualizzazione delle nozze sacre, sia nelle forme orgiastiche, come ierogamia diffusa e illimitata orientata a sperimentare rotture di livello dell’esperienza, accessi al trascendente proprio attraverso il dissolvimento della dimensione individuale e l’ottenimento di energie sottili. E’ tuttavia probabilmente nelle pratiche tantriche e in particolare nella specifica pratica conosciuta come “Via della mano sinistra”, dissolutiva e traumatica, (differente da quella “della mano destra”, costruttiva e positiva, di carattere più ascetico) che la magia sessuale assume la sua fisionomia più caratteristica e completa.
L’incontro effettivo tra l’uomo e la donna nell’amplesso ha qui il carattere di un rituale organizzato per celebrare le nozze cosmiche e per far sì che l’uomo possa fruire dello stato non-duale e liberatorio che è connesso all’assorbimento del “puro grano di loto”, dell’essenza o rajas femminile. In queste pratiche l’uomo, che si accoppia rigorosamente con donne d’eccezione, cioè donne che non abbiano legami sociali o familiari, capaci di un assoluto abbandono e di incarnare la donna trascendente (il che peraltro appare più frequente nelle donne di bassa casta e di facili costumi piuttosto che in quelle nobili, proprio perché le prime sono più vicine alla materia ancora non plasmata e all’elementarità del femminile), è tenuto a trattenere l’emissione del seme. Ed è in virtù di questa pratica che egli può accedere a quella “rottura di livello” che consente l’apertura all’esperienza di trascendimento e di riunificazione con l’incondizionato, in quanto l’esperienza non si arresta all’orgasmo ma si “fissa” in uno stato continuo alimentato come da un fuoco dalla sostanza sottile della donna che si rivela essere qui una sorta di “Acqua di Vita” alchemica. Tutto questo non significa che la donna rivesta un ruolo puramente ausiliario. Essa vive sincronicamente la sua esperienza sottile e in particolare occorre sottolineare che l’unione non si sviluppa solo sul piano dell’unificazione fisica ma prevede “l’integrarsi di due immaginazioni viventi, e quasi diremmo magnetizzate dal desiderio, che s’incontrano (come) controparte interna del regime tantrico dell’amplesso” (350).
Si tratta di una pratica faticosa e che richiede una lunga preparazione. Essa presuppone una fase di adorazione della donna (della Dea che è presente in lei) e poi un tirocinio alla realizzazione dell’amplesso che ha evidente carattere iniziatico. Inizialmente l’uomo deve servire la giovane donna, poi, per quattro mesi, come riporta un manoscritto bengali (351-352), dovrà dormire nella stessa stanza di lei avendola alla sua destra; per altri quattro mesi, sempre senza toccarla, dormirà avendola alla sinistra. Solo dopo questo periodo potrà accedere all’amplesso. Si tratta, come è evidente, di un esercizio orientato a generare un desiderio sempre più sottile e un dominio che posa garantire la capacità di immobilizzare l’emissione del seme e di ottenere la dissoluzione nella sostanza fluidica della donna. Questa pratica consente di attivare magicamente la liberazione, ma il pericolo di un’intossicazione, fisica e immaginativa, dell’energia elementare del desiderio è sempre presente, il che comporta la preferenza per pratiche yogiche di risveglio della kundalini di tipo non operativo attraverso esercizi di respirazione e di meditazione.
Pratiche sessuali magiche si possono ritrovare poi sia nella tradizione taoista sia nel mondo arabo che nell’alchimia medievale in Occidente. Nella modernità si sono avuti ulteriori esempi con le teorie di Kremmerz, di Crowley fino a quelle di Randolph e alla sua “Magia sexualis” della fine dell’800. In esse e in particolare in quest’ultima ritroviamo tuttavia una secolarizzazione delle pratiche religiose a fini pratici che sembra modificare sensibilmente la vocazione originaria della magia sessuale orientata a propiziare folgorazioni di tipo spirituale. D’altra parte, essa conferma la persistenza di un interesse e di una tradizione che continua a leggere nel sesso, nelle sue posizioni e nei suoi rituali, una componente largamente investita di potere trasformativo e rigenerativo. Secondo Randolph, attraverso pratiche sessuali che comportano l’esercizio di capacità preliminari variamente denominate, come il “volitismo” (capacità di dominarsi), il “decretismo” (capacità di imporre con convinzione), il “posismo” (capacità di tradurre pensieri in gesti e comportamenti adeguati) e una complessa interazione di odori, suoni e colori combinati con dati astrologici e oroscopici, si può tentare di realizzare progetti e desideri precisi, rigenerare energie e potenziare i propri influssi magnetici, assoggettare e perfino caricarsi psichicamente al fine di condizionare la natura e gli oggetti. L’atto sessuale magico dovrebbe compiersi in virtù dell’espressione simultanea di una volontà precisa nel momento apicale dell’amplesso vissuto contemporaneamente dai due partner. Perché ciò possa accadere occorre che i due partner si sprofondino (s’abimer) e insieme si elevino nel momento in cui in pienezza giungono a toccare la radice del sesso opposto.
Tutte le concezioni qui sommariamente percorse e rammentate in un’epoca di oblìo dei significati profondi dell’esperienza sessuale e le molte qui non ricordate di medesima natura conducono a valutare secondo una diversa scala di valore e soprattutto attraverso riferimenti simbolici e analogici di grande ricchezza psicocorporea la relazione tra l’uomo e la sessualità.
Il sonno di Albertine
“Quando le mie fanciulle vagano e si muovono, fluttuano le loro anime lentamente come barche che siano riparate a una sponda incerta. –Poiché le loro anime sono gondole d’oro e cariche d’impazienza”
(Rilke)
“Distesa dalla testa ai piedi sul mio letto, in una attitudine di tale naturalezza che sarebbe stato impossibile inventarla, mi sembrava un lungo stelo fiorito che fosse stato posato là. E tale era, infatti: il potere di sognare, di cui godevo soltanto quand’era assente, lo ritrovavo in quei momenti vicino a lei, come se, dormendo, Albertine si fosse trasformata in una pianta. Per questo aspetto, il suo sonno attuava, in una certa misura, la possibilità dell’amore. Quand’ero solo, pensavo a lei, ma essa mi mancava, non la possedevo; presente, le parlavo, ma ora ero troppo assente da me stesso per poter pensare; quando dormiva, non dovevo più parlare, sapevo di non essere più guardato da lei, non avevo più bisogno di vivere alla superficie di me stesso” (Proust, 1972, 67).
La fanciulla apparsa un tempo profilarsi “contro le onde del mare”(65) e che la quotidianità della relazione amorosa ha lentamente rivestito di una patina opaca, certo pronta a lacerarsi non appena il pungolo della gelosia avesse trovato il modo di manifestarsi, e per evitare il quale Marcel si vieta di seguirla e di accompagnarla nelle sue passeggiate, ritrova improvvisamente tutta la profondità e distanza necessaria non appena scivola nel sonno. In questo stato il protagonista e narratore si “guarda bene” dallo svegliarla. Ora soltanto egli è in piena presenza alla presenza di lei. Ella non è più assente ma neppure presente al punto tale da costringerlo a venire tutto in superficie, sotto il suo sguardo. Lo sguardo di lei è scongiurato e finalmente Albertine non è più che uno stelo fiorito o una pianta, una forma splendida di vita vegetale pienamente a disposizione della contemplazione assorta di lui.
Albertine “non era più animata che dalla vita incosciente dei vegetali, vita molto più diversa dalla mia, più strana, e che tuttavia mi apparteneva ben di più. (...) Il suo “io” non fuggiva via a ogni istante, come durante le nostre conversazioni, attraverso gli spiragli del pensiero inconfessato e dello sguardo. Albertine aveva richiamato a sé tutto ciò che di lei si trovava riversato di fuori, s’era rifugiata, richiusa, riassorbita nel proprio corpo. (...). La sua vita mi era sottomessa, esalava verso di me il suo soffio leggero” (67-8). Nel sonno, come la mitica “ninfa della fonte”, finalmente Albertine era sottomessa, vita che riposa in sé stessa senza dover essere più contesa ad un “fuori” che la allontana continuamente nella veglia. Stato intermedio sublime, in cui le insidie del mondo si tacitano, gli sguardi fuggitivi si arrestano, le febbrili intermittenze dell’attenzione svaniscono ed ella, come “riassorbita” in sé, giace indicibilmente offerta, seppure rapita in una forma di vita “molto più diversa” da quella del narratore.
Lontanissima e finalmente vicinissima. La presunzione psicoanalitica vi vedrebbe una fantasia mortifera, ma qui, se siamo certo in presenza di un desiderio di possesso che sconfina anche nel desiderio di morte, non possiamo dimenticare di cogliere la speciale vita di cui la bellissima prosa dell’autore ci rende partecipi. E’ solo il vizio dell’interpretazione che ci fa scambiare la vita vegetale per la morte. Albertine non è morta, si è solo “riassorbita” in sè, e Marcel non vuole violare questo stato, non vuole penetrare all’interno di questo sonno vegetale per ridurlo alla perpetua immobilità, vuole piuttosto essere il muto e rapito testimone di questo fiore che emana il suo “soffio leggero”, come se finalmente, e proprio a partire da questa paradossale condizione, l’amore, “la possibilità dell’amore”, per usare le sue parole, si desse nella sua massima intensità. L’amore di Marcel si “attua” in virtù del fatto che il sonno di Albertine restituisce al protagonista “il potere di sognare” di cui egli sa godere, almeno in parte, quando lei è assente. Certo De Rougemont ci vedrebbe l’ennesima ripetizione del modulo “amore come morte”, ma forse questa “figura” va intesa piuttosto come esposizione del significato di “amore come sogno”, amore come contemplazione del sonno, dell’altro come infinitamente lontano e come infinitamente vicino, simultaneamente. Il medium della relazione non è più la realtà, ma il tessuto obliquo e impenetrabile del sogno. Certo, Albertine non può restituire il suo desiderio a Marcel, ma è forse così necessario? Di che materia è fatto l’amore, dove si trova, in quali condizioni si attua, sembra chiedere qui Proust.
Albertine ora è una creatura più che mai dissolta, ipnagogica, fatta acqua, si potrebbe dire: “Ascoltavo quella mormorante emanazione misteriosa, dolce come uno zeffiro marino, fantasmagorica come quel chiaro di luna che era il suo sonno. Finché esso durava, potevo pensare a lei, e tuttavia contemplarla; e, appena diventava più profondo, toccarla, baciarla. (...) E infatti, appena il suo sonno si faceva un po’ più profondo, Albertine cessava di essere soltanto la pianta che era stata: il suo sonno – sull’orlo del quale io fantasticavo, con una fresca voluttà di cui non mi sarei mai stancato e che avrei potuto gustare indefinitamente – era per me un intero paesaggio. Il suo sonno metteva al mio fianco qualcosa di così calmo, di così sensualmente delizioso, come quelle notti di plenilunio nella baia di Balbec, divenuta dolce come un lago, in cui le fronde si muovono appena e, distesi sulla sabbia, si starebbe ad ascoltare senza fine il frangersi del riflusso” (68).
Impressione di autentica magìa, quella suscitata dal sonno di Albertine, in cui il suo corpo che affonda progressivamente nelle spire del sonno diviene ricettacolo di una esperienza cosmogonica, di una trasfigurazione dell’imago dell’amata in paesaggio, in natura. Ma quale natura? La natura notturna, scura e liquida, quella di un mare fatto lago, all’insegna della calma e della impercettibile rifrazione luminosa che sembra davvero evocare più che mai la geografia simbolica dell’adesione e dell’intimità, giocando un poco con le categorie immaginarie della archetipologia di Gilbert Durand.
Ma di più, qui si dà lo slittamento del corpo dormiente nell’atmosfera acquatica, lunare, di una cosmologia ciclica, avvolgente, discendente. Allora certo può sovvenire alla memoria l’immagine così appropriata alla sciagura di Ofelia, della sintesi dei flutti e della Luna che Bachelard propone nel commentare il complesso della fanciulla morente (1987, 68). Ma l’elemento tragico appare del tutto fuori luogo nella narrazione proustiana che, a voler allora cercare un riferimento nell’immaginazione materiale di questo elemento, dovrebbe forse piuttosto rifugiarsi nell’atmosfera morbosa dei sogni di Novalis nell’Enrico di Ofterdingen. Nella pagina scelta da Bachelard si tratta infatti di un sogno dell’autore ove, al momento in cui il sognatore si spoglia e scende nel bacino d’acqua che lo chiama “irrefrenabilmente”, “da ogni parte si levavano immagini sconosciute che si fondevano egualmente le une nelle altre, per diventare esseri visibili e circondare (il sognatore), in modo che ciascuna onda del delizioso elemento si incollava a lui strettamente come un dolce seno. Sembrava che all’interno di questo flutto si fosse disciolto un gruppo di deliziose fanciulle che, per un istante, tornavano a essere corpi a contatto del giovane”. E’ l’acqua stessa, qui, a prendere la forma, secondo Bachelard, di una “fanciulla disciolta”, come un’ “essenza liquida di fanciulla” (111). Il filosofo francese sottolinea come questo sogno sia una sorta di “sogno dentro al sogno, non tanto nel senso etereo, ma nel senso della profondità” (ibidem), istituendo un’interessante connessione tra profondità del sogni e emersione di materia immaginativa che assume la fisionomia di una femminilità dissolta. Ciò che è l’esatto rovescio, o meglio l’intersezione chiasmatica, tra il sonno di Albertine, la sua profondità, l’apparizione di un paesaggio acquatico e, come vedremo, il bisogno, quanto più esso si fa profondo, di immergervisi e ottenerne il balsamo. Più avanti Bachelard osserva, sulla scorta di un commento di Renan al termine kalliparzenòs (bella vergine) attribuito al fiume nei suoi “studi di storia religiosa”, che una tale definizione non può che essere spiegata a partire dall’immaginazione della materia: “i flutti ricevono biancore e limpidezza da una materia interna. Si tratta di materia di fanciulla disciolta. L’acqua si è appropriata della sostanza femminile disciolta. Se volete un’acqua immacolata, fate sciogliere in essa delle vergini. Se desiderate i mari della Melanesia, fate sciogliere in essi delle fanciulle nere” (114-115).
Ecco allora che l’impressione trasfigurata di Proust appare confermata da questa interpetazione materica di Bachelard, ma sconfina anche nell’elogio dell’eros cosmogonico proposto da Klages, poichè qui l’amore assomiglia proprio a quell’Eros della lontananza che il filosofo tedesco indica come il vertice del compimento amoroso e in cui “l’ebbro per l’altro ebbro rimane un Secondo che non si mescola mai, un occhio del tutto che lo guarda da una purpurea notte. Abbandonarsi a questo, non significa bramarlo; abbracciarlo non significa diventare una cosa sola con esso; e tramontare in esso, ma significa destarsi! (...) soltanto qualcosa di eternamente lontano dona beatitudine di rapimento” (Klages, 1979, 76-77).
Ma la deriva è in Proust un poco diversa: se in queste pagine indubbiamente avvertiamo implicitamente una sorta di deflagrazione cosmica, una tale evoluzione sembra incamminarsi in seguito, nel brano della Prigioniera, più che nella direzione di una esperienza spirituale e di “lontananza”, in quella di una progressiva diluizione, di uno scioglimento e di una immersione profonda nella materia acquatica (e cosmica) rivelata dal moto e dalla fisionomia ora inesauribile di Albertine: “Il suo respiro, a poco a poco più profondo, le sollevava leggermente il petto e, sopra questo, la mani incrociate, le perle, spostate in maniere diverse dallo stesso movimento, come quelle barche, o quelle catene di ormeggio, che oscillano al moto dell’onda. Allora, sentendo che il suo sonno era nella sua pienezza, che non avrei più urtato contro scogli di coscienza ormai ricoperti dall’alto mare del sonno profondo, balzavo deliberatamente, senza rumore, sul letto, mi stendevo accanto a lei, le allacciavo con un braccio la vita, posavo le mie labbra sulla sua gota e sul suo cuore; poi, su tutte le parti del suo corpo, posavo la sola mano rimastami libera, anch’essa sollevata, come le perle, dal suo respiro; io stesso ero spostato lievemente dal suo moto regolare: mi ero imbarcato nel sonno di Albertine” (69-70).
La sua è una “discesa profonda dentro di lei”, è una dissolutio in anima, una trasmutazione alchemica della quale la voluttà dei sensi è solo un episodio: “lasciavo la mia gamba abbandonata contro la sua, come un remo che venga lasciato pendere e cui s’imprima di tanto in tanto una lieve oscillazione, simile al battito intermittente dell’ala negli uccelli i quali dormono in aria...” (70) (si noti la perfetta metafora aerea, ancora una volta ipnotica, che trasforma il volo stesso in una navigazione notturna, in una oscillazione liquida), “il rumore del suo respiro, facendosi più forte, poteva dare l’illusione dell’ansito del piacere e, quando il mio era al termine, io potevo baciarla senza interrompere il suo sonno. Mi sembrava in quei momenti, d’averla posseduta più completamente, come una cosa incosciente e senza resistenza della muta natura” (ibidem).
Albertine è in questo amplesso più “autentico” l’espressione della muta natura e dunque il rapporto si risolve in una congiunzione ben più profonda di quella disturbata dalla “presenza” vigile di lei, una dissoluzione, un naufragio in una materia umbratile e marina di cui Albertine è la perfetta mormorante effigie: “continuando ad ascoltare, a raccogliere a ogni attimo il murmure, calmante come un’impercettibile brezza, del suo puro respiro, avevo dinanzi a me tutta un’esistenza fisiologica; e sarei rimasto lì a guardarla, ad ascoltarla, così a lungo come un tempo rimanevo disteso sulla spiaggia” (71). Albertine dormiente è un’icona della natura, ma natura vivente, il cui ritmico respiro si fa pulsazione cosmica e la cui contemplazione si dilata nella bizzarra figura di una specie di talassoterapia: “come si prende per cento franchi il giorno una camera all’Hotel di Balbec per respirare l’aria di mare, giudicavo naturalissimo spender assai di più per lei, dacché avevo il suo respiro presso alla mia gota, nella mia bocca, che schiudevo sulla sua, dove passava contro la mia lingua la sua vita” (72).
Ma, si badi bene, Albertine non è sostituibile, non è un fungibile schermo che porti in seno il respiro della natura come potrebbe farlo chiunque altra. Proust sa bene che un tale piacere è condizionato alla creatura da cui egli ha subito le angherie dell’amore e che, proprio in quanto finalmente docile e come liquefatta, può restituirgli l’oro del possesso felice. E’ la sua propensione fuggitiva che garantisce, nel momento della quiete, la ricompensa raddoppiata: “forse è necessario che gli esseri siano capaci di farci molto soffrire perchè, nelle ore di remissione, ci procurino la stessa calma pacificante che dà la natura” (71). L’ora dorata della remissione è quella in cui Albertine, la sospirata e inafferrabile Albertine, si rivela domata, perfettamente nota, anche se, occorrerebbe aggiungere, nel suo ondeggiare femminile è la calma infinita della natura che il poeta gode infine, proprio come la quiete dopo la tempesta.
Vis Chordis
“Amor che al cor gentil ratto s’apprende...”
La dialettica cuore-amore sembra risentire oltremodo, nei suoi stilemi e lemmi, del disinganno che tanto ha respinto nella miseria del disappunto ogni pascaliano sentimento del cuore contrapposto alla ragione. Feroci strali vi hanno indirizzato , tra gli altri, come sottolinea Elio Franzini nella sua “Filosofia dei sentimenti” (1997), due pensatori acuti come Valery e Kundera, il primo registrando la confusione tra un regno di presunte “ragioni” e uno ben più legittimo di “forze”: “non ci sono le ragioni del cuore ma pressioni e decisioni mute” (Valery, 1974, II, 353), il secondo scatenandosi contro ogni sentimentalismo o estetismo “kitsch”, cioè a dire contro ogni inautenticità che possa impedire l’emergenza del negativo e dello sguardo critico in un mondo sottoposto alla “dittatura del cuore” e dove “la merda è negata e tutti si comportano come se non esistesse” (Kundera, 1985, 254). Una tale dialettica appare tuttavia a tratti rischiarata da sguardi meno acuminati dalla preoccupazione di vendicare le ragioni dell’ironìa e del buon gusto e più pacati nell’approfondire un viluppo millenario dai molteplici possibili vertici di comprensione.
Ovviamente non si tratta qui di riesumare torti e meriti del conflitto davvero obsoleto tra cuore e mente, tra sentimento e ragione, quanto di provare a indicare altre vie di tematizzazione del dominio del cuore da troppo tempo in “esilio”, secondo l’espressione di James Hillman (1993, 44), dopo che il piccolo organo pulsante ha, per lunghissimo tempo, occupato, ad esempio, la posizione di sede dell’anima e di intermediario tra anima e corpo, in virtù del funzionamento pneumatico dell’apparato che la medicina antica denomina proton organon situato appunto in esso.
Secondo tali teorie era il cuore ad assicurare, tramite il pneuma astrale, la comunicazione tra l’immateriale e il materiale, ed era lo spirito sidereo a mediare il passaggio dai sensi all’anima: esso altro non era che materia immaginativa, phantasia. Una tale teoria, che esordì con Empedocle e transitò attraverso Platone e Aristotele, si perfezionò nello stoicismo, nella quale esso è un “sintetizzatore” cardiaco, l’hegemonikon, lo strumento appunto “principale” che fornisce all’intelletto le “impronte dell’anima” sotto forma di correnti pneumatiche. E’ solo più tarda l’avocazione al cervello delle facoltà sintetizzanti dell’hegemonikon, che si deve in particolare a Galeno (cfr. Couliano, 1991, 16-23).
E tuttavia l’idea che l’anima, in particolare come sede di una facoltà immaginativa trascendente, sia in grado di mettere in comunicazione il visibile e l’invisibile, si ritrova parallelamente anche nelle teorie dei neoplatonici persiani, e in particolare in Ibn Arabi, studiato da Henry Corbin. “Il “cuore” (qalb), per Ibn ‘Arabî come per tutto il sufismo, è l’organo grazie al quale è prodotta la vera conoscenza, l’intuizione comprensiva, la gnosi (ma’rifa) di Dio e dei misteri divini; in breve, è l’organo di tutto ciò che può essere compreso sotto la definizione di scienza dell’esoterico (‘ilm al-bâtin). E’ l’organo di una percezione che, come tale, è esperienza ed assaporamento intimo (dhawq)” (Corbin, 1958, 193).
Anche qui il cuore non è la sede dell’amore ma della conoscenza, mentre il centro dell’amore è, nel sufismo, lo spirito (rûh). Una concezione questa che riposa sulle fondamenta di una “fisiologia sottile” che opera su di un “corpo” intermedio distinto da quello fisico provvisto di organi psico-spirituali. Il cuore ne è uno dei centri, esso designa l’organo della vera visione, l’occhio del mistico, che è l’occhio di Dio attraverso cui Egli conosce sé stesso. In questa concezione fortemente simpatetica della creazione il Dio sofferente e melanconico della Gnosi crea l’uomo e il mondo per poter essere riconosciuto da esso, perchè si realizzi, nel desiderio nostalgico della Creatura per il Creatore, che altro non è che il Sospiro stesso del Creatore che divampa nella creatura, l’unione mistica, o appunto sympathetica, tra il Signore e il suo Servo.
L’amore tra Dio e la sua Creatura è continua permutazione dell’uno nell’altro e si manifesta come “ardente Desiderio, nostalgia compatita ed incontro” (130). Ed è il cuore l’organo deputato al riconoscimento, esso è “come uno specchio nel quale si riflette la forma microcosmica dell’Essere divino” (194), la sua “teofanìa”. Una tale potenza del cuore è designata come himma, ravvicinabile all’esperienza greca denominata enthymesis, “atto del meditare, del concepire, immaginare, proiettare, desiderare ardentemente, cioè essere in presenza del Thùmos, che è forza vitale, anima, cuore, intenzione, pensiero, desiderio” (ibidem). La himma è in grado di presentificare nell’atto visionario un essere esterno al concepente e in tal senso si rivela “creatrice”, capace cioè di un atto di “Immaginazione creatrice”: il cuore dello gnostico rende visibile, fa apparire la proiezione dell’essere esterno, misterioso, che si riflette in lui. E ciò che riesce a proiettare, l’immagine di Dio riflessa in lui e che assume forma sensibile, sta in relazione con la “capacità” del cuore stesso, con il livello spirituale cui si innalza l’immaginazione teofanica.
