Estratto da: “Avanguardia”, n° 29, 2005 [Ed. Pagine, Roma];
Giovanni Fontana
ACCORGIMENTI DI/VERSI VERSO LA POESIA TOTALE
Nel “Manifesto tecnico della letteratura futurista” [1912] Marinetti scrive: “Nulla è più interessante,
per un poeta futurista, che l’agitarsi della tastiera di un pianoforte meccanico. Il cinematografo ci
offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo
slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano violentemente sul
trampolino. Ci offre infine la corsa di un uomo a 200 chilometri all’ora. Sono altrettanti movimenti
della materia, fuor dalle leggi dell’intelligenza e quindi di una essenza più significativa”.
Scegliendo questa citazione marinettiana Adriano Spatola, in un libretto dedicato al futurismo,1
mette in evidenza l’importanza della componente fisica nei procedimenti poetici dell’avanguardia,
sottolineando come questa possa in qualche modo sostituirsi, sotto forma di gesto creativo (al limite
dell’automatismo), ai tradizionali processi di pensiero applicati alle tecniche di composizione
artistica e di scrittura. Così continua, infatti, Adriano Spatola:
“È opportuno notare come venga qui considerata più importante la manifestazione di una o più forze fisiche,
che la forza del pensiero: è un altro esempio di come il Futurismo abbia operato continui spostamenti di
contesto, imponendo per esempio la poeta le tecniche dell’impressione visuale.
Del resto le «parole in libertà» hanno molto a che fare con la nostra idea del manifesto pubblicitario o (al limite
della rarefazione) con ciò che noi pensiamo di una pagina di appunti stenografati, ma sono assai poco in
relazione a quella che anche oggi, a più di mezzo secolo dal Futurismo, resta la comune idea della poesia.
La corrispondenza grafica tra i rumori esterni e i segni sulla pagina produce il senso della poesia, anche
indipendentemente da quella che abitualmente viene definita «scrittura».
Nella poesia futurista c’era la richiesta di un segno più sintetico e immediato della parola tradizionale, qualcosa
che potrebbe far pensare ai segni ideografici o alla scrittura figurata.
Eppure questi temi ci riportano alla preistoria, suggerendoci strane equivalenze tra forme più moderne e quelle
più antiche e perdute non solo della poesia, ma anche dell’arte”.
Qui Spatola, ragionando sul Futurismo, evidenzia alcuni dei temi fondamentali della propria
poetica: il ruolo del gesto e della manualità come elementi comprimari nei processi tecnici di
composizione, l’ampliamento dei campi d’intervento e l’importanza della decontestualizzazione, la
funzione delle componenti visuali e sonore e le loro corrispondenze come produttrici di senso, la
necessità di sintesi e immediatezza nel segno poetico, la relazione con le forme archetipiche.
Tutti elementi che contribuiscono alla definizione di quella che il poeta chiamerà “poesia totale”,
riferendosi a quell’idea di opera d’arte totale oggetto d’interesse delle avanguardie storiche, ma che
estendeva le proprie radici oltre i confini del secolo. Il progresso scientifico e tecnologico aveva
alimentato la ricerca sul piano teorico ed aveva consentito quei miracoli tecnici che avrebbero
radicalmente rivoluzionato il modo di fare arte. Basti pensare alle straordinarie applicazioni nel
campo dell’elettricità, alla radiofonia, al cinema, ai nuovi scenari acustici, alla diffusione del
magnetofono, poi alle nuove tecniche di riproducibilità, alla televisione e così via, fino ai più recenti
traguardi dell’elettronica.
Negli anni Sessanta, dopo anni di disinteresse, le esperienze pionieristiche delle avanguardie
novecentesche diventano oggetto di grande attenzione. Da un lato, i critici e gli storici rivelano uno
sterminato patrimonio di idee; dall’altro, gli artisti subiscono il fascino dell’interlinguaggio e via via
ne consolidano le applicazioni, con un atteggiamento nuovo nei confronti della realtà e con
strumenti più adeguati e più efficaci per operare intersezioni tra le arti.
L’idea di categoria è parzialmente assorbita dall’idea di continuità. La fusione delle discipline
artistiche è al centro di pratiche sempre più frequentate. Un giovanissimo Dick Higgins, già allievo
1
di John Cage alla fine degli anni Cinquanta, lancia dalle schiere di Fluxus il concetto di intermedia
e nel 1966 pubblica in “Something Else Newsletter” l’omonimo saggio.2 I confini tra le varie forme
culturali si fanno sempre più labili e, con quella di categoria, vengono superate anche le idee di stile
e di genere; mentre arte, scienza e tecnologia serrano i rapporti.
Adriano Spatola, che vive con partecipazione quei momenti così carichi di fermenti e di tensioni,
apre il suo Verso la poesia totale ponendo immediatamente l’accento sulle nuove realtà: “Il teatro si
fonde con la scultura, la poesia diventa azione, la musica si fa gesto e nello stesso tempo usa, nella
notazione, procedimenti di tipo pittorico: termini come ‘happening’,‘environment’, ‘mixed media’,
‘assembalge’ sono indicativi di questa situazione culturale”.3 Egli mette inoltre bene in evidenza il
fatto che i fenomeni di “confusione” delle arti non rappresentano pure sommatorie, ma
costituiscono eventi dinamici, interattivi, altamente imprevedibili: non si tratta di sovrapposizione
inerte, bensì di simultaneità produttiva. Le operazioni interattive provocano infinite modificazioni
negli elementi, spesso inafferrabili, mentre si affacciano all’orizzonte nuove forme artistiche,
pienamente autonome, anche se ampi settori dell’arte e della critica ancora arroccati su categorie
aristoteliche oppongono una dura resistenza.
Spatola aveva già pubblicato nel 1961 Le pietre e gli dei,4 una raccolta di poesie oggi quasi
dimenticata, nella quale dimostrava di aver già letto Emilio Villa, che egli considerava “forse il più
grande poeta italiano vivente”. In una intervista raccolta da Luigi Fontanella a Cambridge, nel
Massachussets, l’11 aprile del 1980, dirà: “È stato il poeta che ha capito, con la sua maniera così
allucinata ma sempre estremamente ironica, molto più di altri, quello che stava avvenendo nella
cultura internazionale degli anni Cinquanta. Aveva contatti con tutti: dai post-surrealisti francesi a
tutti gli altri. Il mio amore per Villa è stato ed è una delle costanti della mia vita, anche se abbiamo
avuto spesso dei dissapori per ragioni varie, nel senso che lui non voleva che io frequentassi i
Novissimi, e i Novissimi non tolleravano che io frequentassi Emilio Villa”.5 Da notare che il
secondo verso della seconda delle Diciassette variazioni su temi proposti per una pura ideologia
fonetica di Villa suona così: “le pietre erano dèi”. Le “pietre” di Spatola e di Villa esprimono un
sentimento del tempo che fa i conti con un tormentato presente: pietre che figurano un fertile
silenzio, nel cui spazio si realizzano significative presenze. Nel 1962, nel n° 1 di BAB ILU, la sua
prima rivista, Spatola pubblicherà Omaggio ai sassi di Tot e nel secondo (ed ultimo) numero
scriverà di Villa e dirà di “pietre che furono scritture”. Ma quelle pietre che per entrambi
rappresentano la consapevolezza della morte sono le stesse che Deucalione e Pirra si gettano alle
spalle.
La passione di Spatola per gli aspetti misteriosi di antiche scritture si accendeva al ginnasio, quando
un’infatuazione per i geroglifici, tanto bizzarra quanto insolita in un adolescente, lo spingeva allo
studio dell’antica poesia egizia; l’osservazione attenta di quelle enigmatiche composizioni, dove
l’aspetto figurale aveva un’importanza fondamentale, influenzerà la pratica dei suoi “zeroglifici”,
che tanto spazio impegneranno nella sua ricerca artistica.