“L’himma è quel modo attraverso cui le immagini, che crediamo di creare noi, in realtà ci vengono offerte non come fatte da noi, ma come effettivamente create, come autentiche creature” (Hillman, 1993, 44). Il sacro che riposa in ogni cosa, si potrebbe anche dire, è affidato alla capacità di visione della himma di ciascuno, il cui luogo è il cuore come organo sottile: “che contemplando un’immagine, un’icona, altri riconoscano e percepiscano come visione divina la visione dell’artista che l’ha creata, è qualcosa che dipende dalla creatività spirituale, dalla himma, investita da quest’ultimo nell’opera” (196) (qualcosa che, anche intuitivamente, è trasferibile alla dimensione immaginale di ogni opera d’arte e non solo).
La percezione mediante il cuore è la forma di conoscenza per eccellenza del mistico, è la “scienza del cuore”, la capacità, derivante dal proprio grado di himma, di “percepire le metamorfosi divine, cioè la moltitudine e la trasmutazione delle forme in cui l’Ipseità divina si epifanizza, che sia una figura del mondo esteriore o che sia una credenza religiosa” (201). In tal senso il cuore è anche superiore all’intelletto perchè quest’ultimo è consegnato ad una facoltà discriminativa e non è dunque in grado di cogliere l’unità immaginativa del tutto come il cuore che invece percepisce la perfetta unità del molteplice.
Esattamente come la comprensione razionale che astraendo separa e frammenta mentre l’atto di cognizione immaginativa conserva la complexio oppositorum del sensibile e dell’archetipico in una forma intuitivamente percepibile. Da questo punto di vista, così come il cuore domina le altre funzioni percettive nel mondo sottile, così l’immaginazione teofanica si rivela nel sufismo la facoltà principe della conoscenza, un’Immaginazione visionaria, una “presenza del cuore” in quel mondo intermedio, che è “co-spirazione” (sympnoia) dello spirituale e del fisico e che domina il mondo esteriore degli oggetti materiali (fissati e unilaterali), il mundus imaginalis.
Il cuore si rivela, attraverso la sua himma, l’organo di accesso al reale come luogo di una creazione nuova e ricorrente, un reale epifanico la cui morfologia sta in corrispondenza con il grado della appercezione spirituale di chi immagina, della sua apertura alla fiducia nell’ispirazione trascendente che traluce da ogni cosa. Attraverso la himma le cose percepite nel mondo sensibile sono trasferite nel mondo immaginale, dove realizzano la loro funzione teofanica. Ogni interpretazione, nella gnosi islamica, è in questo senso ta’ wîl, trasmutazione dei segni del reale in “simboli”, in Immagini archetipiche che appunto sim-boleggiano tra il sensibile e l’invisibile, manifestando lo spirituale percepibile nella trasparenza di ogni cosa. In questo senso James Hillman potrà dire che l’autentica interpretazione è sempre epistrophé, riconduzione del visibile nell’immaginativo, restituzione del reale al suo fondamento archetipico, “visione in trasparenza”.
La connessione profonda tra amore e immaginazione, in assenza del riferimento a Corbin, risulta amputata, tronca. E così è della “prigionia” del cuore nell’epoca contemporanea, che forse va reinterpretata seguendo alcune “immagini” particolarmente rivelatrici. James Hillman ci fornisce alcune tracce per ripensare il cuore, attraverso le metafore di esso presenti nella nostra attuale cultura: il cuore “leonino”, il cuore “pompa” idraulica di Harvey, il cuore del sentimento personale o cuore di Agostino.
Del cuore leonino si può dire che ci è tramandato dalle antiche discipline della medicina e dell’astrologia: in esse il cuore è caldo e secco, è come “il sole: rotondo, pieno e integro; i suoi classici simboli sono l’oro, il rosso, il sol, lo zolfo, il calore. E’ il cuore che arde al centro del nostro essere e si irradia all’esterno, magnanimo, paterno incoraggiante” (Hillman, 1993, 47). Questo cuore ardente è ben simbolizzato alchemicamente nel principio del sulfur, della magna flamma. Il che spiega la simpatìa analogica tra l’atteggiamento ispirato dal cuore e tutto ciò che nel mondo s’illumina, “sfolgora di bellezza”. Lo zolfo si attiva immaginativamente verso il mondo e aderisce infiammato ad esso: “Lo zolfo letteralizza il desiderio del cuore nell’attimo stesso in cui il thymos si entusiasma(...): il desiderio e il suo oggetto diventano indistinguibili” (49).
Si tratta di una “proiezione cordiale”, di un lancio della coscienza dinanzi a sé, nella sua immaginazione attivata, che suscita le virtù necessarie a una tale adesione: orgoglio, magnanimità, coraggio. Ecco il “cuore di Leone”! Tale stile di espansione evoca la natura animale del cuore, che “sente e risponde a tutto direttamente come un tutto unitario” (50). In esso il macrocosmo e il microcosmo si fondono e il cuore è il luogo, aristotelicamente, di questa congiunzione: “il mondo è un luogo di immagini viventi, e l’organo che ce lo dice è il nostro cuore” (50). Il leone del cuore è la sua himma, quella che rende ogni palpito una scintilla di scienza del mondo, della sua texture immaginativa e simbolica.
Dei tre cuori individuati da Hillman nel suo saggio sul “cuore prigioniero” è solo il primo però che davvero può arricchire il Pantheon delle figure dell’Eros con la materia alchemica di una “visione”. Il cuore meccanico descritto da Harvey nel seicento e il cuore tutto introflesso, sentimentale, iperpersonalizzato di Agostino fugano il mistero immaginale della himma e dello zolfo leonino che lo abitano come vaso di rimescolamento cosmico. Per ritrovare, ben al di là di ogni oggettivazione macchinistica
Sulle vicende del rapporto tutto post-umano di un trapianto di cuore e dela dinamica espropriante-estraniante di questo tragitto, che inchioda alla definitiva ammissione della propria, quantunque paradossalmente “goduta”, intrusività al mondo, confrontare le mirabili pagine di Jean-Luc Nancy ne L’intrus (2000) e di ogni soggettivismo confessionale, un cuore di cui impregnare il nostro sguardo immaginale occorre volgersi allora a una pensatrice “imperdonabile” come Maria Zambrano che restituisce a questo organo abbandonato il suo luogo e la sua fisionomia in una autentica forma di redenzione.
“Oscura cavità (...) recinto ermetico (...) Viscere, interiora” (Zambrano, 1996, 49). Già ascoltando queste espressioni che la filosofa spagnola sceglie per indicare il cuore nel breve capitolo che gli dedica in Verso un sapere dell’anima sprofondiamo nell’abisso rivelatore della materia immaginale, sottile, di cui è fatto quest’organo posto al “centro” dell’uomo. Cavo e oscuro, primigenio, matrice, alveo generativo e misterioso, e: “recinto ermetico”, vaso, luogo di trasmutazione, sigillato dalla sua stessa inclusione nel profondo della carne: organo di carne, d’interiora eppure magnificato, come ogni corpo sottile, dalla sua crucialità simbolica, crocevia del tutto: “il cuore è il simbolo e la massima rappresentazione di tutte le viscere della vita, il viscere in cui tutte trovano la loro definita unità e la loro nobiltà (...) è il viscere più nobile perchè porta con sé l’immagine di uno spazio, di un dentro oscuro, segreto e misterioso che, in alcune occasioni, si apre” (ibidem). Dentro che irradia e che raccoglie. Chiuso, ma pronto ad aprirsi, per raccogliere nel suo flusso, al centro, ciò che erra nello spazio, e dargli luogo, casa. Piccolo spazio interno che simboleggia la casa e su cui ogni casa modella la propria epifanìa. Prima dimora, sensibile, vulnerabile, passività in azione, organismo risuonante che conferisce orientamento, proprio in virtù del suo risuonare, campana interna che diffonde orizzonte e offre radicamento.
A partire da quel vuoto in azione si dà la vita, quasi a conferma che ogni autentico moto si diparte da un originario luogo cavo come una mano che offre: “ogni organismo vivo punta a possedere dentro di sé un vuoto, una cavità, vero spazio vitale, esito felice del suo assestarsi nello spazio (...): quella cavità, quel vuoto, che suggella, là dove appare, la conquista suprema della vita, l’apparire di un essere vivente” (Zambrano, 2004, 68): così la vita sembra avvolgersi intorno a quella primitiva pulsazione, a quella carne canora che accoglie in sé il niente dell’origine: camera, nido, caverna dell’intimo da cui si dipana il filo rosso della vita. E l’offerta è accoglienza data a ciò cha vaga fuori: “interiorità aperta; passività attiva” (Zambrano, 1996, 50).
Ma il cuore, questo cuore, è anche per Maria Zambrano fonte di scienza, una scienza che non sacrifichi la vita all’impassibilità dell’intelletto puro, come sembrerebbe talora voler fare la filosofia, una scienza piuttosto, una sapientia chordis che resti viva, “passiva e dipendente”, rendendosi soggetta a ciò che la definisce: l’amore. Amore che è la consegna finale del cuore, ma anche il suo inesorabile destino, cui s’approssima facendosi profondo, intimo, radicato. E farsi profondo significa introdurre nella dinamica spaziale una dimensione nuova, inusitata e non frequentata dal pensiero, abissale: “profondo è lo spazio creato dall’azione di qualcosa che non è predisposta a stare nello spazio e che lo crea affinché chi vive nello spazio e lo percorre possa entrare in contatto con esso. La profondità ha molte pretese ed è tanto misteriosa perchè è lo spazio che sentiamo crearsi, grazie all’azione di qualcosa che è sul punto di tradire il suo essere per offrirlo in una consegna suprema, come è ogni consegna di ciò che non si possiede originariamente e s’acquisisce per offrirlo a chi solo così può volgersi verso colui che lo chiama. La profondità è un appello amoroso. Per questo ogni abisso attrae” (51). Meraviglioso ricamo di scrittura poetica per chiamare a credere in ciò che sembra ciascuna volta impossibile, il gesto d’amore, pura secrezione dal nulla, trasmutazione dimensionale che trova, là dove non c’è, il potere di un appello ineludibile.
Al posto della severa sentenza lacaniana che vede l’amore come un dare ciò che non si ha a chi non lo vuole, la scienza del cuore apre allo spazio di una profondità originariamente vuota, in cui l’anelito infinito a offrire a partire proprio da ciò che non è, costringe ad accorgersi che là dove c’era una cavità abissale (il cosmo disabitato), ora c’è la massima offerta di sè (il dispiegamento dell’essere). Dio che guarda Dio attraverso l’Occhio (Cuore) del Fedele d’Amore, si potrebbe anche dire. Nel silenzio perfetto solo interrotto dalla ritmica del cuore, il silenzio che nessuna parola-Logos può lacerare, pena il riaffermarsi di una spazialità geometrica, sotto il cui dominio ogni affidamento all’intimità, ogni impervia discesa nel cuore, resterebbe dissipata.
Il cuore è il centro, “vaso e centro”, ricettacolo del dolore e axis mundi: “centro che si muove soffrendo e che ricettivo deve dare continuità, e nascosto non può cessare di darsi. Ed essendo la sede del sentire, è centro attivo. Per esso passa il fiume della vita, cui deve imporre frequenza e ritmo. Passività attiva. Mediatore senza pausa. Schiavo che governa. Sottomesso al tempo, lo guida avvertendo del suo passaggio e del suo esaurimento, facendo presentire un aldilà rispetto al regno temporale che conosciamo o meglio che diamo per conosciuto” (Zambrano, 2004, 82).
Luogo ermetico, sovvertitore di ogni relazione, congiunzione di opposti, il cuore non asseconda le regole dell’intelligenza, che soffre questa “passività serpeggiante”, questo “gemere”, la persistenza silenziosa e oscura, la presenza “innocente”, l’essere che solo all’uomo è dato sentire da dentro, legame con il moto della vita, con la sua musica ineffabile. Nulla gli è estraneo e in quanto centro e vaso, esso è il “punto in cui la realtà molteplice si raccoglie, si pesa e si misura secondo un calcolo impensabile, a immagine del calcolo creatore dell’universo (...) vaso di immensità e punto invulnerabile della bilancia” (74). La sua nascosta esistenza è esposta a tutto ed esso resta talora “sommerso”, talora travolto dalle ragioni della mente che tutto occulta e che non può sentire la “chiamata” che il palpito senza requie rivolge intorno, come intimazione ad essere, “senza privazione alcuna” (79).
Profezia di un tempo ulteriore che si rivela nelle piccole estasi in cui pare arrestarsi, come aprendosi, nel dolore senza limiti o nella pienezza della vita in cui gli opposti, per un attimo, appaiono risolti.
“Che là soltanto dove tu sei, tutto sia sempre d’ infanzia. Allora tu sei tutto, sei inespugnabile”
(Goethe)
[immagine Meyer-Amden: “ragazzo in piedi a gambe incrociate”]
Il “corpo mitico”, diffuso, inaccessibile, posseduto, elfico e demoniaco del bambino, quel “blocco d’infanzia”, così definito da Deleuze e Guattary proprio per rilevarne il radicamento in un universo indistruttibile sottratto al tempo, un po’ forse come la rêverie d’infanzia di Bachelard, ci viene rivelato in un folgorante saggio di René Schérer sulla pittura di Otto Meyer-Amden. I suoi fanciulli, ritratti in un atmosfera velata e come onirica, per esempio nella Lezione di disegno, del 1920, o come dei veri e propri kouros greci, assurgono a immagini archetipiche, a corpi di luce in cui sembra realizzarsi, nella tessitura intermedia dell’immaginale, la quintessenza irriducibile di un’infanzia perduta. Corpi che “non sono rappresentazioni, ma degli interrogativi, delle offerte. Che ci riguardano” (Schérer, 2002, 110). Nei loro corpi nudi, resi essenziali e come sottratti ad ogni riconoscibilità fenomenica, ma risorti in una nudità perfetta, si rivela l’indicibile dell’infanzia, qualcosa che mostra ciò che dell’infanzia è tacitato dallo sguardo abitudinario, quel quid che suscita “rapimento e turbamento” al loro cospetto. Di cosa si tratta?
Questi giovinetti liberati dalle loro imperfezioni e guidati da un disegno sapiente alla propria “purezza d’origine”, ci restituiscono probabilmente quella che lo stesso Schérer indica appunto come “infanzia mitica”, forse un’infanzia permanente e inattingibile cui sembra del pari talora rinviare Bachelard ma che l’autore francese dell’ Emilio pervertito e di Un’erotica puerile apparenta piuttosto al piccolo Eco (soprannome di Nepomuk) del Dottor Faust di Thomas Mann o al giovane Basini dei turbamenti torlessiani di Musil. In questi autori sembra respirare l’infanzia “permanente” e irraggiungibile, ed anche in altri: Schèrer fa riferimento anche al giovane Tadzio della Morte a Venezia, sia nella versione viscontiana che in quella originale manniana, e al fanciullo che sembra traspirare dallo sguardo di Clawdia Chauchat, la misteriosa ricoverata di cui Hans Castorp si innamora nella Montagna incantata, quel “Pribislav dagli zigomi kirghisi”, dai capelli corti e dagli occhi grigi che ancora lo fa trasalire.
Ma questa infanzia trasmutata, androgina, transeunte e inevitabilmente compromessa con la morte o meglio la mortalità, non è poi così lontanadalle lolite di Balthus, anche se, per Schérer, “il ragazzo resta il paradigma di questa transizione tra l’organico e l’inorganico in cui il corpo appare sfuggire al suo destino. Dove, per eccellenza, l’astrazione si rende visibile; in lui solo l’evidenza dell’organo virile si allea alla grazia che noi prestiamo alla femminilità” (112-113).
Schérer insiste sull’astrazione del suo nudo, della nudità” celebrata da Meyer-Amden. E’ in virtù di una tale astrazione, “estetica”, che i corpi dei giovani pensionati ritratti dall’artista non vengono appiattiti sul cliché che non è che “il puro prodotto sessuale della coppia”: nudo ridotto a segnale e già indirizzato al destino sociale dell’accoppiamento dove il maschio è assegnato alla donna o il ragazzo alla ragazza. Qui il nudo sfugge alla banalizzazione segnica cui lo condurrebbe l’evidenza di una modernità moralizzatrice e preoccupata soprattutto di rivelare la crescita e la potenzialità sociale e sessuale del soggetto già avviato verso un futuro prescritto. In questo caso, secondo Schérer, ci si assicura l’incontro con uno “choc” liberatorio, provocato dalla nudità astratta, capace essa sola di restituire “intensità alle onde che, del nudo, disegnano i contorni e la superficie: “(…) solo un’astrazione è capace di rendere al nudo la sua luce, l’irraggiamento che da lui promana e che, mentre sollecita tutti i sensi del voyeur, lo rende tuttavia inaccessibile” (111). Nel nudo così cristallizzato, viene mantenuta la “distanza nella prossimità”.
Un nudo che celebra una nascita, ma una nascita inattesa, l’emergenza di un sempre inaccessibile. Il corpo vi si trova prossimo, apparentemente, ma allo stesso tempo infinitamente distante, rapito nella sua trascendenza originaria, e oltreoriginaria in senso simbolico. “La sua prossimità commovente è quella di un altrove” (112). Ecco allora come il nudo così carico di vibrazioni astratte sconfina nell’universo metafisico, incarna una infanzia mitica e sovversiva al contempo, che non si inscrive in alcun progetto parentale o pedagogico e che sembra indicare un elemento ermetico ed essenziale dell’esistere stesso. Il corpo viene presentato dal pittore come “offerta”, come “sacrificio rituale” (118).
Ciò che ci viene esibito è il “corpo glorioso” del fanciullo, proprio in quanto offerto, cioè “portato in avanti e affermato” in tal modo accrescendo enormemente la sua potenza d’essere e d’agire. In questa esposizione compiuta e sradicata al contesto servile da cui è strappata, o meglio evidenziata, il fanciullo rivela il suo carattere istantaneo, la sua fugacità in perfetto equilibrio, che contiene in germe, rendendolo ancor più imprendibile, la morte. Ed è proprio questa morte, d’altro canto, a proteggerlo. L’affioramento effimero di questo corpo sottratto al suo destino storico e convenzionale, assurto ad archetipo, ma pur sempre saturo delle sue componenti erotiche, è un corpo eterno, esente da corruzione in quanto proiettato sempre sul punto della sua scomparsa, della sua estinzione. Meyer-Amden strappa quel momento, in virtù di un trattamento sottrattore e prosciugatore, ma non disincarnante, poiché nelle sue opere, semmai, si dà, come per incanto, l’equilibrio di una saldatura, quella tra corpo fisico e corpo celeste, in una del tutto desiderabile coniunctio oppositorum. E d’altra parte, come suggerisce acutamente l’autore del saggio, “il corpo glorioso dell’infante contiene la morte come punto di fuga, come uscita di soccorso, come scappatoia all’insopportabile che lo circonda e lo misconosce” (120).
Ecco allora che nella riflessione che Schérer conduce a partire dalle immagini incorruttibili di Meyer-Amden, assistiamo alla manifestazione di un’infanzia mitica contrapposta all’infanzia vigilata, sezionata, categorizzata, gerarchizzata e strumentalizzata della cultura dello sviluppo e dell’istruzione sacrificata all’inveramento dell’età adulta. L’infanzia mitica, o il mito dell’infanzia, prendono la forma di una “carne estetizzata, spirituale e angelica” (122). E si distanzia radicalmente dalle prescrizioni famigliari, pedagogiche o igieniche che il dispositivo sociale appresta per il suo approdo alla conformità.
Si tratta, per Schérer, ma anche per ogni pedagogia che non sia orientata semplicemente a farsi serva dei processi di conformazione sociale, e che invece rammenti il suo necessario compito di garanzia del simbolismo d’infanzia -di una pedagogia come pedosofìa (Mottana, 2002)-, di presidio affinché non sia facilmente consentita l’estirpazione dell’infanzia verso un divenire altro da sé, ma che miri a promuovere un divenire-infante, sia come, nella suggestione di Deleuze e Guattari, “divenire-donna, divenire-animale, divenire-pianta, divenire-impercettibile” (Deleuze-Guattary, 2006, 433 sgg.), sia nell’azione di preservare la sua alterità di fedele all’ “Aperto”, come voleva Rilke, alla vita delle stelle e delle piante, ad essere custode di una posizione dell’esserci che non sia ancora stata requisita verso la ragione del dominio, ma che invece perdura nel luogo della solidarietà cosmica, della rëverie cosmica, come la chiamava Bachelard (1972, 188 sgg.), nel luogo dell’origine e dell’indeterminato.
In un altro passaggio della sua opera René Schérer definisce l’infante “inaccessibile”, proprio da questo punto di vista: “l’inaccessibilità dell’infante, la sua esistenza straniera allo stato di pianta, minerale o animale, lungi dall’alienarlo in una obiettivazione pietrificante, è la condizione stessa del suo essere libero” (Schérer, 1978, 63). E’ proprio questo il luogo di un’erotica infantile sottratta alla manipolazione “umanista” che tenta di disciplinarla e di inglobarla.
L’infanzia rimirata, con desiderio, attraverso le figure immaginali di Meyer-Amden, di questi corpi collocati tra il visibile l’invisibile, conduce verso uno spazio radicalmente inattuale, quello del mito. Qui il fanciullo, nel liberare il proprio corpo nudo, si fa emblema di un’insormontabile differenza, effimera, non sacrificata sull’altare di alcuna impresa alienante. Il pittore garantisce il suo corpo contro ogni potere, pur mantenendolo pienamente nell’orbita del desiderio. “Poiché questo corpo è pienamente sensuale, una sensualità derivata tuttavia, non orientata verso l’identificazione sessuale quanto condotta verso multiple metamorfosi. Non essendo concentrata su una sessualità possessiva, attraverso tutta la sua superficie visibile, attraverso tutte le se forze invisibili, esso irradia verso l’universo e i suoi regni molteplici” (Schérer, 2002, 127).
In questo senso “l’adoratore mistico, l’amante feticista sono i soli – e non certo gli ‘specialisti dell’infanzia’, i pedagoghi- a riconoscergli e accordargli la pienezza dei suoi poteri” (ibidem). Poteri di irradiamento, appunto, e di metamorfosi, proteica e diffusa, divenire animale e stella e elemento, farsi nube e acqua, e colore, o forse sarebbe meglio dire tintura, immaginando che il lato qualitativo di questo corpo incandescente possa agire come una tintura alchemica, a fini trasmutativi e guaritori. In tal senso il corpo dell’infante è pura forma, informale, materia pronta a esplodere in tutte le sue infinite potenzialità, indesignabili e imprevedibili, se lasciate alla propria vocazione, alla propria possessione, alla propria daimonìa, come dice Hillman.
Il corpo dell’infante in realtà non ha sottofondi, non ha scantinati. Così ce lo mostra Meyer-Amden: estrovertito, felicemente appagato del proprio esserci del tutto esteriorizzato e gioiosamente impudico. E’ questo il corpo dell’infanzia sottratto a tutte le ipoteche pedagogiche che lo hanno letto, anche psicanaliticamente, come crocevia di desideri inconfessabili. Il corpo dell’infanzia, nella sua alterità interrogante, è invece del tutto “irresponsabile” e pieno, distante anni luce da ogni raffigurazione personalista che di esso si possa dare. E’ solo affidato, anzi devoto, all’ “innocenza” perfetta del suo divenire, come disse Nietzsche. Si tratta dell’infanzia restituita ai suoi recessi demoniaci ed “elfici”, alla sua costitutiva differenza, che riluce tanto nelle immagini di Meyer-Amden quanto nei quadri di Balthus o nella disponibilità senza riserve, nella felicità smisurata e trionfante, così desiderabile proprio perché in appropriabile della piccola Dole de Il mio primo miracolo di Anne Wild e di tanti altri infanti che i mondi immaginali hanno preservato dal disciplinamento tenendoli al sicuro nel riparo intermedio dell’immaginale.