Influenzato profondamente dai fermenti internazionali di taglio “intermediale”, infatti, Spatola,
dopo l’esperienza del romanzo L’Oblò,6 del 1964, approda alla poesia concreta. Il suo poemapuzzle Poesia da montare7 è del 1965. Si tratta di giochi a incastro di lettere e frammenti di lettere
che implicano il diretto intervento del fruitore, che, nelle differenti fasi di montaggio, “legge” le
forme. Per l’autore, questo momento costruttivo, questo coinvolgimento, è l’essenziale. Il ruolo del
lettore, già tradizionalmente attivo, viene qui arricchito dal compito tecnico-pratico; si richiede una
gestualità che sappia individuare equilibri di volta in volta differenti e che crei incidenti di lettura in
una prospettiva di forme dinamiche indipendenti dalla volontà dell’autore. Diceva Franz Mon che
l’ambiguità è la reale concretezza e che ogni identificazione vale una sparizione: in effetti
l’identificazione indica la strada del museo e produce reperti; l’antistaticità della proposizione attiva
stimola vitalità nel processo di decodificazione che si trasforma in energia creativa. In quegli anni,
il pubblico è coinvolto come parte attiva in numerosi settori artistici: nella musica, in teatro, nelle
arti visive. L’opera si apre sempre di più all’imprevedibilità dell’intervento del fruitore, che viene
teorizzato, stimolato, atteso.
2
George Maciunas asseriva che “l’artista deve dimostrare che tutto può essere arte e che chiunque è
in grado di dare dell’arte”; avrebbe poi scritto Spatola che “la richiesta di un’arte ‘semplice’ e
‘divertente’ nasce sia da un moto di anti-intellettualismo che potremmo definire, con Tzara,
‘spontaneo’, sia dall’esigenza di tagliare il cordone ombelicale che lega l’opera d’arte ‘rara’,
‘preziosa’, ‘seria’ […] a un discorso sempre più specialistico e settoriale”.8
Attraverso il puzzle-poem il poeta arriva allo zeroglifico, dove il contenuto verbale si azzera nel
frammento alfabetico. Rileva Vincenzo Accame che negli zeroglifici “ciò che conta non sembra più
essere la ‘segnicità’ della lingua, ma la costruzione del segno fuori della lingua”.9 Si tratta di una
tecnica combinatoria che Spatola mutua in maniera personalissima da Franz Mon e che, comunque,
rientra per altri versi nel corredo tecnico del concretismo internazionale.
Mon stesso nel tratteggiare un quadro di riferimento delle metodologie del concreto sottolinea
l’illimitatezza della combinatorietà sintattico-semantica e l’instabilità dinamica. La logica della
combinatorietà “spinge la poesia concreta alle sue estreme disposizioni: da un lato al
raggiungimento dei limiti più bassi dell’informazione linguistica, attraverso la riduzione dei
rapporti, dall’altro alla differenziazione ed alla complicazione degli elementi, in modo tale che
nessuna percezione sia più all’altezza del complesso dei segni risultante. Nel primo caso appaiono
testi costituiti da parole distrutte, da lettere tipografiche, da frammenti di lettere, da resti di segni
non più identificabili”.10
A proposito della tecnica spatoliana, nella terza antologia Geiger11 Achille Bonito Oliva parla di
“processo che atomizza il linguaggio istituzionale cancellandone tutti i significati obbligati,
orientando la disposizione del segno sullo spazio estetico in maniera da costruire a linguaggio anche
gli interstizi tra una particella linguistica e l’altra”.12
Lo zeroglifico spatoliano è particolarmente legato al corpo durante tutto il processo compositivo;
Adriano Spatola vive l’opera, materialmente, attraverso il proprio gesto, attraverso una manualità
lenta e misurata, ma nello stesso tempo carica di quella lucidità e quella sensualità necessarie al
compimento di un’operazione di montaggio che deve risultare il più possibile libera e aperta.
Mirella Bentivoglio, in occasione di una collettiva milanese nota la presenza e l’importanza di
questa gestualità: “Alla parola si sostituiva il gesto. Guardiamo i testi di Adriano: un intervento
diretto, manuale, nel carattere a stampa: una cancellazione non per sovrapposizione grafica ma per
destrutturazione e sfalsamento. E questa gestualità collagistica a ben guardare prepara la grafia
poetica manuale”.13 Che a ben guardare si ritrova anche nella poesia lineare..
In Il quaderno bianco, sezione d’apertura dei Diversi accorgimenti,14 traspare una corporeità labile
che maschera un gesto già attutito da presenze inquiete; mentre nell’ultima strofa il poeta sembra
voler fornire istruzioni per l’uso della composizione del testo in sintonia con quelle in adozione
nell’universo degli zeroglifici:
Un suono che corrisponde alla trama della distanza
alla remota richiesta della complice macchinazione
o al canone algebrico all’urto dei nuovi frammenti
un compito della sostanza nell’ordine della manovra.
I frammenti, i ritagli che si scontrano disordinatamente sul piano, sono la sostanza della poesia, che
trova un equilibrio, alfine, mentre il gesto del poeta ricerca l’ordine giusto, una delle tante
combinazioni possibili. Sembra che suoni vengano fuori delle trame che si organizzano, dalle
improvvise prospettive che si aprono agli occhi, dalle distanze relative dei frammenti che si
inquadrano, complici, nella macchinazione poetica.
Si legge ancora più avanti nella medesima raccolta, in Commensurabile e/o incommensurabile:
La posizione in cui è stata sorpresa la mente
diventa la fantasia la proiezione di un mondo
3
È come se il gesto dovesse agire indipendentemente dalla mente, ininterrotto, fino a quando,
attraverso una particolare disposizione degli oggetti, non sorprende la mente stessa, che ne è
eccitata; allora, grazie ad un immediato scatenamento dei meccanismi fantastici, quasi una reazione
a catena, si apre la proiezione del mondo sul piano del foglio.
Adriano Spatola insiste molto sulle questioni tecniche in poesia e auspica spesso l’appropriazione,
da parte del pubblico dei lettori, dei vari sistemi compositivi, evidenziando il lato ludico
dell’operazione. È questo un tema ricorrente nelle neoavanguardie, specialmente nei settori della
sperimentazione verbo-visiva: vi si scopre la volontà di confondere in qualche modo l’arte con la
vita, ed in questo senso si può pensare a “Fluxus” o, per esempio, al fenomeno della Mail Art, che
in varie occasioni coinvolge Spatola.
Scrive Lamberto Pignotti che “la poesia visiva realizza congegni estetici ma più che altro per
metterne a nudo i meccanismi, per pubblicamente esibirli, per fare intendere in giro che si è capito il
gioco, e che magari ci si sta. Ma per giocare su più tavoli”.15 A testimoniare il gusto di Spatola a
giocare su più fronti, penso che sia stimolante riportare parte di una sua lettera indirizzata a me,
dopo che lo ebbi invitato a partecipare ad alcune iniziative editoriali del 1983. Con quella lettera
venivo coinvolto nel suo gioco creativo, non tanto come collaboratore, quanto come estensore della
sua creatività, ma con buona dose di ironia. Ecco dunque il testo:
Caro Giovanni
[…]
L’unico lavoro che faccio ora è riordinare un po’ la posta, e ce n’era bisogno. Trovo perfino un paio di tue
lettere alle quali mi pare di non aver mai risposto. Una, recente, nella quale mi chiedi materiale “barocco” per il
15 marzo e materiale sulla voce per dicembre; su questo punto della voce, d’accordo, però mi piacerebbe
partecipare anche al numero barocco, con un’idea così, che fra l’altro servirebbe a risparmiare tempo e
potrebbe essere infilata nel numero all’ultimo momento, perfino come inserto: dunque tu costruisci uno
Zeroglifico per me, ed io ti dedico l’immagine speculare di questo Zeroglifico; le didascalie potrebbero essere
1) Zeroglifico di AS fatto da GF 2) dedica di AS a GF. Il titolo? Agudeza y arte de ingenio.
Non so, vedi tu. Sono idee di uno che ha un po’ di febbre a quest’ora tutte le sere, e che sta per andarsene a
letto con un buon libro idiota sperando di dormire senza mal di pancia. Comunque, se c’è un barlume
d’intelligenza nell’idea, trasformala come vuoi.
[…]
Ho molta voglia di vederti,
un abbraccio
Adriano.16
In fondo ha poca o nessuna importanza il fatto che, in quell’occasione, gli zeroglifici venissero
realizzati da me. Era Spatola il loro autore.
Nell’ottica di un’arte come progetto, tipica dell’avanguardia, ciò che conta è l’idea. Per altri versi, a
voler allargare il discorso, non si può non tener conto di quanto accadeva nelle botteghe
rinascimentali, dove intere parti di opere venivano autonomamente incluse nel progetto del maestro,
previa sua autorizzazione, o degli inserti improvvisati degli esecutori nei concerti barocchi, o negli
assoli jazzistici, o di quanto avviene oggi nel cinema e nel teatro, dove il regista, autore del progetto
e coordinatore della sua realizzazione firma l’opera per tutti. “Del resto – scrive Spatola, ancora
sotto gli effetti degli umori sessantotteschi – ciò che contraddistingue la nostra epoca non è più
soltanto il sistema della divisione del lavoro, conseguenza dell’introduzione dei metodi di
produzione industriali, ma anche l’aspirazione a un mondo nel quale ogni differenza culturale tra
l’artista e il non artista, tra l’intellettuale e il suo pubblico possa definitivamente scomparire. La
poesia totale sembra offrire oggi al lettore non un prodotto definitivo, da accettare o subire nella sua
chiusa perfezione, ma gli strumenti stessi della creazione poetica, nella loro strutturale
rimaneggiabilità”.17
La fluidità intermediale individua rapporti artista/pubblico del tutto inediti. Nel saggio che inquadra
i materiali raccolti nell’antologia Geiger 5 si legge che il termine intermedia “è […] comprensivo di
ogni esperimento di apertura non patetica né pseudoesistenziale verso la vita”.18 Il concetto di
4
intermedia, infatti, come sottolinea Gilberto Finzi, denota una “disponibilità tipica e totale a
utilizzare tutto quanto può fare di un’antica concezione dell’arte immobile una moderna
‘possibilità’ di arte nuova o di modi ‘altri’ di fare arte. Si tratta di una prospettiva che tiene conto
degli oggetti, del mondo che circonda l’uomo, e dell’uomo stesso, visti in relazioni eterodosse, in
relazioni che non siano di pura esteticità categoriale ma, al contrario, di una funzionalità che
l’emozione o viceversa l’assenza di emozione rendono oggettiva perché oggettuali, continue e
freddamente critiche nei confronti di un ambiente qualsivoglia. E intermedia deriva forse (anche) da
Lautréamont che auspicava un’arte fatta da tutti e non da uno solo”.19 Adriano e Maurizio Spatola
riportano poi, nell’antologia Geiger 5 appena citata, alcuni giudizi di artisti che suonano così:
“Anche la fantasia diventa un oggetto del mondo fisico e non si differenzia più dalla strada o dalla
pioggia” (R. Whitman); “Fare cose senza storia né critica né messaggio. Fare qualcosa e lasciarlo
lì” (U. Nespolo); “Non c’è nulla da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere” (P. Manzoni).
E il gesto di Spatola è. Attraverso quel gesto egli vive. Sfondare la soglia del linguaggio per
azzerarne il significato è un modo di riconoscersi, un modo di essere. Perciò non a caso la raccolta
degli zeroglifici spatoliani reca in esergo questa frase di Max Bense: “Scrivere significa costruire il
linguaggio, non spiegarlo”.20
Più volte Spatola accenna ad un iperspazio come continuum multidimensionale, entro il quale
accede solo chi è capace di abbandonare gli esigui ambienti dell’istituzionalità, del corrente, del
precostituito, per costruire un mondo da contrapporre a quello dato. “Rifare il mondo – egli scrive –
vuol dire creare in laboratorio il linguaggio del mondo in concorrenza col mondo, vuol dire entrare
nella quarta dimensione, che è la dimensione del rifiuto della pura e semplice registrazione
lessicale”.21 E infatti tutto il lavoro intorno alle Edizioni Geiger e a “Tam Tam”,22 rivista che prende
corpo dopo la spaccatura di “Quindici”, è teso alla ricerca di un nuovo linguaggio poetico che sia il
più possibile trasgressivo nei confronti delle consuetudini e dei gesti istituzionalizzati e, quindi, del
tutto liberatorio: un linguaggio che metta continuamente in crisi se stesso attraverso contaminazioni
e dilatazioni imprevedibili, ma anche attraverso l’utilizzazione di segni funzionali all’abbattimento
delle barriere linguistiche. Emblematici gli zeroglifici e le pièce sonore di Spatola. È da ricordare
che, nel 1976, il suo maestro Luciano Anceschi scrive che “la lingua della poesia si fa radicalmente
problematica, e da sistema prestabilito di segni si apre alla possibilità di un acquisto di segni sempre
imprevisti […] secondo relazioni possibili. L’area segnica sembra espandersi continuamente. La
parola mette in crisi se stessa, non solo nel gioco delle famose strategie tra significante e significato,
o nel mettere in discussione strutture anche elementari come il grafema o il fonema, ma, al limite,
correndo il rischio di essere sostituits da altri tipi di segni. E certo si giunge a proporre un tipo di
messaggio il cui sistema segnico non solo suggerisce l’idea, come è stato detto, di un movimento di
poesia veramente internazionale, ma anche perché può proporre l’ipotesi di una lingua poetica
internazionale che ha solo certi aspetti in comune con la musica”.23 Ma le critiche a questo modo di
procedere non vengono risparmiate a Spatola e ai poeti dell’area di “Tam Tam”, mentre le pratiche
visuali, sonore e performative vanno infittendo sempre di più una rete di relazioni ampia ed
articolata. Il Mulino di Bazzano, in Val d’Enza, prima sede redazionale della rivista, si trasforma
ben presto in un vero e proprio faro per poeti nomadi. Da lì Adriano e Giulia segnalano, coordinano
e organizzano, accanto alle iniziative editoriali, rassegne, mostre e festival. Gli echi del tam tam
raggiungono ogni angolo del mondo con risultati sorprendenti non solo sul piano artistico, ma anche
su quello socio-culturale ed umano. “Intenzioni giustissime – notava Giuseppe Zagarrio – ; ma il
fatto è che l’attenzione della ricerca appare troppo massicciamente spostata sul materiale dei segni
linguistici e sul linguaggio come oggetto assoluto e aseico, privo di alcun rapporto referenziale con i
significati, cioè con il reale operare (creativo, ideologico, etico, pratico) dell’uomo nel suo esserci
individuale e collettivo. Il rischio che si corre a questo punto (nello spostare ogni prassi, appunto,
sui significanti) è quello di ridursi a una condizione estrema di (super-)oggettività e dunque di
precipitare nella (in)significanza”.24 Ma solo l’attenzione al significante paga in termini di vera
libertà e di indipendenza dall’istituto storico. Ce lo ricorda Lamberto Pignotti, citando Susan Sontag
5
per spezzare una lancia a favore della sinestesia: “Interpretare è impoverire, svuotare il mondo, per
instaurare un mondo spettrale di ‘significati’. È trasformare il mondo in questo mondo. Dobbiamo
imparare a vedere di più, a udire di più, a sentire di più”.25 E poi: “Il piacere del testo è questo: il
valore promosso al rango suntuoso di significante”: un gran finale per un insostituibile libretto:
“qualcosa granula, crepita, accarezza, gratta, taglia: è godere”.26
Del resto l’universo comunicativo non è fatto solo di parole, e la comunicazione è sempre
intersensoriale. Essa coinvolge tutti gli organi di senso, e quasi mai uno per volta, mentre sempre
più spesso, nelle nuove situazioni determinate dalla presenza massiccia dell’elettronica nella
quotidianità, si può parlare di comunicazione intrecciata. La confusione dei linguaggi tra i diversi
canali sensoriali è più facile di quanto non sembri. Il cervello non contiene culs de sac. Per Ruggero
Pierantoni “s’incontrano solo anelli entro anelli […] non esistono vicoli ciechi, binari morti”.27 E
l’opera d’arte totale implica necessariamente una plurisensorialità. Lo stesso mosaico dei frammenti
di lettere decontestualizzate che costituiscono gli zeroglifici spatoliani non si presenta come puro
spettacolo per gli occhi. Le particelle si organizzano nello spazio secondo un ritmo ed una logica
musicali. Giulia Niccolai parla di “fraseggio, nel senso che si dà in musica a questo termine”.28
Anche lo stesso Spatola parla di fraseggio e aggiunge che “i valori semantici di partenza sono
sconvolti e rielaborati come molecole di un organismo iconografico astratto, in cui l’ordine
rigorosamente casuale porta mediante l’iterazione all’apparizione-evocazione di segni ‘altri’”.29
Quindi ogni zeroglifico è una sorta di spartito, di tessuto sonoro; anzi, parlerei di musica
cristallizzata, per gli occhi più che per gli orecchi, o, meglio ancora, parafrasando e adattando un
giudizio espresso nei confronti degli ultimi esperimenti pizzutiani, direi che questi testi concreti
tendono a suscitare nel “lettore” una sorta di musica interiore, ma di testa: una musica della verboscrittura che la pagina suona nel cervello.30 Ciò è confermato ulteriormente da questa dichiarazione
di Spatola: “I frammenti di significato che nonostante tutto emergono dalla superficie del testo
visuale […] lasciano forse intravedere sul fondo relitti di metafore e di simboli, così come la parola
esplosa non dimentica mai l’eco lontana ma ancora percepibile di un significato sonoro. Certo, gli
zeroglifici sono anche partiture, ed è forse per questo che il rapporto tra parola e immagine (da
qualsiasi punto di vista lo si guardi) sembra esistere unicamente in una zona percorsa da richiami
per l’orecchio o, al limite, per la mente”.31
Lo zeroglifico, quindi, rispetta perfettamente uno dei fondamenti principali della logica del
concreto, cioè quello dello scambio e addirittura della convertibilità tra le qualità visive e quelle
sonore, tra immagine e accento; pur se la sua collocazione è molto vicina a quelle aree di confine
nelle quali certe fluttuazioni, certe labilità e certe ambiguità si perdono, dove i testi diventano
percepibili solo visualmente o solo acusticamente.