Ma qual è il nucleo del perturbante d’infanzia, o meglio, qual è la cifra del suo specifico erotismo? Nessuno meglio di René Schérer può esprimerla, essendone un cultore e un esegeta ineguagliabile: contrariamente a tutto ciò che la proiezione psicoanalitica (non analizzata?) vi accumula di morboso e di regressivo, l’Eros d’infanzia si rivela anzitutto per la sua invisibilità e sfuggevolezza, come già hanno in parte dimostrato l’archetipizzazione che ne restituiscono Balthus o Meyer-Amden. L’infanzia non è là dove la dipinge la sociologia moderna o peggio la psicologia, più o meno cariche di reperti ricavati dallo scavo dei suoi meandri più oscuri. L’infanzia è estrovertita, non è mai sordida se non nell’occhio di chi ne teme la “dismisura”: “irriducibile, a dispetto di tutto, alla normalizzazione, vi è una dismisura infantile che se la ride della personcina già ‘responsabile’ a cui l’infanzia contemporanea si dovrebbe identificare”(Schérer, 1978, 18). Incatturabile, imprevedibile, l’infanzia, come già un tempo nella lucida visione di Fourier, esibisce il suo Eros non certo nella fissazione a qualche stadio o a qualche pulsione, semmai nella proliferazione disseminatoria, si potrebbe dire, dei desideri. Ma, soprattutto, nello “scatto brusco dell’affermazione dell’istante, componente incatturabile dell’erotica puerile” (21).
L’ordine sovversivo che l’eros d’infanzia pone in essere ogni volta che si accende è anzitutto legato a questa componente di disordine, di parodia, di capovolgimento istantaneo per nulla preoccupato di lasciare tracce, di persistere, di approfittare di un possesso o di produrre una quota di godimento. Dunque, con Baudrillard, più sul versante della seduzione che del godimento, ma pur gaudente nella sua superficialità sfuggente. L’infanzia non disciplinata, non vigilata, non nurserizzata, per riprendere una metafora schéreriana, in fuga dallo sguardo reclusore del pedagogo, dal panottico pedagogico, in fuga da ogni principio di responsabilità e dai dover essere imposti dall’accelerazione del suo compiersi estinguendosi, l’infanzia gode della sua smisurata eccedenza, delle sue “folgorazioni passionali senza importanza”. In questo, secondo l’autore francese, essa si rivela più “simulacrale” che “reale”: è la potenza del falso, nel senso che Deleuze attribuisce a Nietzsche, e di più: “risalendo alla superficie, il simulacro fa cadere sotto la potenza del falso (fantasma) il Medesimo e il Simile, il modello e la copia. Rende impossibile sia l’ordine delle partecipazioni sia la fissità della distribuzione, sia la determinazione della gerarchia. Instaura il mondo delle distribuzioni nomadi e delle anarchie incoronate.” (Deleuze, 2006, 231).
L’eros infantile scuote ogni fondamento, nella lettura deleuziana che ne offre Schérer e in questa sua erranza di superficie, in questi effetti di scompaginamento e di simulazione sta il segreto di ciò che si appella “puerile”. Essa si muove ben al di fuori della prospettiva voyeristica di certa psicoanalisi. L’eros vagabondo dell’infanzia è ben altra cosa dal reticolato di fasi e fissazioni, di sindromi e di pulsioni che il Logos psicologico cerca di avvolgergli intorno per soffocarne la divergenza affermativa e implacabile. L’eros d’infanzia si esprime nel feticismo, nella funzione “irradiante” e non mascherante (quale verità?) del feticcio, così come nella metaforizzazione o “folklorizzazione” oscena della sessualità, come dice Schérer, che trasmuta gli organi sessuali in pezzi di materia, di natura, in cui “il sessuale propriamente inteso non è più che il punto di fissazione evanescente delle forze animali, vegetali, cosmiche, che si giocano in lui” (Schérer, 1978, 56) : il pene diventa “carota”, “salsiccia”, “fagiolino”. O ancora la fascinazione per il peto, “esplosione energetica”, “soffio e anima”, arriva a dire Schérer. Il gioco di scaricarsi peti nel viso a vicenda che l’autore porta a riprova della centralità erotica di questa gestualità infantile rafforza la teoria di un godimento decentrato rispetto alla teologia psicoanalitica e spostato sul piano di una passione per ciò che appartiene al livello animale, materico, escatologico. L’infanzia libera un erotismo inaccessibile e smisurato proprio perché estraneo ad ogni logica adulta, umanista o psicoanalitica che sia. Ed è questa la condizione della sua eterogeneità e della sua libertà. Altro che latenza e rinvio, come vorrebbe la morale borghese sanzionata dalla scienza, il bambino è davvero il perverso polimorfo di cui parla Freud, ma il suo Eros non è facilmente localizzabile, è pervasivo e intenso, simulacrale e estensivo, feticistico e transessuale, aperto e irriducibile, e, almeno fin tanto che non venga pedagogizzato e sorvegliato, è refrattario ad ogni logica legata al progetto monogamico e istituzionale.
In tal senso Schérer ha ragione di ricondurre a Fourier, che ha negato l’erotismo infantile nelle sue espressioni sessuali specifiche, in favore della libera espansione di altre manifestazioni del desiderio, una considerazione adeguata del nucleo passionale d’infanzia nei caratteri composto, seriale, collettivo. I bambini vivono l’eros in modo diffuso, spalmato sull’insieme di un’agire comunque fortemente erotizzato, sia esso legato alla rivalità, all’intrigo, alla cabala (le passioni cabalistiche, sfarfallanti e composte appunto di cui parla Fourier nel Nuovo Mondo Amoroso) e soprattutto le vivono in modo gruppale, collettivo, seriale, transizionale, al di fuori da ogni logica normata di coppia, di chiusura, di isolamento. L’eros infantile è generoso e moltiplicatore, non separa l’umano dall’animale e dal materiale, è nomadico e plastico, flessibile e metamorfico.
“Come un frutto avevo aperto sul suo corpo il mio essere di carne. Mi sembrava di voler rinascere su lei dalla donna che invisibilmente ero”.
[immagine di Bellmer: “L’aigle mademoiselle”?]
Queste parole di Joe Bousquet, tratte da Mal d’enfance, uno dei suo racconti più folgoranti, compaiono come significativa citazione tra le pagine dell’Anatomia dell’immagine (36) di Hans Bellmer, a cucire insieme il destino (reale e ideale) di uno scrittore alla ricerca della saldatura dell’essere e di un pittore disegnatore scultore, ma anche saggista, alla ricerca dei punti di sutura dei corpi con gli organi, dei sessi in un’unica carne. L’artefice che sconvolge la separazione tra ordine del giorno e della notte e tra superiore e inferiore, ricostruendo nei suoi lombi interrati il corpo androgino, Bousquet, e il pittore che restituisce l’immagine inconcepibile della deflagrazione dell’individuale e del generale, dell’interno e dell’esterno, Bellmer, sono il crocevia di una interrogazione tra le più radicali dell’eros e della sessualità come intreccio fisico e metafisico di corpi concreti, di corpi fantastici e di metamorfosi ben più estreme e illuminatrici di ogni Cyborg o postumano contemporaneo.
Guardiamo L’aigle Mademoiselle del 1968 di Hans Bellmer (che prende il nome dalla celebre apertura della lettera di Sade alla signorina di Rosset del 1782). Riconosciamo il tratto striato, quasi una scultura di minuscoli listelli lignei a raffigurare la “campitura”, per dirla con Deleuze, il motivo ossessivo dell’autore, su cui si staglia, disegnato, il corpo di una ragazzina appena pubere, con indosso un velo che sembra lacerarsi sulla pancia e sulle gambe nude e spalancate, sollevato dalle sue mani, il piede sinistro appena visibile, quasi in dissolvenza, che calza una scarpa infantile, i capelli foltissimi e lunghi che si liberano sciolti e disordinati intorno al volto, come un’altra veste ugualmente fatta della stessa materia di fitti tasselli. Il viso estatico e malizioso, appena increspato da un’espressione di ammiccamento, gli occhi rivolti verso chi guarda e, al centro dell’immagine, la vulva aperta dalla quale fuoriesce, turgido, un membro in erezione. Più in basso, quasi invisibile, si indovinano le gambe inginocchiate di un’altra figura, presumibilmente virile, che trapassa da dietro il corpo della fanciulla, emergendo ancor più impercettibile alle spalle della stessa, quasi a incarnare il fantasma del possessore del fallo e, ancora, anch’esse al limite della visibilità, due linee appena tracciate, le sagome di due gambe femminili, questa volta rivolte frontalmente al corpo della ragazzina, inginocchiate anch’esse e di cui si riesce a distinguere una calzatura con il tacco del piede destro, come se appartenessero a una donna che sta copulando, dal davanti, con l’uomo o con la ragazza stessa. La posizione della ragazza appare in leggera levitazione, come in elevazione su un sostegno non visibile, il bacino levato verso l’alto in un movimento di leggero distacco da terra. Figura sfuggente e perturbante, inverosimile intreccio di membra e di corpi di sadiana memoria, memore forse di una fantasia di Juliette, che ci guarda con tenera comprensione.
Che cosa si dà in questa copula di pura invenzione, se non appunto la metafora di un’intreccio fantasmatico, ancor prima che fantastico, tra parti e organi in continua, voluttuosa, transizione? Di separazioni e congiunzioni, di scivolamenti e trasformazioni di figure, cavità, superfici, membra? Bellmer è violentemente attratto dal gioco immaginativo delle permutazioni, che gli permettono di mettere in moto una dialettica del desiderio inesauribile ed inafferrabile. “L’oggetto identico a sé stesso resta privo di realtà”, dice (Bellmer, 2001, 41). “Le rappresentazioni erotiche, se non provocano la vertigine o le lacrime, sono disprezzabili”: questa è la “gravità mortale dell’amore”, dice Nora Mitrani (1971, 39), poetessa e amica del pittore.
L’erotismo di Bellmer, che traspare con violenza dalle sue opere, è “convulsivo”, secondo la Mitrani, proprio come la bellezza di cui parla Breton. Ma la convulsività di Bellmer non è priva di una sua logica, anzi, cerca proprio di saldare l’irrazionale immaginativo con il calcolo sperimentale: “Non appena la donna sarà all’altezza della sua vocazione sperimentale, accessibile alle permutazioni, alle promesse algebriche, suscettibile di cedere ai capricci transustanziali, non appena sarà estensibile, restringibile, con l’epidermide e le giunture preservate dagli inconvenienti naturali del montaggio ritardato e dello smontaggio –avremo ragguagli definitivi sull’anatomia del desiderio, migliori di quelli ricavati dalla pratica amorosa” (Bellmer, 2001, 41).
E’ immaginativa la via del desiderio, capace di costruire straordinarie “macchine desideranti”, e rende reali gli slittamenti e le connessioni sfuggenti di un inconscio fisico, corporeo: questa è la rilevante novità della speculazione bellmeriana. Vi è un inconscio fatto di immagini e riflessi fisici, corporali, in cui il sistema nervoso intreccia e sovrappone parti del corpo anche distanti, congiungendole: così come un dolore di denti scatena la contrazione violenta dei muscoli della mano e delle dita, creando una sorta di “dente virtuale” a livello della mano capace di stornare il dolore dalla sua sede reale, lo scontro fra desiderio e repressione provoca lo spostamento delle emozioni sessuali in una bambina che “sogna” reclinata con indolenza su un tavolo, dal sesso alla spalla all’ascella, dalla gamba al braccio, dalle dita del piede a quelle della mano, provocando una vertigine sensibile in lei e una ricomposizione geografica del corpo in un’unità pulsionale “piena” e inscindibile. E’ di questa unità che Bellmer, nelle sue immagini impossibili, ci rende testimonianza, rendendo visibili gli spostamenti di questo inconscio fisico e pulsionale.
Ecco allora gli esempi: “Come vuoi che ti chiami quando l’interno della tua bocca smette di somigliare a una parola, quando i tuoi seni sono in ginocchio dietro le tue dita e quando i tuoi piedi si aprono e nascondono l’ascella, il tuo bel viso in fiamme…” (49). Come dice Michel Butor, commentando la frase bellmeriana “l’immaginazione attinge dentro la coscienza corporale” : “egli si stupisce di scoprire un corpo anamorfico, un corpo linguaggio, metaforo-metonimico, fatto di condensazioni, di spostamenti” (Butor, 1976, 25). Il corpo come gioco linguistico e imagistico.
Lo dice lo stesso Bellmer: “Il corpo è paragonabile a una frase che vi inviti a disarticolarla affinché, attraverso una serie infinita di anagrammi, si ricompongano i suoi contenuti veri” (Bellmer, 2001, 46). Come nel gioco di disarticolazione anagrammatica, il corpo viene “rifatto” nelle sue infinite possibilità combinatorie, ma non secondo una pura sperimentazione geometrica, quanto secondo un’economia del desiderio che rinsalda i lembi separati della pelle e delle viscere, della superficie e della profondità, in questo forse indicando la via alla più tarda, ma non meno radicale passione del corpo baconiana. Solo che qui è in gioco l’Eros a pieno titolo e non nella sua dissipazione agonistica.
Le immagini bellmeriane trasudano erotismo, anche quando rasentano la soglia teratomorfa (e non a caso i suoi calembour corporali appaiono l’espressione pur sempre tuttavia di un’intima necessità nervosa e carnale e puntano più all’ermafrodito che all’androgino idealizzato). Lo spostamento è il modo di erotizzare la parte anatomica. Il corpo “interanatomico”, come lo definisce lo stesso pittore, è erotico in quanto frutto della reversibilità e dello spostamento, in quanto deletteralizza radicalmente la figura, la forma e vi introduce la dinamica delle proiezioni di ordine fisico, vi fa apparire le linee di connessione del desiderio che fluisce sotto pelle, incarnandole. “I disegni di Bellmer, con i loro anagrammi corporali (che non sono delle ‘deformazioni’ alla Picasso), sono il linguaggio che sorge da dove non aveva mai proferito parola” (Noel, 1976, 38). Nei disegni di Bellmer, forse per la prima volta, a parlare è il corpo, corpo profondo, una corporeità da sempre interdetta all’espressione che, come sostiene lo stesso autore, giunge finalmente alla propria “liberazione”. C’è una passione di verità, nelle immagini di Bellmer, come dice Nora Mitrani. Ma c’è anche una distillazione alchemica del corpo femminile che ne rivela tutta la potenzialità di condensazione erotica. Qui il corpo femminile, più che vaso mistico di trasmutazione, si rivela proliferazione di una combinatoria che riesce a restituire l’infinita tela delle partecipazioni e a dissolvere ogni principio di separazione tra individuale e non individuale.
C’è uno sfondamento verso il tutto e lo sconfinato, che fa dell’opera di Bellmer uno degli esempi più avanzati di sperimentazione del limite e dell’illimitato, alla ricerca di un piano di corrispondenze. “Attraverso la sua passione ghiacciata, bruciante, fanatica, Bellmer ci svela certe soluzioni istintive al conflitto interminabile che sempre vedrà opposti l’uomo e l’oggetto esteriore” (Mitrani, 1971, 41). E ancora. “Posto tra l’io e l’universale, l’incosciente umano è un diaframma sensibile a tutti i fremiti del macrocosmo. I gesti, le reazioni che ne derivano, tendono a una poesia permanente, di utilità pratica. Grazie a qualcuno di questi gesti, da sempre inesplicabili per la ragione, sorge la complicità fra l’individuo e tutto ciò che non lo è” (ibidem). E questo incosciente è l’incosciente fisico di cui il pittore consente l’effusione espressiva, il rendersi visibile à la Klee.
Ciò che vi è in gioco è la sovversione della finalità del desiderio, come vede acutamente Françoise Bonardel. L’ordine della visione erotica è sconvolto attraverso il gioco analogico e lo slittamento di forze erogene o lo spostamento del dolore lungo il corpo fino a far sovrapporre organi e parti votati a funzioni differenti. Il gioco di opposizioni genera una “terza realtà” come sostiene il pittore stesso (Bellmer, 2001, 27), ma che non è soltanto un esito dialettico, quanto l’aprirsi di una zona intermedia che non risolve, semmai appare come una zona di “turbolenza” e di “perturbazione” che “permette una costante deriva dello sguardo” (Bonardel, 1993, 624). “Ciò che Bellmer definisce “analogie”, si rivela molto prossimo, nelle sue intenzioni come nei suoi effetti, a certe tecniche surrealiste miranti a provocare la realtà e a farne scaturire il potenziale irrazionale, scandaloso, da tal punto di vista riconoscibile come poetico” (ibidem).
L’immaginazione scava dentro il corpo per partorirne una rinascita che nulla ha del gioco di rispecchiamento ambiguo dell’amante e dell’amata. C’è piuttosto un’intuizione della carne che consente all’uomo e alla donna una comune rinascita in un organismo misto e indecidibile, che supera le comuni distinzioni e realizza un ibrido oltreumano e moltiplicativo. E’ il medesimo processo di Bousquet, la stessa alchimia visuale che consente di vivere l’altro dentro sé stessi: “l’essenziale è che l’immagine della donna, prima di essere visualizzata dall’uomo, sia stata vissuta dal suo stesso schema corporale” (Bellmer, 2001, 32-33). L’uomo deve estroflettersi come carne femminile, la vagina della donna deve avere “invaso il suo schema corporale, la sua immaginazione muscolare” (34). Proprio come in Bousquet quando, nella sua immaginazione trasmutativa che pur sempre parte da un percetto oculare (le foto di Ginette, in particolare l’immagine del suo posteriore) il Tu si derealizza e lascia trasparire l’Altro: “travolta da una passione che avrei voluto impedirle di condividere, lei faceva del suo corpo svestito la trasparenza del mio cuore. La possedevo di me prima ancora di possederla” (Bousquet, cit.in Bellmer, 2001, 35).
Fino all’estremo vertice della permutazione interanatomica, quella dell’estroversione dell’interno del corpo, inveramento di una trasmutazione del reale propiziata dall’immaginazione che consente la reversione di ciò che in natura è irreversibile e di proporre un corpo trionfalmente rifatto dal desiderio: “non appena sarò immobilizzato sotto la gonna a pieghe di tutte le tue dita, stanco di sciogliere le ghirlande di cui hai circondato la sonnolenza del tuo frutto mai nato, tu soffierai in me il tuo profumo e la tua febbre perché dall’interno del tuo sesso esca in piena luce il mio…” (Bellmer, 2001, 51). Ed ecco l’immagine dell’Aigle Mademoiselle, come di moltissime altre di Bellmer in cui il corpo femminile diventa il perno di una reversione radicale di interno-esterno, maschile-femminile, sopra-sotto, ritrovata come il vertice di un’alchimia visuale che genera una nuova “integrità”.
Sia per Bousquet che per Bellmer è in gioco “la possibilità di un lavoro alchemico d’incarnazione che permetta di ‘unire il dentro e il fuori in una statura implacabile’ senza che una tale statura giunga a suturare mai lo spazio di libero gioco fra il reale e l’immaginabile. In altri termini, se può darsi una forma di ‘unità’, essa sarà meno nella progressione unificatrice per la quale il reale si appropria ogni giorno di più dell’immaginabile, quanto piuttosto nel movimento drammatico, poi globalizzante, per il quale questa statura trasmuterà l’immaginabile in ‘reale’ e aumenterà il reale delle virtù ‘tingenti’ dell’immaginabile” (Bonardel, 1993, 629).
E’ di questa “aumentazione” e di questa trasmutazione che testimonia l’opera di Bellmer, di questo “assassino delle buone coscienze”, come lo chiama Nora Mitrani, che “vive con il sogno testardo di un amore d’infanzia riconquistato grazie a due immagini perpetuamente minacciate: una donna, proiezione disturbante e fedele del suo proprio narcisismo, una bambina, Doriane, una bambina piccola, quella che gli ha carezzato la fronte. E le due immagini si confondono per fare apparire, così, perseguito con un fanatismo poetico irriducibile, non realizzato a causa di un rinvio verso l’impossibile senza fine, il volto dell’amore intatto” (Mitrani, 1971, 39).
“Ecco il fanciullo acquatico e felice
Ecco il fanciullo gravido di luce
Più limpido del verso che lo dice.
Dolce stagione di silenzio e di sole
E questa festa di parole in me” (Sandro Penna)
Il volto dell’amore intatto torna con ineffabile armonia nella mercuriale vivacità dagli occhi azzurrissimi della undicenne Dole nel film affascinante di Anne Wild Il mio primo miracolo (2002). La impariamo all’inizio, corpo elastico e minuto che oscilla su un’altalena in riva al mare per poi correre via in preda ad una perfetta beatitudine. Figura del piacere e della trasgressività infantile, Dole ha nel viso e nel giovane corpo anzitutto l’effigie invisibile del desiderio, che irrompe a disturbare i “giochi” degli adulti. Bambina che non riesce a soggiornare nella stanza dei bambini, sguardo che penetra e mette a nudo la maschera dei grandi, Dole è una straordinaria personificazione dell’eros, di un eros tanto fragile quanto invincibile e perturbante. La sua fantasia colma d’attesa troverà in Hermann, grosso fanciullo ancora non disceso nel mondo, il partner della sua quête, il cavaliere un po’ appesantito ma prodigo di mondo capace di riannodare l’immagine e il destino.
Si incontreranno in cima ad un’impalcatura, a picco sulla spiaggia un po’ grigia del mare nordico, i due eroi dell’infinito in un secchiello. Dole in fuga da una madre disorientata e in calore e Hermann sempre pronto a farsi Chisciotte di un’impresa solitaria di salvezza del mondo ad opera di uno sguardo d’infanzia. Inizialmente, di fronte alla sensibile ma ancora non nata erotica travolgente della bambina. Sarà lui ad arredarle il mondo, trasformando un’insegna di stazione di servizio in combustibile per un mondo rovesciato, il mondo che giace sul fondo del mare, abitato dagli elfi e governato dal solo desiderio. L’intuizione elfica, proprio quella che Schérer avverte al fondo della pittura di Amden, l’individuazione del compagno segreto, che sembrerà poi incubare la proiezione del bambino interiore mai sopito di Hermann, sarà l’esca di un innamoramento tanto potente quanto improponibile sopra la superficie del mare, ma decisivo nella profondità. Dole si abbandona, quasi anacliticamente, dentro l’effusione immaginativa di Hermann, e le fornisce carne, il corpo luminoso che i cristalli d’argenti compongono in una fotografia. Sarà lei a fotografare l’elfo, invisibile per noi “spettatori-voyeur”, in forma di gemello, il bambino che Hermann, sotto la superficie dell’acqua ormai a lui inaccessibile, può tornare ad essere.
Lunghi momenti di rapimento nel piccolo canotto quando Hermann aiuta Dole a risalire, bagnata ed eccitata dall’escursione nel mondo acquatico, lui perduto nel viso bellissimo di lei, autentica incarnazione dell’irraggiungibile d’infanzia, bellezza e esposizione di sé assolutamente non simulata.
Bambina che sa molto del mondo adulto, consegnata da tempo alla vita dispersa di una madre smarrita e bisognosa di appoggi maschili, ma ugualmente perfettamente pronta a lanciarsi oltre tutte le paure dei limiti e dei divieti che la realtà frappone alla potenza dell’eros e dell’immaginazione. E’ infatti lei, consumata l’ennesima sconfitta nel mondo presidiato dall’inettitudine di madri e patrigni distratti e moralisti, a prendere Hermann e a trascinarlo fino in fondo al mare, dove forse da sempre lui stesso abita. Attimi di intensissima meraviglia in questo film abitato dallo stesso spirito elfico e mercuriale che traspone in immagini. La bambina con lo zaino e la gonna grigia appare alla porta di Hermann mentre lui cade a terra a causa di un giocattolo fuori posto (!). Il lungo sguardo di Dole, le parole recitate di una drammaturgia, -una frase da fiction- che li rende complici oltre ogni divieto, e poi l’attimo interminabile in cui l’uomo osserva la bambina allontanarsi nel ventaglio d’arcobaleno creato da uno spruzzatore d’acqua sul marciapiede nel sole. E’ l’attimo decisivo in cui l’eros abbagliante che sembra ancora una volta provenire da un mondo d’acqua e di stupore, lacera il velo dell’indecisione, ed Hermann, pienamente consapevole dello strappo senza ritorno, si abbandona al filo invisibile che lo lega amorosamente alla bambina.
Film di improvvisi squarci, di pause abissali segnate dai movimenti circolari della colonna sonora, felice misura di carillons e di incantesimi glitch, di onde che si rifrangono instancabili e fanno risacca. Personaggi entrambi fuori dagli schemi, smisurati, Hermann e Dole, lui pachidermico sognatore dallo sguardo ceruleo arenato nei giochi d’infanzia, lei delicata fioritura di agitazioni improvvise, piccola grande dalla seduzione sconosciuta e irreversibile. Un incontro felice e inesorabile che traghetta lui verso il destino tragico e insieme agognato dei favoriti dell’infinito e lei all’iniziazione e alla rinascita di un sapere di soglia, di un potere magico e miracoloso.