Scrive Franz Mon: “Appaiono testi visuali e fonetici, che non si lasciano trasferire più l’uno
nell’altro. Essi determinano le posizioni limite della poesia concreta, dove incominciano le zone
intermedie che portano verso la musica o verso l’arte figurativa o verso l’architettura”.32
Convinto assertore della necessità di spingere all’estremo limite la possibilità di coinvolgimento,
nel fare poetico, dei linguaggi più disparati e dei media più diversi, fermamente contrario alla
poesia come “intrattenimento logorroico”, Adriano Spatola difende i valori di culture espressive
disponibili “al confluire di impulsi extra-letterari, di atteggiamenti reperibili nel campo delle arti
figurative, della musica, del teatro o del cinema underground”.33 Passa ben presto, quindi, a tradurre
i suoni cristallizzati in vere e proprie performance sonore, a sciogliere le “parole gelate” in un flusso
libero ed esaltante.
Il pre-testo è costituito principalmente dai materiali di Algoritmo,34 poemi concreti costruiti sul
modello del chiasmo incrociando due sostantivi o disponendo in file verticali parallele teorie
sillabiche. I titoli, ormai notissimi negli ambienti dell’avanguardia internazionale sono: Seduction /
Seducteur, Violation / Violateur, Vibration / Vibrateur, Aviation / Aviateur, Composition /
Compositeur, Detonation / Detonateur, Invitation / Ionisation, e molti altri, fino a Variation /
6
Variateur, che contiene addirittura vere e proprie didascalie tra parentesi: un poema fonetico con
indicazioni di regia.
“Penso che la musica fonetica sia un modo insostituibile per trasformare la scrittura in voce” –
afferma Adriano Spatola. “Le parole racchiudono una casualità semantica che la scrittura soffoca e
che la voce esalta. Tutti possono approfittare di questa casualità, così come tutti possono utilizzare
quello ‘strumento a fiato’ che è la voce. I testi poetici da cui parto sono estremamente semplici: si
tratta di poesie concrete costruite sul modello del chiasmo, con una evidente volontà di retorica alta,
magica. Mi servo anche di strumenti a percussione, con una vaghissima idea (remota struttura) di
‘basso continuo’. Su tutto questo si apre l’ampio, amplissimo spazio dell’improvvisazione”.35
“In questa prospettiva la voce è da considerare, insieme alla gestualità, come una funzione di base
del testo, inteso nella sua più ampia accezione. – nota Matteo D’Ambrosio – La voce sembra un
oggetto dimenticato e misterioso, un universo complesso e fin qui del tutto inesplorato; essa non si
lascia considerare isolata, ed esprime la più vera corporeità del linguaggio; infatti interrogarsi sulla
voce esprime, per l’arte contemporanea (teatro, musica, poesia), la necessità di lasciar parlare il
corpo”.36 Sull’argomento concorda Renato Barilli: “[…] non basta parlare di una performance
orale-sonora; l’emissione di suoni non può non essere accompagnata da una gesticolazione del
corpo, da una mimica facciale, da un comportamento globale”.37 C’è ormai un’ampia letteratura
sull’argomento: per Paul Zumthor la vocalità del poeta impegna proficuamente la presenza
scenica;38 per Walter Ong il recupero dell’oralità implica inevitabilmente la componente gestuale;39
per Claude Lévi-Strauss la creatività orale è addirittura totalizzante.40
Il corpo, la sua presenza totale, è uno degli elementi sostanziali su cui Adriano basa le sue
performance, la sua poésie directe, per dirla con Julien Blaine, suo grande amico. Egli punta molto
sulla presenza scenica, sulla sua maschera, sul volume del suo corpo, sui suoi movimenti lenti e
ponderati e lavora su tutti gli elementi sovrasegmentali, sui toni, sui timbri, sui volumi, sulla
respirazione; sa magistralmente dosare le pause, utilizzare con grande profitto il suo accento
padano. Quindi non solo si serve delle “evenienze del parlato”, ma di tutta la sua fisicità,
scoprendosi completamente, fino a far coincidere vita e poesia. Può essere illuminante a tal
proposito questo passo di Jerzy Grotowski riferito a chi pratica la scena: “Noi sentiamo che l’attore
raggiunge l’essenza della sua vocazione quando compie un atto di sincerità, quando mette a nudo se
stesso, si apre e si dona con un gesto estremo e solenne […]. E inoltre, quando questo atto di
sincerità estrema è fuso in un organismo vivente, negli impulsi, in una respirazione, in un ritmo di
pensiero e nella circolazione del sangue, quando è disciplinato e reso consapevole e non si dissolve
nel caos dell’anarchia formale – in breve, quando questo atto, compiuto tramite il teatro, è totale –
allora, anche se non serve a proteggerci dai poteri oscuri, ci permette almeno di reagire totalmente,
cioè di cominciare ad esistere”.41 E Adriano si era impadronito della vita, da poeta, e, da uomo,
viveva pienamente la sua poesia. Sapeva scendere nel quotidiano creativamente e sapeva salire sulla
scena della poesia senza finzioni o espedienti innaturali, pur se dava a vedere di ben conoscere gli
artifici cinesici e paralinguistici.
A proposito della poesia in pubblico, Spatola scrive che “il fenomeno non ha nulla di propriamente
mistico, e che certo non è analizzabile mediante metafore: anzi è qui che ‘sperimentale’ ed
‘esperienza’ possono finalmente coincidere.”42 Il corpo diventa il centro di un campo di forze
magnetiche collegate al mondo; ogni battito, ogni pulsazione è un modo di permettere la
comunicazione, di favorire collegamenti iper-estetici. Il corpo è un tam tam che dissipa energie, che
attua un processo di ionizzazione. Ma il corpo non emana semplicemente: è anche recettore degli
stimoli provenienti dal pubblico che immediatamente inscrive in se stesso. L’avvenimento
performativo è collegato al contesto più di quanto non appaia. Ogni situazione esterna, ogni
avvenimento casuale, tutto l’ambiente, che pure è influenzato dalla performance, influisce su di
essa, che a sua volta riflette modificando all’istante. È un gioco di specchi operato
contemporaneamente dal poeta e dal pubblico, il quale si esprime con piccoli segni, gesti di
reazione anche minimi, tratti espressivi, mormorii, silenzi, sospiri, respiri, colpi di tosse, applausi,
fischi o macromovimenti… E Spatola sa trattare col pubblico, gli si rivolge direttamente, accetta il
7
colloquio e la sfida. Emblematico lo scambio di battute, anche pesanti e violente della sua ultima
performance romana:43 un clima teso, di grottesca irruenza verbale che rimanda alla “poesia come
aggressione”, alla “poesia come scandalo”, alla “poesia come rapporto feroce col mondo” di cui
aveva parlato introducendo un’antologia di poesia italiana sulla rivista “La Battana” (n° 20) nel
1969.44
“Il poeta – dichiara altrove – si sente in dovere di assumere su di sé a tutti i costi (clown,
pseudosciamano, scemo del villaggio, folle di Dio, ecc.) il ruolo di manipolatore del fantasma”.