All’inizio Hermann, malvisto dai grandi e dai piccoli, cerca di inserirsi goffamente nei loro giochi, mentre lei è continuamente brutalizzata dalla noia e dall’insensibilità dei suoi adulti. In una scena carica di tensione Dole irrompe nella stanza dove il compagno della madre è appena rientrato nudo dalla doccia. Un lungo momento vede l’adulto sfidare lo sguardo della bambina con il compiacimento di una esibita impudicizia. La frase : “hai visto abbastanza?” interrompe il braccio di ferro, ma la piccola violenza domestica è consumata, a sancire l’incomunicabilità tra i due che si contendono l’attenzione della madre. Ben più seduttivo e umiliante è questo gesto di tutti quelli che, nell’invisibile, si scambiano Dole e Hermann nella loro fuga d’amore, gesti appena accennati, un braccio di Dole che cerca il calore di lui, uno sguardo di Hermann che si ritrae in sé stesso per l’audacia eccessiva. Eros sembra abitare qui, in questa sospensione carica che si trasmuta continuamente in salvifica infrazione, in tenera sregolatezza, in passione protesa e poi subito interrotta.
Ma l’Eros del film è soprattutto trasmutativo. La fantasia di Hermann che aveva arredato l’attesa di Dole con il paesaggio marino degli elfi si riscatta nella lastra fotografica, come se attraverso il processo alchemico dei nitrati d’argento, del mercurio impressionato, qualcosa dell’invisibile si fosse lasciato afferrare. Ed ecco che nelle foto, che per noi restano nascoste, appare l’elfo, di cui la negoziante parla come di un “bambino”. Ci sono ora due bambini nella foto, Dole e l’elfo, di cui rimane segreta l’identità, forse da spartire con Hermann, o con il suo fantasma abissale. Così pure rimarranno invisibili i due fuggiaschi, se non per una effimera vibrazione nel riflesso dei finestrini di un “mezzo di trasporto”, ma verranno rifratti più volte dalle narrazioni dei loro beneficati.
Ognuno di coloro che li ha incrociati, seppur brevemente, ci appare bizzarramente miracolato. Nessuno si è assolutamente accorto della straordinarietà della coppia, della loro “inadeguatezza”, al contrario, di loro ognuno sottolinea l’armonia e la reciproca passione, li rievoca come una presenza luminosa, felice. E ciascuno non può fare a meno di notare che in concomitanza al loro passare qualcosa di semplice ma anche di incredibile si è verificato in loro: la barista è finalmente riuscita a lasciare il fidanzato ingombrante, senza troppa sofferenza, il giovane podista ha stabilito il suo record, qualcosa di inaudito è accaduto nella radura in cui gli inseguitori, nelle figure delle madri e del poliziotto, curiosa falange all’insegna della “disciplina”, si inoltrano a fatica, quasi fosse un luogo sacro, avvertendo la necessità di togliersi le scarpe, di dirigersi verso un punto centrale dove un enorme masso è deposto senza ragione, circondato da una terra bruna e arsa, e dove tutti e tre sentono l’inspiegabile impulso a volgere il proprio sguardo verso l’alto, come a cercare l’origine meteorica di quel curioso detrito.
Hermann e Dole tracciano lo spazio con la loro scia luminosa, stupendo e trasmutando, ma la curva del loro tempo va declinando. Le ultime scene, in cui li ritroviamo ormai prossimi alla meta, che è la spiaggia dove si sono conosciuti e dove intendono ritrovare il mondo degli elfi, un po’ smarriti, stanchi e affamati, narrano dell’inevitabile (nella realtà) scioglimento della coppia. Scene delicatissime in cui Hermann sperimenta il dolore del distacco, nella piena consapevolezza dell’irreversibilità del gesto compiuto. Il momento doloroso in cui, di fronte al capriccio di Dole, lui la chiude fuori dal capanno sulla spiaggia, restando muto e immobile, con il peso del suo gesto che gli grava addosso, e in cui probabilmente già medita il suo finale congedo. Gli attimi del sonno in cui le mani si cercano timorosamente. La lite di gelosia con i ragazzi al flipper. Ma soprattutto la scena finale sul pontile, in cui Hermann incoraggia Dole ad accettare la separazione, contenendo la sua paura -“non avremo più paura”-, ma soprattutto garantisce la loro unità con il suo gesto sacrificale. Il suo inabissamento coincide con l’appropriazione definitiva: “io ho tutto”. Una sorta di Eros cosmogonico raduna i due nel mondo invisibile: “chiudi gli occhi. Guarda gli elfi. Ci sono anch’io”.
I bellissimi occhi di Dole tornano nell’acqua, dove ancora giacciono le vestigia del cibo per gli elfi, poi, bagnata, è riconquistata alla sua vita. Ma l’ultima inquadratura ce la mostra trionfante risalire in piena partecipazione al mondo altro che ha condiviso con Hermann. La bambina e l’uomo adulto restano accomunati dalla differenza che portano impressa ciascuno a suo modo: la bambina nel suo essere unica – solo lei può vedere gli elfi, ha cioè la capacità di una visione elfica del mondo, nel senso nicciano di Schérer, “consacrato all’innocenza del divenire” – così come lui, rimasto legato al fascino perfetto della radura d’infanzia, può ritrovarsi, da sempre, solo a patto di perdersi definitivamente, di divenire puramente immaginale. E forse questo è il vero “primo miracolo”, autentica trasmutazione filosofale, operata simultaneamente dalla endiade simbolica Dole-Hermann, in cui ognuno è intrinsecamente partecipe dell’altro, e di tutto, fin dall’inizio, fin da prima, e ben oltre.
“…questa sconcertante sorpresa del calore setoso che la spalla del compagno con il quale facevo esercizi di matematica o preparavo un passaggio di una versione latina diffondeva nella mia spalla, che non soltanto io non pensavo affatto a sottrarmene ma mi stupivo di cercare di premere ancor più contro la mia, con il timore che egli se ne infastidisse, e con l’angoscia più ancora dell’incognito piacere in cui mi precipitavo come in una voragine se egli avesse fatto altrettanto”
(Patrick Drevet)
Prossemica scolastica
Lo spazio della classe pervaso da una microfisica erotica.
Messaggi violenti e sottili che ne disseminano e infrangono la geografia. Il contatto con il tuo gomito leggero e caldo. L’occhiata che lancio furtivo alla tua gota mentre ti rivolgi a un compagno per qualche parola. Il tuo piede nudo sgusciato alla scarpa mentre mi chino per raccogliere la gomma. Sfrutto le spalle larghe del compagno davanti per scrivere un messaggio sulla mano che ti lascio abbandonata sul banco non appena torni a guardarmi.
Scambio di bigliettini, fitto e silenzioso, di mano in mano, fino a cogliere l’ambita meta che, ancora prima di scioglierlo e leggerlo, mi lancia un’occhiata di maliziosa intesa. Un reticolo di impalpabili occhiate che si rincorrono e si fuggono ossessivamente, mentre la luce appena riscaldata giunge da fuori seghettata dagli avvolgibili. Caparbiamente mi rivolgo a te mentre imperversa la voce dell’insegnante e caparbiamente tu mi rifiuti lo sguardo. Vorrei non guardarti ancora e mi obbligo all’immobilità, oppure lascio che il mio sguardo abbracci tutto l’angolo dell’aula dove tu manchi e che poi si blocchi prima di entrare nel tuo raggio. Per un poco mi riesce ma non appena abbandono la guardia eccomi di nuovo a guardarti ed ecco di nuovo che le tue spalle mi eludono e mi deludono.
La professoressa di matematica, che porta sempre minigonne vertiginose, è attesa mentre si libera dalla cattedra. Il suo gesto di volgersi e alzarsi è accompagnato dal nostro sguardo libidinoso alla ricerca di tracce anche minime della sua biancheria, scivola sulle gambe e si ferma sulle scarpe da donna come incollato alle caviglie, alla sagoma del piede prigioniero. La seguiamo attoniti, sfiorando lascivamente la pelle delle sue cosce mentre sfila tra i banchi per la correzione.
All’ultima fila confronto il mio sesso con quello del mio compagno e, lo sguardo che a intermittenza si solleva per controllare la cattedra e i compagni vicini e si riabbassa per sorvegliare il compito intrapreso, mi masturbo in una gara con lui per vedere chi eiacula prima. Insieme miriamo il collo della vicina di banco, i suoi gomiti fragili, la peluria all’attaccatura dei capelli, ne assorbiamo il profumo.
Ora è il tempo dei messaggi sul cellulare che, impalpabili e vertiginosi, hanno il potere di dislocarsi oltre l’altrove. La classe è l’agenzia di uno scambio interplanetario che scala i piani della scuola, si distribuisce nelle aule, penetra il reticolato dei banchi, tocca una meta, leggera torna indietro, procede a zig zag. Un commercio fittissimo di comunicazioni cifrate, appena abbozzate, gravide di eros, che consumano le dita, gli occhi, che inzuppano di sudore e arrossano le gote. Il telefonino lampeggia sotto il banco, il banco nero delle nostre dita, del nostro corpo immobilizzato, mentre le onde di piacere si irradiano sempre più lontano. Lo spazio dell’aula uno spazio immenso, virtuale, in cui i corpi levitano e si abbracciano a mezza via tra la lezione di fisica e il cielo inavvicinabile.
L’aula è trapunta di segnali, una costellazione di comete invisibili ne traccia la volta. Sono qui, altrove, sfioro il tuo corpo mille miglia lontano. Il desiderio una filigrana che raddoppia l’atmosfera, i corpi molteplici e intersecantesi.
E poi ancora toccarsi dentro la tasca, cercare il tuo seno mentre mi scontro nell’affrontare la fila troppa stretta, sfiorare con il mio sesso il tuo sedere mentre ti sei chinata a raccogliere la borsa, abbassarmi per rubarti un poco di odore, rimanere incastrato tra due compagni, lasciar cadere una mano in modo che tu, incrociandomi, la tocchi con l’anca, la sfiori con la tua. Movimenti leggeri, una strategia rapida, imprevedibile, poi scontrarsi più forte, come per errore, stimolare una protesta, un’imprecazione, il tuo viso arrabbiato, la concitazione, il richiamo dell’insegnante.
Attendere un tuo messaggio, uno sguardo, una carezza.
E poi ancora.
[Immagine di Tiziano: “Il Baccanale”]
Antipedagogie del piacere (Sade e Fourier)
Godimento e conoscenza
“Finalmente la bella arriva, la sto aspettando; passeremo due giorni insieme…due giorni deliziosi; e voglio impiegare la parte migliore di questo tempo a educare questa personcina. Dolmancé e io inculcheremo in questa graziosa testolina tutti i principi del libertinaggio più sfrenato, l’avvolgeremo col nostro ardore, la nutriremo con la nostra filosofia, le ispireremo i nostri desideri, e per aggiungere un po’ di pratica alla teoria, come voglio che si faccia via via che si disserterà, ho destinato te, caro fratello, a cogliere i mirti di Citera, e Dolmancé le rose di Sodòmia. Io avrò due piaceri in una volta, quello di godere io stessa di queste voluttà criminali, e quello di dare lezioni, d’ispirarne il gusto alla deliziosa innocente che attiro alle nostre trame. Ebbene, cavaliere, è un progetto degno della mia immaginazione?”
E ancora:
“E’ sicuro che non risparmierò nulla per pervertirla, per degradare, per rovesciare in lei tutti i falsi principi morali con cui si sia già potuto stordirla; in due lezioni, voglio renderla scellerata come me…altrettanto empia...altrettanto dissoluta” (Sade, 1974, 30)
Ecco enunciati, in sintesi, i principi fondamentali di quella che potremmo definire, senza troppo timore, l’antipedagogia erotica sadiana, la volontà scientemente immorale di introdurre una novizia nel mondo del piacere, al di fuori tuttavia di ogni presa di potere pedagogica. Come sottolinea con la consueta lucidità Annie Le Brun (in uno dei pochissimi libri in cui l’opera sadiana è affrontata con implacabile radicalità e al di fuori di ogni distorsione, non a caso scritto da una donna), si tratta di un progetto pedagogico del tutto straordinario, poiché Mme de Saint Ange, in questo passo, oltre a profilare i precetti di una disciplina di perfetto libertinaggio, si impegna a non trarre alcun profitto (o meglio alcun potere) dal gesto disciplinare, se non quello, appunto, di rendere la sua allieva “altrettanto empia e dissoluta” di sé stessa: non si propone, da questa sua “trasmissione di sapere”, che “il piacere infinito di corromperla” (Le Brun, 1986, 260).
Insegnamento e piacere si compongono perfettamente e la loro somma è ancora piacere, il piacere dell’allieva e dell’insegnante, in una moltiplicazione debordante in cui nessun ricavo, nessun profitto è possibile, se non quello che si consuma nell’immediata gratificazione. Anche perché sapere e esperienza, filosofia e sessualità si compongono integralmente, senza scarti, nutrendosi gli uni degli altri in assenza di una strategia di potere che subordini la pratica al sapere. Al contrario, come Sade spiega bene all’inizio dell’altro romanzo “pedagogico” della sua opera, Le centoventi giornate di Sodoma, il cui sottotitolo recita in maniera intrigante “La scuola del libertinaggio” (laddove il sottotitolo della Filosofia nel boudoir ( da cui è tratta invece la citazione precedente) è “Gli istitutori immorali”), “ciò che è necessario” è che fra tutti “gli scarti”, tutte le trasgressioni, tutte le perversioni di cui le giornate proporranno il catalogo, anche se alcune “dispiaceranno”, “altre (sappiano) eccitarti sino all’orgasmo” (Sade, 1977, 103). Nella ricca messe del catalogo sadiano c’è sicuramente qualcosa che susciterà il tuo specifico desiderio. E d’altra, parte, se noi non avessimo detto tutto, tutto analizzato, come si vorrà che si possa indovinare “ciò che ti conviene” (ibidem)? (curiosa consonanza questa, come si vedrà, con la legittimazione altrettanto analitica delle “manie lubriche” in Fourier).
“Tocca a te scegliere, tralasciando il resto; un altro farà altrettanto; per cui, progressivamente, tutti potranno trovare quel che a loro interessa” (ibidem). “E’ da tutti i rapporti di forza esercitati attraverso la conoscenza che Sade intende liberarci qui” dice ancora la Le Brun (1986, 105). Sade punta infatti, in questo passo e più ampiamente nella sua intera opera, “sulla forza strutturante delle passioni individuali contro il volontarismo pedagogico o anche contro la seduzione pedagogica che non è che un rapporto d’autorità camuffato” (ibidem). Sade instaura, nel suo indirizzo al lettore premesso al grande romanzo iniziatico che è Le centoventi giornate, “al tempo stesso un nuovo rapporto con il sapere erotico (in completa contraddizione con la tradizione della pedagogia libertina) e un nuovo rapporto erotico con il sapere. Con la conseguenza capitale che è l’autorità del sapere che si trova così messa in causa in modo radicale dal momento che è il godimento che conduce alla conoscenza e dal momento che il godimento si accresce attraverso la conoscenza” (ibidem).
Nessuna idea è per Sade vera senza essere stata personalmente sperimentata, vissuta nella sua “giustezza”. E’ il particolare, è l’individuale a determinare il generale: “scegli” (fra i “seicento piatti” del festino imbandito, fra le seicento perversioni di Sodoma) “e lascia il resto, senza protestare contro il resto, unicamente perché non è capace di sollecitare il tuo gusto. Pensa che piacerà ad altri e sii filosofo” (Sade, 1977, 103). E’ la diversità delle scelte a rendere possibile la scoperta della singolarità del proprio desiderio. E’ questo l’ “ordine lussuoso delle passioni”. Ed è proprio in questo modo che Sade “sostituisce alla logica formale alla quale noi tentiamo sempre di conformarci, come a un vestito da cerimonia che tentiamo di indossare al prezzo delle più grandi contorsioni, una logica passionale” (Le Brun, 1986, 106-7) senza precedenti.
Una logica che pone in crisi qualsiasi modello di uniformità, di regolarità, di normatività che non sia esclusivamente indirizzata al massimo godimento. E’ solo il particolare, il singolare, il difforme, a dettare legge, è esso il solo elemento di orientamento e il fondamento di ogni rapporto tra passione e legge. Si tratta di ciò a cui anche Fourier tenterà di offrire un ordine, un ordine “lussuoso” sebbene privo della radicalità, della crudeltà e della tragicità che Sade, nella sua consapevolezza estrema dell’insuperabile solitudine all’origine del desiderio e del suo pensiero, disseminerà senza mai deflettere e in maniera infinitamente inquietante nella sua opera.
Tutto dire tutto godere
In realtà la disciplina che Sade propone non istituisce alcun ordine (al di là delle apparenze), anzi. Essa è votata alla distruzione, al dispendio, alla perdita, alla morte, in questo seguendo, non senza uno humour autenticamente dionisiaco (e nicciano, in anticipo), le “leggi della natura” così sapientemente illustrate dalla tradizione materialistica più radicale (di cui lo stesso Sade è forse la punta più estrema). E d’altra parte, la dialettica fra ordine e disordine in Sade è una sorta di sarcastica analogia di quella più famosa di produzione e distruzione nella natura, che da Le Mettrie e Condillac, riverberandosi fin nel nostro Leopardi, qualifica il materialismo radicale.
La teatralità sadiana, la messa in scena, il richiamo della Delbéne nelle primissime pagine della Storia di Juliette “mettiamo un po’ d’ordine ai nostri piaceri” (Sade, 1954, I, 11), non è che un espediente per prolungare i piaceri nella consapevolezza che la loro destinazione è comunque il disordine. L’ordine sadiano non si instaura che per essere disfatto. La logica delle passioni non edifica alcun sistema, non produce alcuna ragione, semmai individua delle ragioni particolari, ragioni di desiderio (e anche regioni e regimi di piacere…), la cui ferocia in fondo, secondo questo modo di argomentare, soggiace ad ogni impresa dello spirito: “si declama contro le passioni senza pensare che è alla loro fiamma che la filosofia accende le sue” (Sade, 1954, I, 120-121).
E’ questa logica sregolata e indrizzata all’eccesso (“O mie compagne, fottete, voi siete nate per fottere” incita la Delbéne nella suggestiva e completa introduzione al vizio che propone con grande impeto a Juliette (115)),che governa il mondo di Sade, una logica che non cumula nulla, non edifica nulla, non culmina in alcun dominio, in alcuna ipostasi, se non quella del piacere. Qui sta il vero nucleo antipedagogico sadiano: il “lavoro” sadiano, lavoro del piacere, notte del desiderio, è “sconveniente” (vedi: radicalmente sottratto anche al regime del Discorso!) “non perché è lussurioso e criminale, sottratto ad ogni trascendenza, sprovvisto di termine: esso non rivela, non trasforma, non matura, non educa, non sublima, non attua, non recupera niente, se non il presente stesso, spezzato, abbagliante, ripetuto; nessuna pazienza, nessuna esperienza; tutto viene immediatamente portato al vertice del sapere, del potere, del godere; il tempo non compone né scompone, ripete, riconduce, ricomincia, non c’è altra scansione se non quella che alterna la formazione e la spesa di sperma” (Barthes, 1977, 137). In questa splendida citazione barthesiana, che fa almeno il paio con quella che vede la parola sostituita dallo sperma nella scrittura sadiana (“l’eiaculazione di Saint-Fond era brillante, ardita, veemente…”), c’è molta verità e al tempo stesso molto coup de theatre alla Barthes, compiacimento della trovata, a sua volta: gusto sfrontato e disinvolto della locuzione, del linguaggio (che gode di sé stesso).
In realtà, se è vero che la logica passionale non fa che ripetere e non è orientata da alcuna teleologia che non sia quella della ricarica e scarica spermatica (della foutre: maschile o femminile poco importa nell’indifferenziazione della “fisica” del godimento), non è del tutto vero che l’ “erranza” sadiana, i suoi percorsi o le sue stazioni “falansteriali” (come il castello di Silling) nella loro organizzazione teatrale e nella loro disposizione temporale, non mettano in scena, anzi, non prefigurino un tragitto iniziatico (del resto è proprio Barthes a notare la cifra iniziatica della figura del viaggio, così tipica delle narrazioni sadiane). Allo stesso modo, il suo tentativo di rinviare all’autoreferenzialità del discorso il lavoro dell’opera sadiana, e quindi nel rilevare quanto sia sempre e comunque la parola ad essere sostituita dalla sperma (in quanto parola), omette di prendere atto che è la parola stessa ad essere travolta dalla logica spermatica e cioè che il Discorso stesso è bucato dall’orgia e dalla distruzione che questa comporta di ogni grammatica (almeno in Sade): il discorso continuamente rinascente continuamente deflagra nel vuoto di parola, nell’orgasmo e nella necessità di sfociare in un Oltre-testo, in un nuovo linguaggio.
La dissoluzione di ogni limite, la fedeltà caparbia all’infinito del desiderio, allo sconosciuto che la logica del godimento inaugura, questo è ciò che si consuma nel testo sadiano, che è tutt’altro da qualcosa che si estenua all’interno dell’universo letterario, come vorrebbe la critica saussuriana-lacaniana alla Barthes o alla Hénaff. Sade non è soltanto un “criminale della scrittura”: “nell’aderire all’intollerabile, all’inconcepibile, all’innominabile, vale a dire a ciò che gli uomini non vogliono o non possono tollerare, né concepire, né nominare, Sade non è in alcun modo preoccupato per l’innominabile, per l’inenarrabile, per l’indicibile a cui si richiamano oggi tutti i campioni della scrittura e che rinviano alla preoccupazione esclusivamente letteraria dell’impossibilità di dire” (Le Brun, 1986, 204). Non c’è alcuna metafisica della parola in Sade, che non ha il problema di mettere alla gogna le forme del discorso in quanto interessato alla sovversione della letteratura. In lui la preoccupazione è esistenziale, tragica, estrema: “egli vuole dire tutto perché tutto vuole conoscere, tutto “provare”. E dice tutto quello che vuole dire (…). Non oltraggiando il linguaggio, ma inventando un nuovo linguaggio” (205). Il dire tutto, la letteralità sadiana, la sua “saturazione” di corpi, posizioni, piaceri non è la stessa cosa della combinatoria linguistica, come dice Barthes. Essa è certamente anche un’ “erotografìa” (così come la sua parola è per certi versi “pornogrammatica”), ma non è sospesa solo dentro la struttura del linguaggio, ma sopra l’interrogativo estremo dell’essere (anche se per coloro che ritengono essere e linguaggio la medesima cosa tutto resta imprigionato dentro alla combinatoria più o meno trascendentale delle parole) (cfr. Barthes, 1977, 117).
Filosofia del/la “foutre”
La sua scrittura è fisicamente irrorata di “foutre”, il termine unico con cui Sade indica tanto lo sperma che, più in generale, il liquido orgastico comune all’uomo e alla donna al di qua di ogni preoccupazione generativa (uomo e donna “eiaculano” entrambi nel piacere, fatto per altro oggi acclarato anche in sede fisiologica, anche se i liquidi emessi risultano di natura diversa). Sade dà voce a tutto ciò che, anche nella letteratura libertina, ancora sedotta dai doppi sensi e dalle suggestioni del non-detto, viene messo a tacere. Egli insiste sulla esplicitazione del messo a tacere, della “voce” del piacere, del suo vocabolario, ma anche proprio della sua materialità, della sua “grana” (che non è la “grana” del testo che tanto faceva godere Barthes leggendo Severo Sarduy): “signor presidente, disse il vescovo” nelle Centoventi giornate “dal tono rotto della vostra voce direi che vi sta tirando” (Sade, 1977, 226) o anche “mio carissimo fratello, disse il prelato con una voce rotta, i vostri propositi sanno di foutre” (347).
“E’ precisamente nel far parlare questa voce che sa di foutre e a suggerire dietro ogni voce questa foutre che la fa vibrare, che Sade accede alla letteralità integrale che è il sigillo del suo genio, è nel lavorare a far rendere alla frase tutto il senso che può offrire, come al quadro libertino tutte le posture che può ospitare, come al corpo tutti i piaceri che può donare, come al pensiero tutto il foutre che esso può costare. Volontà di saturazione in Sade inseparabile dalla coscienza del nulla” (Le Brun, 1986, 213). Perché la posta in gioco nell’opera sadiana, opera “crudele” in questo, animata dalla stessa volontà etica e irriducibile che animerà quella di Artaud, è l’immoderata esplorazione del senza-limite che si apre a chi si è esposto all’esperienza definitiva dell’assenza di Dio. Da questo punto di vista, ciò che avviene nel castello di Silling, il luogo inaccessibile in cui Sade rinchiude i suoi personaggi per far loro sperimentare l’abisso dei desideri si colloca ben al di là del bene e del male e Le centoventi giornate di Sodoma, l’opera forse maggiore e certamente più radicale di Sade, un’opera “concepita per rappresentare le passioni nella loro diversità e nella loro singolarità, è (anche) il primo, se non il solo, monumento assolutamente ateo” (87).
Le centoventi giornate di Sodoma è probabilmente il libro più scandaloso che sia mai stato scritto, per parafrasare Blanchot (1986, 9), l’opera in cui, come dice Bataille, “Sade per primo, nella solitudine della sua prigione, diede una espressione ragionata a questi impulsi incontrollabili, sulla cui negazione la coscienza dell’uomo ha fondato l’edificio sociale – ed ha anche fondato l’immagine dell’uomo. Sade (…) ha dovuto rovesciare e contestare tutto ciò che gli altri consideravano come incrollabile (Bataille, 1973, 110). Opera che gli fu particolarmente cara e che egli con tremendo dolore credette perduta dopo la caduta della Bastiglia (da cui si salvò miracolosamente), scritta su un rotolo di pergamena di dodici metri di lunghezza, e la cui scomparsa probabilmente lo indusse a prolungare di molto la Storia di Juliette come a rivedere anche quella di Justine.
“Chi legge Sade, e non i suoi esegeti, non può sortirne indenne”. Straordinaria e inequivocabile sentenza che Annie Le Brun premette all’immersione nell’universo di quest’opera unica e mostruosa al tempo stesso, un’aggressione continuata e ripetuta che investe ognuno di noi quando la avviciniamo e che ha certamente indotto molti dei suoi interpreti, appunto, a tentare di addomesticare, nel letterario, da Paulhan o da Barthes, nel sacro, da Bataille a Klossowski, nello scritturale, a Philippe Roger, l’abisso cui l’autore ci consegna. Abisso letterale ma anche metaforico, sterminata e calcolatissima macchina in cui tutto è apparentemente regolato. Lettura insostenibile perché costringe a spostarsi, non solo intellettualmente, ma fisicamente, organicamente, in un altrove radicale da quello in cui si situa la normalità costruita nei secoli dall’immaginario individuale e sociale delle nostre “civiltà”, l’immaginario deputato a mantenere occultato l’inconcepibile.
Un libro che si colloca al di là, in una mostruosa estraneità: “è lì che comincia l’inconcepibile oltraggio di Sade che è l’oltraggio dell’inconcepibile di cui noi siamo la preda ma che cerchiamo tutti di escludere dalla nostra esistenza. Inconcepibile oltraggio di Sade che si applica esclusivamente ad escludere tutto ciò che in lui, in noi, nega questo inconcepibile” (Le Brun, 1986, 32). Del resto Sade è subito esplicito: “Amico lettore, ora bisogna che tu disponga il tuo cuore ed il tuo spirito al racconto più impuro che sia stato fatto da che esiste il mondo, un libro simile non potendosi trovare né presso gli antichi, né presso i moderni. Sappi che tutti i godimenti onesti, o comandati da quella bestia di cui tu parli sempre senza conoscerla e che chiami natura, sappi che questi godimenti, dico, saranno volontariamente esclusi da queste pagine, e quando per caso li incontrerai, saranno sempre accompagnati da qualche crimine o ottenebrati da qualche infamia” (Sade, 1977, 102).
Opera sistematica, matematica, progressiva, teatrale, articolata in un dispositivo complesso, addirittura macchinoso, una vera e propria struttura processuale e stratificata che non può non far pensare ad un congegno iniziatico. In essa si narra, in tutta la sua estensione, l’esplorazione, compiuta da quatto libertini di vecchio corso, dell’intera gamma dei piaceri più stravaganti e a mano a mano più crudeli e violenti che si possano immaginare ( e a volte anche al di là di ogni immaginazione) a spese di una intera piccola comunità di individui selezionati all’uopo, all’interno di una disposizione specifica, in un luogo prestabilito e particolarissimo, il castello di Silling, attraverso l’incantamento e la suggestione prodotta da narrazioni specificamente orchestrate da quattro maitresses dotte in materia che, un poco come le Parche, snodano il filo dei godimenti, ma al tempo stesso della vita e della morte di tutti i partecipanti alla lunghissima orgia.
“Occorre transitare per i sotterranei dell’essere per accedere al castello di Silling. Condizione assolutamente necessaria che nega l’idea stessa di letteratura, escludendo di fatto chi non sia effettivamente risoluto a sottomettersi all’impietoso dispositivo immaginato da Sade” (Le Brun, 1986, 35). Dispositivo, quello del castello, indubbiamente caratterizzato anzitutto dalla “chiusura”, come ben sottolinea Roland Barthes, orientata ad un tempo a salvaguardare da ogni potenziale intrusione lo spazio dell’infrazione continuata e del godimento, e all’autarchia, che simula un perfetto organismo sociale autosufficiente, un altro mondo, appunto, che, non a caso, Barthes paragona al falansterio fourierista. Solo che qui si consuma qualcosa di diverso da una invenzione sociale senza precedenti che faccia leva sulle passioni per favorire il progresso e l’armonia. Qui si scava fino all’estremo delle passioni, qui si va veramente al termine della notte. Ogni passo dentro la scala vertiginosa dei piaceri che si esercitano a Silling, è un passo sempre più lontano dal concepibile, è un urto, urto fisico, organico, alla nostra struttura culturale, sociale, morale.
In questo luogo inaccessibile, che si è separato dal mondo spezzando ogni passaggio che possa renderlo ancora raggiungibile, che si avvia a inabissarsi nell’inverno, che solo gli uccelli ormai possono osservare dall’alto, si consuma la sperimentazione più estrema del mondo sconosciuto dei desideri inconfessabili. Esperienza spaesante, percuotente, irreversibile (perché anche traumatica), quella dell’attraversamento delle Centoventi giornate da parte del lettore, esperienza in cui sotto attacco e pressione viene posto il corpo di chi legge, snervato sensualmente e, come dice Bataille, ridotto in malattia. “Il fatto è che se questo libro scuote a tal punto, lo si deve al fatto che, malgrado tutto, malgrado l’aberrante orrore, malgrado l’inimmaginabile orrore in esso rappresentato, “questa lettura sollecita sensualmente”, ed è qui che comincia l’intollerabile” (Le Brun, 1986, 39). Una forma di snervamento erotico più che sessuale, una specie di denervazione, una privazione di nervi, una vera e propria “perdita d’identità erotica” che procede proprio dall’ eccitazione eccessiva e prolungata. Una sensazione inquietante in cui ciò che viene minacciato è la stessa identità eroticamente disinibita, perché lo strappo che tale pressione comporta, smuove qualcosa di più profondo, come se a essere destato fosse una sorta di “al di qua del desiderio”, un vortice primordiale precedente il desiderio, l’oceano che “fomenta le onde del desiderio”.
Non solo il nostro cuore è messo a nudo dalle pagine sconvolgenti delle Centoventi giornate, è qualcosa di più sotterraneo, di più strutturale ad essere messo sotto scacco. E in fondo per ciascuno di noi si pone il problema della tolleranza, del “non più oltre”. Molti abbandonano questa lettura. Interessante forse sarebbe scoprire dove, per ciascuno di noi, quale degli abissi talora impensati o apparentemente impensabili del desiderio umano sia così intollerabile da sollecitare l’abbandono immediato della lettura, pena la perdità di sé, l’alienazione, il panico, magari nella scoperta acuta e insopportabile che qualcosa di ciò che viene narrato ci riguarda.
Sade qui va fino in fondo, tutto viene sottoposto ad una progressiva denigrazione, destituzione, distruzione, dai legami famigliari (ma la famiglia è una posta fin troppo ghiotta per Sade che trova tutti i modi per infangarla e vituperarla in ogni sua opera come nell’episodio che sembra tanto suggestionare anche il nostro Barthes: “racconta di aver conosciuto un uomo che ha fottuto tre figli avuti dalla propria madre, fra cui c’era una fanciulla che aveva fatto sposare al proprio figlio, in maniera che fottendo lei, fotteva la propria sorella, figlia e nuora e costringeva il proprio figlio a fottere la sua sorella e suocera” (cit. in Barthes, 1977, 125-6)) e in particolare la coppia, cui, come nota ancora Barthes, Sade sostituisce sistematicamente la “catena”, oppure ancora la religione, altro boccone favorito del nostro: “per riunire l’incesto, l’adulterio, la sodomia e il sacrilegio, incula la figlia sposata con un’ostia” (Sade, 1977, 437). Insomma ogni forma di rapporto e di piacere è oltraggiata nella sua forma normata, nella sperimentazione sempre più accanita di ciò che è considerato deviante, dalla sodomia, pratica sempre in auge nelle narrazioni sadiane, fino alle inversioni, ai piaceri coprofagici, alla pedofilìa, all’onanismo, alla zoofilìa, alla necrofilìa, alle più diverse forme di assassinio sessualmente eccitante.
L’umano, almeno quello figliato da ogni ipostatizzazione “umanistica”, è messo a dura prova nel castello di Silling, nessun testo ha demolito in modo così assoluto il mito della soggettività, della persona, dell’ego e dell’unità “organica” del corpo: Sade si pone addirittura sulla via, secondo Stéphane Nadaud, della disorganizzazione corporea, della crudeltà che produce un “corpo senz’organi”, per esempio nell’esempio spaventoso del supplizio di Augustine nella “segreta”, (Sade, 1977, 487-88 ;cfr. Nadaud, 2004, 192-203).
L’umano è degradato al valore di mero oggetto, equivale a qualunque altro accessorio possa servire per perfezionare il godimento. L’imperativo del piacere si afferma qui ben oltre ogni preoccupazione amorosa o anche semplicemente erotico-seduttiva. Qui siamo effettivamente penetrati nel regno dell’inumano: “In effetti, per lui, si tratta di porsi davanti alla nostra inumanità, a quella inumanità che noi alberghiamo in fondo a noi stessi e la cui scoperta ci pietrifica” (Le Brun, 1986, 59). Non si deve del resto dimenticare che nel discorso inaugurale fatto alle vittime al Castello di Silling, esse sono avvisate che da quel momento in poi saranno trattate non più come creature umane ma come “animali che si nutre per i servizi che ci si augura di ottenere…” (Sade, 1977, 101).
Inumanità che si staglia sullo sfondo di una ben precisa e numerose volte ricordata filosofia della natura, di cui, non a torto si è detto essere una forma compiuta di quel monismo niente affatto antropocentrico, derivante parimenti da Epicuro e Parmenide, da Lucrezio fino a Spinoza in cui il nulla e l’essere sono perfettamente equivalenti, così come l’esistenza o l’inesistenza umana: “il suo universo è quello della materia in movimento in obbedienza alle sole leggi del caso e della necessità, l’universo dell’attività incessante degli atomi e del clinamen “attributivo” (Spinoza), nel quale le entità dei tre regni (minerale, vegetale, animale) sono sempre delle “coniugazioni del medesimo verbo” (Sclippa, 2006, 15): “il verme, che nasce dalla putrefazione, non è affatto di minor valore, né più considerevole ai miei occhi, del più potente monarca della terra…” (cit. ivi, 16).
A Silling, sorta di Ortus conclusus, di spazio separato, in questo parente alla lontana della cornice del Decameron, ma imbastita con tutt’altre misure e per fini solo apparentemente analoghi (là si fuggiva la peste, qui probabilmente la si diffonde, anche nel senso artaudiano (cfr. Prete, 1970, 253-294 )), tutto procede secondo una ben architettata regia, secondo fasi, attraverso narrazioni, in un campo anche spazialmente pensato e predisposto. Ma la regia fondamentale attraverso cui le seicento forme concrete del desiderio troveranno incarnazione sarà l’articolazione e stretta congiunzione tra immaginazione e atto, mediata dalle storie via via sempre più morbose delle novellatrici (le quattro maitresses incaricate di introdurre ogni serata con una specifica narrazione voluttuosa) e interpretata dai libertini e dalle loro vittime e complici. “La memoria delle storiche agirebbe come un filtro attraverso il quale solo la singolarità passa” (Le Brun, 1986, 113). Nessuna contestualizzazione sociale, nessuna precauzione psicologica. “Una passione cruda, messa a nudo dall’immaginario, con niente intorno, ecco quello che ci mostra la macchina ottica di Sade e che resta per noi intollerabile” (114).
Questo deserto che lascia campo solo alla “macchina” del desiderio, spazza via ogni accusa tradizionale a Sade di totalitarismo ideologico (cui evidentemente si ispira anche la versione del film di Pasolini, che si è alimentato dell’immaginario sadiano trasponendolo in un contesto che ne tradisce la radicale indifferenza alle umane sorti). Non c’è progetto ideologico, non c’è contesto sociale, non c’è movente storico. In Sade l’orrore viene in luce nella sua pura materialità, oltre ogni possibile giustificazione ma in fondo anche in assenza di ogni particolare incitamento. E’ la ferocia senza limite dell’umano che Sade ci mostra, al tempo stesso fornendoci, oltre l’orrore insostenibile della scoperta, il senso altrettanto insopportabile eppure paradossalmente inebriante di un’infinita libertà, la “materialità della libertà”, per usare ancora un’espressione di Annie Le Brun, pagata al prezzo della scoperta del nulla in cui la volontà umana si trova sospesa. Questo è, in un certo senso, ciò che ricaviamo, devastati sensualmente, malati moralmente e fisicamente, alla fine della lettura delle Centoventi giornate. Al tempo stesso tuttavia, e questo è il senso più generale, sedotti dalla scoperta che si può trarre dell’immersione nell’opera sadiana, della logica del desiderio, con la sua ineludibile motivazione singolare, ciò su cui insisterà anche Fourier, che manifesta le sue forme, si fenomenologizza, si ordina in figure e reclama i suoi diritti d’esistenza.
Iniziazione al dandismo erotico e vitalismo sessuale
Da questo punto di vista non si può non provare a leggere, con grande disinibizione intellettuale, Le giornate, anche come un’opera iniziatica, votata a far percepire e misurare concretamente il superamento di un ordine morale che rifiuta di ospitare le immagini oscure del desiderio. Per esempio l’interpretazione che ci offre Thomas Moore, indubbiamente molto diversa e certamente ben al di sotto della radicalità osservata scrupolosamente da Annie Le Brun, individua a suo modo una sorta di possibile educazione sadiana all’erotismo. Una via, che come asserisce egli stesso, “rappresenta quel momento, nell’iniziazione dell’anima, in cui essa cattura i segreti di un’estetica sotterranea” (Moore, 1994, 27) (e si tenga presente che il termine “anima” è adottato in chiave junghiana). Il Dark Eros restituito dall’analisi di Moore, con le sue inversioni, i suoi escrementi, i suoi delitti, pone in campo, metaforicamente, una sorta di discesa agli inferi, indispensabile per simboleggiare con i lati oscuri della vita psichica e per esorcizzare una coscienza troppo luminosa o ingenua, monoteistica, incapace di riconoscere il fondamento “oceanico” e infinitamente singolare del desiderio sessuale, così come il suo potere.
I quattro livelli (delle “passioni semplici”, delle “passioni doppie”, delle “passioni criminali”, delle “passioni mortali”), le seicento “portate”, i rituali serali, l’alambicco immaginifico delle “storie”, l’esoterismo dei “gabinetti” privati e della “cantina” segreta, la cabbala delle orge, la struttura rappresentazionale che inclina sempre più all’enumerazione e all’estenuazione, tutto questo configura un percorso, una sorta di controeducazione estrema e infinitamente perturbante che ponga fine ad ogni idealizzazione della sessualità, del desiderio, della passione, della carne fino ai suoi ultimi limiti, quelli in cui trapassa, secondo natura, in distruzione, o forse meglio sarebbe dire, in pura dissipazione, quella stessa cui Sade desiderava che fossero destinati la sua memoria e il suo corpo: “Quando la fossa sarà stata colmata, vi si seminerà sopra delle ghiande, cosicché in seguito il terreno della suddetta fossa no resti sguarnito e il bosco torni ad esser folto come prima: in tal modo le tracce della mia tomba scompariranno dalla superficie della terra come mi auguro che il ricordo di me si cancelli dalla memoria degli uomini, fatta eccezione tuttavia per il ristretto numero di coloro che hanno voluto amarmi sino all’ultimo momento e di cui io porto con me, nella tomba, un dolcissimo ricordo” (dal testamento di Sade, quinto paragrafo, in G.Lely, 1983, 441).
In realtà Sade non è affatto sedotto dalla fascinazione della morte, come vorrebbe Bataille, in lui nessun sospetto di teologia negativa e di slittamento amore-morte. Sade narra di un’etica vitalistica, crudele, estrema, ma assolutamente orientata alla festività del piacere in tutte le sue sfumature: un “Ottimismo totale” lo definisce forse con un filo di ecesso rovesciato Sclippa (2006, 77), ma certo una morale condizionata largamente da quello che egli stesso definisce un “principio di delicatezza”, perno della “metafisica dei piaceri” di cui parla Noirceuil a Juliette (Sade, 1954, II, 80) . Principio che in definitiva è approvazione senza limite delle infinite forme in cui la singolarità del desiderio e del godimento si manifestano. In esso, come dice Barthes “analisi e godimento si uniscono a vantaggio di un’esaltazione sconosciuta alle nostre società” (1977, 157-8). E’ un principio di pluralizzazione, una sorta di “dandismo erotico”, come lo definisce Annie Le Brun, una “preziosità” che “trasfigura i gusti riconosciuti come più ripugnanti in lussuose feste dei sensi” (1986, 146).
Come sostiene Bernard Sichére: “…non vi è comunità, né piacere, senza elezione. Il proprio del piacere è che esso viene scelto a detrimento di tutto il resto, di ciò che dispiace. Il libertinaggio è un arte del piacere, da cui l’elezione: esso non si conviene che tra coloro che ne attendono del piacere, mentre si evitano quelli s’intuisce non abbiano a procurarsene alcuno (la questione delle ‘simpatie’ e delle ‘antipatie’ sempre in ultima istanza sessuali è quella che è ostinatamente censurata proprio quando è essa a decidere in verità i modi di socialità da sempre): Tutto ciò che, certamente, è odioso alla ragione democratica… (Sichére, 2004, 150-151)
Rispetto assoluto per ogni fantasia, per ogni “mania”, direbbe Fourier, attraverso cui il desiderio individua la sua specifica epifania, la sua venuta all’essere. Questa attenzione a esaltare ogni forma di stravaganza, di singolarità, mette in scacco l’idea stessa di bellezza, di convenienza erotica per fare spazio al bizzarro, all’insolito, al trasgressivo: “d’altronde la bellezza appartiene a ciò che è semplice, la bruttezza a ciò che è eccessivo, e tutti gli animi ardenti preferiscono, nella lascivia, l’eccesso alla semplicità” (Sade, 1977, 83). Senza ideologia, senza ipostasi che allora potrebbero finire per tradursi, come vorrebbe Bataille, in una sorta di rovesciamento dei canoni abituali, ma solo per far finalmente risplendere la festa completamente disincantata dei sensi, delle loro preferenze, anche le più improbabili. E così i due libertini delle Centoventi giornate che si accaniscono sul corpo ormai sfatto di una vecchia, suscitano la sorpresa divertita del narratore: “…e pur essendo presenti oggetti bellissimi e giovani, disponibili a soddisfare il sia pur minimo desiderio, è con quanto la natura e il delitto hanno infamato e umiliato, è con questo oggetto laido e ripugnante che i nostri due porci godranno, andando in estasi, i più delicati piaceri… E dopo questo, chi pretenderà di spiegare la natura umana, quando entrambi sembrano contendersi quel cadavere non ancora morto, come cani affamati sopra una carogna, dopo averli visti consumare gli eccessi più vergognosi?” (180).
Tutta l’opera di Sade è disseminata di queste apparizioni bizzarre, imprevedibili, in cui l’irragione del desiderio, la sua sregolatezza costitutiva celebra il suo trionfo. Che non è un trionfo di morte, ma di vita, vitalità estrema e imprevedibile, l’Eros che si afferma anche nella morte, nella distruzione, come lo stesso Bataille, non diversamente da Kerenji, ha sostenuto a proposito della sua ispirazione dionisiaca. Per Sade “l’essenziale è la voluttà e (…) l’erotismo non apre alla morte ma è espressione della vita, anche se il crimine può essere interpretato come una modalità della voluttà” (Le Brun, 1986, 151) In tal senso davvero l’educazione impartita da Saint Fond a Juliette, non meno di quella della Delbéne, o di quella della Saint-Ange a Eugénie, disegnano i contorni di un elogio del piacere in tutte le sue forme (nessuna esclusa) governato dal “principio di delicatezza”:
“Concediti, Juliette, concediti senza paura all’impetuosità dei tuoi gusti, alla sapiente irregolarità dei tuoi capricci, alla foga ardente dei tuoi desideri; riscaldami con le loro deviazioni, eccitami con i tuoi piaceri; non avere che essi per guida e per leggi, sempre; che la tua voluttuosa immaginazione amplifichi i nostri disordini; non è che nel moltiplicarli che noi raggiungeremo il piacere; (…) tutto quello che diletta è buono, tutto ciò che eccita è nella natura. Non vedi forse tu l’astro che illumina, prosciuga e vivifica di volta in volta? Imitalo nelle tue preferenze, così come te le dipingi nei tuoi begli occhi (…)” E ancora: “Ispirati a Messalina e a Tedodora; procurati, come quelle celebri puttane dell’antichità, serragli d’ogni sesso in cui tuffarti a piacere in un oceano d’impurità (…) Insudicia a piacere tutte le parti del tuo bel corpo; rammentati che non ve n’è una sola in cui la lubricità non possa avere un tempio, e fra i quali i più divini saranno sempre quelli che tu penserai infastidiscano la natura (…) ricordati che tutta la natura ti appartiene, che tutto ciò ch’ella ci consente di fare è consentito, e che essa è stata abbastanza assennata, nel crearci, da impedirci qualsiasi mezzo atto ad esserle d’intralcio” (Sade, 1954, III, 186-188)
“La voluttà sadiana è inconcepibile in assenza di questo approccio lussuoso il cui senso è d’affermare la vita carpendola nell’esuberanza e nella sollecitazione dei suoi più infimi dettagli” (Le Brun, 1986, 152). Non vi è perversione per Sade, benché egli sia stato eletto a principe dei pervertiti, perché “ciascuno ha la sua mania; (e) noi non dobbiamo mai né condannare né stupirci di quella di alcuno”. Questo è il punto, il medesimo punto e il medesimo lavoro di “deideologizzazione” su cui tornerà, con uno spirito certo più progressista e gaio Fourier, convinto che i suoi grandi assembramenti amorosi, scanditi in competizioni e in prodezze sempre più complesse, non possano che premiare la diversità, le preferenze, le specificità delle passioni singolari. Del resto, il principio di delicatezza, come nota acutamente Sclippa, rende possibile accettare l’esperienza stessa della morte (forse l’estrema delizia) nel quadro della metamorfosi dei piaceri: “una volta guariti dei (…) timori e rassicurati della nostra sorte, non solamente noi non dobbiamo più vedere la morte con ripugnanza, ma diventa facile dimostrare che essa non è realmente che una voluttà: (…) poiché noi abbiamo sotto gli occhi la prova convincente che tutti i bisogni della vita non sono che dei piaceri: vi è dunque piacere nel morire” (cit. in Sclippa, 2006, 82)
Ritengo che tutto questo, nella nostra “civiltà”, termine che, come si sa, Fourier dal canto suo impiega per designare uno stadio assai arretrato nella storia umana, appare non solo strano, ma violento, sovversivo, o semplicemente “utopico”. Ed è questo a individuare il pensiero sadiano (così come quello fourierista), come pensiero antipedagogico, proprio perché scardina ogni pratica orientata a normare, omologare, ricondurre a principi di generalità e di uniformità ciò che per sua natura, e si assuma questo termine nel senso radicalmente sadiano, sovverte ogni tendenza all’astrazione e alla generalizzazione.
La pedagogia del boudoir
Si prenda l’esempio della educazione di Eugénie nella Filosofia nel boudoir, esempio compiuto, e compatto, di antipedagogia erotica condotto fino in fondo, seppure senza toccare i vertici dissipatori delle Centoventi giornate. Un’antipedagogia radicale che mira ad un’erotizzazione integrale della giovanissima Eugénie de Mistival (fanciulla di sedici anni). Una “gaia scienza” che mescola filosofia delle natura, politica sociale e morale (all’insegna del più puro disegno libertino) ponendo tuttavia sempre in primo piano il piacere fisico e la sua multiforme sperimentazione. Una vera e propria scuola “politecnica” in cui tuttavia il principio guida resta quello espresso per Juliette come per tutti gli altri: la ricerca finalmente non condizionata da timori, pudori o leggi restrittive del piacere erotico in tutte le sue manifestazioni.