Tale fantasma – che identificherei con l’essenza libera della poesia – “in apparenza così innocuo,
così fragile, così idiota, è l’unico spaventapasseri che possa ridicolizzare il ribrezzo (borghese) per
ogni negazione sostanziale dei valori”. Ma “bisogna anche avere il buon senso di capire – aggiunge
Spatola – che il poeta è diventato un animale asociale per puro amore verso la società”.45 Ed è in
questo gioco sciamanico che svolgono un ruolo fondamentale la presenza del corpo e la presenza
della voce e le continue oscillazioni dei significati a cavallo dei vari significanti, tra gesto e suono,
tra parola e ritmo. Verrebbe di associare queste oscillazioni a quelli che Claude Lévi Strauss
definisce “significanti fluttuanti”, carichi di pure forme, simboli allo stato puro suscettibili di
caricarsi di qualsiasi contenuto simbolico; la funzione principale del “significante fluttuante”
sarebbe quella di porsi come mediatore tra codici: funzione scambiatrice che riconduce al concetto
di “mana”. Il corpo, macchina del linguaggio, non è soltanto il luogo degli scambi, il supporto delle
corrispondenze simboliche tra i diversi codici: esso, che ha capacità generative, trasforma i
significanti in pura energia. Da un punto di vista antropologico “questi significanti fluttuanti non
designerebbero […] nulla di preciso, avendo solamente un ‘valore simbolico zero’; sarebbero però
provvisti di una funzione fondamentale perché consentirebbero al pensiero simbolico di esercitarsi”.
Lo sciamano sarebbe colui che “s’incarica […] di far passare l’individuo e il gruppo da un codice
all’altro, da uno stato all’altro: come i miti di cui si vale, egli traduce un sistema simbolico in un
altro”;46 il performer, colui che indica al “lettore” i percorsi dinamici del significante esibendo il
quadro delle possibili oscillazioni tra codici, traducendo simboli in energie, in un gioco di rimandi,
di richiami, di rilanci di segni nell’iperspazio della sinestesia e del plurilinguismo.
Quando poi si carica di contenuto, la forma appartiene a zone di disordine semantico e cavalca due
o più codici, due o più classi di oggetti, due o più mondi. È così anche nell’area della magia.
Proprio quell’antica magia con la quale Artaud identificava l’atto teatrale.47 Al lettore ancora il
compito di ricostruire, o meglio, di inventare il senso.48 La performance, quindi, apparirebbe come
somma di diversi accorgimenti tecnici, come supremo artificio, come costruzione complessa
fondata su niente, che riesce a circondarsi di senso grazie all’energia profusa. L’artificio, come
potenza impegnata, assicura un ordine alle molecole entropizzate. È un po’ come nel paradosso di
Prigogine, dove non è vero che sistemi lontani dall’equilibrio procedano verso il massimo di
entropia. È possibile per quei sistemi trovare un ordine diverso da quello iniziale. La dissipazione di
energia li spinge verso nuovi ordini, lontano dalle dimensioni entropiche.49
Adriano amava vivere nel disordine per provare il gusto di ordinare, poi, le cose, gli oggetti del suo
lavoro. Piccole felicità, sottolineate con buona dose di humour, specialmente quando le mostrava ad
uno come me, pignolo fino all’esasperazione, ma di nome e non di fatto, tant’è che aspiro
all’ordine, ma continuo a vivere nel disordine, anche se poi in performance, come accadeva a
Adriano, tutto torna a girare perfettamente, come ingranaggio d’orologio di precisione.
“Il seme del verso alligna e matura nel caos”50 scriveva Adriano Spatola, e altrove “oppure guarda
come il testo si serve del corpo / guarda come l’opera è cosmica e biologica e logica”, 51 e ancora “il
testo è un oggetto vivente fornito di chiavi”;52 ma altrove sosterrà anche che “ogni parola è una
parola tradita, ogni pagina catalogata è una pagina in punto di morte”.53 D’altra parte MerleauPonty ci ricorda che “come il tessitore, lo scrittore lavora alla rovescia, ed è così che si ritrova
circondato di senso”.54
Guido Guglielmi scrive che per Spatola la poesia è “il luogo in cui si mettono in gioco le figure
dell’io: non il luogo di una definizione di sé. Il luogo di una identità sospesa, di una instabilità
provocata. Delle forme egli si serve non per produrre chiarezza di enunciati, ma per offrirsi alle
8
occasioni e alle sorprese del linguaggio […] il suo linguaggio richiama […] i modi sempre più
ellittici e oracolari della scrittura surrealista […]. E si tratta ora di un uso lucido e, per così dire,
sobrio, del surrealismo che non rinuncia ai contributi del caso, alle risorse dell’automatismo, ma
neppure ignora la pazienza della tecnica e le astuzie del calcolo, neppure ignora il principio
formale”.55 Tutto questo può essere perfettamente riferito all’ambito performativo, nel quale però
avviene il rito fondamentale della dissipazione, coniugato all’amore per lo scandalo e per
l’aggressione già ricordato.
In performance, attraverso voce e gesto, Adriano Spatola innesca un confronto con le proprie radici
istintuali e con la propria sostanza corporea. Si tratta di performance pulsanti, di grande potenza
vitale, nelle quali la padronanza assoluta dell’integrità favorisce il ricongiungimento di Eros e
Thanatos, della coscienza primordiale e della consapevolezza della morte. Egli fa poesia vivendo, e
al pubblico offre il poema di sé, quasi vittima sacrificale. E non a caso nell’ultima sua performance
(l’ennesima versione di un pezzo ormai classico: quella Ionisation nella quale ricava suoni battendo
il microfono sul suo corpo) esordisce dicendo : “Mi onoro di questa morte. Farò una marcia funebre
sul mio corpo”. L’eco profetica di questa “marcia funebre” rimarrà nelle orecchie di molti.56
Ben si aggancia a questo punto (e Adriano condividerebbe) un discorso sul suo gusto per lo humour
nero. Scopertamente a favore delle posizioni bretoniane, egli scrive: “Funebre e grottesco vanno di
pari passo, il vitalismo è tragico e sovente nostalgico. Se da questo punto di vista osserviamo le
movenze più tipiche dell’anima futurista ci rendiamo conto facilmente della notevole dose di
patetismo che la nutre. La poesia nera non parla e non declama, sbava”.57 Sembra fondamentale
l’allusione al materico, al corporeo. L’attenzione del poeta non è tanto verso la voce, quanto verso
la gola che, appunto, è matrice di relazioni corporee. In Considerazioni sulla poesia nera58 si
leggono questi versi:
Il suono articolato la tecnica un’adozione
accetta mezzi termini vergogna ritegno
la buona parola l’orazione il senso l’affitto
in un testo poetico mancanza di aggetto
di risonanza o gola o scisma gutturale.
Il testo non aggetta, non acquista tridimensionalità, polidimensionalità, non eccede, non accede
all’incanto dell’iperspazio se non c’è risonanza, se viene a mancare la presenza della voce. Del
resto, a conclusione del già citato Il piacere del testo, Barthes esalta la scrittura ad alta voce, che
non è portata da inflessioni drammatiche, “ma dalla grana della voce, che è un misto erotico di
timbro e di linguaggio, e può quindi essere anch’essa […] un’arte: l’arte di condurre il proprio
corpo”. Ciò che la scrittura ad alta voce cerca non è la chiarezza dei messaggi: “sono gli incidenti
pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la
patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda:
l’articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio”.