La méntore finalmente non più ipocrita e del tutto disinibita Mme de Saint-Ange, potrà confessare, fin dall’inizio: “Io avrò due piaceri in una volta, quello di godere io stessa di queste voluttà criminali, e quello di dare lezioni, d’ispirarne il gusto alla deliziosa innocente che attiro nelle nostre trame” (Sade, 1974, 30). La legge è quella che pone al primo posto, da ogni punto di vista, il piacere, come lo sarà, in larga misura, anche per Fourier. E in questo i due sono anche accomunati dalla sfida all’idea di sessualità condizionata dal compito della riproduzione. Se per Fourier uno donna, posto che sia nel suo gusto, deve scegliere di generare solo dopo aver lungamente goduto, e quindi dopo una certa età, l’educazione di Eugénie è più “severa”: come sostiene Mme de Saint-Ange: “una fanciulla graziosa non deve occuparsi che di fottere, mai di generare”. Il che fa il paio con la sentenza che Curval restituisce al duca, nelle Centoventi giornate, a proposito degli enigmi della natura umana, sebbene su un tono decisamente più ironico: “ Oh, che enigma è mai l’uomo- dice il duca. E’ vero, amico mio, -risponde Curval. E come ebbe a sentenziare un uomo veramente di spirito, è meglio fotterlo che capirlo” (1977, 338).
Educazione integrale in cui corpo e spirito procedono perfettamente di pari passo, anzi in piena, reciproca, copula: “decenza, virtù, carità, pietà, beneficenza sono asportate qui insieme alle primizie”. Ma, ancor più: “idee false, pregiudizi sono qui espugnati come altrettanti imeni che impediscano l’accesso al piacere. Ogni scoperta di una nuova via per il piacere corrisponde a quella di una nuova via per la riflessione” (Le Brun, 1986, 260-1) E’ questa infatti un’educazione che non mira soltanto a preparare un corpo alla miglior prestazione erotica attraverso l’accumulo di tecniche raffinate (come nell’educazione libertina). L’emancipazione è più radicale: Sade qui promuove “la grande avventura voluttuosa nel corso della quale vengono abbattute le idee prive di corpo per meglio fustigare i corpi senza idee” (ibidem). Di essa, del suo felice esito sarà più avanti campionessa Juliette. Tutta la Filosofia nel boudoir intercala, non meno peraltro della Storia di Juliette e della Nuova Justine, le pratiche erotiche sempre più veementi con l’istruzione strettamente carnale, le funzioni e i siti corporei nella loro erogenità, e soprattutto con quella filosofica e politica, di cui lo scritto, letto dal Cavaliere, Francesi ancora uno sforzo, costituisce il sigillo veemente orientato a demolire i principi religiosi e morali dell’ideologia dominante proprio nei suoi punti di massima delicatezza, e cioè sui crimini proscritti, dall’incesto alla prostituzione alla sodomia.
Ma il progetto antipedagogico di Sade si compie probabilmente nella maniera più compiuta, nel boudoir, con il “compito” ultimo del suo apprendistato, quello che vede Eugénie cucire la vagina e l’ano della madre, come a completare la sua perdita di verginità con la negazione della sua dipendenza materna (e naturale). Come dice Annie Le Brun, “da questo supremo oltraggio alla donna che l’ha partorita nel dolore, Eugénie ha guadagnato la sovranità della sua nascita, diventando la prima ‘fanciulla nata senza madre’ della nostra storia” (262). La sua educazione è ora completa e anch’essa, come Juliette quindici anni dopo, è pronta per concedersi a tutti i lussi, a tutti i piaceri e a tutti i crimini, crimini dell’amore, che il suo desiderio immaginerà per lei.
Gemelle diverse
La complementarità gemellare e rovesciata di Justine e Juliette, le sorelle dai temperamenti e dai comportamenti opposti, è un fatto fin troppo evidente. Carlo Pasi insiste, nella sua prosa poetica, un poco troppo contaminata dall’ingerenza psicoanalitica, sottolineando tuttavia da par suo i profili dei due destini delle due più note eroine sadiane: “Dalla identità primitiva si è passati alla scissione bipolare. Sadismo e masochismo coincidevano nello spazio della morte. La deflessione dell’uno e la contrazione dell’altro preparano i due opposti destini. Juliette si avvia allo scontro con il reale. Justine si chiude in un autismo angosciato. L’una segno del movimento, del vizio. L’altra della stasi, della virtù” (Pasi, 1979, 68)
Dove l’una si ripiega, subisce, soffre, l’altra si apre, domina, gode. Duplicità che serve a Sade per riprendere i capisaldi della sua filosofia e della sua antipedagogia: laddove Justine è la vittima di tutte le “false idee” che producono la repressione del corpo e del desiderio, Juliette è la prova che la licenziosità apre all’inesauribile trama dei piaceri. “Sade ha scelto in Justine l’essere più innocente per sperimentare sulla sua verginità i valori cui il nostro mondo si richiama e per esaminare in che modo essi si inscrivano materialmente sul candore della sua innocenza” (Le Brun, 1986, 219). Egli “ci fa assistere per ogni virtù al ritorno in forza della realtà che essa pretende di negare e che è quella del corpo”. Al contrario Juliette esordisce proprio dal sapere del corpo, dalla sua consolazione, dalla sua “filosofia”: è nell’atto del piacere, della masturbazione, che si apre il colloquio delle due sorelle: “tieni, lei dice, gettandosi su un letto sotto gli occhi della sorella, e, sollevandosi il vestito fin sopra l’ombelico, ecco come faccio, Justine, quando mi sento triste: io mi masturbo…io vengo…e questo mi consola” (Nouvelle Justine, 1966-67, VI, 92) Juliette si impadronisce del sapere del corpo, lo gode e ne fa lo strumento della sua emancipazione e della sua carriera di libertina.
E’ la passività, l’irresolutezza, l’innocenza di Justine che la rende così appetibile per l’eroe sadiano (l’innocente, non il masochista è il partner conveniente al sadico). E’ la sua iscrizione totale nel sistema delle “false idee” e dei falsi comportamenti che la designa a vittima sacrificale di tutta una filosofia e delle sue pratiche. Occasione perfetta per dimostrare che quanto più ci si affida alle vie del bene e dell’illusione comunitaria, tanto più ci si inabissa nei sotterranei del crimine e del degrado. Justine è la figura emblematica in negativo della filosofia sadiana, quella che si ritrae di fronte al desiderio, che si nega, che proprio in questo indietreggiare e opporsi ad ogni forma di eccesso, ne è travolta ( e non su un piano sintomatico o simbolico, come una qualunque isterica del dopo Freud, ma concretamente, di volta in volta sottoposta all’eccesso che il sadico di turno riscatta dalla sua negazione alla vita e al piacere). Fino alla “folgorante” scena finale, in cui il sigillo della morte, come una némesi maligna, ce ne riconsegna il paradossale profilo capovolto (cfr. Sade, 1954, VI, 271). Nelle diverse versioni (da quella del 1788 a quella del 1791 alla Nuova Justine del 1797), la folgore attraversa il corpo di Justine trapassandola in luoghi diversi, prima seno, bocca e volto, poi seno e ventre, infine seno e vagina, sempre più restituendo in questa sutura finale quella femminilità erotica da Justine sempre rifiutata. Justine è annientata da un fulmine che riconnette bocca e vagina, paradossalmente risessualizzandola: “ecco Justine completamente oltraggiata dalla sua ‘verità effettuale’. Perché l’oltraggio in Sade è sempre la materialità dei corpi che va a distruggere la menzogna delle idee senza corpo” (Le Brun, 1986, 229).
Al contrario Juliette rappresenta il totale accoglimento della petizione al godimento, del sì alla vita sgombra di ogni ipocrisia, di ogni riserva, di ogni pregiudizio. Juliette è il trionfo dell’eccesso, unica misura dell’eroe sadiano, eccesso fisico, voluttuoso, criminale. In effetti in Sade è l’eccesso a misurare il potere dei suoi personaggi ed è l’eccesso, o meglio la capacità di eccesso a decretarne la resistenza ( e la sopravvivenza, come si vede nel caso della Julie delle Centoventi giornate). Solo l’incapacità di “tenere” l’eccesso trasforma i carnefici in vittime nell’epica erotica sadiana. E Juliette è lo splendido purosangue capace di incarnare questa straordinaria resistenza, questa sicurezza trionfante del desiderio e della sua infinita libertà fino oltre il possibile. Juliette che cambia i suoi maestri continuamente, quasi a mostrare che in nessuna forma ella può dimorare o arrestarsi, dalla Delbéne a Noirceuil a Saint-Fond, Clairwil, alla Durand. Juliette è materia mercuriale in perpetua agitazione, capace della trasmutazione continua del piacere, della trasformazione della materia orgastica accumulata nei molteplici incontri in distillazione singolare, perché, come dice la Le Brun, il “passaggio dall’eccesso numerico all’eccesso singolare si fa sempre a partire da un punto di saturazione che, senza essere lo stesso da un individuo all’altro, non indica tuttavia di meno, ogni volta, che lo slittamento verso l’immaginario è indissociabile dalla realtà concreta, o più esattamente non sopraggiunge che dopo un’assimilazione violenta e vorace. Come se il campo del reale dovesse anzitutto essere conosciuto, esplorato, inventariato, perché vi possa scaturire, come una realtà traboccante, l’eccesso non misurabile che, determinando bruscamente la singolarità eccessiva, lacera l’orizzonte e apre sulla prospettiva immaginaria” (289-290).
Juliette, come Eugénie, è capace di questa alchimia, di questo passaggio dalla quantità alla qualità, in tal modo scavalcando ogni pregiudizio di monotonìa e di ripetizione
sottolineata per esempio da Bataille che poi fa di essa l’essenza “religiosa”! sulla scia di Klossowski, (cfr.Bataille, 1973, 106), e intendendolo piuttosto come una complementarità necessaria, come un principio di tempratura, di “atletismo affettivo”, si potrebbe quasi dire artaudianamente, capace di dischiudere il varco alla trasmutazione in singolarità, in piacere del dettaglio, che sempre tuttavia deve ancorarsi al supporto concreto, carnale.
Juliette è l’incarnazione riuscita del perfetto cinismo erotico e della sua filosofia solitaria, del suo deserto che è tuttavia condizione dell’assoluto godimento, godimento senza ricatto, senza contrappasso, senza morale, senza “al di là”. La ferocia erotica di Juliette è la forma attraverso la quale Sade ci fornisce la chiave del suo sguardo completamente disincantato sulla realtà, ma anche quello che le restituisce un nuovo incantamento, una “nuova alchimia”, quella che scaturisce dal fatto che “si può realizzare tutte le trasmutazioni, fors’anche quella della ferocia erotica di voler essere tutto, in ferocia poetica di voler essere altro” (297). Ma il tutto all’interno di una prospettiva finita, reale, concreta. La cui concretezza è sancita proprio dalla precisa consapevolezza, su cui però si fonda la sua assoluta libertà, che non vi è utopia erotica, ma solo verità fattuale del desiderio e che esso si fonda sulla propria ascesi, sulla solitudine durata e tenuta, sul rifiuto di ogni illusione di legame o di compimento, sulla regia accurata e meticolosa che scava all’orizzonte del proprio immaginario ogni volta la posta più allettante del proprio appetito, senza infingimenti e senza cedimenti
Juliette è infine davvero una “fata”, per seguire ancora la bella metafora di questa straordinaria esploratrice dell’opera sadiana che è Annie Le Brun, e il suo un racconto favoloso, la prima fiaba autenticamente erotica: “per la prima volta, una ragazzina viene al mondo unicamente per il suo piacere, avanzando dai suoi primi passi in un universo in cui i sessi sono grandi come delle case, in cui i gesti dispiegano gli spazi vorticosi del piacere, in cui la durata si estende sulle più belle erezioni, in cui infine gli oggetti del desiderio sono più numerosi dei desideri ma il desiderio, a tal punto colmato, ritorna a vagare nell’ombra sconvolta e feroce sui campi silenziosi dell’impensabile” (308).
Ma in questo racconto è la fata stessa a elargirci i suoi segreti, a farci partecipi dei concreti misteri dell’amore e a restituirci, oltre ogni “falso mito”, la materialità delle passioni in azione, del radicamento corporeo della verità del desiderio, e forse di ogni verità (che non può non passare per il corpo e per il suo godimento).
Gratta-talloni e carezza-capelli
“Chiamo manie lubriche certe abitudini bizzarre, sia materiali che spirituali; (…) si potrebbe riempire un volume con queste manie lubriche, fra cui alcune molto divertenti, come quella di specie mista, cioè materiale e spirituale insieme, che aveva un certo tedesco; costui, corteggiando per parecchi mesi una bellissima donna, l’aiutava a coricarsi, la copriva e la rincalzava nel letto, ma poi per tutta ricompensa delle sue cure non chiedeva che di sedersi un quarto d’ora nell’alcova a grattarle i talloni. Eppure la dama era magnifica e meritava che la mano non si fermasse ai talloni. Ma quel sentimentalissimo galante era felice così, e poiché si trattava di un giovane bello e compìto, la dama se ne era incapricciata nonostante il suo innocente passatempo, davvero degno delle virtù dell’epoca d’oro” (Fourier, 1999, II, 160-1). A cui l’autore non manca d’aggiungere: “Beninteso, la dama era ampiamente indennizzata da altri campioni, le cui carezze superavano di molto i talloni; eppure io l’ho stimata per aver preso gusto a quel suo stravagante innamorato, di cui mi vantava la delicatezza e l’onestà con un tono affettuoso e un tenero ricordo che le francesi non hanno in simili casi” (ibidem).
In Armonia, nel grande concerto, anzi “Opera” delle passioni finalmente libere di manifestarsi in tutte le loro anche più infime particolarità, le manie, le fantasie private, o forse le “perversioni”, come le chiamiamo noi in “Civiltà”, trovano finalmente il loro pieno risarcimento. “Tutti hanno ragione nelle manie amorose, perché l’amore è essenzialmente la passione dell’irragionevolezza”, sentenzia infatti Fourier (213). Nelle grandi “Corti d’amore” che egli immagina diffondersi con l’avvento del mondo societario, il ruolo dei Pontefici e delle Pontefici che dirigono le dinamiche di questi grandi “convegni” sarà proprio quello di combinare in serie
Il termine “serie” in Fourier è mutuato dalla tradizione matematica newtoniana (probabilmente dalle opere di statistica e matematica di Abraham de Moivre (1667-1754). Si tratta, in breve, di un principio formale di ordinamento “secondo natura” di gruppi e gamme di elementi: dagli animali, alle piante, ai colori fino alle più diverse combinazioni in ogni ambito d’esperienza. La serie, sul piano formale, è assimilabile a grandi linee a un insieme combinatorio la cui forma può essere accostata alla curva di De Moive-Gauss (la gaussiana dalla classica forma a campana, con un culmine e delle ali discendenti). e gruppi di simpatia i portatori delle manie anche più bizzarre e minoritarie, affinché ciascuno possa goderne assieme ai suoi partner. Il trionfo della passione amorosa in armonia preserva anzitutto il principio che tutto è lecito, purchè non sia nocivo per gli altri. “I Pontefici devono livellare, proteggendo tanto la mania dei gratta-talloni quanto i costumi amorosi sostenuti oggi dalla morale, come la copulazione semplice e meccanica alla maniera dei contadini. Il principio delle corti d’amore è che ogni fantasìa è buona; esse cercano la più ignorata, la più trascurata, per darle risalto e unire in corporazione i suoi settari di tutto il globo” (217). Riunire i flagellisti (serie numerosa), i carezza-capelli (serie di pochissimi individui, tanto più avvantaggiata dall’organizzazione societaria) o i saffianisti (coloro che godono della compagnia delle lesbiche, come lo stesso Fourier, che ammette di aver scoperto la sua “mania” solo in età avanzata, a trentacinque anni) è lo scopo dei “Concili d’amore” così come di ogni membro esperto della comunità armoniana nei confronti dei più giovani.
Anche qui ritroviamo dunque, aspetto caratterizzante ogni ispirazione antipedagogica del piacere, l’enfasi sulla singolarizzazione e sulla liberalizzazione delle forme del piacere, nessuna esclusa, anche se, a differenza di Sade, i piaceri di tipo distruttivo sono banditi in quanto considerati il frutto di un mancato funzionamento della serie passionale, di un ingorgo del desiderio, che si muta, per repressione, in manifestazione deviante. Come nell’esempio della “principessa Strogonoff” che, invecchiando, provava così tanta gelosia per una sua bellissima giovane schiava al punto da farla torturare o torturarla ella stessa e pungerla con spilli. Fourier argomenta che in realtà la principessa era una “saffiana” inconsapevole che torturava la schiava per “contropassione”, cioè a causa di un meccanismo di inversione che colpisce le passioni quando non sono rese consapevoli e liberate adeguatamente, il che, se fosse invece accaduto, avrebbe suscitato il più grande piacere tra le due donne.
In generale il mondo amoroso di Fourier è un mondo in cui tutti i desideri si compongono in felice armonia e dove la sofferenza, se c’è, come nel caso dei flagellanti passivi (coloro cioè che godono nell’essere flagellati) è soltanto legata alla più conveniente e desiderata manifestazione del proprio particolare gusto amoroso. In esso, come sostiene efficacemente Claude Morilhat, “dalle forme più comuni alle manie più rare, l’amore dispiega tutte le sue varietà, tutte le sue sfumature, combina tutti i suoi modi per produrre i quadri d’assieme più sublimi. Il legame d’amore trova di che affermarsi tanto nell’infinitamente grande, ‘l’orgia che stabilisce una confusione generale fra gli iniziati’, che nell’infinitamente piccolo, le fantasie amorose più singolari. Dalla diversità degli elementi, dalle loro alleanze e dai loro contrasti nascono la bellezza, lo splendore del tutto, poiché si tratta d’impiegare tutte le risorse dell’orchestra passionale a 810 strumenti al fine di creare delle opere inaudite” (Morilhat, 1991, 202)
Si noti che 810 è il numero dei “tasti” caratteriali dell’uomo di cui per esempio un’unità falansteriale dovrebbe comporsi integralmente, in numero doppio, maschile e femminile, in modo da realizzare la compiuta armonia a 1620 voci.
Anche perché la legge dell’amore è quella dell’accrescimento dei legami societari e in essa ogni forma di riduzione, di esclusivismo, o di egoismo, come nella coppia monogama, è un atto di entropia, di ostacolo all’ampliamento dell’esperienza passionale: “in attrazione si chiama vizio tutto ciò che diminuisce il numero dei legami, e virtù tutto ciò che l’aumenta…” (Fourier, 1999, II, 89).
“Patafisica” ermetica
Laddove l’impresa formativa e al tempo stesso violentemente antipedagogica di cui, come si è visto, è intessuto il discorso sadiano, come iniziazione crudele al piacere, sembra fare perno sulla sperimentazione corporea endurée e condotta all’estremo, sullo sfondo di una concezione radicalmente materialista della condizione umana, Fourier sembra opporre un’utopia societaria ugualmente centrata sulla passione ma orientata a un quadro armonico e positivo, in cui il ciclo di produzione e distruzione della natura, una volta che sia stato correttamente inteso, trova una felice composizione sia nella tessitura progressiva dei legami che nella sempre più completa e partecipata soddisfazione dei desideri. Questo appare indiscutibile. E tuttavia ritengo che valga la pena di sottolineare come anche per Fourier si debba prendere atto di una così possente enfasi sull’appagamento dei piaceri e sull’abolizione di norme, interdetti, regole comportamentali tradizionali da renderlo di fatto non meno trasgressivo e radicale, ben oltre i temi dell’eros, un altro profeta significativamente isolato e perseguitato (da un silenzio interrotto da pochissima sensibile considerazione). Da questo punto di vista è assai significativa la generale riottosità del pensiero contemporaneo, vuoi per motivi epistemologici, vuoi per idiosincrasia ideologica, ma soprattutto per la consueta anestesia sulle tematiche legate ad una integrale riabilitazione del piacere, ad assumere la vastissima e reticolare compagine delle sue idee, assolutamente altre, impertinenti e violentemente provocatorie, come materia di riflessione intorno ai vizi della nostra esperienza del desiderio.
La vera e propria “patafisica”, per rubare l’espressione di Jarry, che è anche una filotica e una “patetica” dell’esperienza umana sostenuta in una enorme quantità di scritti, e di scritti assai voluminosi, di Charles Fourier, giace di fatto nella dimenticanza, nell’oblio e perlopiù suscita una sorta di curiosità ironica e sprezzantemente benevolente, come si trattasse di un ambito di riflessione puerile o del divertissement di un pensatore impresentabile. Questo per esempio sembra il tono del saggio assai noto e curiosamente assunto a introduzione dell’edizione italiana del Nuovo mondo amoroso (opera dalla sorte singolare se è riuscita ad ottenere pubblicazione (in Francia!) solo da pochissimi decenni), a cura di Roland Barthes (mentre in Francia l’opera è preceduta dalla chiara e ben più coerente presentazione di Simone Debout-Oleszkiewicz). Il Barthes che ha accomunato, ma, sia chiaro, per motivi che prescindono totalmente da ogni elemento di merito(!)…, semmai per motivi che giacciono nello stile linguistico, letterario, scritturale, proprio i nostri illustri antipedagoghi del piacere Sade e Fourier (insieme a Ignacio di Loyola, su cui varrebbe la pena di approfondire anche in questo caso il rango delle parentele, forse non solo dell’ordine del significante…)
Inequivocabile appare la vena beffarda e sarcastica con cui Barthes ripercorre alcuni dei luoghi più evocativi dell’opera (letteraria, beninteso!) fourierista, anche se non priva, come sempre, di quell’acume caratteristico del semiologo francese. E’ lui a definire il fourierismo un “eudemonismo radicale” (Barthes,1977, 70), una perfetta, dico io, pedagogia (o antipedagogia, considerato lo scarso fasto delle passioni in qualsiasi costruzione pedagogica) del desiderio, del piacere, piacere “sensuale”, come soggiunge Barthes. Così come a notare che la parola stessa di Fourier è “sensuale”, che “procede nell’effusione, l’entusiasmo, l’appagamento verbale, la ghiottoneria (…) (il neologismo è un atto erotico, e per questo solleva immancabilmente la censura dei pedanti)” (71). Sante parole, davvero, come molte altre su cui vale la pena tornare, in questo periplo affettuoso e un poco compassionevole tra le righe del vecchio utopista. Proprio così, piacere orgastico della parola, ma non solo, anche della progettazione di mondo all’insegna di ciò che sempre è stato esorcizzato o rimosso, occultato o represso, appunto la libido, il piacere, considerato da questo “infantile” autore come l’autentico movente umano, anzi l’unico movente che abbia legittimamente diritto ad essere espresso e manifestato in lungo e in largo, fino a diventare di fatto il perno intorno a cui far ruotare l’intero asse cosmico.
Perché il nostro Fourier, cui certo sono particolarmente grati pasticcini e “mirlitons”, proprio come nelle fantasie di un bimbo, è anche uno degli ultimi assertori, come conoscitore della filosofia ermetica almeno da Paracelso fino a Swedenborg, dell’unità di uomo e mondo e della loro solidarietà nel rinviare a moventi cosmici comuni, di cui l’attrazione appassionata sembra essere quello favorito nel poter prendere le redini di un universo finalmente riformato in senso unitario e soddisfacente per tutti (più meno proprio come pensava Giordano Bruno se non fosse che quest’ultimo si peritava di conciliare le sue visioni con quelle clericali vigenti, timoroso di finire nel fuoco che lo avrebbe comunque infine arrostito).
Fourier ha del coraggio, e anche dell’ingenuità probabilmente, nel manifestare un progetto di mondo, di cui circoscrive lo spazio e il tempo nella misura di migliaia di anni all’indietro e in avanti, consapevole che la sua utopia non è per gli uomini della nostra civiltà, fermi solo al quinto stadio di un’evoluzione eonica, si potrebbe dire, assai articolata e complessa che solo dopo qualche millennio forse potrà rendere giustizia ai principi societari e in particolare all’ordinamento amoroso di uomini e “sfere”. Ma per Barthes, ammalato di semiologismo, tutto questo si colloca sul piano sincronico della scrittura e dei suoi tic, dei suoi “paragrammatismi”(83) e delle sue “controparalessi”(79) (il che farebbe sì, secondo l’autorevole strutturalista, che i suoi libri siano senza “soggetto”, nientedimeno). Proprio così, ma, si potrebbe anche dire: e chi se ne importa? E chi se ne importa quando il diluvio, certo frantumato, controparalessizzato, bucato perfino (come nei manoscritti del Nuovo mondo amoroso frammentari e mancanti sia per le probabili lacunosità dell’autore sia per il lavorìo dei topi sul materiale cartaceo nei lunghi decenni di occultamento), delle sue istruzioni per generare un ordine amoroso del mondo, è così inatteso, stupefacente, sovversivo?