In esergo alla poesia che dà il titolo alla silloge da cui abbiamo tratto poco sopra alcuni versi, figura
una dissacratoria frase di Hitchcock che sa di vaticinio: “Ho un amico che ha il cuore di un bambino
/ lo tiene sulla scrivania in un vaso pieno d’alcol”. Il poeta, “l’orco di gran cuore”,59 orso
dissacratore, appunto, in performance trova sempre il modo di ironizzare su di sé, ogni volta con
maggior impeto.
Ornella Volta, in uno scritto per la cooperativa teatrale Koiné a proposito dello spettacolo Ubu oro,
al quale il poeta prendeva parte, così si esprime: “Previdente e lungimirante, nonché priva di
scrupoli, la Koiné si è servita già da molti anni dei suoi poteri occulti per sonorizzare
progressivamente il poeta […] Adriano Spatola, incitandolo a continui esercizi di ventriloquia per
sviluppargli opportunamente la giduglia onde poter poi subdolamente sostituire – in occasione del
centenario della creazione dell’opera di Jarry – la personalità di Ubu a quella di Spatola”.60 Il poeta
9
sta in gioco. Mentre la poesia si libera da se stessa, il suo autore si sgancia definitivamente dal
cerimoniale culturale.61
C’è un filo diretto che collega il gusto per lo humour nero alla mostruosità ubuesca, al di là del
suggerimento bretoniano, ed esso percorre un altro itinerario, come appare nel Bubu Roi, un
componimento della fine degli anni Sessanta, riguardo al quale, scrive l’autore, “penso che non si
possa dire che si tratta di un tentativo di portare alle estreme conseguenze il paradosso della
necessità di una poesia ‘superflua’, ‘inutile’: e non per garantire al poeta una specie di immunità
diplomatica (che è sempre toccata, almeno finora, agli altri, agli engagés) ma proprio per mettere in
discussione la nozione stessa di poesia, mediante l’uso di un lessico il più possibile elementare, anzi
elementare fino all’idiozia”.62
Come già detto, Spatola tornerà a Ubu negli anni Ottanta e comporrà un testo per il catalogo della
cooperativa Koinè, ripubblicandolo quindi a rovescio, a partire dall’ultimo verso, nel fascicolo di
“Zeta” dedicato al nuovo in poesia. Nella nota di accompagnamento si legge: “In questi mesi […]
sto cercando di accostarmi alla forma aperta, senza far scattare particolari meccanismi di
composizione, ed accontentandomi (per così dire) della tecnica più semplice, quella dell’elenco”.63
In entrambi i casi, questo grattare a zero è un modo di rinvigorire la riluttanza del linguaggio di
fronte ai tentativi di recupero.
Notturno in versi è un acrostico. Il suo ultimo verso suona così: “Ah ma la poesia non ha bisogno di
niente”.64
Nell’ambito della sua attività di performer totale, Spatola porta avanti uno specifico lavoro sul
fonetico e sul sonoro ed ha il merito di ideare e curare la prima audiorivista italiana di poesia:
“Baobab”.65 Proprio in essa sono registrate le sue più note pièces sonore. Nel primo numero è
contenuto il suo lavoro forse più noto: Aviation / Aviateur, nel quale simula vocalmente il rombo
del motore di un aereo, facendo trasparire sarcasticamente immagini e suggerendo vere e proprie
trame narrative attraverso la modulazione del flusso sonoro, la variazione delle intonazioni e dei
volumi, la tenuta delle vocali, l’inserzione di frammenti cantabili: un breve racconto di viaggio e di
guerra, con le acrobazie dell’aviatore, il suo impegno, la sua fatica, la sua depressione per la
stanchezza, la noia, le variazioni di concentrazione ma anche la durezza dell’impresa, il senso della
durata del viaggio o dell’azione, l’imprevisto tecnico, la luce e il buio come scene di fondo, e
addirittura un cenno ai possibili richiami delle sirene celesti in spazi profondi; il pilota si perde in
una prospettiva che sfuma all’infinito; si sente quasi entrare nella storia il soggetto parlante
(vocalizzante, vociferante, evocante) che si rammarica malinconicamente della scomparsa fuori
campo del pilota. Un finale diverso in performance: il pilota dà battaglia, si getta sulla città e finisce
spesso precipitando sotto una sventagliata di mitraglia. Il ricordo angoscioso degli stuka della
seconda guerra mondiale non abbandona il poeta.
In “Baobab” /n° 2) Spatola mima la musica varèsienne. Infatti offre un Omaggio a Edgar Varèse,
del quale ci ha dato numerosissime versioni, tra le quali la famosissima Ionisation. Ancora con
ironia, e a tratti con vera e propria clownerie, muove verso i pilastri dell’avanguardia musicale
contemporanea. Da una parte è come mettere in ridicolo se stessi, ma dall’altra è anche una presa di
posizione nei confronti di un sistema che ingloba e digerisce tutto. Naturalmente Spatola entra in
questo poema sonoro anche con il corpo, come suo solito: ne fa sentire la presenza principale
attraverso colpi di tosse, o passando da suoni vocalici a suoni boccali, come schiocchi di lingua o di
labbra con funzione percussiva: suoni che verranno trasformati nella Ionisation performativa in
colpi di microfono sul corpo (ventre, cuore, arti).
Il terzo numero esce come special dedicato alla rassegna internazionale di poesia visuale e fonetica
“Oggi Poesia Domani”,66 curata da Adriano Spatola e da me. Senza dubbio si trattava di una delle
manifestazioni più importanti di quegli anni (siamo nel 1979), se non altro perché vedeva coinvolti
centinaia di poeti di tutto il mondo interessati alla multimedialità e alla sinestesia. In questo stesso
numero di “Baobab” appaiono Fuochi e Ocarine. Nel primo lavoro il poeta alterna le parole
“fuoco” e “roco” con voce cupa e granulosa su un sottofondo rumoristico di carta stropicciata tra le
mani, che dà l’idea del crepitio della fiamma che brucia; nel secondo pronuncia in continuazione la
10
parola “ocarine”, imitando il suono dello strumento su sottofondo di vera ocarina, molto sommessa
e velata, la voce finissima del falsetto è contaminata da vibrazioni di gola e dalla respirazione
affannosa, che è troncata di scatto alla fine della parola pronunciata. Se ne ha l’impressione di un
grande sforzo esecutivo, e ciò fa assumere al lavoro un tono indubbiamente drammatico.
Nell’ambito di “Oggi Poesia Domani” si fonda un gruppo di poesia sonora dal nome piuttosto
curioso: Il Dolce Stil Suono. Ne entrano a far parte Sergio Cena, Agostino Contò, Giovanni
Fontana, Milli Graffi, Arrigo Lora Totino, Giulia Niccolai, Adriano Spatola, F. Tiziano
(pseudonimo di Tiziano Spatola, fratello di Adriano). Il numero 4 di “Baobab” presenta il gruppo e
Spatola introduce oralmente l’iniziativa, dando il via ad una serie di curiosissimi interventi, di cui
nessuno finora ha parlato, che si collocano a metà tra la conversazione critica e l’atto creativo, tutti
pervasi di umorismo e di nonsense: si tratta di quelli che ho avuto modo di definire come “poemiintervista” e “poemi-prefazione”. Sono materiali poco noti, dove l’autore indirettamente ironizza
sulla critica, talora arrogante e indisponente, talaltra approssimativa e poco accorta, che ignora per
superficialità i fermenti in atto al di fuori degli ambiti istituzionali o li disconosce per interessi legati
alle economie dei poteri e ai giochi di posizione. Spatola, quasi con rassegnazione, saluta in questi
termini il “repertrorio” che Giuseppe Zagarrio pubblica in quegli anni. “Finalmente un cronachista
dopo tanti storici e neostorici e post-storici della poesia italiana, che hanno sempre ricominciato
dalle date di nascita e di morte dei Grandi Ermetici. Niente di polemico in questo giudizio, soltanto
la grande stanchezza di un addetto ai lavori […]. Eppure in questo decennio di poesia italiana non ci
sarebbe stato niente di misterioso se in generale i critici avessero accettato l’esistenza di una
scrittura che per forza di cose doveva esprimersi mediante il ricorso a pubblicazioni alternative o
dirette. Forse c’è stata identificazione tra qualità e presenza sul mercato, forse il meccanismo è
ormai così ovvio che non occorre nemmeno spiegarlo”.67 Nulla è cambiato finora. E nemmeno si
registrano segnali di cambiamento.
L’intervista del n° 4 è tutta giocata su tautologie a cavallo di domande e risposte, con efficace vena
parodistica. Sullo stesso tono, con la medesima vena di spirito, quasi una piccola pièce dell’assurdo,
è l’introduzione al numero 8. Nel numero 13 il gusto per la boutade aggancia argomenti “alti”,
perfino filosofici. Nel numero 14, invece, Spatola introduce la raccolta con una prolusione “dotta”:
un “poema-prefazione” intitolato Canto d’introduzione.
Interviene ancora nel numero 15 e nel 16, ma in quest’ultimo con altro tono, in una conversazione
con Mario Ramous sul rapporto poesia/musica.
Insomma, nel suo repertorio di poesia sonora gli aspetti presenti sono molteplici: si passa da pièces
articolate su pochi elementi verbali e vocali, a lavori legati alla dimensione rumoristica, fino a veri e
propri gustosissimi “teatrini sonori”, che potrebbero ben figurare nei palinsesti di quella arguta
radiofonia giocosa, spesso basata sul nonsense costruito sullo specifico del mezzo, che da qualche
anno va prendendo piede.
Ricorderei ancora La Traviata di Giuseppe Verdi, dove Spatola canticchia Composition /
Compositeur accompagnandosi con un vibrafono per bambini, sullo sfondo vocale di Massimo
Gualtieri che elenca ritmicamente gli strumenti dell’orchestra (“Baobab” n° 4); Biographie, con
Gian Paolo Roffi, giocato sul proprio nome pronunciato con accento francese (n° 15); Vamos, che
segue lo stesso criterio (ma gli accenti sono ispanici); Al Capone Poem,68 dove un’armonica a bocca
e un pianino stonato suonano il charleston fornendo la base alle improvvisazioni del poeta, che
culminano nelle raffiche del “popopopopopopoem”; Autoroute,69 ancora con Roffi, dove su una
scena sonora si ha l’impressione di osservare due sciagurati che percorrono a piedi la corsia di
emergenza di un’autostrada; Hommage à Eric Satie, pubblicata nella raccolta di dischi “Futura”,
prefata da Renato Barilli, che così detta: “Varcata la soglia della pertinenza linguistica, l’esercizio
verbale rifluisce nel rumorismo, ritrovando del resto in ciò alcuni aspetti della pratica futuristica
marinettiana, ove per così dire sussisteva una radicalizzazione agli estremi: da un lato […] limiti di
semanticità […] dall’altro l’insinuarsi di vistosi nuclei di rumori pre-verbali, o recuperabili dall’area
verbale solo in quanto onomatopee. Un esempio di convivenza tra verbalismo e rumorismo è offerto
dall’omaggio di Spatola a Eric Satie”.70 Ma certamente, al di là delle altre componenti, gli elementi
11
portanti nel lavoro fonetico e performativo sono dati (è bene ribadirlo) dalla voce come corpo, dal
corpo come voce, come respirazione parlante; “[…] il respiro viene dato come una specie di
principio direttivo dei ritmi corporali: poiché partecipa dall’interno alla formazione
dell’espressione, questa reagisce su tutto lo strato indicativo del senso – e quindi sul corpo; per cui
il respiro – e la voce – si presentano come entità che fanno del corpo un tutto articolato nel tempo: il
respiro è ciò che organizza in una forma unica (regolata nel tempo) un ordinamento spaziale”.71
Poesia-vita, dunque, poesia come alito, flatus, afflato: “un aggettivo la respirazione la finestra
aperta / l’esatta dimensione dell’innesto nel fruscio della pagina”;72 il corpo del testo, il testo-corpo
si dilata in consistente respiro, e quindi a ragion veduta Guido Guglielmi scrive di “dilatazione
fonica”, di “espressionismo fonico” a proposito della poesia lineare di Spatola.73 Il testo “[…] si
tende e si gonfia sta per scoppiare” e “ogni singola parola è una tempesta di gesti”.74
Scrittura, voce e immagine sono quindi interconnessi nell’opera di Spatola; senza cesure si
supportano vicendevolmente; si scambiano funzioni. Ne deriva la “parola totale”,75 l’unica parola
adatta a quella “poesia totale”, teorizzata con passione, che assegni la stessa dignità a tutte le parti
della costruzione poetica: costruzione che non prescinde da parole-progetto che valgono ferme
intenzioni.
Poesia-intenzione, poesia come tensione, dunque, e come padronanza, come necessità, come
aspirazione a conoscere il senso profondo del reale, come sfida all’intelligenza per giocare a rifare il
mondo. Poesia da udire, da leggere, da guardare, poesia da stringere, da palpare, da montare, come
dice il poeta, da vivere, da amare, da cantare, ma anche da bere e da mangiare, come nella famosa
canzone di Gino Paoli.
Ma quel che pare di poter dire in conclusione, condividendo con Raffaele Manica, “è che dovunque,
in letteratura, sotto la scrittura molte voci parlino; e che l’esperienza orale, fino alla performance,
sappia far intravedere sotto di sé la dignità di diventare (saper diventare) metafisica, oltre le barriere
temporali”.76
NOTE
1
ADRIANO SPATOLA, Il Futurismo, Milano, Edizioni Elle Emme, s.d., ma 1986.
DICK HIGGINS, Horizons, the Poetics and Theory of the Intermedia, Carbondale & Edwardsville, Illinois University
Press, 1984. Higgins diffonde il concetto di “intermedia” a partire dal 1965.
3
ADRIANO SPATOLA, Verso la poesia totale, Salerno, Rumma, 1969; poi Torino, Paravia, 1978.
4
Bologna, Tamari Editore, 1961.
5
Conversazione con Adriano Spatola, in AA.VV., Adriano Spatola poeta totale. Materiali critici e documenti, a cura di
PIER LUIGI FERRO, Genova, Edizioni Costa & Nolan, 1992.
6
Milano, Feltrinelli, 1964.
7
Bologna, Sampietro, 1965.
8
A. SPATOLA, Verso…, cit.
9
VINCENZO ACCAME, Il segno poetico, Milano, Ed. Zarathustra, 1981.
10
FRANZ MON, Sulla Poesia Concreta, in Poesia Concreta. Indirizzi concreti, visuali e fonetici, cat. esp. a cura di
DIETRICH MAHLOW e ARRIGO LORA TOTINO, Venezia, La Biennale, 1969.
11
Le Edizioni Geiger prendono il via nel 1968 con le omonime antologie grazie all’impegno di Adriano e dei suoi
fratelli Maurizio e Tiziano.
12
ACHILLE BONITO OLIVA, Zeroglifico metonimico, “Geiger”, n° 3, antologia a cura di ADRIANO e MAURIZIO
SPATOLA, Torino, Ed. Geiger, 1969; poi in A. SPATOLA, Recenti zeroglifici, cat. esp. personale, Galleria “Il Punto”,
Velletri, 1985.
13
MIRELLA BENTIVOGLIO, testo in Poesia Visiva 3, Poesia Concreta, cat. esp. collettiva, “Studio Santandrea”,
Milano 1977.
14
Torino, Geiger, 1975.
15
LAMBERTO PIGNOTTI, Sine Aesthetica sinestetica, Roma, Empiria, 1990.
2
12
16
Accolsi la proposta di Adriano con entusiasmo; lavorai per alcuni giorni producendo un buon numero di zeroglifici.
Ne scelsi uno per “Dismisura”, n° 63/66, 1983. Altri sono apparsi su “Terra del Fuoco”, n° 9, 1989 e “Doc(k)s”, n° 5,
1989.
17
A. SPATOLA, Verso…, cit.
18
ADRIANO e MAURIZIO SPATOLA, Intermedia ?, “Geiger”, n° 5, antologia a cura di A. e M. SPATOLA, Torino,
Ed. Geiger, s. d., ma 1972.
19
GILBERTO FINZI, Poesia in Italia, Milano, Mursia, 1979.