Oppure no? L’improbabilità di molte asserzioni fourieriste, la dimenticanza dell’asse del Bisogno e della Scienza (del Reale, per dirla più correttamente) in pro di una Meraviglioso immaginario che sembra seppellire tutte le contraddizioni (salvo poi esaminarle una ad una) in favore entusiasta del profitto del Desiderio (va doverosamente ricordato tra l’altro, che lo stesso Marx (nell’ Ideologia tedesca citata proprio da Barthes) sembra prendere abbastanza sul serio Fourier e semmai prendersela con la “dottrinarietà borghese” dei suoi seguaci troppo ortodossi -cioè a dire troppo letterali-), sono davvero così insopportabili e sufficienti a motivare il continuo sarcasmo che filtra dal tono peraltro assai dotto, strutturalisticamente parlando, di Roland Barthes? Forse. E forse non ha molto senso prendersela con Barthes che tra i pochi è stato uno di coloro che si sono degnati di rivolgere la propria attenzione, seppur ironica, all’opera di questo autore abbandonato sul bagnasciuga della storia.
Eppure. Eppure Fourier è potente, intrigante, stupefacente. Ritengo valga ancora e più che mai la pena davvero di provare a ripercorrerne qualche frammento, (certo per non rischiare di essere sommersi dall’opera intera, ciclopica e effettivamente talora ingombrante in tutta la sua cavillosa e calcolatoria possanza), in questo raro e perciò almeno stimolante grandioso tentativo di disegnare un mondo (per lungo, nel tempo, e per largo, nello spazio) dominato dal principio del piacere. Poiché nella sua opera, disseminata e grandiosa, seppur intermittente e frammentata, egli “dà a vedere, modificandone i presupposti e conducendo la società su un piano sperimentale, tutto ciò che l’uomo avrebbe il potere di fare, se solo egli infine avesse l’audacia di conformare l’ordine del mondo al suo desiderio” (Schérer, 2000/2, 11)
Dinamiche d’analogìa
Cerchiamo allora di soffermarci su questo “eudemonismo integrale”, la cui unità di misura è la passione, anzi le passioni, da ricondurre a “serie” intorno a cui riannodare finalmente in modo soddisfacente, anzi di più, entusiastico, i legami sociali. Un disegno integrale di re-visione del mondo e dei rapporti all’interno ad esso, a partire anche da una sovversione formale e linguistica. Per esempio, Barthes, forse perché non familiarizzato, o non incline, a queste categoria, non individua la dominante gliscromorfa (Durand, 1972, 271 sgg.) dell’immaginario fourierista. L’elemento viscoso, sintetico, legante delle metafore e di tutto il linguaggio del visionario pensatore. L’incidenza delle “composte” e dei composti, sempre dotati di plusvalore rispetto al semplice (e non solo per le loro virtù glucidiche, come ha visto ancora Barthes), l’insistenza sull’unità, di cui il sentimento “Uniteista”, vale a dire il sommo impulso che sollecita appunto all’amalgama, la tredicesima passione dopo le nove desunte dalla psicologia tradizionale (passive e attive, lussismo, quelle legate ai sensi e gruppismo, onore, amicizia, amore, familismo) e le tre inventate da Fourier, le distributive (alternante, sfarfallante e composta): la passione “che ha la proprietà di raddoppiare l’intensità di un piacere contrastandolo e asservendolo in ogni suo sfogo, perché tali contrarietà siano bilanciate da un sentimento d’unità…” (Fourier, 1999, II, 139). In tal senso, per ritornare ad Ermes, non sarà un caso se in una delle tavole d’associazione analogica delle passioni con gli elementi l’Uniteismo si corrisponda con il Mercurio.
Uniteismo, conciliazione, “le grandi corti d’amore”, come già visto, la stessa “serie”, sono termini che rinviano al regime “sintetico” dell’immaginario e addirittura talora a quello “mistico”, con l’insistenza sui piaceri dell’alcova e del gusto (la “gastrosofia” è infatti l’altro pilastro dell’eudemonismo fourierista). E’ vero, come ancora sottolinea Barthes, che i piaceri, affinché non estinguano il loro potenziale di accrescimento, debbono essere contrastati e variati, anche attraverso una certa conflittualità indotta (si pensi al ruolo della passione “cabalistica” appunto orientata a coltivare il piacere del dissidio e dell’intrigo), ma il disegno originale è appunto “armonista” e “uniteista”, e in tal senso si capisce bene il ruolo dei cosiddetti “passaggi” o neutri, cioè dei termini di transizione e di complexio oppositorum, che sono così ampiamente valorizzati. Si tratta non solo dei generi (saffismo, pederastismo), ma di tutto ciò, dalla calce (acqua e fuoco) ai bambini (né uomini né donne) che proprio per questa loro particolare condizione di medietà, godono di particolari privilegi e di fondamentali funzioni leganti. Questo è poi ampiamente confermato più in generale dalla forte filiazione ermetica del pensiero fourierista già citata, rimarcata molto efficacemente nel bel volume di Patrick Tacussel (2000) che, a proposito del regime durandiano dell’immaginario in cui esso a suo giudizio si inscrive, nota proprio che “l’immaginario fourierista è evidentemente quello dell’armonia musicale, vittoria sul tempo (…) di cui ‘il gesto erotico è la dominante psico-fisiologica, organizza le immagini (…) in universo tout court, appoggiandosi sulla grande ritmica dell’astrobiologia, radice di tutti i sistemi cosmogonici’ ” (177).
L’intera opera fourierista sembra inquadrarsi in una rivolta “analogica” che inclina verso il romanticismo ma che è di fatto una riedizione dell’idea degli Harmonices Mundi passata attraverso Marsenne e poi attinta a Leibniz, in cui “l’unità dell’essere e del suo ambiente naturale, ossia cosmico, sventa la minaccia ancora diffusa di una dissoluzione dei legami sociali” (15). Tutto, nell’opera di Fourier, dalla cosmologia panteista, in cui ogni sostanza vegetale e animale è il frutto di una copulazione astrale ben precisa, di un aroma versato da uno dei molteplici pianeti combinato con quello della terra, dalle “matematiche attraenti” che governano il calcolo combinatorio delle serie e delle epoche, in una logica che oltrepassa il principio di non contraddizione, al ruolo eminente che in tale costruzione di sapore platonico e pitagorico gioca la musica, pur revisionata attraverso la matrice romantica, e in particolare Schelling, modello analogico concreto e paradigma estetico-matematico di tutta la modellizzazione sociale, in cui “l’uomo sociale, industriale e morale si compone di una riunione societaria di differenti scale di caratteri, distribuite alla maniera di canne d’organo per ottave e suddivisioni d’ottave, in tripla categoria di basso, medio e alto” (80), fino al costrutto cruciale della “serie appassionata”, autentico perno nevralgico dell’opera e di fatto compendio di una teoria analogica e simpatista, dal momento che occorre “l’arte del simpatista (per) discernere le congiunture favorevoli per far nascere l’affinità”; tutto, tutto insomma sembra convergere in una grande utopia orientata verso il demone dell’analogia, in “uno dei tentativi più completi di rottura mentale con la coscienza di disincantamento del mondo che minaccia già, in un modo ancora inconfessato, la società progressista” (27). L’analogia, che qui è pensata “come scienza” nel suo senso più autentico e antico, “è un modo di demistificare, per quanto riguarda l’avvenire dell’uomo, il dogmatismo scientifico, e di mettere effettivamente, rivestendola della apparenza necessaria di rigore, l’immaginazione al potere” (Schérer, 2000/2, 86).
In questo quadro allora il neutro per eccellenza (cioè la passione intermediaria tra le attive (affettive) e passive (sensuali)), il cosiddetto “iperneutro”, non può essere che l’amore, medium di tutta la costruzione passionale, di tutta l’armonia societaria realizzata, “nesso universale del sistema…”: “l’amore, (…) è il neutro per eccellenza, il nesso supremo: è suddiviso in godimenti materiali e spirituali. Ha inoltre, fra le sue proprietà, quella del livellamento o confusione dei ranghi e dei contrasti, che vengono dimenticati quando l’amore ha parlato. La sua curva tipica, l’ellissi, è a doppio fuoco per emblema del doppio uso della passione, che è a un tempo materiale e spirituale. E’ la curva che descrivono i mondi in armonia. Come l’amore nel nuovo ordine sarà la strada dell’armonia generale, e per allusione l’azzurro, colore dell’amore, è il campo dell’armonia celeste. Distingueremo quindi l’amore sotto il nome di fuoco iperneutro o perno generale del movimento, neutro a causa della sua proprietà di non appartenere esclusivamente né alla materia né allo spirito, ma di essere combinazione di entrambi” (Fourier, 1999, I, 59-60).
Nello sviluppo delle passioni, che è di fatto il programma attorno a cui si organizza l’intero progetto del mondo armonico, occorrono due bussole fondamentali: “per bussola materiale l’analogia, fra le altre quella della musica o armonia parlante, la cui distribuzione è matematica, immutabile e unitaria in tutti i mondi e in tutti i tempi; la musica deve essere identica all’armonia passionale, altrimenti ci sarebbe duplicità nel sistema dell’universo. (…) per bussola passionale la distribuzione seriale, o sviluppo per gruppi e serie, che è la tendenza collettiva e individuale di tutte le passioni e il modo stabilito da Dio in tutta la natura (59). Analogia e seriismo, metafore appunto largamente sintetiche, per indicare un mondo di cui si tratta solo di rimettere in opera la regolazione organismica dal momento che la Civiltà se ne è allontanata proscrivendo le passioni e il loro soddisfacimento in meccanismi istituzionali antiarmonici a antianalogici (come per esempio il matrimonio o la coppia monogama nel mondo amoroso).
Anche qui Fourier rende esplicito il debito nei confronti di una tradizione che, come nota R. Schérer in Penser avec Fourier, (2001, 6 sgg.), da Boheme a Leibniz a Schelling propugnava l’idea di un cosmo dotato di un’anima e di un sistema di corrispondenze costruito per affinità di simpatia e antipatia. Un mondo in cui la solidarietà di uomo e cosmo era garantita in principio da un’appartenenza comune. Una forma di “ilozoismo” che si fa teoria sociale e di cui il progetto amoroso non è che un’applicazione particolare, sebbene ne costituisca di fatto uno dei nuclei nevralgici. Del resto, come lo stesso Fourier rimarca all’inizio della Teoria dei quattro movimenti, la scoperta della legge immutabile dell’ “attrazione appassionata”, che è di fatto la base della sua teoria del nuovo ordine societario, gli si è rivelata a partire dalla lettura delle tesi di Newton e Leibniz che sostengono “l’unità di sistema del movimento per il mondo materiale e spirituale”, da cui si deduce la legge fondamentale dell’analogia: “l’analogia dei quattro movimenti materiale, organico, animale e sociale, o analogia delle modificazioni della materia con la teoria matematica delle passioni dell’uomo e degli animali” (Fourier, 1808, 21).
La civiltà dei cocu
Sarebbe davvero lungo e dispendioso ora attardarsi sulle complesse premesse che Fourier antepone all’esplorazione delle diverse materie in merito alle quali propone la revisione societaria, quella industriale, quella sociale, quella scientifica, quella fisiologica ecc. Val la pena tuttavia di ricordare che il piano temporale su cui profila la sua teoria, che non manca di una cosmologia, di una teleologia, di un’etica, è, per il genere umano, estremamente ampio, circa “ottantamila anni” di cui gli ultimi “cinque o seimila”, quelli legati secondo Fourier alla nostra Civiltà, sono particolarmente caratterizzati da “malessere e sfortuna” (53 sgg.). In realtà, dopo le 4 società del “limbo oscuro” (cioè quelle selvaggia, patriarcale, barbara e civile), in cui “regna l’ostruzione delle passioni” (Fourier, 1999, II, 54)) il periodo del piacere, a cui le anime di tutti potranno comunque “in qualche modo” partecipare, in virtù di un meccanismo metempsicosico che per Fourier è inscritto nella costituzione passionale dell’universo (essendo che il desiderio d’immortalità è instillato in noi ab origine come potrebbe il divino privarci della sua possibilità di manifestazione?), è calcolato nei settantamila anni a seguire. L’intero periodo è poi suddiviso in quattro fasi più ampie (vibrazione ascendente e discendente, suddivise a loro volta in incoerenza ascendente e discendente e combinazione ascendente e discendente). L’insieme poi rinvia a trentadue fasi più specifiche.
L’umanità attuale si trova nella settima fase, ancora legata alla “incoerenza ascendente”, Barbarie-Civiltà, ma in movimento verso le fasi del benessere che si inaugureranno con l’ottava, già interna alla “combinazione ascendente”, in particolare la “transizione intermedia ascendente” (Fourier, 1999, I, 63) di prima Armonia. La visione fourierista immagina un mondo capace di estendere i benefici armonici su vastissima scala e in ogni aspetto dell’esistenza fino a poter modificare il clima terrestre, attraverso l’espansione della Corona Boreale (Fourier, 1808, 65 sgg.) e addirittura l’assetto astrale dei pianeti (idee in effetti oggi non più così fantastiche). La civiltà, così come ancora oggi in larga misura si dà, è un periodo di malessere in quanto né l’attrazione appassionata, né la bussola armonica sono entrate fattivamente in azione. Anzi, agiscono inversamente. La recensione violenta e crudissima, la “contestazione globale” (secondo il titolo che Schérer dà al libro dedicato al pensatore francese), che Fourier espone delle conseguenze dei meccanismi sociali civili sulla sfera amorosa come su quella industriale e sociale in genere è davvero capace di sconvolgere le nostre coordinate abituali. Ed è a questo titolo, ai fini di testimoniare il suo contributo ad un’antipedagogia del piacere, che qui se ne ripropongono alcune suggestioni.
La formidabile dissezione del matrimonio in “Civiltà” nella seconda parte della Teoria dei Quattro Movimenti, mette ampiamente alla berlina, per esempio, la schiavitù a cui inspiegabilmente si sottomettono gli umani, e in particolari, a suo giudizio, i maschi, il cui potere sembra essere paradossalmente utilizzato per meglio aggiogarsi alla tortura matrimoniale, ma non meno le donne, che sono sottomesse e obbligate per legge. I difetti dei “ménages incoerenti”, che vanno dalla “sofferenza azzardata” per i rischi connessi alla scarsa prevedibilità delle incompatibilità caratteriali, alla “monotonia”, evidentemente contraria all’esplicazione del potenziale passionale, alle forzate “alleanze” famigliari, spesso ben insopportabili e deludenti rispetto alle attese, anche in termini economici, fino al flagello dei “tradimenti”, o “cocuage”, inevitabile ingrediente connesso alla repressione dei desideri nella asfittica vita di coppia (149-150) è esposto con dovizia di dettagli. La famiglia monogamica è per Fourier uno dei più grandi ostacoli al dispiegamento dell’organizzazione societaria e desiderante: ciò a causa di due conseguenze legate a questo modello di convivenza: “a livello della coppia coniugale la falsità delle relazioni amorose nell’ineguaglianza della condizione della donna e nella finzione della fedeltà esclusiva, a livello della relazione genitori-figli, la repressione e l’ipocrisia” (Schérer, 2000/2, 49)
Fourier dispiega il suo formidabile talento tipologico e umoristico in particolare nel tratteggiare le varie forme di cocuage, accennate nella teoria dei quattro movimenti e poi approfondite in un’opera a parte, la Hiérarchie de cocuage, (1924). Val la pena di dedicarvi una breve digressione: mentre in un primo tempo egli distingue solo tre gradi di “cornificazione”: il cocu propriamente detto, colui che tradito, ignora di esserlo; il cornette, che, di fronte al comportamento della moglie (o inversamente del marito), “chiude gli occhi” e “l’abbandona francamente agli amanti” (Fourier, 1808, 173) e il cornard, che è il tradito conscio del tradimento e perpetuamente in collera che finisce però solo con il rendersi ridicolo, la gamma è poi ampliata enormemente, fino a compilare una tipologia di 80 forme, tra semplici e composte. Tra gli esempi val la pena di citare, per gusto di catalogo, il cocu “in erba”, tradito ancor prima del matrimonio dalla promessa sposa, il cocu “marziale e fanfarone”, che si ritiene al riparo del problema in virtù delle minacce che scaglia contro i pretendenti e che di solito è cornificato “proprio da quelli che applaudono alle sue rodomontate”, il cocu “di prescrizione” cioè colui che si assenta spesso per lavoro ed è sostituito nelle mansioni matrimoniali da un “caritatevole vicino”; il cocu “federale o coalizzato”, che tollera un amante purchè di sua scelta e si allea con lui al fine di tenere alla larga altri aspiranti al titolo. Infine non poteva mancare, considerata la radicale antipatìa per la categoria, il cocu “filosofico”, rassegnato, convinto che, essendo la vita disseminata di tribolazioni, sia dovere del saggio restare calmo in mezzo ai marosi delle vicissitudini e delle instabilità nelle faccende umane (Fourier, 1924, 57 sgg.). Come osserva maliziosamente René Schérer, si tratta di una descrizione molto azzeccata. Del resto, “poiché i filosofi sono la classe più frequentamente cocu, essi non hanno altra possibilità di scelta che la rassegnazione” (Schérer, 2000/2, 185).
Al di là della brillantezza dell’analisi fourierista intorno a questa casistica, resta il fatto che il cocuage non è un incidente di percorso ma la norma in un mondo, quello “civile”, parola che Fourier aborrisce e che appare decisamente di segno rovesciato rispetto all’uso comune, in cui l’attrazione passionale è repressa e manipolata: “l’adulterio non è la conseguenza banale di una fedeltà coniugale resa desueta, né un dettaglio periferico della relazione amorosa, di fatto esso costituisce una valvola di sfogo dalla rarità nell’ambito delle passioni” (Tacussel, 2000, 137). A titolo affine la sua requisitoria sull’incostanza, vizio tanto biasimato e notoriamente attribuito alle donne, cui Fourier peraltro restituisce tutta la dovuta centralità concreta e simbolica nel nuovo mondo amoroso, si capovolge ben presto in un elogio. Anzitutto perché non esiste incostanza di un sesso e non dell’altro, considerazione apparentemente ovvia ma non così scontata, ma soprattutto perché “accusare il genere umano di incostanza è come accusare la cerbiatta di prediligere il soggiorno nelle foreste; perché mai non dovrebbe prediligerle, dal momento che è fatta per abitarla?” (Fourier, 1999, I, 100). Questo è il punto: l’analisi delle passioni mete in luce che l’incostanza, cioè la passione della variazione (o “sfarfallante”) è del tutto naturale, istintiva, legittima, anzi, più che legittima, auspicabile, poiché favorisce il meccanismo dell’ampliamento societario, della moltiplicazione dei legami.
In una filosofia basata, a differenza di quella dei “philosophes” -principali avversari delle dottrine del “sergent de boutique”, come Fourier si autorappresenta nel suo immaginario di “inventore” che proviene dal basso (Fourier, 1808, 144), di umile che rovescia i superbi secondo disegno divino-, sulla libera espressione delle passioni, il matrimonio monogamo e la coppia sono evidentemente un misfatto e un controsenso. Dunque, “siccome gli uomini amano solo l’incostanza e non sanno predicare altro alle orecchie delle donne, siccome ogni donna carina, per un possessore, marito o amante, che le raccomandi la fedeltà, incontra 20 spasimanti che le consigliano l’infedeltà che il suo stesso marito ha consigliato a 20 prima di lei, è evidente che i 19/20 dei campioni in amore sono per l’infedeltà nel pieno dell’età galante (fra i 25 e i 35 anni) (…)”(Fourier, 1999, I, 100-101) .
L’incostanza è, nei fatti, la natura del genere umano; esso deve amarla non solo come destino generale (a parte le eccezioni), ma come presupposto delle più sublimi virtù. L’amore infatti, questa “passione tutta divina” (111) non potrà essere tenuto dentro i confini ristretti della coppia. Questo sarebbe un atto di estremo egoismo. L’esemplificazione di Fourier è stringente: quando “Psiche”, che è desiderata da almeno 2 spasimanti, è trattenuta nelle braccia di uno solo che la vuole esclusivamente per sé, “Narciso” nell’esempio, a sua volta desiderato da 20 spasimanti che anch’ esse lo vogliono esclusivamente per sé, l’ingiustizia e lo spreco amoroso è patente. A tal uopo Fourier istituisce la pratica dell’Angelicato, vale a dire l’ufficio offerto da una coppia, particolarmente raffinata, per un determinato periodo -mantenendosi fra loro un legame di tipo esclusivamente sentimentale (o celadonico, secondo la sua terminologia)-, in cui di fatto ciascuno dei due si concede ad almeno venti spasimanti, compensando così il sacrificio materiale compiuto nella coppia con la generosità sociale (oltretutto appagante sul piano istintuale) che varrà loro una consacrazione ben più vasta nell’armonia societaria.
D’altra parte il principio di variazione costituisce uno dei fondamenti per così dire “fisici” della società appassionata. Le giornate falansteriali prevedono una continua mobilità da un’attività ad un’altra, da un piacere all’altro, esclusivamente assecondando l’ascendente passionale. E’ il risultato anche della passione sfarfallante, che impedisce al piacere di indugiare troppo e di ossificarsi. “Un individuo non resta mai in una stessa serie, quindi in uno stesso gruppo, per più di una o due ore (…). L’ordine societario è dunque un sistema di costanti permutazioni” (Schérer, 2000/2, 74).
Verso l’ “orgia armonica”
In generale il disegno sociale di Fourier si compie nella liberazione di tutti i tipi di piaceri in tutte le composizioni possibili, seppure non in maniera caotica, ma secondo una regolazione che ha il suo paradigma nella forma musicale. La complessità della materia, “mai trattata prima in questa forma”, sottolinea giustamente Fourier, presuppone una diagnosi accurata dei generi d’amore, delle tipologie dei caratteri, delle manie e dei gusti specifici, per produrre infine la Grande Opera di composizione sociale armonica dell’intero ordine amoroso o anche, in altri termini, l’ottenimento dell’ “Anima integrale” che si compie tuttavia solo nell’unità societaria dei differenti caratteri.
Vediamo alcuni aspetti dell’armonia amorosa. Anzitutto i generi (i termini divergente e inverso in genere connotano in negativo o antisocietario, all’opposto di convergente e diretto): Fourier ne individua dodici cui vanno aggiunti gli “ambigui” in serie analogica. Il “materiale divergente”, piacere sensuale senza vincolo sentimentale frutto di convenienze di interesse, tipico dei “rapporti coniugali civili” (Fourier, 1999, ,I, 116); il “materiale convergente”, unione spontanea e germe di “illusioni autenticamente tratte dall’unione medesima”; il “sentimentale divergente”: celadonismo o amore senza pretese materiali, poco diffuso in civiltà che lo espone a dileggio e che può essere vissuto “nella sua purezza” quando si abbiano anche altri legami d’amore, una volta cioè che i piaceri materiali siano altrove soddisfatti; il “sentimentale convergente”, praticabile solo in armonia, proprio di chi è già ampiamente provvisto di altre relazioni materiali: in “armonia, in cui nessun piacere è disprezzato, anche questo ha il suo pregio, e le coppie celadoniche si vantano di amarsi a lungo senza possedersi e pur praticando con altri l’amore composto” (117); il “composto divergente”: è la monogamia, legame esclusivo e vissuto estraniandosi da ogni forma di condivisione sociale. “Niente di più asociale di questo amore vantato dai moralisti e che occupa un posto molto subalterno in armonia perché non è utile al legame generale se non come diversione alle altre unioni, dato che lo spirito ha bisogno di varietà…” (ibidem); il “composto convergente” o amore di coppie in scambio mutuo, “in partite a quattro, a sei o a otto”. Esiste in civiltà ma degenera rapidamente in orgia segreta, in armonia si conserva meglio perché si svolge “tra coppie libere e tutte quante abbastanza innamorate da sostenere più a lungo la fedeltà” (118); il “potenziale divergente”, poligamia furtiva, cornificazione su cui si è già detto a proposito delle varie tipologie; il “potenziale convergente” o degli “amori poligini”, caotico in civiltà ove la poligamia inconfessata è priva di qualsiasi regolazione, mentre in armonia è preferenziale per i temperamenti poligami secondo le gradazioni previste dal meccanismo armonico.