20
ADRIANO SPATOLA, Zeroglifico, Bologna, Sampietro, 1966; poi Torino, Geiger, 1975.
21
ADRIANO SPATOLA, Iperspazio linguistico, in Impaginazioni, San Polo d’Enza, Ed. Tam Tam, 1984; già apparso
come nota critica al volume di Pietro Aretino, I ragionamenti, Sampietro, Bologna, 1965.
22
La rivista veniva fondata da Spatola e da Giulia Niccolai e nei primi mesi del 1971, ma il primo numero fu pubblicato
l’anno successivo.
23
LUCIANO ANCESCHI, Variazione su alcuni equilibri della poesia che san diessere precari, in “Il Verri”, VI serie,
n° 1, 1976.
24
GIUSEPPE ZAGARRIO, Febbre, furore e fiele, Milano, Mursia, 1983.
25
LAMBERTO PIGNOTTI, Sie Aesthetica, cit
26
ROLAND BARTHES, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975
27
RUGGERO PIERANTONI, Postfazione al volume di TONINO TORNITORE, Scambi di sensi, Torino, Centro
Scientifico Torinese, 1988.
28
GIULIA NICCOLAI, Introduzione al volume Zeroglifico, cit.
29
in Parola immagine scrittura, a cura di MATTEO D’AMBROSIO, cat. Seconda Esposizione Nazionale, Urbino,
1978.
30
GIOVANNI FONTANA, Antonio Pizzuto o dell’ingegno ritmico, in “La taverna di Auerbach”, n° 2-3-4, 1988.
31
ADRIANO SPATOLA, Dichiarazione, in Segnopoesia, Centro Culturale d’Arte Bellora, Milano, 1987.
32
FRANZ MON, Sulla poesia, cit.
33
Il breve quanto schematico Editoriale del 1° numero, “Tam Tam”, n° 2, 1972. Si tratta di un editoriale non firmato,
ma scritto da Spatola e Giulia Niccolai.
34
Torino, Geiger, 1973.
35
ADRIANO SPATOLA, Dichiarazione, in Visioni violazioni vivisezioni, a cura di ENZO MINARELLI, cat. esp.
Rocca di Stellata, Bondeno, 1983.
36
MATTEO D’AMBROSIO, La battaglia contro la parola, in “Tam Tam”, n° 26, 1981.
37
RENATO BARILLI, Viaggio al termine della parola, Milano, Feltrinelli, 1981.
38
PAUL ZUMTHOR, La presenza della voce, Bologna, Il Mulino, 1984.
39
WALTER ONG, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1987.
40
CLAUDE LÉVI-STRAUSS, Il Pensiero selvaggio, Milano, Il Saggiatore, 1964.
41
JERZY GROTOWSKI, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970.
42
ADRIANO SPATOLA, Su pubblico e poesia e altre ripetizioni, in “Tam Tam”, n° 36/37, 1983/84.
43
Primo Festival di Poesia Performativa, Piazza Margana, Roma, estate 1988, a cura di Pino Blasone, Vanni De Simone
e Berta Furlani. La registrazione fu trasmessa da Radiouno in “Audiobox” il 21 novembre 1988, due giorni prima della
morte del poeta. Il 12 dicembre 1988, sempre su “Audiobox”, fu messo in onda lo special “Dedicato ad Adriano
Spatola”, che ripropose in versione integrale la performance. Ora l’intero concerto è pubblicato in “Baobab” n° 20.
44
Poi con il titolo Situazione della poesia 2, in Impaginazioni, cit.
45
ADRIANO SPATOLA, Poesia Apoesia e Poesia Totale, in “Quindici”, n° 16, 1969; poi in Gruppo 63. Critica e
teoria, a cura di RENATO BARILLI e ANGELO GUGLIELMI, Milano, Feltrinelli, 1976; successivamente in
Impaginazioni, cit.
46
JOSÉ GIL, voce Corpo, in Enciclopedia, vol. III, Torino, Einaudi, 1978.
47
ANTONIN ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1968.
48
ADRIANO SPATOLA, Scrittura come collaborazione, in André Breton, un uomo attento, a cura di F.
ALBERTAZZI, Ravenna, Longo, 1971; poi in Impaginazioni, cit.
49
Cfr. ILYA PRIGOGINE, La nuova alleanza, Torino, Einaudi, 1981; cfr. anche RUDOLF ARNHEIM, Entropia e
arte, Torino, Einaudi, 1974, e il capitolo Complessità e dissipazione in OMAR CALABRESE, L’età neobarocca,
Roma-Bari, Laterza, 1987.
50
Diversi accorgimenti, cit.
51
ADRIANO SPATOLA, Majakovskiiiiiiij, Torino, Geiger, 1971.
52
Ibidem.
53
Scrittura come collaborazione, cit.
54
Cit. in L. PIGNOTTI, Sine Aesthetica…, cit.
55
GUIDO GUGLIELMI, Introduzione a ADRIANO SPATOLA, La piegatura del foglio, Napoli, Guida, 1983.
56
Cfr. nota relativa al Primo Festival di Poesia Performativa (cit.), Piazza Margana, Roma, 1988.
57
ADRIANO SPATOLA, recensione a C. Viviani, Piumana, in “Tam Tam”, n° 17/18/19/20, 1978.
13
58
Raccolta in ADRIANO SPATOLA, Various Devices, Los Angeles & Fairfax, The Red Hill Press, 1978; con
traduzione in inglese di Paul Vangelisti.
59
Così nel mio testo Per Adriano, in “Doc(k)s”, n° 5, autunno 1989 e in “Tracce”, n° 25/26, VII, gennaio 1989; ma
anche in uno dei foglietti de “Il Bollettino della Vittoria” di Valerio Miroglio.
60
ORNELLA VOLTA, La Koinè è Ubu, nel catalogo della cooperativa “Koinè” relativo al triennio 1983/1986, Novi di
Modena, s.t., s.d.
61
A. Spatola, Situazione della poesia 2, in Impaginazioni, cit.
62
Ibidem.
63
ADRIANO SPATOLA, Nella versione originale, in “Zeta”, n° 9, ottobre 1986.
64
A. SPATOLA, La piegatura…, cit.
65
Il progetto di “Baobab” prende corpo tra il 1978 e il 1979. L’iniziativa si concretizza grazie all’incontro di Spatola
con Ivano Burani, titolare delle edizioni musicali Pubbliart di Reggio Emilia, poi Pubbliart Bazar, infine Elytra
Edizioni. Dopo la morte di Adriano Spatola la rivista è diretta da Ivano Burani, con la collaborazione di Giovanni
Fontana, Arrigo Loroa Totino, Enzo Minarelli, Gian Paolo Roffi.
66
Cfr. Oggi poesia domani. Rassegna internazionale di poesia visuale e fonetica, a cura di A. SPATOLA e G.
FONTANA, Fiuggi, Biblioteca Comunale, 1979, s.e., s.d.
67
ADRIANO SPATOLA, recensione GIUSEPPE ZAGARRIO, Febbre furore e fiele (cit.), in “Tam Tam”, n° 38/39/40,
1984.
68
In Breathingspace 79, Washington, Watershed Tapes, 1980, antologia sonora a cura di PAUL VANGELISTI.
69
In Slowscan, vol. 8, a cura di J. VAN TOORN, Hertogenbosh (Olanda), Drain Press – Slowscan Ed., 1988.
70
RENATO BARILLI, Introduzione a Futura, poesia sonora, antologia storico-critica della poesia sonora a cura di
ARRIGO LORA TOTINO, Milano, Cramps Record, 1978, cofanetto di sette LP con allegato a stampa. Ripubblicata in
CD.
71
JOSÉ GIL, cit.
72
A. SPATOLA, La composizione del testo, in Majakovshiiiiiiij, cit.
73
G. GUGLIELMI, Introduzione, cit.
74
A. SPATOLA, La composizione del testo, in Majakovshiiiiiiij, cit.
75
ACHILLE BONITO OLIVA, La parola totale. Una tradizione futurista 1909 – 1986, Modena, Edizioni Galleria
Fonte d’Abisso, 1986.
76
RAFFAELE MANICA, Discorsi interminabili, Napoli, Altri Termini, 1986.
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