Vi sono poi i cosiddetti “generi di fuoco” come “l’ “unitario convergente diretto” che è l’orgia bisessuale “genere bellissimo e preziosissimo in armonia”, “ma inammissibile in civiltà dove se ne vedono appena pochi barlumi alla fine di certi banchetti e senza mantenimento di abitudini” (ibidem); l’ “unitario convergente inverso” che è l’unione angelica di cui si è già parlato; l’ “unitario divergente diretto”, il serraglio (o harem), limitato a una sola comunità sessuale; e l’ “unitario divergente inverso” che è il lenocinio. Fourier spiega che “lenocinio e serraglio sono un rovesciamento e un controsenso” dei generi precedenti (orgia e angelicato). A questi vanno poi ancora aggiunti gli ambigui, tollerati in antichità ma discriminati in “Civiltà”, che possono essere analogati ai 12 precedenti: al grado più basso gli ambigui “semplici divergente e convergente”, cioè la masturbazione isolata o reciproca; i “composti”, pederastia e saffismo, che sono “convergenti” quando c’è reciprocità e “divergenti” quando essa manca; gli ambigui “potenziali”, poligamia omosessuale, divergente e convergente a seconda che sia furtiva, cioè mascherata, o manifesta; gli “unitari convergenti e divergenti” o orge e angelicati unisessuali nascosti o palesi; ancora le “ambiguità divergenti dirette o inverse”, serraglio e lenocinio dove lenoni e amanti sono però di un solo sesso; infine il genere “pro-composto o coadiuvante” che è quello di “un uomo al servizio di saffiche” o di una donna che “s’intromette con i pederasti” per favorirne le pratiche” genere anche detto “ipermisto o ipermedio fra i 2 ambigui e i due fissi” (ibidem).
Si colga qui un esempio significativo della analiticità dello sguardo fuorierista sui gusti amorosi in cui, accanto all’evidente rovesciamento dei valori che poi sfocerà nella grande orchestrazione delle Corti d’amore a orientamento poligamo e nell’orgia, deve essere sottolineato un moralismo invertito che prende di mira tutte le forme di legame amoroso in cui vi sia riduzione della componente societaria, esclusivismo o anche mascheramento. Infatti in armonia tutto diventa trasparente anche in virtù del fatto che nulla vi è davvero vietato e che, essendo buono per natura, tutto ha diritto di esprimersi (anche l’esecrata monogamia, sebbene il suo esercizio, che ha una sua legittimazione nella necessità della variazione, comporti nella complessa struttura gerarchica del mondo societario un certo indebolimento del prestigio e un arresto nel percorso di acquisizione di cariche e privilegi).
Niente di più antipedagogico di questa veemente apertura alle categorie di preferenza e di piacere. E si pensi all’assoluta innocenza con cui vengono presentate orge e aggregazioni ambigue, di questa semplice e, si vorrebbe dire, scientifica disamina, se non fosse ampiamente permeata di entusiasmo e di spirito di sovversione. In realtà Fourier sa che la civiltà non può che essere impermeabile alle sue profezie: esse vi sarebbero inammissibili perché occorre un’enorme evoluzione affinché si possa aderire allo spirito societario e, per esempio, alla libera e autentica adesione ad una delle forme apparentemente più innocue ma, a giudizio dell’autore, meno realizzabili dai civili, la “celadonia” o amore casto. Infatti Fourier si accanisce a spiegare come la Civiltà, che sembra inneggiare a questo tipo di legame, in realtà ne sia lontanissima, perché lo intende ipocritamente. In realtà perché possa esservi amore spirituale vero, insiste Fourier, occorre che la dimensione materiale sia stata soddisfatta, altrimenti tale tipo di amore risulta essere solo una copertura per orge camuffate e per l’adulterio. Proprio i più propensi all’elogio dell’amore spirituale sono quelli che in segreto coltivano i più furibondi commerci adulterini, ripete sovente Fourier (una vecchia ma sempre verde morale).
Più in generale è nello spostamento radicale dei nuclei d’interesse dell’attività sociale che costituisce il grande contributo fourierista alla revisione sociologica e che giustamente Tacussel, almeno in certa misura, accosta ai più moderni accenti di certa sociologia utopistica alla Marcuse o alla “riconquista del presente” predicata da Michel Maffesoli nel suo postmoderno invito a rifare propria un’ “utopia quotidiana” di tipo estetico. Fuorier ci porta a rovesciare i consueti schemi di riferimento della vita sociale invitandoci a rimettere al centro il desiderio e le passioni, quelle più naturali (orali, soggiunge Barthes, con la sua consueta ironia psicoanalitica e ancora a rimarcare l’infantilismo di Fourier), il piacere del cibo e delle relazioni amorose.
Nella raffigurazione immaginifica d’Armonia il mondo della Civiltà con le sue forme legali, religiose, economiche, belliche, rimane soltanto come una sorta di teatro di cartapesta svuotato delle sue prerogative letterali, ed è sfruttato per fare da contenitore (qui sì ironico) del dispiegamento senza limite delle passioni. Così Fourier prende a prestito il linguaggio della guerra o della religione per dare forma alle grandi aggregazioni che immagina nel mondo societario in cui le Crociate dalle gigantesche divisioni di combattenti si fronteggiano per stabilire il miglior “timballo” del globo, fino ai “Concili ecumenici” organizzati per stabilire se un determinato piatto sia eretico o ortodosso rispetto ai principi “gastrosofici” in vigore nel mondo armonico, o ancora alle armate dei “ciabattini-filosofi” che riparano le vecchie scarpe come grande compito collettivo, o agli scambi di favori tra patriarchi, fachiresse, odalische e crociati nelle grandi orge e nei baccanali organizzati nel corso delle “battaglie”. E’ un mondo capovolto in cui il benessere industriale, sociale, fisico, climatico si estende a mano a mano che si amplia la gamma di esercizio dei piaceri e delle loro forme più stravaganti.
In tale direzione l’esplorazione delle “simpatie potenziali” e degli “amori onnigami” condotta nel Nuovo mondo amoroso è davvero uno straordinario contributo alla rivoluzione del nostro sguardo in materia erotica. Bisogna anzitutto sottolineare che lo sguardo di Fourier mira ad una società che non si limiti a contenere gli svantaggi e a propiziare un certo grado di benessere. In essa ciò che è in gioco è la felicità intesa come appagamento delle passioni, di tutte le passioni a patto che non procurino danni (ma, come già detto, a suo giudizio esse non possono essere dannose se seguono natura) e che siano armonicamente equilibrate e calibrate sulla vastissima intelaiatura del sistema dei caratteri che, per Fourier, contempla ben 810 “tasti”. Con le sue parole: “una società non può essere felice se non raggiunge i 5 lussi (cioè le cinque passioni dei sensi), i 4 gruppi (cioè le passioni “affettive”) e i 3 equilibri distributivi (cioè appunto le passioni composta, cabalistica e sfarfallante
Come ben le definisce Barthes esse possono così essere riassunte: la Composita: dello “straripamento” e dell’ “esaltazione”, della “moltiplicazione”; la Sfarfallante o della continua variazione, “agente di transizione universale” è “l’arte di vivere così bene e così in fretta, la varietà e concatenazione dei piaceri”; la Cabalistica, “passione dell’intrigo”, arte di sfruttare il dissidio, la differenza, la rivalità (cfr. Barthes, 89-90). Sono queste passioni a regolare le altre, a metterlein movimento e a garantirne le reciproche trasformazioni, la dinamica. Anche da questo punto di vista Fuorier si dimostra molto abile a cogliere la necessità di moti passionali che disequilibrio e riequilibrino il gioco passionale in modo che non si estenui o staticizzi, che sia sempre mosso e che non si allenti procurando noia e delusione.). L’armonia è perduta se bisogna soffocare una delle passioni, nella sua forma semplice o in quella composta (semplice e composto riguardano la messa in gioco della sola dimensione spirituale o materiale o di entrambe), per lasciare via libera a una o più altre. Il nostro compito consiste dunque nell’associare ciascuna delle 12 passioni con le altre 11 e nello sviluppare simultaneamente tutto il sistema delle 12 passioni primarie, dei loro numerosi rami e degli 810 caratteri che risultano dalle loro combinazioni” (Fourier, 1999, II, 65). Compito, come si capisce, estremamente complesso, ma assolutamente realizzabile all’interno delle grandi Corti d’amore, che sono la forma societaria in cui il dispiegamento della passione erotica, già sempre favorito e mobilitato al massimo grado, trova il suo felice compimento.
Fourier allinea qui tra l’altro una serie di argute e stimolanti riflessioni sulla riabilitazione dell’incesto che nella sua visione altro non è che “un amalgama di due passioni cardinali minori, dei 2 sentimenti di amore e familismo” (66)), e allo stesso modo della poligamia, “che tende a formare in armonia legami preziosissimi per l’unità sociale” (70) e che appartiene alla legge di natura in quanto “se questa pluralità di amori fosse incompatibile con la natura, perché questa ne avrebbe dato il gusto all’intero genere umano?” (81).
Ancora egli discetta sul “testamento equilibrato” “che è la più brillante conquista dell’armonia familiare” (87). Esso si basa sulla legge armonica in base a cui in armonia gli amanti, dopo essersi separati non si dimenticano, così come accade invece ai “monogini”, il cui costume è appunto “l’oblio delle persone che si sono amate e lasciate” (91). Viceversa, “ se una donna ricca ha amato appassionatamente 50 uomini nel corso della sua vita, dedicando qualche tempo a ciascuno e mantenendo poi per tutti un’affettuosa amicizia, non mancherà d’inserire legati a loro favore nel testamento, altrimenti sarebbe accusata di malvagità e ingratitudine verso coloro cui è debitrice di tanti giorni felici. Questo legati non si estenderanno agli amori occasionali, perché la dama in questione avrà forse avuto 1000 o 2000 uomini fra caravanserragli, orge, baccanali d’armata e passaggi delle orde di ventura. A questa moltitudine di amanti non si lascerà naturalmente nulla, ma limitandoci a quelli con cui avrà passato qualche mese, ella si sentirà tenuta, per rispetto alla pubblica opinione, a lasciare un po’ di denaro, sotto pena di passare per un carattere semplice, uno spirito civile inabile alle virtù sociali e del tutto dimentico dei legami che hanno costituito per tanto tempo il fascino della sua vita” (90-91).
In tal modo si dimostra che la fraternità e la benevolenza generale ha “una delle sue fonti nell’incostanza di genere virtuoso. Intendendo con ciò l’infedeltà che lascia dietro di sé vincoli d’amicizia” (ibidem). Ci troviamo all’interno di un quadro di straordinario ottimismo e certamente ancora digiuno di quella profonda consapevolezza delle deviazioni del desiderio prodotte dalle turbe inconsce che la psicoanalisi avrebbe in seguito posto in luce. E forse anche un po’ iperbolico nei numeri e nelle fantasie aggregative. E tuttavia bisogna immaginare, e meditare, il fatto che che qui le regole sono davvero capovolte e il desiderio non è più sottoposto all’interdetto e al nascondimento, il desiderio è “ineducato”, o meglio, è educato secondo il principio del piacere e quindi: quale nevrosi?. E’ il piacere la legge e si compone in un quadro in cui non vi è modo di conoscere la mancanza. Certo alcuni psicanalisti contemporanei avrebbero da dire su questo, ma forse che la mancanza e il buco del desiderio non nascono anche da una connessione potente tra una profonda interiorizzazione del divieto e l’impossibilità di colmare una forma di vuoto di natura in fondo metafisica? Qui non c’è metafisica, qui c’è la fisica del desiderio trionfante, non ci sono buchi. L’amante tradito (se si può usare questo termine in armonia) è subito consolato da odalische e fachiresse in quantità e nessuno oggetto del desiderio può assumere di fatto quella unicità che gli è garantita da un’ipostatizzazione tutta religiosa e filosofica di tipo monogamico. La prospettiva societaria sovverte la sovrastima dell’individualità in tutte le sue forme, e in particolare l’eterno fantasma dell’unico amore, tanto carico di proiezioni ideali quanto di patologie e di sofferenze
Nessuna idealizzazione, moltissima concretizzazione si potrebbe dire. Certo, i detrattori si fanno forti del fatto che ogni tentativo di realizzare l’armonia si è infranto sugli scogli della conflittualità sociale e organizzativa (anche se limitata agli aspetti economici), ma va ribadito che in “Civiltà”, sic stantibus rebus, non si può dare armonia. Occorre un progressivo rovesciarsi delle credenze comuni in materia passionale, una revisione radicale di convinzioni profonde, un’antipedagogia così opulenta, immaginifica e totalizzante da rendere credibile, persino agli occhi del nichilismo diffuso nella filosofia della manque, la festa del desiderio, l’orgia continua delle “macchine desideranti” che fa davvero impallidire i tentativi un po’ caricaturali di riabilitare un libertinismo epicureo a base di “contratti”, “sterilità” e una oculata amministrazione dell’ “eumetria” alla Onfray (cfr. 2006).
Comunismo dionisiaco
Il disegno di Fourier è grandioso, generoso, irrefrenabile: nel nuovo ordine si intima alle passioni “lo sfogo illimitato, per opposizione al sistema filosofico restrittivo e limitato alla coppia, al tenero focolare civile che lascia alle 4 affettive il minimo di sfogo e trasforma ogni famiglia in un gruppo di tigri e serpenti dissimulatori come politici e come questi soltanto desiderosi di defraudare e ingannare tutti i loro vicini” (Fourier, 1999, II, 100). “L’associazione si accresce soltanto con l’estensione dei legami; per spingerla al sommo grado bisogna dunque elevare ogni legame dal semplice al composto, al potenziale, all’onnimodo e a tutti i misti e ambigui” (101).
Elevare e incrementare, verso la moltiplicazione dei legami e dei piaceri. Come sottolineato, i monogini stanno al grado più basso della scala dei tipi erotici, mentre i poligini stanno in quella superiore. E le modalità di rapporto, dagli amori di coppia, di quartetto, sestetto, ottetto, alle quadriglie, all’orgia, al baccanale (amore onnimodo) favoriscono in maniera progressiva l’espressione del desiderio insieme al guadagno societario che ne scaturisce. “Nelle sue forme estreme l’amore conduce l’individuo a superare la soddisfazione egoista a favore del piacere di massa, a obliarsi per non desiderare più che la collettività armoniana” (Morilhat, 1991, 197). Il che testimonia ampiamente anche quanto l’ispirazione dionisiaca, del resto segnalata anche dalla tipologia di incontri (orge, baccanali), impregni la comunità d’armonia nell’esercizio delle pratiche erotiche verso la loro massima espansione.
Il tutto all’interno di una cornice di estrema e raffinata complessità: “niente di meno confuso del regime societario che moltiplica le classificazioni, organizza le serie, in amore come nel resto: determinazione dei titoli (sposo, genitore, favorito), distinzione delle corporazioni votate all’amore (baccanti, baiadere, fachiresse). I gusti, le manie amorose le più varie danno luogo alla formazione di “serie o gamme” nella stessa maniera che in altri domini, distinguendo generi e specie, stabilendo le gradazioni, localizzando le transizioni” (198). Vi è una vera e propria regia “tassonomica” che organizza nelle Corti d’amore prove, contese per stabilire ruoli, figure, gradi, forme di nobiltà e santità erotica legate a particolari abilità prestazionali o a particolari gusti.
La complessità orditurale di questo sistema è tale da richiedere molto tempo per essere riassunta e le lacune nel testo sono spesso tali da ostacolare una ricostruzione particolareggiata della forma definitiva nella sua completezza. Ma basti percorrere la teoria degli “amori di cardine” per cogliere in atto la costruzione ipercomplessa della partitura di un mondo in cui l’eros diventa il principale strumento di manifestazione armonica. Infatti è in dote ai “poligini”, dai molti amori, la proprietà di possedere l’ “amore di cardine” cioè una relazione privilegiata che resiste alle tempeste sfarfallanti delle continue variazioni. Questo “amore è per lui (il poligino) un legame d’ordine superiore, un legame focale che si concilia alle altre relazioni amorose come il bianco si accorda ai 7 colori di cui è l’insieme” (Fourier, 1999, II, 107). “E’ dunque una costanza composta (se reciproca) che s’identifica con le incostanze e infedeltà, meritando a questo titolo il nome di fedeltà trascendente” (ibidem). E si noti che qui il termine trascendente non indica qualcosa di metafisico bensì semplicemente qualcosa di superiore, che trascende la norma, magnificando il livello raggiunto. Tale passione muta a seconda della tipologia del poligino: se onnigino essa può durare tutta la vita, se digino (cioè capace di soli due amori nel periodo di rivoluzione amorosa, cioè un anno) per quattro anni, il trigino l’amerà sei anni, il tetragino 12, il pentagino 16, l’esagino 20, l’ettagino 24 e così via.
Si tratta di un amore particolarmente nobile anche in quanto vince quel sentimento di gelosia “che toglie ogni bellezza all’amore ordinario” (109). Esso fa parte, più in generale, della tendenza a privilegiare il moto “fanerogamico” contrapposto a quello civile “criptogamico”, cioè a rendere pubblico e visibile il concerto amoroso, piuttosto che clandestino e occulto. E’ questa quindi, anche da un tale punto di vista, una passione riassuntiva, in cui tutte le passioni si associano per produrre una relazione composita e talmente potente da poter anche evolvere in “celadonia così galante come se si fosse all’aurora dell’amore” (ibidem). L’amore di cardine poi risulta un ingrediente fondamentale nella complessa architettura delle quadriglie (gruppi di amanti varianti da 8 a 32 che ruotano intorno a 2 fuochi poligini differenti, cioè digini, trigini ecc., a passioni dominanti opposte) in cui ogni membro si accoppia secondo assi di affinità e di differenza garantendo la giusta miscela di passione composita, sfarfallante e cabalistica per confluire infine in un autentico concerto passionale orientato dalla passione uniteista. L’amore di cardine è fondamentale in quanto, per potersi quadrigliare ogni poligino deve prima aver trovato tutti i suoi cardini amorosi (2 per i digini, tre per i trigini e così via) oppure può quadrigliarsi solo nei suoi gradi inferiori (cioè se è un digino solo con digine ecc.)
La vita amorosa, come si può intuire da queste strutture solo apparentemente astratte e vertiginose, è il nucleo della vita, una vita che non termina mai, perché i piaceri erotici sono previsti a tutte le età e anche i più anziani, che hanno raggiunto alti gradi nelle Corti d’amore, hanno diritto a accoppiarsi, per esempio nelle sessioni di “prova” delle giovani e dei giovani, con i candidati e le candidate. Ma più in generale è la costituzione politeistica della società amorosa che non può far mancare a nessuno la possibilità di trovare complicità e incontri. A ognuno il suo piacere secondo i suoi bisogni, da ognuno il suo piacere secondo le sue possibilità, si potrebbe dire.
Fourier e Sade, questi due messaggeri e profeti del “pieno”, dell’estasi continuata e ripetuta, dell’esaurimento dei piaceri, della fatica e dei corpi esausti (che tanto piace a Onfray), anche se entrambi non mancano poi di una fisiologia, di una terapeutica, anzi di una fitness orgastica, regolata da pause, rifocillamenti adeguati e da un ampliamento straordinario delle potenzialità umane di godimento, mettono in scacco ogni remora ideologica o teologica intorno alla fruizione dell’eros. Il piacere qui non è insidiato dalla delusione, dalla mortificazione, dal cadavere che brilla dietro la superficie cutanea della bellezza come una minaccia, un monito secreto dal puritanesimo e dalla colpa sempre avvinghiata nella civiltà monoteista al gesto erotico come il serpente al suo albero.
Qui trionfa il godimento della carne in una pura festività dei corpi e delle ragioni, finalmente liberate di ogni cilicio religioso o filosofico, per restituire ai sensi, ai generi, alle forme, alla natura, in Fourier in forma armonica e progressiva, in Sade in forma estrema e definitiva, il ruolo centrale, vitalistico, affermativo che loro conviene e sempre è stato espropriato dal ricatto maleodorante dei catechismi e dei galatei. In entrambi si promuove la fine della rarità in termini di piacere: “in Sade con lo scopo di lasciar esprimere l’infinita varietà del godimento, in Fourier per restituirgli i mezzi di combinarsi negli accoppiamenti nel modo migliore”( Curnier, 2006, 88).
Nessuna tentazione di confondere questi due pensatori, tanto diversi eppure tanto ricchi di affinità. Qui si tratta semplicemente di convocare le voci di una affermazione erotica senza infingimenti, senza remore, condotta fino all’estremo, pienamente convinta che il piacere è cosa buona e giusta, che esso scaturisce riccamente dalla natura e da quella umana in particolare e che ogni sua repressione o ostracizzazione entra in conflitto con la più profonda costituzione per natura. Veri antipedagogisti sia perché totalmente ignorati da qualsiasi riflessione di ordine educativo se non apertamente antipedagogica appunto (si pensi a Schérer), ma soprattutto perché, del pedagogico, pongono in discussione in maniera radicale l’etica del produrre, del sacrificare, del rinunciare. Elogio del piacere, etica del godimento che neppure in Epicuro e nemmeno forse nei più bizzarri dei cinici e degli stessi libertini riesce ad essere disgiunta da un’ipoteca di moderazione e di contenimento.
Antipedagogia dell’eccesso e della moltiplicazione, autentica alchimia di un tempo a venire che forse, come suggerisce Tacussel, dovrebbe riesercitarsi su certe suggestioni di Wilhelm Reich, più vicino a Fourier di quanto non sembri e che probabilmente in epoca postmoderna può ritrovare slancio e rinverdire anche qualche provocazione antiedipica e quell’homo ludens aestheticus oggi così violentemente ripudiato dal trionfo dell’homo faber e di quello economicus. Con Fourier, ma anche attraverso l’immoralismo consapevole e radicale di Sade, si può tentare probabilmente di reintrodurre l’idea di “un’economia estetizzata in seno alla quale il godimento è riconosciuto come un ingranaggio (un interesse) dell’uso e dello scambio effettivo” e in cui si celebri finalmente “l’antitesi di un’economia basata sulla violenza della rarità e l’oscenità della falsa abbondanza (…) Quella sorta di comunismo dionisiaco che, da Fourier a Marcuse e Bataille, intende riscattare le pulsioni libidiche dal mercato nero dei valori emozionali, tollerato dal sistema produttivista e costruito sulla captazione privata o statale del sovraprodotto sociale” (Tacussel, 221). Fourier riesce a conciliare paradossalmente l’economia e il piacere, ma capovolgendone la logica. Come sostiene Chantal : “l’idea di una società ideale esige una nuova antropologia che inverta realmente i bisogni e le passioni, che offra le condizioni reali del benessere concepito come soddisfazione di tutti i piaceri” (2001, p.99 ). Fine del dominio dell’io e del tempo frantumato e estenuato correlato alla sua coscienza infelice, il mondo uniteista di Fourier promuove “la pienezza del tempo, di un tempo non tragico”, come dice Schérer: “tempo senza angoscia, tempo liberamente concesso, questo ‘sogno’ ci risveglia all’idea che la struttura considerata pretestuosamente fissa del tempo per la morte non sia che il più sottile, il più filosofico baluardo, in civiltà, delle istituzioni repressive. Il tempo nuovo è l’apertura per lo sviluppo di un’altra infanzia, di un altro amore” (Schérer, 2000/2, 104).
Modi e forme dell’eccesso che pongono in scacco ogni genere di privatizzazione o di eslusivizzazione del piacere. In questo senso lavora anche la depravazione di Sade, “poiché segnala fino all’estremo la disposizione reale allo spossessamento, trascina il più alto valore morale come debitore dell’esposizione la più estrema al solo valore che sia ammissibile: quello della voluttà. Al culmine della prostituzione e della depravazione, vi è qualche cosa che certo non è la santità ma il suo inverso: l’assoluto dell’essere, la sovranità” (Curnier, 2006, 90) Un comunismo fondato sul piacere e sulla libertà di godere, capace forse di scuoterci dall’ipnosi indotta dall’immaginario simulacrale diffuso nel mercato globale.
Epilogo o epistòmio
“Se sei ancora viva quando leggi questo,
chiudi gli occhi. Io sono
dietro le palpebre, che divento buio”
(Saint Geraud)
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